Dopo
un'intensa attività politica come uno dei capi piú ascoltati del moto
nazionalista indiano dei primi anni del secolo, SRI AUROBINDO si ritira a
Pondicherry, dove fissa le basi dello Yoga Integrale e crea l'Ashram. La prima
formazione in mezzo a un mondo in lotta doveva segnare il suo destino. Egli
infatti non dissocia mai la vita spirituale da quella quotidiana e dagli
incalzanti problemi politici e sociali. Sri Aurobindo annuncia la certezza
della prossima apparizione di un nuovo potere di coscienza che egli chiama
semplicemente « Supermente ». Séguito
logico della vita e della mente, la cui emersione fuori dalla materia si è
compiuta nel corso di una lunga evoluzione terrestre, la Supermente segnerà una
nuova tappa di questa evoluzione.
LO
VOGA DELLA BHAGAVAD GITA
Questo
libro è forse il piú bello che sia mai stato scritto da mano umana. Mai era
stato enunciato con piú forza il principio di Unità degli esseri e delle cose,
essenza e punto culminante della filosofia indiana. Negli « Essays on the Gita
» Sri Aurobindo compie uno degli studi più profondi e completi su questa
importante Scrittura, illuminandoci sulla complessità del pensiero
filosofico-religioso indú. Il nostro testo consiste nella traduzione dei
versetti originali della Gita, seguiti dal commento, costituito dai passaggi
relativi tolti dai Saggi sulla Gita. Ne risulta un'opera conseguente e
profonda, che tocca i piú svariati aspetti dell'esistenza, mantenendo sempre
vivo l'interesse del lettore. In tal modo una delle maggiori opere della
spiritualità indiana viene riproposta a un pubblico moderno, con un nuovo
impulso innovatore e dinamico.
Dall'epoca della sua
apparizione, la Bhagavad Gita ha avuto un'immensa azione spirituale; con la
nuova interpretazione data da Sri Aurobindo, il suo influsso è notevolmente
aumentato ed è divenuto decisivo .. (Mère).
SRI
AUROBINDO
LO YOGA
DELLA
BHAGAVAD GITA
Traduzione di Nata
EDIZIONI
MEDITERRANEE
ROMA
Ristampa 1999
Finito di stampare
nel mese di Agosto
1999
presso la Tipografia
S,T.A.R.
Via Luigi Arati, 12
- 00151 Roma
ISBN 88-272-0543-8
Titolo originale
dell'opera: LE YOGA DE LA BHAGAVAD GITA
Copyright 1969 Sri
Aurobindo Ashram - Pondicherry 2 : Copyright x977 Edizioni Mediterranee - Roma,
Via Flaminia, 158 T Printed in India - Sri Aurobindo Ashram Press, Pondicherry
605002.
LA BHAGAVAD GITA PREFAZIONE di Nolini Kanta
INTRODUZIONE Capitoli estratti dai “Saggi sulla Gita” di Sri Aurobindo
1. QUELLO CHE LA GITA PUÒ DARCI
4. IL CENTRO DELL' INSEGNAMENTO
6. L'UOMO E LA BATTAGLIA DELLA VITA
Arjuna, l'uomo rappresentativo della sua epoca, è vinto dallo
scoraggiamento e dal dolore nel momento più critico della sua esistenza, sul
campo di battaglia di Kurukshetra, e in questa occasione egli solleva il
problema intero della vita e dell'azione umana; l'esposizione della Gità parte
da questo primo quesito di Arjuna e vi ritorna dopo aver abbracciato tutto il
problema.
CANTO II
La risposta del Maestro procede
secondo due vie diverse:
[a] LA FEDE
DEL GUERRIERO ARIANO
Dapprima, una breve risposta fondata sulle concezioni
filosofiche e morali del Vedànta e sulla nozione sociale di dovere e d'onore
che formava la base etica della società ariana,
[b] LO YOGA
DELLA VOLONTÀ INTELLIGENTE
Poi un'altra risposta fondata su una conoscenza più intima
che si apre su verità più profonde del nostro essere, e che è il vero punto di
partenza dell'insegnamento della Gità La Gità pone come prima base un'acuta
sintesi del Sànkhya, dello Yoga e del Vedànta.
CANTO III [a] LE OPERE E IL SACRIFICIO
Arjuna, l'uomo pragmatico, immerso nella perplessità a causa
del pensiero metafisico, chiede una semplice regola di azione. La Gità comincia
a sviluppare più chiaramente la sua dottrina positiva ed imperativa delle opere
- delle opere fatte come sacrificio al Divino.
[b] IL DETERMINISMO DELLA NATURA
Si intima ad Arjuna di agire sempre secondo la legge della
propria natura. "Tutte le esistenze obbediscono alla loro natura; a che
serve forzarla?"
CANTO IV [a] NATURA E FUNZIONI DELL'AVATAR
Il divino Istruttore, l'Avatàr, dà il proprio esempio, il
proprio modello ad Arjuna. In India, la credenza nell' Avatàr - discesa della
Divinità in una forma umana, rivelazione del Divino nell'umanità - è cresciuta
ed ha persistito come risultato logico della concezione vedantina della vita,
radicandosi fortemente nella coscienza della razza.
Equanimità, impersonalità, pace, gioia e libertà, tali sono i
segni che distinguono il divino operaio; essi sono profondamente soggettivi ed
indipendenti dai fenomeni assolutamente esteriori dell'azione e della
non-azione.
[c] IL SIGNIFICATO DEL SACRIFICIO
La Gità espone il significato interiore del sacrificio
vedico, interpretando il simbolismo segreto degli antichi mistici vedici.
CANTO V LA RINUNCIA E LO YOGA DELLE OPERE
Dopo aver parlato dell'equanimità perfetta di colui che,
conoscendo il Brahman, si è elevato nella coscienza brahmica, la Gità sviluppa
nei nove ultimi versetti di questo canto, la sua concezione del brahma yoga e
del nirvàna nel Brahman.
CANTO VI IL NIRVANA E LE OPERE NEL MONDO
Questo canto è uno sviluppo completo degli ultimi versetti
del canto precedente - fatto che dimostra l'importanza che vi attribuisce la
Gità.
La Gità distingue le due nature, quella fenomenica e quella
dello spirito. É la prima nuova idea metafisica del-la Gità, che le permette, a
partire da nozioni della filosofia sankhiana, di superarle, dando ai loro
termini un significato vedantino.
[b] LA SINTESI DELLA DEVOZIONE E DELLA CONOSCENZA
La Gità non è un trattato di filosofia metafisica. Essa cerca
la verità suprema per la più alta utilità pratica. Perciò fa della verità
filosofica data all'inizio di questo canto il primo punto di partenza verso la
sintesi delle opere, della conoscenza e della devozione.
È la prima descrizione del Purusha supremo - il Divino che è
sempre più grande dell'Immutabile, e al quale la Gità dà in seguito (come nel
XV Canto) il nome di Purushottama. La terminologia è presa, qui, interamente
dalle Upanishad
CANTO IX L'AZIONE, LA DEVOZIONE E LA CONOSCENZA
Ciò che sta per dire ora la Gità, è quanto c'è di più segreto.
È la conoscenza completa del Divino che il Signore del suo essere ha promesso
ad Arjuna (VII-1). Dirigere verso Dio tutto il sé in un'unione completa è il
mezzo per elevarsi fuori da un'esistenza mondana' in un'esistenza divina.
CANTO X [a] LA SUPREMA PAROLA DELLA GITA
Il divino Avatàr, riassumendo brevemente la conclusione di
tutto ciò che ha detto, dichiara che questa, e nessun'altra, è la sua parola
suprema.
[b] IL DIVINO POTERE DI TRASFORMAZIONE
Questi versetti enumerano degli esempi di Vibhuti o forme
nelle quali il Divino manifesta il suo potere nel mondo. Nel canto seguente,
essi portano alla visione del Purusha cosmico.
[a] IL TEMPO, DISTRUTTORE DEI MONDI
CANTO XII LO YOGA DELLA DEVOZIONE
Nel Canto XI, il primo obiettivo dell'insegnamento della Gità
è stato raggiunto e realizzato fino ad un certo punto. Ciò che rimane da dire è
la differenza tra la liberazione spirituale nella sua concezione vedantina
corrente, e la libertà più vasta, totale, che l'insegnamento della Gità apre
allo spirito. Il Canto XII conduce a questa conoscenza che rimane da esporre; i
sei canti che seguono la sviluppano fino alla maestosa conclusione finale.
CANTO XIII IL CAMPO E IL CONOSCITORE DEL CAMPO
Le distinzioni tra Purusha e Prakriti, Anima e Natura,
rapidamente abbozzate in questo canto nei termini della filosofia sankhiana,
sono la base sulla quale la Gità poggia tutta la sua concezione dell'essere
liberato, divenuto uno con il Divino nella legge cosciente della propria
esistenza.
La Gità espone la sua concezione dell'azione dei guna,
dell'azione fuori dai guna e del culminare, nella conoscenza, delle opere senza
desiderio, là dove la conoscenza si fonde nella bhakti - la conoscenza, le
opere e l'amore diventati uno -; e da lì sale verso la propria grandiosa
conclusione, il segreto supremo del dono di sé al Signore dell'esistenza.
In tutte le sue tendenze e con tutta la sua plasticità nel
concatenamento delle idee, l'intera dottrina della Gità converge verso un'idea
centrale unica - l'idea di una coscienza triplice, e tuttavia una, presente a
tutti i livelli dell'esistenza. È quanto essa espone qui, condensato in un nucleo
di visione sintetica. Questo canto si apre con una descrizione dell'esistenza
cosmica secondo l'immagine vedantina dell'albero ashvattha.
La Gità darà ora la disciplina psicologica con cui la nostra
natura umana e terrestre può essere trasformata. Ma prima di considerare questo
movimento verso la luce, essa distingue due categorie di esseri, i deva e gli
asura.
CANTO XVII I GUNA, LA FEDE, LE OPERE
La Gità analizza l'azione alla luce di un'idea fondamentale:
nozione dei tre guna e passaggio di là da essi mediante il culminare della più
alta disciplina sattvica che supera sé stessa. In questo canto, insiste
particolarmente sulla fede, shraddha, con la volontà di credere, di essere, di
conoscere, di vivere e di rappresentare la verità, come fattore principale.
CANTO XVIII [a] I GUNA, LA MENTE E LE OPERE
La Gità fa un'analisi psicologica sommaria dei poteri mentali
prima di avviarsi verso la sua grande conclusione, il più alto segreto-il
superamento spirituale di tutti i dharma.
La Gità tratta, incidentalmente, un problema di grande
importanza - l'antica concezione sociale del chaturvarna, molto diversa
dall'attuale sistema delle caste.
La Gità riassume l'essenziale del proprio messaggio.
Così l'essenza dell'insegnamento e
dello yoga è stata data al discepolo e il divino Istruttore la applica ora
all'azione di questo. Unite ad un esempio memorabile, dette al protagonista di
Kurukshetra, le sue parole assumono un significato molto più vasto, sono una
regola universale per tutti coloro che sono pronti ad elevarsi oltre la
mentalità ordinaria, a vivere e ad agire nella coscienza spirituale suprema.
“La Gità non è un'arma
di battaglie dialettiche, è una porta che si apre sull'intero mondo di Verità e
di esperienza spirituale, e la visione che offre comprende tutti i domini del
piano supremo. Essa traccia il cammino, ma non taglia fuori e non innalza mura
o barriere per confinare la nostra visione”. (Sri Aurobindo)
Il
Supremo segreto della Gita, rahashyam
uttamam, si è rivelato a menti diverse sotto forme diverse. Si può dire,
però, che tutte queste forme possono, grosso modo, essere comprese sotto due
larghi gruppi, di cui uno può essere definito la scuola ortodossa e l'altro la
scuola moderna. La Scuola Ortodossa, rappresentata, ad esempio, da Shankara o
Sridhara, considerava la Gita alla luce della disciplina spirituale più o meno
corrente in quei tempi, quando lo scopo dell' esistenza era considerato quello
di emanciparsi dalla vita, sia attraverso il lavoro, la conoscenza o la
devozione senza desideri, sia mediante una combinazione dei tre. La Scuola
Moderna, dall'altro canto, rappresentata da Bankim[1] in
Bengala e più profondamente sviluppata e sistematizzata in tempi recenti da
Tilak[2], è
ispirata dallo Spirito del proprio Tempo e trova nella Gita un vangelo de]
compimento dell'esistenza. La più antica ispirazione insisteva maggiormente su una
disciplina spirituale e religiosa, che, in fondo, significava una disciplina di
distacco dal mondo; la moderna interpretazione cerca di rendere dinamica la più
o meno quietistica spiritualità che si era affermata nell'India delle epoche
ulteriori, di stabilire una ricompensa per l'azione, per il dovere da compiersi
nella nostra vita di ogni giorno, anche se motivati da uno scopo e un movente
spirituali.
Questa
neo-spiritualità che può rivendicare la propria sanzione e autorità dalla reale
disciplina indiana dei tempi passati -diciamo di un janaka e di un Yajnàvalkya
- , si fa strada, tuttavia, a fatica proprio sotto l'influsso dell'attivismo e
dell'etica europei. Fu questo che servi come immediato incentivo al nostro
risveglio e alle nostra rivalutazione spirituali, e l'impronta che hanno
lasciato non è stata completamente cancellata nemmeno nei nostri migliori
esponenti.
L'influsso
dell'impulso vitale e dell'imperativo morale è abbastanza apparente nel concetto
modernista di una spiritualità dinamica. Fondamentalmente il dinamismo viene
fatto risiedere nell’elan dell'uomo
etico - l'elemento spirituale, come una coscienza dell'unità suprema
nell'Assoluto (Brahman) o di amore e di felicità in Dio, servirebbe solo come
un'atmosfera per l'attività mortale.
Sri
Aurobindo ha innalzato l'azione completamente oltre il piano mentale e morale e
le ha dato un'assoluta vita spirituale. L'azione, venendo ricondotta alla sua
fonte ed origine, è stata spiritualizzata, poiché è l'espressione nella vita
della Coscienza-Energia (Cit-Shakti) del Divino.
Lo
Spirito supremo, Purushottama, che
contiene in sé la duplice realtà di Brahman e del mondo, è il maestro
dell'azione, che agisce si, ma nel non-agire, il Signore in cui e tramite cui
gli universi e le loro creature vivono e si muovono ed hanno il loro essere. Il
karmayoga è unione nella mente,
nell'anima e nel corpo con il Signore dell'azione nell'esecuzione del suo scopo
cosmico. Quest'unione è ottenuta attraverso una trasformazione della natura
umana, attraverso la rivelazione della divina Prakriti e la sua discesa sul
veicolo umano inferiore e il suo possesso.
Se
a questo punto ci volgiamo indietro, possiamo osservare un cambiamento su tutta
la prospettiva. Il karma ed anche il karmayoga, che fin qui sembravano essere
il cardine dell'insegnamento della Gita, si ritraggono, in un certo qual modo,
in un secondo piano, presentando una dimensione e un valore ridotti. Il centro
di gravità si è spostato sui concetto della Natura divina, sulla condizione
stessa del Signore, sulla coscienza oltre i tre guna, sull'assoluta
consacrazione di ogni membro dell'umanità dell'uomo al Supremo Purusha, per la sua
discesa, la sua incarnazione e il suo gioco nel mondo e sul mondo umano.
Il
più alto segreto della Gita si trova in effetti negli ultimi capitoli, i primi
capitoli sono una preparazione e un passaggio verso quello o un'applicazione
parziale e pratica. Ciò deve esser detto, visto che c'è un'idea diffusa che
cerca di limitare l'insegnamento reale della Gita alla prima parte, trascurando
od anche tralasciando ultima parte.
Lo
stile e il carattere dell'interpretazione di Sri Aurobindo sono pure in sommo
grado caratteristici: essa non è una semplice dissertazione metafisica - benché
sia rivestita dall'inizio alla fine di una profonda filosofia; in essa palpita
la vita luminosa del messaggio di un profeta, è impregnata di qualcosa del mantrashakti[3] stesso della Gita.
Questo
libro è probabilmente il più bello che sia uscito dalla mano degli uomini. Mai
era stato enunciato con più forza il principio d'Unità degli esseri e delle
cose, essenza e punto culminante della filosofia indiana. Sri Aurobindo, "il più grande pensatore dell'India d'oggi”[4], ci
ha fornito, grazie alle sue esperienze nel campo spirituale della Supermente,
una ricca messe di pensiero, ampiamente mietuta dai suoi diretti discepoli e
lettori. Oltre alle grandi opere, frutto delle sue personali esperienze, ha
commentato alcune delle principali scritture sacre indiane. Dopo The Secret of
the Veda, dopo l'Isha Upanishad, ha pubblicato Essays on the Gita, che tutti
gli Indù considerano lo studio più profondo e più completo che sia mai stato
scritto sulla Bhagavad Gita.
Sfortunatamente
per gli Occidentali, quest'opera fu scritta soprattutto per gli Indiani, a cui
sono familiari gli episodi, i termini, le associazioni d'idee della Gita[5]. La
sua lettura è quindi difficile per coloro che - come la maggior parte degli
Occidentali - non hanno una conoscenza approfondita né dei testi sacri, né
dello spirito religioso dell'India. Uno dei più vecchi discepoli di Sri
Aurobindo, Anilbaran Roy, che ha passato la maggior parte della sua vita a studiare
e meditare la Gita, ebbe l'idea di pubblicare, estraendo il materiale da Essays
on the Gita, un'edizione metodica, alla portata degli Occidentali (The Message
of the Gita as interpreted by Sri Aurobindo, edited by Anilbaran Roy - London,
Allen & Unwin, 1938). Anilbaran Roy ha estratto dall'immensa opera di Sri
Aurobindo la traduzione della maggior parte dei versetti. Ne ha completato il
testo sotto la costante guida del Maestro ed ha collocato sotto ogni versetto i
passaggi degli Essays on the Gita cui
si riferivano direttamente. All'edizione di cui sopra è seguita la traduzione
in lingua francese a opera di Carnille Rao e Jean Herbert[6], e
infine il più importante lavoro fatto da Philippe B. de Saint-Hilaire
(Pavitra), apparso sotto il titolo Le
Yoga de la Bhagavad Gita[7], di cui il
presente volume ne è la traduzione diretta, salvo qualche variazione che
abbiamo apportato, scegliendo diversi brani dal testo di Anilbaran Roy, che ci
sembravano più esplicativi per il lettore occidentale. È questo il lavoro che presentiamo
per la prima volta in lingua italiana, raccolto in volume[8]. Si è
curato in modo particolare la fedeltà dell'insegnamento - tanto sottile e
sfumato quanto profondo - del Maestro, imponendoci il rispetto più assoluto
alla forma e al fondo, tanto dei commenti quanto dei versetti, dove Sri
Aurobindo dà piuttosto che una traduzione letterale, un' interpretazione
commentata, una vera ricreazione. Il lettore non dovrà quindi meravigliarsi
delle differenze profonde e numerose fra questo testo della Gita e le
traduzioni anteriori. Queste ultime sono state quasi esclusivamente opera di
eruditi e grammatici, più interessati al segreto etimologico, alla sintesi e
alla poetica che a tra-smettere il grande messaggio spirituale.
È
questa invece l'opera di un grande Maestro spirituale.
Il
nostro scopo, studiando la Gita, non sarà quindi tanto quel-lo di scrutarne il
pensiero dal punto di vista accademico, di situare la sua filosofia nella
storia della speculazione metafisica, e neppure la avvicineremo alla maniera
del dialettico, acceso da spirito analitico. Chiederemo alla Gita di aiutarci e
d'illuminarci; il nostro scopo sarà quello di percepire il suo messaggio
essenziale e vivente, che è di rivelarci ciò che l'umanità deve afferrare per
dirigersi verso la sua perfezione e verso la suprema meta spirituale.
IL
Mahabharata, di cui la Bhagavad Gita è un episodio, ha assunto l'attuale forma
fra il quinto e il primo secolo prima di Cristo. La Gita è parte del canto
intitolato Bhishma Parva.
Mahabharata
significa letteralmente 'La Grande India', ed è la narrazione epica degli Indù
di altri tempi che ebbero la visione di un'India grande, dall'Imalaia a Capo
Comorin, unificata nella sua cultura e nella sua vita politica.
Kuru
è il nome di un importante kula o clan di quei tempi, e Kurukshetra quello di
una vasta distesa di terreno prossima alla capitale, Hastinàpur (l'attuale
Nuova Delhi), dove i Kuru avevano l'abitudine di celebrare i loro sacrifici
religiosi.
Quando
Dhritaràshtra, il re cieco dei Kuru, divenne vecchio, decise di cedere il
trono, non a suo figlio Duryodhana, ma a Yudhishthira, il figlio maggiore di
Pàndu, suo fratello minore. Duryodhana, uomo di cattive inclinazioni, non era
degno di governare un dharmarajya (regno
dove vigono i principi di diritto e giustizia, ideale dell'antica India), come
invece lo era Yudhishthira, in cui s'incarnavano la virtù e la purezza. Ma
Duryodhana, mediante la scaltrezza e il tradimento, s'impadronì del trono,
cercando con tutti i mezzi di annientare Yudhishthira e i suoi quattro
fratelli.
Krishna,
Dio incarnato, capo del clan Yadava, amico e parente dei Kuru, tentò di
riconciliare le due parti. In nome dei cinque fratelli Pàndava (figli di
Pàndu), reclamò solamente cinque villaggi: Duryodhana rifiutò brutalmente;
senza battaglia, disse, non avrebbe dato terra, nemmeno quella che sarebbe
potuta stare sulla punta di uno spillo. Divenne in tal modo inevitabile
battersi in nome della giustizia e del diritto. Tutti i principi dell'india si
unirono all'una o all'altra delle due fazioni. Krishna, amico imparziale, offrì
una scelta alle due parti: Duryodhana scelse per sé il potente esercito di
Krishna, e Krishna, personalmente, entrò nel campo opposto - non come
combattente, ma come auriga del carro di combattimento di Arjuna (uno dei
cinque fratelli Pàndava).
Drona,
che aveva istruito nell'arte militare i figli di Dhritaràshtra e di Pàndu (i
Kaurava e i Pàndava), scelse il partito di Duryodhana, perché il suo vecchio
nemico Drupada aveva scelto l'altro campo. Bhishma, parente dei Kaurava e dei
Pàndava, l'uomo che aveva osservato la castità durante tutta la vita, il più
forte del suo tempo anche in età così avanzata, era a capo del gruppo che aveva
tentato la riconciliazione. Quando però i tentativi di pace fallirono e la
guerra divenne inevitabile, decise, dopo scrupoloso esame dei suoi doveri e dei
suoi obblighi, di appoggiare il partito di Duryodhana. Sapeva che Duryodhana
aveva torto, e se la battaglia si fosse limitata ai due rami della famiglia
sarebbe rimasto neutrale, ma quando vide che, approfittando di una lite
familiare, i vecchi nemici del clan dei Kuru si erano schierati dal lato dei
Pàndava, decise di combattere a fianco di Duryodhana per dieci giorni, e di
ritirarsi poi in una morte volontaria (ottenuta con mezzi non fisici). Sotto
l'esclusivo punto di vista militare, il partito di Duryodhana era nettamente
superiore a quello del suo avversario. Ma questa superiorità era più che
compensata dalla presenza di Krishna nell'altro campo.
Sanjaya,
l'auriga del carro del vecchio re Dhritaràshtra, svolge di fronte a lui la
cronaca degli avvenimenti che si succedono sul campo di Kurukshetra, dove i due
eserciti si sono riuniti per una lotta senza quartiere, mai superata in
importanza nella storia dell'antica India[9]. È
qui che incomincia la Bhagavad Gita, letteralmente “Il Canto del Beato”, così
chiamato perché ripete le parole di Krishna, il Divino incarnato, e perché
insegna all'uomo ad elevarsi sopra la coscienza umana fino a una superiore
coscienza divina, realizzando così, sulla terra e in un corpo umano, il Regno
dei Cieli.
dei
cinque fratelli Pandava, il maggiore, Yudhishthira, era il più puro e il più
virtuoso, "sattvico", il minore Bhima, il più forte,
"rajasico", mentre Arjuna, il terzo dei fratelli, era un equilibrio
di purezza e di forza, di sattva e rajas;
per questo fu scelto dal Divino per essere il Suo principale strumento
della grande guerra che doveva determinare, nel mondo, un ciclo, yugantara, e per essere il discepolo a
cui dare il divino messaggio per condurre l'umanità alla sua meta:
l'immortalità sulla terra.
Il
mondo è ricco di scritti sacri e profani, di rivelazioni e semirivelazioni, di
religioni, filosofie, sette, scuole, sistemi, cui si attaccano con intolleranza
e passione i molti spiriti dotati di conoscenza incompleta o nulla. Essi
pretendono che soltanto questo o quel libro sia l'unico Verbo eterno di Dio,
che tutti gli altri siano imposture o, tutt'al più, frutti di imperfetta
ispirazione; esigono che questa o quella filosofia sia l'espressione definitiva
dell'intelligenza e della ragione, che tutti gli altri sistemi siano errati o
validi solamente per alcune verità parziali che li ricollegano al solo culto
filosofico vero. Persino le scoperte delle scienze fisiche sono state erette ad
articoli di fede e, nel nome di quelle scienze, la religione e la spiritualità
sono state bandite in quanto opere dell'ignoranza e della superstizione, e la
filosofia come vecchio ciarpame e fantasticheria. A tali esclusioni settarie e
dispute inutili si sono spesso prestati addirittura i saggi, i quali si
lasciarono sviare da uno spirito oscurantista che, insinuandosi nella loro
luce, la velò con qualche nube di egoismo intellettuale o di orgoglio
spirituale. Sembra comunque che l'umanità sia ora disposta a una maggior
modestia e saggezza. Non condanniamo più a morte i nostri simili nel nome della
verità rivelata o perché il loro spirito è educato e costituito in modo
differente dal nostro; siamo meno pronti a maledire o ad insultare il nostro
prossimo quando è tanto perverso o tanto presuntuoso da nutrire opinioni
diverse dalle nostre; siamo persino disposti ad ammettere che la verità è
dovunque e non può essere monopolio nostro esclusivo; cominciamo a considerare
altre religioni ed altre filosofie per la verità e l'aiuto che contengono, e
non soltanto per condannarle come false o per criticarne ciò che noi riteniamo
erroneo. Siamo però sempre inclini a proclamare che la nostra verità ci dà
quella suprema conoscenza che le altre religioni o filosofie non hanno saputo
cogliere o hanno compreso soltanto in maniera imperfetta, e che per questo
motivo esse trattano unicamente aspetti sussidiari e inferiori della verità
delle cose, o che possono tutt'al più preparare spiriti meno evoluti alle
altezze che noi abbiamo raggiunto. E siamo anche propensi a far pesare, sugli
altri come su noi stessi, tutto il sacro peso del libro e del vangelo che
ammiriamo, insistendo affinché tutto venga accettato come verità eternamente
valida, e che ad ogni sillaba, ad ogni accento, ad ogni dieresi sia
riconosciuta la sua parte dell'ispirazione plenaria.
Ecco perché può
essere utile, quando ci si accosta ad antiche Scritture, quali i Veda, le
Upanishad o la Gita, indicare con precisione con quale spirito le si affrontano
e ciò che esattamente si pensa di poter ricavarne di valido per l'umanità
presente e futura. Affermiamo anzitutto l'esistenza certa della verità, unica
ed eterna, che noi cerchiamo; da essa deriva ogni altra verità, e alla sua luce
ogni altra verità si situa, si spiega e si inserisce nel piano generale della
conoscenza. Ma proprio per questa ragione, tale verità non può essere racchiusa
in una sola formula esclusiva ed è improbabile che la si trovi, nella sua
totalità, e con tutto ciò che essa implica, in una sola filosofia o in un solo
libro sacro, e che sia espressa tutta intera e per sempre da un qualsiasi
maestro, pensatore, profeta, avatar. Non
abbiamo neppure colto interamente tale verità se la comprensione che ne abbiamo
implica l'intollerante esclusione della verità che è alla base di altri
sistemi; rifiutiamo infatti con passione solo quello che non siamo in grado di apprezzare e di spiegare. Inoltre, tale verità, benché una ed eterna, si esprime nel
tempo e attraverso lo spirito dell'uomo. Ogni Scrittura deve quindi comprendere
due elementi: uno temporaneo e contingente, in rapporto con le idee dell'epoca
e del
paese in cui ha avuto origine, l'altro eterno immortale e valido in ogni epoca e in ogni luogo. Per di più, nell'esposizione della
verità, è inevitabile che la forma propria che le e stata data, il sistema,
l'ordine, l'impostazione metafisica e intellettuale e l'espressione precisa che
si è impiegata, siano in gran parte soggetti alle modificazioni causate dal tempo e perdano la loro
forza. Infatti lo spirito umano si modifica senza sosta; nel suo continuo
dividere e riunificare, deve continuamente
variare le sue divisioni e ricomporre le sue sintesi; esso abbandona
continuamente vecchie espressioni e simboli consunti per assumerne di nuovi,
oppure, se continua ad usare quelli
precedenti, ne cambia il significato o almeno il contenuto esatto e le
associazioni, in modo tale da non farci mai essere sicuri di capire un antico
libro nel preciso senso e spirito che aveva per i suoi contemporanei. Conserva
un valore del tutto permanente soltanto ciò che, pur restando universale, è
stato sperimentato, vissuto e visto da una facoltà più alta dell'intelletto.
Ecco perché ritengo poco importante
estrarre dalla Gita l'esatto significato metafisica ch'essa ebbe per gli uomini
del suo tempo, ammesso
che lo si possa
fare con precisione.
Che ciò non sia possibile è
provato dalla divergenza dei commenti originali, che ne sono stati fatti, e dei
commenti che ancora si fanno ai giorni nostri, il cui unico punto d'accordo è
il disaccordo di ciascuno con tutti gli altri; ognuno trova nella Gita il proprio sistema metafisico e la tendenza del proprio
pensiero religioso. Persino l'erudizione più meticolosa e più disinteressata,
persino le teorie più luminose sullo sviluppo storico del pensiero indù non
sarebbero in grado di salvarci dall'errore inevitabile. Ciò che invece possiamo
fare con profitto è cercare nella Gita le realtà vive ch'essa contiene,
indipendentemente dalla formula metafisica; dobbiamo estrarre da questo libro
ciò che può aiutare, noi o il mondo in generale, e tradurlo nella forma e
nell'espressione più naturali e più vive, che siano adatte alle condizioni di spirito
dell'umanità moderna e appropriate alle sue esigenze spirituali, Indubbiamente,
in questo tentativo
è possibile un gran numero di errori,
derivati dalla nostra individualità o dalle idee che costituiscono il
nostro clima intellettuale, come è successo a personalità più grandi della
nostra; ma se ci immergiamo nello spirito di questo grande libro, e soprattutto
se cerchiamo di vivere secondo questo spirito, possiamo essere sicuri di
trovarvi tanta reale verità quanta siamo capaci di riceverne, come pure
l'influsso spirituale e l'aiuto efficace che personalmente siamo destinati ad
attingervi. E, tutto sommato, è a questo che le Scritture sono destinate; il
resto è soltanto disputa accademica o dogma teologico. Continuano ad avere
un'importanza vitale per l'uomo solamente
quei libri, quelle religioni, quelle filosofie elle si prestano ad
essere rinnovate, rivissute, e la cui sostanza di verità permanente può essere
costantemente riveduta e sviluppata nel pensiero più profondo e nell'esperienza
spirituale dell'umanità in continuo sviluppo. Gli altri libri si limitano a
figurare quali monumenti del passato; non hanno più una forza reale o un vitale
impulso per l'avvenire.
Nella
Gita ben poche cose sono puramente locali o temporanee; il suo spirito è così
profondo, così vasto e universale che anche quel poco può essere facilmente
universalizzato, senza che il senso dell' insegnamento ne sia sminuito o
violato; piuttosto ne guadagna in profondità, in verità e forza, assumendo una
portata più vasta di quella che avrebbe se lo si limitasse a un solo paese e a
una sola epoca. Del resto il testo stesso suggerisce frequentemente la più
ampia portata che si può dare a un'idea, in sé stessa locale e temporanea. La
Gita, ad esempio, parla dell'antica idea e dell'antico sistema indiani del
sacrificio come interscambio tra dèi e uomini, sistema e idea che sono di fatto
caduti in disuso persino nell'India e che non offrono più alcuna realtà allo
spirito umano in generale. Noi troviamo però in quest'opera, attribuito alla parola
“sacrificio', un senso così
sottile, così figurato e simbolico, e la concezione degli dèi così poco locale
e mitologica, da mettere in rilievo l'intonazione cosmica e filosofica fino al
punto da farci accettare facilmente questi termini come l'espressione di un
fatto psicologico reale, come una legge generale della natura, per applicarli
quindi alle concezioni moderne di scambio vitale, di sacrificio etico e di dono
di sé, in modo da ampliare e approfondire questi termini e dare loro un aspetto
più spirituale e una luce di verità più profonda e più estesa. Analogamente
l'idea dell'azione in accordo con lo shastra,
l'istituzione delle quattro caste sociali, l'allusione ai rapporti reciproci tra le caste o
all'inferiorità spirituale relativa degli shudra
e delle femmine, sembrano a prima vista concezioni puramente locali
e temporanee e, se considerate in un senso troppo letterale, talmente ristrette
da privare la lezione della Gita della sua universalità e della sua profondità
spirituale, limitandone il valore per l'umanità in generale. Se, però,
spingendo lo sguardo oltre al nome locale e all'istituzione passeggera,
cerchiamo di coglierne il senso e lo spirito, possiamo vedere che anche in
questo caso il senso è profondo e vero, e lo spirito filosofico spirituale e
universale. Ci accorgiamo che per shastra la
Gita intende la legge che l'umanità si è imposta per sostituire l'azione
puramente egoistica dell'uomo naturale non rigenerato, per frenare la sua
tendenza a vedere nella soddisfazione dei desideri il valore e il fine della
sua vita. Vediamo anche che questa quadruplice organizzazione della società (le
quattro caste) non è altro che la forma concreta di una visione spirituale
indipendente da tale forma; essa si fonda sulla concezione del giusto lavoro, inteso
come l'espressione giusta e ordinata della natura dell' essere individuale da
cui il lavoro viene svolto; la stessa natura infatti gli assegna la linea
direttiva e il campo d'azione in conformità alle sue qualità congenite e alle
sue possibilità d'espressione. Siccome tale è lo spirito con cui la Gita espone
i suoi esempi più particolari e più locali, possiamo a buon diritto applicare
sempre lo stesso principio e ricercare, in ogni caso, la verità generale piú
profonda che, siamone pur certi, sta alla base di ciò che sembra, a prima
vista, appartenere semplicemente a un luogo o a un tempo. Infatti, scopriremo
sempre che una verità e un principio più profondi sono implicati nella trama
del pensiero, anche se non vengono enunciati in termini chiari.
Tratteremo
sempre nel medesimo spirito gli elementi del dogma filosofico o della fede
religiosa, sia ch'essi facciano parte integrante della Gita, sia che derivino
dall'uso dei termini filosofici e dei simboli religiosi ricorrenti nel suo
tempo. Quando la Gita parla di Sankhya e
di Yoga, ci manterremo nei
limiti indispensabili ai nostro trattato e non discuteremo a lungo dei rapporti
tra il Sànkhya che ci presenta la Gita, caratterizzato dall'unico Purusha e
dalla sua espressione così chiaramente vedantina e il Sankhya non-teistico o
ateistico, che è giunto fino a noi col suo sistema di Purusha molteplici e di
Prakriti unica. Non ci soffermeremo molto neppure sui rapporti dello Yoga della
Gita, cosi diverso, sottile, ricco ed elastico, con la dottrina teistica e il
sistema fisso, scientifico, rigorosamente definito e classificato dello Yoga di
Patanjali. Nella Gita è evidente che Sànkhya e Yoga sono due parti convergenti
della stessa verità vedantina o piuttosto due vie parallele che conducono alla
sua realizzazione, l'una filosofica,
intellettuale e analitica, l'altra intuitiva, devozionale, pratica,
etica e sintetica, che giunge alla conoscenza attraverso l'esperienza. La Gita
non ammette vera differenza tra i loro insegnamenti. Ancor meno dobbiamo
discutere le teorie che considerano la Gita come il frutto di una tradizione o
di un sistema religioso particolare. Il suo insegnamento è universale,
qualunque abbia potuto esserne l'origine.
Il
sistema filosofico della Gita, la sua concezione della verità, non costituisce
la parte più viva, più profonda del suo insegnamento, quella destinata a durare
in eterno; tuttavia la maggior parte degli elementi da cui il sistema è
composto, le principali idee suggestive e penetranti che s'intrecciano nella
sua complessa armonia, hanno valore ed efficacia eterni; si tratta, infatti, non soltanto di idee
luminose o di brillanti speculazioni di un'intelligenza filosofica, ma
piuttosto di perenni verità d'esperienza spirituale, di fatti verificabili
delle nostre più alte possibilità psicologiche, che nessuno di coloro che
cercano di penetrare i più profondi misteri dell'esistenza può pretendere
d'ignorare. Di qualsiasi genere possa essere questo sistema, non è stato
composto, come i suoi commentatori si sforzano di presentarcelo, con
l'intenzione di servire da supporto esclusivamente e tale scuola di pensiero filosofico né per mettere in evidenza i titoli di tale
altra forma di yoga. Infatti il linguaggio della Gita, la struttura del suo
pensiero, la composizione e l'equilibrio delle idee non appartengono né al
temperamento di un maestro settario né allo spirito di una dialettica
rigorosamente analitica che isoli un frammento della verità escludendo tutto il
resto; vi appare piuttosto un movimento di idee, ampio, fluente, comprensivo, che
rivela un vasto spirito e una ricca esperienza sintetica. Si tratta di una di
quelle grandi sintesi di cui fu ricca la spiritualità dell'India, che abbonda
pure nella creazione di movimenti intensi ed esclusivi di conoscenza e di
realizzazione religiosa, volti a seguire, in assoluta concentrazione, un filo
direttivo, una via, fino alla sua ultima conseguenza. Quest'opera non tende a
separare e ad opporre, ma a conciliare e ad unificare.
Il
pensiero della Gita non è puro monismo, benché essa veda nel Sé unico,
immutabile, puro ed eterno, il fondamento di tutta l'esistenza cosmica; non è
neppure mayavada, benché essa
parli di maya, nelle tre
qualità fondamentali di Prakriti; non si tratta neanche di un monismo
qualificato, benché essa ponga nell'Uno la sua eterna e suprema Prakriti,
manifestata sotto la forma di jiva, e che, a suo giudizio, la suprema
condizione di coscienza spirituale consista piuttosto nella vita in Dio che
nella dissoluzione in Lui. Il suo pensiero non è neppure Sànkhya, benché
spieghi il mondo creato col doppio principio di Purusha e di Prakriti; non è
neanche un teismo vishnuita, benché ci presenti Krishna, che è, secondo i
Purana, l'Avatàr di Vishnu, come la divinità suprema, e non riconosca al
Brahman, senza relazione col mondo, inafferrabile e trascendente, nessuna
superiorità reale, dovuta a una differenza essenziale con questo Signore degli
esseri che è il Maestro dell'universo e l'Amico di ogni creatura. Proprio come
la prima sintesi spirituale delle Upanishad,
questa sintesi posteriore, spirituale e intellettuale nello stesso tempo, evita
naturalmente ogni rigida determinazione che limiterebbe la sua universale
comprensibilità. Il suo scopo è esattamente l'opposto di quello dei suoi
polemici commentatori i quali, trovando che questo libro brillava come una
delle tre più alte autorità vedantina, cercarono di farne uno strumento di
difesa e di offesa contro altre scuole o sistemi diversi dal loro. La Gita non
è fatta per essere usata come un'arma nel corso di una disputa dialettica; essa
è una porta aperta su tutto il mondo della verità e dell'esperienza spirituale;
la sua prospettiva abbraccia tutti i campi di quel mondo supremo; essa ne
traccia la carta, ma non la ritaglia in pezzetti e non costruisce muri e
barriere per limitarci la visione.
Ci
furono altre sintesi
nella lunga storia del pensiero
indù. La prima fu la sintesi vedica che collegò
con l'esistenza cosmica
degli dèi, l'essere psicologico dell'uomo nei suoi più alti slanci e nelle sue
più vaste conquiste di divina conoscenza, di potere, di gioia, di vita e di
gloria; sintesi raggiunta oltre i simboli dell'universo materiale sui piani
superiori che sono nascosti ai sensi fisici e alla mentalità materiale. Il
coronamento di quella sintesi fu, secondo l'esperienza dei Rishi vedici, qualcosa di divino, di trascendente e di beatifico,
nella cui unità l'anima umana in crescita e l'eterna pienezza degli dèi
cosmici s'incontrarono in maniera perfetta e trovarono il loro pieno
adempimento. Le Upanishad s'ispirarono alla capitale ed eccelsa esperienza dei
primi veggenti e ne trassero lo spunto per un'alta e profonda sintesi di
conoscenza spirituale: riunirono in una grande armonia tutto ciò che era stato
visto e sperimentato durante un ricco e fertile periodo di ricerche spirituali
da parte di coloro che, ispirati e liberati, conobbero l'Eterno. La Gita prende
lo spunto da questa sintesi vedantina e, sulla base delle sue idee essenziali,
costruisce una nuova armonia che riunisce i tre grandi metodi e poteri: amore,
conoscenza e azione, attraverso i quali l'anima umana può direttamente giungere
all'Eterno, e fondersi in Lui. e n'è ancora un'altra, la tantrica[10],
che, benché meno sottile e spiritualmente meno profonda, è ancor più ardita e
più possente della sintesi della Gita; essa infatti, assumendo persino gli
ostacoli che si oppongono alla vita spirituale, li costringe a divenire gli
strumenti di una conquista spirituale ancor più ricca; essa ci offre la
possibilità di abbracciare nel nostro orizzonte divino Ia totalità della vita
come divina lila (Il giuoco cosmico). In un certo senso, è più immediatamente
ricca e feconda, poiché fa passare in primo piano, non soltanto la conoscenza
divina, le opere divine e una devozione arricchita d'amor divino, ma anche i
segreti dello Hatha-yoga e del Raja-yoga, cioé l'impiego del corpo e
dell'ascesi mentale per la rivelazione della vita divina su tutti i piani,
metodi cui la Gita presta attenzione soltanto incidentalmente e di sfuggita.
Inoltre, questa sintesi tantrica cerca di far sua la nozione della divina
perfettibilità dell'uomo, che possedevano i Rishi vedici, ma che le età
intermedie avevano ricacciato nell'ombra, nozione destinata ad avere una così
grande importanza in ogni futura sintesi del pensiero, dell'esperienza delle
aspirazioni umane.
Noi che apparteniamo al giorno che
sorge, ci troviamo all'inizio dello sviluppo di una nuova era che deve condurre
a una nuova e più vasta sintesi. Noi non siamo obbligati ad essere vedantini
ortodossi di una delle tre scuole, né tantrici, né a aderire ad una delle
religioni teistiche del passato, né a barricarci dietro i quattro muri
dell'insegnamento della Gita. Ciò equivarrebbe a limitare noi stessi, a cercar
di costruire Ia nostra vita spirituale mediante l'essere, la conoscenza e la
natura di altri uomini, di uomini del passato, invece di costruirla mediante il
nostro essere e le nostre possibilità. Noi non apparteniamo alle aurore del
passato, ma ai meriggi del domani.
Una massa di nuovi elementi si riversa in noi;
dobbiamo no solo assimilare gli influssi delle grandi religioni teistiche
dell'India del mondo - come pure un senso ritrovato di quanto rappresenta il
Buddismo - ma anche tener pienamente conto delle possenti rivelazioni, sia pure
limitate, della scienza e della ricerca moderne; inoltre, un lontano passato
immemore, che sembrava morto, ritorna a noi con tutto il fulgore di numerosi
segreti luminosi, da molto tempo perduti per Ia coscienza dell'umanità, e che
adesso si affacciano di nuovo dietro il velo. Tutto ciò indica una nuova
sintesi, vastissima e molto ricca. La creazione di una nuova armonia,
dall'ampio orizzonte, di tutto ciò che é stato finora acquisito, é una
necessità per l'avvenire, intellettuale e spirituale allo stesso tempo. Ma,
proprio come le sintesi del passato hanno preso per punto di partenza quelle
che le avevano precedute, così pure quella dell'avvenire, per poggiare su un
terreno solido, deve procedere da ciò che hanno lasciato, nel passato, le grandi opere di realizzazione
spirituale del pensiero e dell' esperienza. Tra queste, la Gita occupa una
delle posizioni più importanti.
Quindi il nostro oggetto nello
studiare la Gita, non sarà né un esame scolastico o accademico del suo
pensiero, né una ricerca della posizione che occupa la sua filosofia nella
storia della speculazione metafisica, e neppure ne discuteremo alla maniera del
dialettico analitico. Ci accosteremo ad essa per trovarvi aiuto e luce,
proponendoci di estrarne il messaggio essenziale e vivo, quello che l'umanità
deve cogliere per il suo più alto perfezionamento e per la sua più alta
prosperità spirituale.
La Gita si distingue dagli altri
grandi libri religiosi del mondo, in quanto non è un'opera isolata,
autosufficiente, frutto della vita spirituale di una personalità creatrice
quale il Cristo, Maometto o il Buddha, o di un'epoca di pura ricerca
spirituale, come lo sono i Veda e le Upanishad. Essa ci viene tramandata come
un episodio della storia epica delle nazioni e degli uomini, delle loro guerre
e delle loro imprese, e prende spunto dalla crisi momentanea dell' anima di uno
dei suoi personaggi principali di fronte all'azione suprema della sua vita,
azione terribile, violenta e sanguinaria, nel momento in cui egli sta per
abbandonare l'impresa o per intraprenderla e condurla inesorabilmente sino alle
ultime conseguenze. Poco importa se la Gita è o meno, come suppone la critica
moderna, un'opera posteriore inserita dal suo autore nel corpo del Mahàbhàrata,
al fine di dare al suo insegnamento l'autorità e la popolarità di quella grande
epopea nazionale. Mi sembra che ci siano forti ragioni contro tale ipotesi, e
che le prove in suo favore, sia intrinseche sia estrinseche, siano comunque
deboli e, in ultima analisi, insufficienti. Quando anche fossero valide, è pur
sempre innegabile che l'autore non soltanto si è preso la briga d'intrecciare
inestricabilmente la sua opera nel tessuto del grande poema, ma inoltre si
preoccupa a più riprese di ricordarci la situazione di fatto da cui il suo
insegnamento è scaturito: vi ritorna con insistenza non soltanto alla fine ma
anche nel bel mezzo delle sue profonde dissertazioni filosofiche. Dobbiamo
arrenderci all'insistenza dell'autore e riconoscere l'importanza di questa
preoccupazione del maestro e del discepolo. Ecco perché l'insegnamento della Gita
dev'essere considerato non soltanto alla luce di una filosofia spiritualistica
o di una dottrina etica, in generale, ma in rapporto a una reale crisi
nell'applicazione dell'etica e della spiritualità alla vita umana. Ciò che
questa crisi rappresenta, il significato della battaglia di Kurukshetra e il
suo effetto sull'essere interiore di Arjuna, ecco quello che dobbiamo anzitutto
stabilire se vogliamo cogliere l'intento centrale delle idee della Gita.
È ovvio che un grande sviluppo del
più profondo insegnamento non può essere costruito attorno a un comune
avvenimento che non nasconda, dietro il suo aspetto esteriore e superficiale,
un abisso di profonde suggestioni e di pericolose difficoltà, per cui
basterebbe semplicemente l'applicazione delle regole comuni e correnti del
pensiero e dell'azione. Ci sono infatti tre punti della Gita che hanno un
significato spirituale quasi simbolico e tipico dei rapporti e dei problemi più
profondi della vita spirituale e dell'esistenza umana nei suoi principi. Essi
sono: la divina personalità del maestro, le sue relazioni caratteristiche con
l'allievo e l'occasione del suo insegnamento. Il maestro è Dio stesso fatto
uomo; il discepolo è, per usare il linguaggio moderno, l'uomo più
rappresentativo del suo tempo, amico intimo dell'Avatàr e suo strumento
prescelto, suo protagonista in un'opera e in un combattimento imponenti, il cui
segreto disegno, ignorato dagli attori, è conosciuto soltanto dal Dio incarnato
che dirige ogni cosa restando dietro il velo della sua insondabile saggezza;
l'occasione è la crisi violenta di quell'opera e di quella lotta, nel momento
in cui l'angoscia, la difficoltà morale e la cieca violenza dei loro movimenti
apparenti s'impongono, scuotendolo con l'evidenza della rivelazione, allo
spirito del loro uomo rappresentativo, e suscitano l'intero problema del
significato di Dio nel mondo, e quello dello scopo, del fine e del senso della
vita umana e della condotta dell'uomo.
Dall'antichità, l'India ha conservato
fortemente radicata la fede nella realtà dell'Avatàr, discesa nella forma,
rivelazione della Divinità nell'uomo. In Occidente questa fede non ha mai
segnato un' impronta veramente profonda nello spirito, poiché gli è stata
presentata dal Cristianesimo essoterico come un dogma teologico senza fondamento
nella ragione, nella coscienza generale e nell'atteggiamento adottato nei
riguardi della vita. In India, invece, essa si è sviluppata, si è affermata
come risultato logico delle convinzioni vedantine sulla vita, e si è radicata
in modo definitivo nella coscienza della razza. Ogni esistenza è una
manifestazione di Dio poiché egli è la sola esistenza, e nulla esiste che non
sia una figura reale o un'immagine di quest'unica realtà. Ecco perché ogni
essere cosciente è, in parte o in un certo modo, una discesa dell'Infinito nel
finito apparente del nome e della forma. Si tratta però di una manifestazione
velata e intercorrono molti gradi tra l'essere supremo del Divino e, nel
finito, la coscienza oscurata parzialmente o totalmente dall'ignoranza del sé.
L'anima cosciente incarnata è una scintilla del fuoco divino, e quest'anima si
apre nell'uomo alla conoscenza di sé stessa, nella misura in cui, uscendo
dall'ignoranza di sé, si sviluppa in un essere cosciente. Analogamente il
Divino, che si diffonde nelle forme dell'esistenza cosmica, si rivela
comunemente nel fiorire delle sue Forze, nell'energia e nella grandezza della
sua conoscenza, del suo amore, della sua gioia, della forza d'essere ch'egli
sviluppa, nei gradi e negli aspetti della sua divinità. Ma quando il Divino,
nella sua coscienza e nel suo potere, assume forma umana col modo d'agire
umano, e non si limita a possedere questa forma soltanto con la sua potenza e
grandezza, con alcuni gradi e con alcuni aspetti di sé stesso, ma con l'eterna
conoscenza di sé, quando 'Quello che non nasce' si conosce e agisce secondo la
struttura dell'essere mentale e sotto l'apparenza della nascita e vita terrena,
allora è raggiunto il culmine della manifestazione condizionata, ed è la piena
e cosciente discesa della Divinità: è l'Avatàr.
La forma vishnuita del Vedantismo,
quella che ha messo il più forte accento su questa nozione, esprime la
relazione fra Dio nell' uomo e l'uomo in Dio attraverso la doppia immagine di
Nara-Nàràyana, che è storicamente associata all'origine di una scuola religiosa
assai simile nelle sue dottrine all'insegnamento della Gita. Nara è l'anima
umana che, eterna compagna del Divino, non trova sé stessa che quando si
sveglia a tale rapporto e quando comincia, come direbbe la Gita, a vivere in
Dio. Nàràyana è l'anima divina sempre presente nella nostra umanità, la guida,
l'amico e il sostegno segreto dell'essere umano, il 'Signore che abita nel
cuore delle creature', della Gita. Quando in noi il velo di quel santuario
intimo si apre e l'uomo parla a Dio senza intermediari, direttamente, quando
sente la voce divina, riceve la luce divina, agisce con la potenza divina,
allora è possibile l'ascesa suprema dell'essere cosciente umano incarnato,
fuori della nascita e della vita terrena, nell'Eterno. Egli diventa capace di
vivere in Dio e di abbandonare totalmente in lui la propria coscienza - ciò che
la Gita proclama essere il migliore e il più profondo segreto delle cose.
Quando quest'eterna coscienza divina, sempre presente in ogni essere umano,
questo Dio nell'uomo, prende parzialmente[11] o
totalmente possesso della coscienza umana e diviene, sotto forma umana
visibile, la guida, il maestro e il condottiero del mondo, non però come nel
caso di coloro che, pur vivendo assai umanamente, percepiscono tuttavia qualcosa
del potere, della luce e dell'amore della divina Gnosi che li anima e li
conduce, ma quando essa agisce dal seno stesso di questa divina Gnosi,
direttamente dalla sua forza e pienezza centrali, siamo allora evidentemente in
presenza dell'avatar. La divinità interiore è l'eterno Avatàr nell' uomo; la
manifestazione umana ne è il segno e lo sviluppo nel mondo esterno.
Quando comprendiamo in tal modo il
concetto di Avatàr, ci rendiamo conto di come l'apparenza delle cose abbia una
ben secondaria importanza per quanto concerne sia l'insegnamento della Gita,
oggetto di questi saggi, sia la vita spirituale in genere. Una controversia del
tipo di quella che ha appassionato gli spiriti in Europa, sulla storicità del
Cristo, parrebbe del tutto oziosa a un Indù di tendenza spirituale; egli
accorderebbe a tale questione un'importanza storica considerevole, ma appena la
minima importanza religiosa: che importa infatti, tutto sommato, che un certo
Gesù, figlio del falegname Giuseppe, sia realmente nato a Nazaret o a Betlemme,
che abbia vissuto, insegnato e sia stato messo a morte sotto un'accusa, fondata
o inventata, di sedizione, dal momento che noi possiamo conoscere attraverso
l'esperienza spirituale il Cristo interiore, vivere illuminati dalla luce del
suo insegnamento e sfuggire al giogo della legge naturale attraverso la
riconciliazione dell'uomo con Dio che la crocifissione simbolizza! Se il
Cristo, Dio fatto uomo, vive nel nostro essere spirituale, sembra poco
importante che un figlio di Maria sia vissuto fisicamente, abbia sofferto e sia
morto in Giudea. Analogamente, il Krishna che ci interessa è l'eterna
incarnazione del Divino e non l'uomo storico che istruì e condusse gli uomini.
Siccome noi cerchiamo il nocciolo del
pensiero della Gita, non dobbiamo occuparci che del significato spirituale di
Krishna, l'uomo.. dio del Mahàbhàrata, il quale ci è presentato come il maestro
di Arjuna sul campo di battaglia di Kurukshetra. Il Krishna storico, senza
alcun dubbio, è esistito. Incontriamo il suo nome per la prima volta nella
Chandogya Upanishad. Tutto ciò che possiamo precisare a suo proposito è che
egli era assai noto nella tradizione spirituale come uno di coloro che
conoscevano il Brahman; era addirittura così celebre nella sua personalità e
nelle circostanze della sua vita che bastava menzionare Krishna, figlio di
Devaki, sua madre, perché chiunque sapesse di chi si parlava. Nella medesima
Upanishad vien fatta menzione del re Dhritaràshtra, figlio di Vichitravirya, e
poiché la tradizione associava tanto strettamente quei due nomi da farne due
dei principali personaggi del Mahàbhàrata, possiamo trarne la conclusione, ben
giustificata, ch'essi furono realmente contemporanei e che l'epopea tratta, in
gran parte, di personaggi storici e anche di un avvenimento storico, la guerra
di Kurukshetra, profondamente impresso nella memoria della razza. Sappiamo
anche che Krishna e Arjuna furono l'oggetto di un culto religioso nei secoli
precristiani, e non mancano ragioni per supporre ch'essi furono in rapporto con
una tradizione religiosa e filosofica, da cui la Gita avrebbe potuto trarre
parte dei suoi argomenti e in cui avrebbe potuto persino trovare il principio
della sua sintesi di conoscenza, devozione e azione; e forse il Krishna umano
fu il fondatore, il rinnovatore, o almeno uno dei primi maestri di questa
scuola. La Gita può ben rappresentare, malgrado la redazione più tardiva, la
continuazione dell'insegnamento di Krishna nel pensiero indù, ed è ben
possibile che il legame di questo insegnamento col Krishna storico, con Arjuna
e con la guerra di Kurukshetra sia qualcosa di più che una finzione letteraria.
Nel Mahàbhàrata Krishna è rappresentato contemporaneamente come personaggio
storico e come Avatàr; il culto che gli si attribuiva e la sua natura di Avatàr
dovevano quindi essere solidamente affermati fin dall'epoca in cui l'antico
poema storico, la tradizione epica dei Bhàrata, prese la sua forma attuale,
cioè, a quanto ci risulta, tra il quinto e il primo secolo a. C. Nel poema si
trova anche un'allusione alla storia e alla leggenda della giovinezza dell'
Avatàr a Vrindàvan, storia o leggenda che fu sviluppata dai Puràna in un
intenso e possente simbolo spirituale, e che sotto tale forma esercitò una
profondissima influenza sul pensiero religioso dell'India. Possediamo anche
nelle Harivansha un racconto della vita di Krishna, evidentemente assai
leggendario, e che forse è stato all'origine dei racconti dei Puràna.
Ma tutto ciò, benché abbia una grande
importanza storica, non ne ha affatto per il nostro scopo attuale. Noi non ci
occupiamo che della figura del Maestro divino, tale quale ce la propone la Gita,
e del potere ch'egli rappresenta nell'illuminazione spirituale dell' essere
umano.
La
Gita accetta la nozione dell'Avatàr umano; il Signore, infatti, afferma la
manifestazione ripetuta, addirittura costante del Divino nell'umanità, ogni
volta che Egli, l'Eterno senza nascita, attraverso le vie della sua maya, col
potere della sua coscienza infinita di rivestire forme finite, assume le
condizioni del divenire che noi chiamiamo nascita. Non è tuttavia su
quest'incarnazione che la Gita insiste, ma sul Divino trascendente, cosmico e
interiore, sul Principio di tutte le cose, il Signore dell'universo, e sulla
Divinità segreta nell'uomo. Proprio a questa Divinità intima si riferisce la Gita
quando dice, di coloro che nel corso della loro ascesi si dedicano ad eccessive
austerità asuriche[12],
ch'essi offendono il Dio interiore, o quando menziona il peccato di coloro che
disprezzano il Divino abitatore del corpo umano, o ancora quando afferma che
questa Divinità distrugge la nostra ignoranza con la lampada fiammeggiante
della conoscenza. È dunque l'eterno Avatàr, il Dio nell'uomo, la divina
coscienza sempre presente nell'essere umano, manifestata in forma visibile, che
nella Gita parla all'anima umana, illumina il significato della vita e il
segreto dell'azione divina e dà all'anima, nell'ora in cui questa è messa di
fronte al doloroso mistero del mondo, la luce della conoscenza e della
direzione divine, contemporaneamente alla parola rassicurante o fortificante
del Signore dell'esistenza. E proprio ciò che la coscienza religiosa indiana
cerca di rendere intimo, sotto qualunque forma, sia con un'immagine umana
simbolica, elevata sugli altari dei suoi templi, sia col culto dei suoi Avatàr,
sia ancora con la devozione rivolta al guru umano, attraverso il quale si fa
sentire la voce dell'unico Maestro universale. Con tutti questi culti, la
tradizione spirituale indù cerca di svelare quella forma del Senza-forma, di
destare le coscienze a quella voce interiore, e di metterle di fronte al Divino
manifesto nel suo potere, nel suo amore e nella sua conoscenza.
In
secondo luogo, noi troviamo nella Gita il significato tipico, quasi simbolico
del Krishna-uomo che dirige la grande azione del Mahàbhàrata, non nella parte
dell'eroe, ma quale centro segreto e guida nascosta. All'azione di questo
dramma partecipa tutto un mondo d'uomini e di nazioni; alcuni sono venuti per
unirsi ad un' impresa il cui successo non sarà loro personalmente di alcun
profitto, e per essi è un capo; altri sono venuti per opporsi, e per questi è
un avversario, colui che ne sventa i piani e li combatte sino alla morte: a
qualcuno di essi egli sembra addirittura l'istigatore di tutti i mali, il
distruttore dell'ordine antico, del loro mondo familiare, dei valori
riconosciuti e scontati di virtù e bene morale; altri ancora sono
rappresentativi di ciò che dev'essere compiuto, e per questi egli è il
consigliere, l'aiuto, l'amico. Quando l'azione segue il suo corso naturale,
quando gli artefici dell'opera devono soffrire per mano dei loro nemici o
sopportare le prove che li preparano alla vittoria, l'Avatàr è invisibile o non
appare che occasionalmente per dare aiuto o conforto; in ogni momento critico
la sua mano si fa tuttavia sentire, in modo tale che ciascuno immagina d'essere
il protagonista, e che lo stesso Arjuna, il suo migliore amico, il suo
strumento principale, non si rende conto di essere soltanto uno strumento, e
confessa infine che sino a quel momento non aveva realmente conosciuto il suo
divino amico. Aveva ricevuto il consiglio dalla sua saggezza e l'aiuto dalla
sua forza, l'aveva amato e ne era stato amato, l'aveva persino adorato, senza
comprenderne la natura divina: egli era stato diretto come gli altri attraverso
lo schermo del proprio egoismo, e consigli, aiuto e direzione gli furono dati
neI linguaggio dell'ignoranza e furono da lui ricevuti con i pensieri
dell'ignoranza. Sino al momento in cui tutto fu spinto fino all'esito terribile
che fu la battaglia sul campo di Kurukshetra, e che l'Avatàr assunse la parte,
non del combattente, ma dell'auriga che conduce il carro di guerra che regge il
destino della lotta, egli non si era ancora rivelato neppure a coloro che aveva
prescelto.
La figura di Krishna diviene quindi,
per così dire, il simbolo del modo in cui il Divino agisce con l'umanità.
Attraverso il nostro egoismo e la nostra ignoranza siamo spinti e diretti,
sempre mantenendo l'illusione di essere noi stessi gli autori della nostra
opera, e vantandoci di rappresentare la vera causa del risultato ottenuto. Ciò
che ci spinge e dirige, ci limitiamo ad intravederlo accidentalmente come una
sorgente vaga e talvolta umana e terrestre di conoscenza, di aspirazione, di
forza, come qualche principio di luce e di potere, che noi riconosciamo e
adoriamo senza sapere ciò che è, fino al momento in cui nasce l'occasione che
ci obbliga a fermarci davanti al velo. E l'azione in cui si muove la figura
divina è tutta la vasta azione dell'uomo nella vita, non soltanto nella vita
interiore, ma in tutto l'oscuro corso del mondo, che possiamo giudicare
soltanto con la penombra della ragione umana, la quale proietta la sua luce
confusa davanti all'incertezza dei nostri passi. La nota caratteristica della Gita
è che sia proprio il punto culminante di tale azione a creare l'occasione
dell'insegnamento e a conferire tanta importanza e un così ardito rilievo al
vangelo dell'azione, ch'essa annuncia con un'insistenza e una forza che non si
trovano nelle altre scritture indù. Non soltanto nella Gita, ma anche in altri
passaggi del Mahàbhàrata, Krishna insiste sulla necessità dell'azione; ma
proprio in quest'opera egli ne svela il segreto e rivela la divinità che dirige
le nostre opere.
Il legame simbolico dell'amicizia che
unisce Arjuna a Krishna, l'anima umana all'anima divina, è espresso anche
altrove nel pensiero indù: col viaggio al cielo di Indra e Kutsa, seduti sul
medesimo cocchio, con l'immagine dei due uccelli sullo stesso albero nelle
Upanishad, con le figure gemelle di Nara e Nàràyana, i veggenti che praticano
insieme la tapasyà[13] per
giungere alla conoscenza. Quelle tre parabole hanno però lo scopo di rendere
chiara l'idea che soltanto nella coscienza divina ogni azione raggiunge il suo
vertice, mentre invece in quest'opera è l'azione a condurre a tale conoscenza,
ed è proprio nel corso dell'azione che Dio si presenta come colui che sa.
Arjuna e Krishna, l'umano e il divino, si trovano assieme, ma non come due
veggenti a meditare in un cremo tranquillo, bensì sul cocchio di guerra, l'uno
come combattente, l'altro come auriga, in mezzo al clamore della battaglia e al
fragore delle armi. Ecco perché il Signore della Gita non è soltanto il Dio
incarnato che si rivela mediante le parole della saggezza, ma anche il Dio
incarnato che muove tutto il nostro mondo d'azione, mediante il quale e per il
quale tutta la nostra umanità esiste, lotta e lavora, e verso cui cammina e
progredisce tutta l'umana vita. Egli è il Signore segreto delle opere e del
sacrificio; è l'Amico del genere umano.
Tale è dunque il divino Maestro della
Gita, l'eterno Avatàr, il Divino disceso nella coscienza umana, il Signore che
si trova nel cuore di tutti gli esseri, Colui che guida, nascosto dietro il
velo, tutti i nostri pensieri, le nostre azioni e le aspirazioni del nostro
cuore, e che ugualmente dirige, dietro il velo delle forme, delle forze e delle
tendenze visibili o sensibili, Ia grande azione universale del mondo che egli
ha manifestato nel suo proprio essere. Tutto lo sforzo delle nostre ricerche e
dei nostri tentativi di ascesa trova il suo coronamento e si placa, appagato
dalla perfezione raggiunta, quando possiamo squarciare il velo e penetrare di
là dal nostro io apparente fino a quel “Sé” autentico, quando possiamo
integrare tutto il nostro essere in quel vero Signore del nostro essere, quando
possiamo rinunciare alla nostra personalità per l'unica e reale Persona,
immergere nella sua piena luce le nostre attività mentali sempre disperse e
sempre convergenti, offrire la nostra volontà aberrante, sempre in lotta, alla
sua volontà vasta, luminosa e indivisa, e abbandonare, appagandoli, i nostri
desideri ed emozioni centrifughi e dissipati alla pienezza della sua
beatitudine che esiste di per sé stessa. Tale il Maestro del mondo, Colui la
cui eterna conoscenza si riflette in modo vario e parziale in tutti gli
insegnamenti piú elevati; tale è la voce cui si deve destare l'udito della
nostra anima.
Arjuna, il discepolo che riceve
l'iniziazione sul campo di battaglia, è la controparte di questa concezione del
Maestro. È il tipo dell'anima umana che lotta e non ha ancora la conoscenza, ma
che è diventata capace di riceverla attraverso la sua azione nel mondo,
compiuta in una crescente amicizia e intimità col “Sé” superiore e divino nell'umanità.
Secondo un'interpretazione che si usa dare alla Gita, non soltanto
quest'episodio, ma l'intero Mahàbhàrata si ridurrebbe a un'allegoria della vita
interiore, e non avrebbe nulla che vedere con la vita e l'azione umana
esteriori; le battaglie narrate sarebbero quelle che l'anima sferra alle forze
che lottano in noi per possederci. È un'interpretazione che il carattere
generale dell'epopea e il tipo di linguaggio in essa usato non giustificano, e
che, se osservata un po' piú attentamente, ridurrebbe il linguaggio della Gita,
filosofico ma senza ripieghi, ad una mistificazione continua, forzata e un po'
puerile. Certo il linguaggio dei Veda e di almeno una parte dei Puràna è
decisamente simbolico, pieno d'immagini e di rappresentazioni concrete delle cose
nascoste dietro il velo; la Gita redige invece in termini assai semplici,
pretende di risolvere i grandi problemi etici e spirituali che pone la vita
umana, e non si può andare oltre il suo linguaggio e il suo pensiero, cosi
semplici, per travestirli ad arbitrio della propria fantasia.
Quest'interpretazione ha comunque una parte di verità, cioé, che l'esposizione
della dottrina è, se non simbolica, almeno tipica, come deve necessariamente
essere l'esposizione di un discorso quale quello della Gita, se deve avere una
qualsiasi relazione col contesto in cui s'inserisce. Come abbiamo visto, Arjuna
è l'uomo rappresentativa di una grande lotta mondiale e di un movimento,
diretto da mano divina, di uomini e di popoli; nella Gita egli rappresenta il
tipo dell'anima umana d'azione, nel momento della sua piú profonda e più
violenta crisi, posta da quest'azione di fronte al problema della vita umana e
della sua apparente incompatibilità con lo stato spirituale o persino con un
ideale morale di perfezione.
Arjuna il combattente, e al suo
fianco nel carro sta, come auriga, il divino Krishna. Nei Veda troviamo questa
stessa immagine dell'anima umana e del Divino che attraversano nello stesso
carro il campo di una grande battaglia per raggiungere lo scopo offerto da un tentativo
lungimirante. Si tratta però di pura figurazione e di simbolo. In quel caso il
divino Indra, signore del mondo di luce e d'immortalità, potere della divina
coscienza che scende ad aiutare l'uomo che cerca la verità e che combatte
contro i figli della menzogna, dell'oscurità, delle limitazioni e della morte;
la battaglia è la lotta contro i nemici spirituali che sbarrano la strada verso
il mondo superiore del nostro essere; il fine è il piano della vasta esistenza,
risplendente della luce della verità suprema, elevato sino alla cosciente
immortalità dell'anima divenuta perfetta, piano di cui Indra è il signore.
L'anima umana è Kutsa, colui che, come il suo nome indica, cerca con costanza
la saggezza del veggente, ed è il figlio di Arjuna, “il Bianco', o di Arjuni, “la
Bianca', prole di Shvitrà, “la Bianca Madre'. È l'anima sattvica, purificata e
piena di luce, aperta alla gloria ininterrotta della conoscenza divina. E
quando il carro giunge alla fine del viaggio, che è proprio la dimora di Indra,
l'umano Kutsa è arrivato ad assomigliare al suo divino compagno in modo così
completo che soltanto Shachi, la sposa di Indra, può distinguere l'uno
dall'altro, poiché essa è "cosciente
della verità". Si tratta evidentemente di una parabola che riguarda la
vita interiore dell'uomo; è un'immagine dell'umano che cresce a somiglianza
dell'eterno divino attraverso la sempre più grande illuminazione della
conoscenza. La Gita invece parte dall'azione; e Arjuna è l'uomo d'azione e non
di pensiero, è il guerriero, e mai il veggente e il filosofo.
Il caratteristico temperamento del
discepolo è chiaramente indicato fin dall'inizio del libro ed è conservato sino
alla fine. Lo possiamo osservare dapprima nel modo in cui Arjuna intuisce il
significato di ciò che sta per fare, il senso del grande massacro di cui egli è
destinato ad essere il principale strumento; lo notiamo nei pensieri che
immediatamente sorgono in lui, nel punto di vista e nei motivi psicologici che
lo fanno indietreggiare davanti la terribile catastrofe. Non sono certo i
pensieri, i criteri, le ragioni di uno spirito filosofico e neppure di uno
spirito assai riflessivo o di natura spirituale, di fronte allo stesso problema
o ad un problema analogo. Sono quelli, potremmo dire, dell'uomo pratico o
dell'uomo d'azione, dell'essere umano emotivo e sensitivo, morale e
intelligente, non però abituato alla riflessione profonda e originale, o a
sondare le profondità; quelli piuttosto di un uomo avvezzo a principi nobili,
ma fissi, del pensiero e dell'azione, abituato a muoversi fiduciosamente
attraverso le vicissitudini e le difficoltà della vita, e che scopre
improvvisamente che tutti i suoi principi gli vengono meno e che egli è
privato, d'un sol tratto, di tutto il fondamento della fiducia in sé e nella
vita. Tale è la natura della crisi che Arjuna subisce.
Arjuna è, nel linguaggio della Gita,
un uomo sottomesso all' azione dei tre guna (le tre qualità fondamentali, i
modi della natura-forza) e abituato a vivere in questa condizione, come la
maggioranza degli uomini, senza porsi problemi. Il suo nome è giustificato
soltanto dal fatto che egli è abbastanza puro e sattvico da essere governato
esclusivamente da nobili principi e da impulsi sereni, in quanto dirige la sua
natura inferiore secondo la legge morale più nobile che conosca. Non ha un
carattere violento, asurico, non è schiavo delle passioni; ha raggiunto una
calma superiore e il controllo di sé; è un uomo abituato a compiere i propri
doveri con fermezza, e ad obbedire scrupolosamente ai migliori principi vigenti
del tempo e della società in cui vive, ai principi della religione e della
morale in cui è stato educato. È egoista come tutti gli altri, ma di
quell'egoismo purificato e sattvico che tiene conto della legge morale, della
società e dei diritti degli altri, e non esclusivamente o soprattutto dei
propri interessi, dei propri desideri e delle proprie passioni. Egli è vissuto
regolandosi secondo lo Shàstra, il codice morale e sociale. L'idea che lo
domina, la norma cui obbedisce è il dharma[14], la
concezione collettiva indù della legge che regola la condotta religiosa,
sociale e morale, e particolarmente quella dello stato e della carica cui
appartiene Arjuna, lo kshatriya dall'anima nobile, padrone di sé stesso, il
principe cavalleresco, guerriero e capo di uomini ariani. Egli che è vissuto
finora seguendo questa legge, mettendone in pratica le nozioni di virtù e di
diritto, scopre improvvisamente ch'esse l'hanno condotto a diventare il
protagonista di un massacro terrificante e inaudito, di una mostruosa guerra
civile che incendia tutte le nazioni ariane civili, prepara la completa
distruzione della loro fiorente potenza e la strage dei loro più valorosi eroi,
e minaccia caos e rovina a tutta la loro civiltà.
È anche tipico dell'uomo d'azione
ch'egli intuisca il significato dei suoi atti attraverso le sue sensazioni.
Arjuna ha chiesto all'amico, che sta alla guida del carro, di condurlo tra i
due eserciti, senza essere spinto a ciò da idee profonde, ma dal fiero
proposito di vedere e di guardare in faccia i mille campioni dell'ingiustizia,
ch'egli deve incontrare, vincere e distruggere in quella "festa di
combattimento", affinché la giustizia possa trionfare. Mentre li sta
osservando è colpito dalla rivelazione di ciò che significa una guerra civile e
fratricida, guerra nelle cui opposte fazioni combattono non soltanto gli uomini
della stessa razza, della stessa nazione, del medesimo clan, ma i membri di una
stessa famiglia e di uno stesso focolare. Tutti coloro che l'uomo nei rapporti
sociali considera particolarmente cari e sacri, egli deve affrontarli da nemici
e ucciderli, senza badare se si tratti del maestro e precettore venerato, del
vecchio amico e compagno d'armi, oppure dei suoi parenti, sia di sangue che di
casato, zio, padre, figlio o nipote; tutti questi legami sociali devono essere
troncati dalla spada. Non che egli ignorasse queste cose in precedenza, ma non
si era mai raffigurato ciò che potevano significare. Non le aveva né meditate
profondamente, né sentite in sé stesso, nel suo cuore, al centro del proprio
essere, talmente era assillato dall'idea dei propri diritti e dei torti subiti,
dai principi della sua vita, la lotta per il diritto, il dovere di uno
kshatriya di proteggere la giustizia e la legge e di combattere a morte la
violenza e l'ingiustizia. E ora che questa visione gli viene svelata dal divino
auriga, offrendosi alla sua vista in modo cosi sensazionale, essa penetra in
lui come una pugnalata, diretta proprio al centro del suo essere vitale,
emotivo e sensitivo.
La prima conseguenza che ne deriva è
una violenta crisi dell' anima e del corpo che provoca il disgusto per l'azione
e per i suoi incentivi materiali, e per la vita stessa. Arjuna respinge lo
scopo della vita cui aspira l'umanità egoista: la felicità e il piacere;
respinge anche lo scopo della vita dello kshatriya: la vittoria, l'autorità, la
potenza e il governo degli uomini. Che cos'è in definitiva la lotta per la
giustizia, quando è ridotta al suo aspetto pratico, se non semplicemente la
lotta per i propri interessi, per quelli della propria famiglia e del proprio
partito, oppure per il possesso, per il piacere, per il potere? Ma il possesso
di questi beni non vale un prezzo così alto. Essi infatti non hanno alcun
valore in sé stessi; valgono soltanto come mezzi per sostenere il giusto
equilibrio della vita sociale e nazionale, ed è proprio questa ch'egli sta per
demolire, distruggendo la sua famiglia e la sua razza. Viene quindi il grido
dell'emozione, la voce del cuore. Ecco coloro che ci fanno desiderare la vita e
la felicità, il nostro prossimo! Chi mai potrebbe accettare di dar loro la
morte, fosse anche per la terra intera, o addirittura per il regno dei tre
mondi? Quale piacere può dare la vita, quale felicità, quale soddisfazione
possiamo trovare in noi stessi dopo una tale azione? Tutta l'impresa non è
altro che un orribile peccato - infatti, a questo punto il senso morale si
sveglia a giustificare la rivolta dei sensi e del cuore. Si tratta di un
peccato; non c'è né diritto né giustizia nello sterminio reciproco, soprattutto
quando coloro che si devono massacrare sono gli oggetti naturali del rispetto e
dell'amore, quando la vita senza di essi non è più degna d'essere vissuta;
violare questi sentimenti sacri non può essere virtù, ma delitto odioso. È
chiaro che l'offesa, l'aggressione, l'inizio delle ostilità, i crimini di
avidità e di passione egoistica che hanno spinto le cose a tal punto, vennero
da parte degli avversari; tuttavia la resistenza contro il male sarebbe
anch'essa, in tali circostanze, un peccato e un crimine peggiore del loro,
poiché essi sono accecati dalla passione e incoscienti della loro colpa, mentre
da parte nostra il peccato sarebbe commesso con un chiaro sentimento di
colpevolezza. E per quale scopo? Per il mantenimento della morale familiare,
della legge sociale, della legge della nazione? Evidentemente no, poiché
proprio quei valori sarebbero distrutti dalla guerra civile; poiché la famiglia
stessa sarebbe annientata, poiché si provocherebbe la corruzione della morale e
l'impurità della razza, poiché sarebbero distrutte le leggi eterne della razza
e la legge morale della famiglia. La rovina della razza e il crollo delle sue
antiche tradizioni, l'avvilimento morale e l'inferno per gli autori di un
simile delitto; ecco i soli risultati pratici possibili di questa mostruosa
guerra civile. "Perciò,"
esclama Arjuna, gettando lontano da sé l'arco divino e la faretra inesauribile,
che gli erano stati dati dagli dèi in previsione di quest'ora tremenda, "è meglio ch'io mi lasci massacrare,
disarmato e senza opporre resistenza, dai figli armati di Dhritaràshtra. Non
combatterò."
Il carattere proprio di questa crisi
interiore non è quindi affatto il dubbio del pensatore. Non è un ritrarsi
davanti alle apparenze della vita o uno sguardo rivolto verso l'intimo alla ricerca
della verità delle cose, del significato dell'esistenza, di una soluzione o di
una via d'uscita all'oscuro enigma del mondo. É la rivolta morale, emotiva e
sensitiva di un uomo che si è finora accontentato dell' azione e dei suoi
principi riconosciuti nell'uso corrente, e che è gettato da quegli stessi
principi in un orribile caos in cui sono tutti in conflitto tra di loro; egli
ne è sopraffatto e non può trovare nessun punto d'appoggio, nessuna regola di
condotta, nessun dharma. Per l'anima di un uomo d'azione, questa situazione è
la crisi peggiore, il fallimento, la sconfitta. La rivolta è in sé stessa
quanto mai semplice ed elementare; nell'ambito della sensazione è l'immediato
sentimento d'orrore, di pietà, di disgusto; nell'ambito vitale, la Perdita di
ogni attrattiva per i motivi d'azione riconosciuti e comuni, Per gli scopi
della vita e la scomparsa totale della fede in essi; nell'ambito dell'emozione,
la rinuncia dell'uomo sociale, colpito nei suoi sentimenti abituali: affetto,
rispetto, desiderio di felicità e di benessere per tutti, rinuncia davanti ad
un duro dovere che offenderebbe tutti questi sentimenti; moralmente, il senso
primordiale del peccato e dell'inferno, la ripugnanza per i piaceri macchiati
di sangue; nella pratica, l'impressione che i principi d'azione abbiano
provocato un risultato che priva l'azione di ogni reale finalità. La
conclusione complessiva, però, è quel generale crollo interiore che Arjuna
esprime quando dice che tutto il suo essere è completamente smarrito, non soltanto
il suo pensiero, ma anche il suo cuore, i suoi impulsi vitali e tutto ciò che é
parte di lui, e che non riesce più a trovare nessuna regola d'azione, nessun
dharma che gli sembri valido. Questa è la sola ragione per cui egli, in quanto
suo discepolo, cerca rifugio presso Krishna - "Dammi," gli chiede infatti, "ciò che ho perso, una legge autentica, una chiara regola d'azione;
indicami una strada su cui io possa nuovamente marciare con fiducia."
Non domanda il segreto della vita o del mondo, il significato e lo scopo di
ogni cosa, ma un dharma.
Tuttavia il suo divino Maestro si
propone di guidarlo proprio verso quel segreto ch'egli non chiede di conoscere,
o comunque ad una conoscenza di quel segreto, sufficiente a condurlo a una vita
superiore; infatti ciò che il Maestro vuole è ch'egli rinunci a tutti i dharma,
tranne a quello, unico e vasto, che consiste nel vivere coscientemente nel
Divino e nell'agire secondo questa coscienza. Perciò, dopo aver voluto provare
quanto fosse completa la sua rivolta contro le comuni norme di condotta, si
mette a trasmettergli una serie d'insegnamenti concernenti lo stato dell'anima,
ma senza alcun riferimento a qualche regola esteriore d'azione: bisogna
conservare una perfetta equanimità, abbandonare completamente il desiderio del
frutto della propria opera, elevarsi sopra le nozioni intellettuali di vizio e
virtù, vivere ed agire in unione[15] con
il Divino, lo spirito in samadhi, cioè fermamente stabilito solo nel Divino.
Arjuna non è soddisfatto: desidera sapere come un tale cambiamento di stato
d'animo influirà sull'azione esteriore dell'uomo, quale effetto avrà sul linguaggio,
sui movimenti, sulla natura, quali modificazioni arrecherà alla vita e
all'attività del suo essere. Per tutta risposta, Krishna si limita a riprendere
l'idea precedentemente esposta e a svilupparla: ciò che importa è lo stato
d'animo che accompagna l'azione e non l'azione stessa. La sola cosa necessaria
è che lo spirito sia fermamente ancorato a uno stato d'equanimità senza
desideri. Non è questa una regola di condotta di quelle che si aspettava
Arjuna, ma piuttosto, a quanto gli sembra, la negazione di qualsiasi azione, ed
egli esclama spazientito: "Se tu
consideri l'intelligenza superiore all'azione, perché mi assegni quest'azione
così tremenda? Turbi il mio intelletto con un discorso equivoco. Dimmi la
parola unica e decisiva che mi permetta di ottenere la soluzione migliore."
Poiché abbiamo sempre di fronte l'uomo d'azione che ha poca stima per il
pensiero metafisico o per la vita interiore, tranne quando questi possono
rispondere alla sua sola domanda, dargli un dharma, una legge per vivere nel
mondo o, se necessario, per abbandonare il mondo - poiché anche ciò è un'azione
decisiva ch'egli può comprendere. Ma dover vivere e agire in questo mondo, tenendosi
contemporaneamente al di sopra di esso, sono per lui parole “equivoche' e 'inquietanti', di cui non ha la pazienza di approfondire il senso.
Le altre domande e gli altri
ragionamenti di Arjuna provengono dallo stesso temperamento e dallo stesso carattere.
Egli è turbato quando viene a sapere che, una volta raggiunta la perfetta
equanimità, essa non si manifesta necessariamente con un cambiamento
appariscente dell'azione, poiché l'uomo deve sempre agire secondo la legge
della sua natura, anche se l'atto stesso può sembrargli imperfetto o difettoso,
paragonato a quello che dipende da una legge diversa dalla sua. La natura! Ma
che pensare di quel sentimento di peccato che lo assilla così profondamente?
Non è forse proprio la natura a spingere gli uomini quasi per forza, e persino
contro la loro buona volontà, nel peccato e nella colpa? La sua intelligenza
positiva è sconcertata quando Krishna gli dichiara di aver rivelato egli
stesso, nel lontano passato, a Vivasvàn quel medesimo yoga, da allora dimenticato,
che ora nuovamente rivela a lui, Arjuna; e con Ia sua richiesta di spiegazione,
provoca la dichiarazione famosa e sovente citata sulla natura dell'avatar e sul
suo piano d'azione terrestre. Ancora una volta egli cade nella perplessità alle
parole con cui Krishna prosegue la riconciliazione tra l'azione e la rinuncia
all'azione; ancora una volta gli domanda, invece di parole 'equivoche', una
definizione risolutiva di ciò che sia migliore e più nobile. Quando comprende
in modo reale e completo la natura dello yoga, che egli è invitato ad
intraprendere, la sua natura interamente pratica, abituata ad agire secondo la
volontà, le preferenze e i desideri della mente, è atterrita dalla difficoltà,
ed egli vuole conoscere la sorte dell'anima che tenta una simile impresa e
fallisce. Non perde forse nello stesso tempo questa vita umana d'attività, di
pensiero e di emozione ch'essa ha abbandonato, e quella coscienza di Brahman
cui aspira e, perdendole entrambe, non soccombe, simile ad una nube che si
dissolve?
Quando i suoi dubbi e le sue
perplessità sono scomparse, quando sa che il Divino dev'essere d'ora innanzi la
sua legge, egli continua sempre a cercar di raggiungere una conoscenza chiara e
incontestabile che possa praticamente guidarlo verso l'origine e la regola
della sua azione futura. Come distinguere il Divino fra tanti stati d'essere
che costituiscono la nostra esperienza ordinaria? Quali sono le grandi
manifestazioni nel mondo dell'energia propria del Divino, sotto cui egli possa
riconoscerlo e raggiungerlo attraverso la meditazione? Non gli è possibile
vedere sin d'ora la forma divina e cosmica di Ciò che realmente gli parla
attraverso il velo del corpo e dello spirito umano? E le sue ultime domande
esigono una chiara distinzione tra la rinuncia alle opere e quella più sottile
rinuncia che gli si richiede di adottare: tra Purusha e Prakriti, tra il Campo
e Colui che conosce il Campo, distinzione indispensabile alla pratica
dell'azione eseguita senza desiderio, ma sotto il solo impulso della volontà
divina; egli domanda infine una definizione chiara delle operazioni e dei
risultati pratici dei tre modi di Prakriti che lo si incita a superare.
Ecco a quale discepolo il Maestro
della Gita impartisce il suo divino insegnamento. Egli prende questo discepolo
in un momento del suo sviluppo psicologico, mosso dall'azione egoistica, in cui
tutti i valori mentali, morali ed emotivi della vita ordinaria, sociale ed
egoistica, si sono sfasciati in un crollo improvviso, ed egli deve tirarlo
fuori da quella vita inferiore verso uno stato superiore di coscienza, fuori da
un ignorante attaccamento all'azione verso Ciò che oltrepassa l'azione, e
tuttavia dà origine e comanda l'azione, fuori dall' ego verso il Sé, fuori
dalla vita, limitata in un orizzonte mentale, vitale e corporeo, verso quella
Natura superiore di là dalla mente, che è la condizione del Divino.
Contemporaneamente deve dare al suo
discepolo ciò che egli richiede e che la sua guida interiore l'incita a
cercare: una nuova legge di vita e d'azione che superi di molto l'insufficiente
regola dell'esistenza umana ordinaria, fatta di conflitti e di opposizioni
senza fine, di dubbi e di illusorie certezze, una legge più alta che liberi
l'anima da tutti i legami dell'azione senza tuttavia impedirle di agire e di
conquistare con forza, nell'immensa libertà del suo essere divino.
L'azione infatti dev'esser fatta, il
mondo deve compiere i suoi cicli e l'anima dell'uomo non deve per ignoranza
distogliersi dall'opera ch'essa ha da eseguire sulla terra. Tutto lo svolgersi
dell'insegnamento della Gita è determinato e diretto, anche nelle sue più ampie
digressioni, dall'intento di raggiungere quel triplice scopo.
Conosciamo il Maestro divino, abbiamo
osservato il discepolo umano; dobbiamo ancora acquisire un'idea chiara della
dottrina. Una concezione chiara, che si ricolleghi all'idea essenziale, al
nucleo centrale dell'insegnamento, è particolarmente necessaria in questo caso,
poiché la Gita, per via della complessità del suo pensiero, ricco di molteplici
aspetti, della sua sintetica comprensione delle differenti forme della vita
spirituale e della scioltezza agile e fluida della sua argomentazione, si
presta, ancor più facilmente di un'altra Scrittura, essere travisata, con
spirito di parte, in un senso o nell'altro. La logica indù considera come una
delle più grandi fonti d'errore la falsificazione incosciente o semi cosciente
dei fatti, dei termini e delle idee al fine di adattarli a nozioni preconcette,
a dottrine o a principi che rispondano alla propria preferenza. Forse è
l'ostacolo più difficile da evitare, anche per il pensatore più onesto. Infatti
la regione umana è, a questo proposito, incapace di svolgere la funzione di
investigatore nei suoi propri riguardi; anzi, è proprio della sua natura
impadronirsi di una conclusione parziale, di un'idea, di un principio, proclamarsene
il difensore e farne la chiave di tutta la verità; e possiede anche un'infinita
capacità di fare il doppio gioco, pur d'evitare di scoprire quel punto debole
così indispensabile e gelosamente custodito. La Gita si presta facilmente a
questo genere d’errore, poiché è semplice fare di essa il campione delle
proprie dottrine e dei propri dogmi, insistendo particolarmente su uno degli
aspetti del libro o persino su un passaggio saliente e importante, lasciando
nell'ombra il resto dei suoi diciotto canti o presentandoli come parti
subordinate e ausiliarie dell'insegnamento.
Così, alcuni pretendono che la Gita
non insegni affatto la via delle opere, ma una disciplina che porta alla
rinuncia alla vita e alle opere. L'indifferenza nel compiere le azioni
prescritte o tutti i compiti che si presentano diviene il mezzo, la disciplina;
il solo scopo vero è la rinuncia finale alla vita e alle opere. È assai facile
giustificare questo punto di vista citando alcuni passi dell'opera e mettendo
opportunamente in rilievo una tra le molte parti dell'argomentazione,
soprattutto se si trascura il senso particolare in cui son presi certi termini,
quali ad esempio sannyàsa, rinuncia;
ma è assolutamente impossibile persistere in questa interpretazione, dopo una
lettura imparziale, davanti alla continua affermazione, ripetuta lungo tutto il
libro, che l'azione deve essere preferita all'inazione. La superiorità
dell'azione svolta con coscienza yoghica sull'inazione del sannyàsa consiste nella vera rinuncia al desiderio, rinuncia
interiore, effettuata mantenendo l'anima distaccata e imparziale e offrendo le
opere al supremo Purusha.
Altri parlano della Gita come se
tutto il suo insegnamento consistesse nella dottrina della devozione; essi
mettono in secondo piano gli elementi della sua dottrina monista e l'importanza
ch'essa accorda all'immersione pacificatrice dell'anima nel Sé unico di tutte
le cose. Indubbiamente il rilievo che dà alla devozione, la sua insistenza sull'aspetto
del Divino in quanto Signore e Purusha, come la sua dottrina del Purushottama,
l'Essere supremo, allo stesso tempo superiore all'Essere mutevole e all'Essere
immutabile, e che, nella sua relazione col mondo, conosciamo come Dio, sono i
più mirabili tra gli elementi essenziali della Gita. Però quel Purusha è il Sé
cui tende tutta la conoscenza, il Signore del sacrificio cui conduce ogni
a/ione, ed anche il Signore dell'amore nel cui essere s'immerge il cuore colmo
di devozione. La Gita mantiene un equilibrio perfetto e insiste ora sulla
conoscenza, ora sull'azione, ora sulla devozione, obbedendo in ciò alle
esigenze immediate dello svolgersi del proprio pensiero, e non per dare la
preferenza a una via a danno delle altre due. Tutte e tre si incontrano e si
uniscono in Colui che è l'Essere supremo, il Purushottama.
Ma attualmente, cioè da quando lo
spirito moderno si è messo ad apprezzare la Gita, ad occuparsene, si tende
piuttosto, approfittando del continuo insistere sull'azione, a subordinare a
quest'ultima gli elementi di conoscenza e di devozione del libro, e a
considerarlo come un trattato di karma-voga, un vangelo delle opere. La Gita,
è, senza alcun dubbio, un vangelo delle opere, ma delle opere mirano alla
conoscenza, cioè alla realizzazione spirituale e alla quiete dell'anima, delle
opere ispirate alla devozione, cioè all'abbandono cosciente e totale di sé,
dapprima nelle mani del Supremo, poi nel suo stesso essere; quindi non si
tratta affatto delle opere come lo intende lo spirito moderno, cioè di
un'azione dettata da motivi, principi o ideali, siano essi egoistici o
altruistici, personali, sociali o umanitari. E tuttavia l'interpretazione
moderna si sforza di vedere 'nella Gita proprio questo. Voci autorevoli ci
ripetono continuamente che la Gita, opponendosi in ciò alla consueta tendenza
ascetica quietistica del pensiero e della spiritualità indù, predica, senza
possibilità d'equivoco, il vangelo dell'azione umana, l'ideale dell'
adempimento disinteressato dei doveri sociali e persino, a quanto sembra,
l'ideale del tutto moderno del servizio sociale. A tutto ciò posso soltanto
rispondere che, anche ad un'analisi superficiale risulta sin troppo evidente
che la Gita non insegna nulla di questo, e che si tratta di un'interpretazione
arbitraria che fraintende il senso di un libro antico studiandolo con la
mentalità moderna e pretendendo di spiegare con l'intelletto occidentale o
occidentalizzato del nostro tempo un insegnamento assolutamente antico,
profondamente orientale e indiano. La Gita insegna l'azione divina, non
l'umana; non l'adempimento dei doveri sociali, ma l'abbandono di ogni principio
di condotta o di dovere a favore di un adempimento non egoistico della volontà
divina operante nel mondo mediante la nostra natura; non un servizio sociale,
ma l'azione dei migliori, di coloro che sono posseduti da Dio, degli uomini
padroni di sé stessi - azione compiuta impersonalmente per l'amore del mondo e
in sacrificio a Colui che sta dietro all'uomo e alla Natura.
In altri termini, la Gita non è una
guida di morale pratica, ma di vita spirituale. Lo spirito moderno è attualmente
lo spirito occidentale, quale è diventato dopo aver abbandonato non soltanto l’idealismo
filosofico della più alta cultura greco-romana da cui è derivato, ma anche la
devozione cristiana del medioevo, sostituendo a questi principi un idealismo
pratico e un'abnegazione sociale, patriottica e filantropica. Si è sbarazzato
di Dio, o si è limitato a conservarlo per uso domenicale e, al suo posto, ha
eretto l'uomo a divinità e la società a idolo visibile. Nei suoi momenti
migliori, lo spirito moderno è attivo, pratico, morale, sociale, altruistico e
umanitario. Certo, tutte queste tendenze sono buone, sono necessarie,
soprattutto nell'ora attuale; s'accordano con la volontà divina, senza di che
non sarebbero certo diventate così dominanti nell'umanità. Non v'è d'altronde
alcun motivo per cui l'uomo divino, l'uomo che vive nella coscienza brahmica[16],
nell'Essere divino, non presenti nella sua azione tutte queste caratteristiche;
egli anzi ne dovrà possedere, se esse costituiscono il più alto ideale del suo
tempo, lo yugadharma[17], e
se non c'è un ideale ancor più grande da stabilire, un cambiamento più grande
ancora da effettuare. Infatti l'uomo divino è, come il Maestro suggerisce al
suo discepolo, il migliore, colui che dev'essere il modello per gli altri;
effettivamente Arjuna ha per missione di vivere secondo i più alti ideali della
sua epoca e secondo la cultura allora regnante, ma pienamente cosciente,
consapevole delle verità nascoste dietro l'apparenza delle cose, e non come
l'uomo ordinario, che segue semplicemente le regole e le usanze vigenti.
Tuttavia il punto importante in
questo caso è che lo spirito moderno ha escluso dalla sua forza motrice pratica
i due principi essenziali: Dio (o l'Eterno) e la spiritualità (o la condizione
divina), che sono le due concezioni principali della Gita. L'uomo moderno vive
soltanto nella condizione umana e la Gita vorrebbe invece che vivessimo in Dio -
"sebbene nel mondo, tuttavia in Dio"
-; egli non vive che nella sua carne, nel suo cuore e nel suo intelletto, e
invece la Gita vorrebbe che vivessimo nello Spirito; egli vive nell'Essere
mutevole[18] che è “tutte le creature”, ma Ia Gita vorrebbe
che vivessimo anche nell'Immutabile e Supremo[19];
egli vive nel mutevole corso del tempo mentre la Gita esige che si viva
nell'Eterno. Seppure l'uomo moderno comincia, in maniera vaga, a riconoscere
questi più alti valori, intende però subordinarli a sé e alla società; tuttavia
Dio e la spiritualità esistono per proprio conto e per propria iniziativa e non
in modo accessorio. E nella pratica, ciò che vi è di inferiore in noi deve
imparare a esistere per il superiore, affinché il superiore possa
coscientemente esistere per l'inferiore e cosi elevarlo alla propria altezza.
Sarebbe quindi un errore voler
interpretare la Gita dal punto di vista della mentalità attuale e pretendere
che insegni ad ogni costo l'adempimento disinteressato del dovere come la legge
più alta, valida in tutto e per tutto. Basta soffermarsi un momento e
considerare la situazione di cui tratta la Gita per accorgersi che tale non può
essere la sua intenzione. Infatti, tutto il contenuto dell'insegnamento, ciò
che ne fornisce lo spunto e che obbliga il discepolo a cercare il maestro, è
proprio il conflitto senza via d'uscita delle differenti concezioni del dovere,
conflitto che si risolve nel crollo di tutto l'edificio utilitaristico,
intellettuale e morale, eretto dalla mente umana. Nella vita umana sorge con
una certa frequenza qualche conflitto, come ad esempio quello tra i doveri
familiari e il richiamo della patria e il bene dell'umanità o qualche più vasto
principio morale o religioso. Può anche crearsi una situazione interiore del
genere di quella che si presentò al Buddha, in cui tutti i doveri dovettero
essere abbandonati, calpestati e gettati via per seguire il richiamo interiore
di Dio. Non credo proprio che la Gita avrebbe risolto un simile problema
interiore rimandando Buddha a sua moglie, al padre e al governo dello Stato
degli Shàkya, o ordinato a Ràmakrishna di diventare un pandit nella scuola del
suo paese natio per insegnarvi, in maniera disinteressata, le lezioni ai
ragazzini, o imposto a Vivekànanda di essere il sostegno della famiglia e, a
tal fine, di esercitare, senza desiderio né passione, il diritto o la medicina,
oppure di darsi al giornalismo. La Gita non insegna l'adempimento
disinteressato dei propri doveri, ma insegna a seguire la vita divina, ad
abbandonare tutti i dharma, sarvadharman, per cercare rifugio unicamente nel
Supremo; l'attività esclusivamente divina di uomini quali il Buddha,
Ràmakrishna, Vivekànanda è perfettamente conforme a tale insegnamento. Per di
più, sebbene la Gita preferisca l'azione all'inazione, non esclude la rinuncia
alle opere, ma l'ammette come una delle vie che portano a Dio. Se non si può
raggiungere Dio che attraverso Ia rinuncia alle opere, alla vita attiva e a
tutti i doveri, e se il richiamo interiore è possente, si getti allora tutto
nel braciere in cui arde il fuoco divino; nessuno può impedirlo. Il richiamo di
Dio è imperativo e non vi si può frapporre nessun'altra considerazione.
In questo caso però la difficoltà
aumenta poiché l'atto che Arjuna deve commettere è di quelli davanti ai quali
il suo senso morale si rivolta. Gli si dice che è suo dovere combattere? Ma ora
questo dovere è diventato ai suoi occhi un terribile peccato. In che modo
potrebbe aiutarlo, come risolverebbe la sua difficoltà il consiglio di fare il
proprio dovere con disinteresse e senza passione? Vorrà sapere qual è il suo
dovere, e come può essere suo dovere distruggere con un massacro sanguinario il
suo paese. Gli è stato detto che egli è dalla parte della ragione, ma ciò non
lo soddisfa, né può soddisfarlo, poiché ritiene che il buon diritto delle sue
pretese non giustifichi ch'egli le sostenga con un massacro spietato che
distruggerebbe l'avvenire del suo popolo. Deve dunque agire spassionatamente,
nel senso che non deve preoccuparsi se commette un peccato e quali ne saranno
le conseguenze, purché faccia il suo dovere di soldato? Questa potrebbe essere
una teoria della ragione di Stato, o una dottrina di uomini politici, di
giuristi o di casisti; non potrebbe però mai essere l'insegnamento di una
grande opera religiosa o filosofica che si propone di risolvere dalla radice il
problema della vita e dell' azione. E se questa fosse l'ultima parola della Gita
su un cosi acuto problema morale e spirituale, dovremmo escluderla dalla lista
delle Scritture Sacre del mondo e, semmai, annoverarla tra le opere di scienza
politica o di casistica morale.
Indubbiamente la Gita, come le
Upanishad, insegna la perfetta equanimità che si eleva sopra il vizio e la
virtú, di là dal bene e dal male; la insegna però, in quanto facente parte
della conoscenza brahmica, soltanto per l'uomo che è abbastanza avanzato sulla
via spirituale per poter seguire la norma suprema. Essa non predica
l'indifferenza riguardo al bene e al male nella vita comune dell'uomo, ove una
simile dottrina provocherebbe le più dannose conseguenze; al contrario, essa
afferma che colui il quale commette il male non raggiungerà Dio. Perciò,
sebbene Arjuna cerchi semplicemente di seguire nel miglior modo possibile la
legge ordinaria della vita umana, non può certamente aiutarlo il fatto di
compiere disinteressatamente ciò che a lui pare essere un peccato, un'opera
infernale, e neppure la considerazione che quel peccato rientri nei suoi doveri
di soldato. Egli deve astenersi dall'atto che ripugna alla sua coscienza, anche
se ciò l'obbliga a infrangere tutti i doveri.
Dobbiamo ricordarci che il dovere è
un'idea che si basa di fatto su certe concezioni sociali. È possibile estendere
il senso del termine oltre il significato specifico e parlare del nostro dovere
di fronte a noi stessi; possiamo dire se vogliamo, in senso trascendentale, che
il dovere di Buddha fu di abbandonare tutto, oppure che è dovere dell'asceta
restare seduto senza muoversi nella sua caverna. Ma è chiaro che questo è un
gioco di parole. Il dovere è una nozione relativa e dipende dai nostri rapporti
con gli altri uomini. È dovere di un padre, in quanto tale, nutrire ed educare
i propri figli; quello di un avvocato, difendere il suo cliente, anche se lo sa
colpevole e si rende conto che la propria arringa è menzognera; quello di un
soldato, combattere e, su ordini dei superiori, sparare, anche se deve colpire
un parente o un compatriota; è dovere di un giudice mandare il colpevole in
prigione e l'assassino sul patibolo. Finché quest'ordine viene accettato, il
dovere resta chiaro; è un dato di fatto, una cosa naturale, anche quando non
intervengano a rafforzarlo il senso dell'onore e il vincolo affettivo, che
annulla la legge assoluta, religiosa o morale. Ma che succede se cambiano le
intime convinzioni, se l'avvocato si rende improvvisamente conto dell'assoluta
colpevolezza della menzogna, se il giudice si persuade che la pena di morte è
un delitto contro l'umanità, se l'uomo chiamato a combattere sente, come lo
sentirebbe oggi un obiettore di coscienza, come l'ha sentito Tolstoj, che in
nessuna circostanza si deve considerare lecito togliere la vita all'uomo, né
più né meno di quanto non sia lecito mangiare la carne umana? È evidente che in
questo caso la legge morale, che precede tutti i doveri relativi, deve
prevalere; e questa legge morale non dipende da alcun rapporto sociale, da
alcuna concezione di dovere, ma unicamente dalla percezione interna cui può
giungere l'uomo, essere morale.
Ci sono nel mondo, in effetti, due
leggi di condotta molto differenti, valide ognuna nel proprio campo: una dipende
principalmente dalla posizione sociale, l'altra invece, indipendente da tale
posizione, deriva completamente dal pensiero e dalla coscienza. La Gita non ci
insegna a subordinare il piano superiore all'inferiore; non richiede alla
coscienza morale che si sta destando di suicidarsi sull'altare del dovere,
vittima sacrificata alle leggi dello stato sociale. Essa ci chiama più in alto
e non più in basso; per uscire dal conflitto di questi due piani, essa ci
obbliga ad elevarci fino all'equilibrio supremo che domina sia il piano
principalmente pratico, sia quello puramente etico - fino alla coscienza
brahmica. La Gita sostituisce alla concezione del dovere sociale quella
dell'obbligo divino. La soggezione alla legge esterna cede il posto a un certo
principio che, mediante la libertà dell'anima, si svincola a poco a poco dal
groviglio delle regole d'azione. E questo - la coscienza brahmica, la libertà
dell'anima di fronte alle opere e Ia determinazione delle opere nella natura da
parte del Signore che sta in noi e sopra di noi - è, il centro
dell'insegnamento come vedremo più avanti, il nocciolo dell'insegnamento della Gita
per quanto concerne l'azione.
La Gita non può essere capita, come
qualsiasi altra grande opera del genere, se non la si studia nel suo insieme,
come argomentazione che si sviluppa. Proprio al contrario, gli interpreti
moderni, a partire dal grande scrittore Bankim Chandra Chatterji, che per primo
attribuì alla Gita questo nuovo significato di vangelo del dovere, hanno
insistito quasi esclusivamente sui primi tre o quattro canti, in particolare
sull'idea svoltavi d'equanimità, sull'espressione kartavyam karma, "l'opera,
l'azione che dev'esser fatta", ch'essi traducono con la parola, “dovere”, e sulla frase: "Tu hai diritto all'azione, ma non ai frutti
dell'azione", che è ora comunemente citata come la grande parola, mahavakya, della Gita. Al resto dei
diciotto canti, ricchi della loro alta filosofia, è data un'importanza
secondaria, tranne tuttavia alla grande visione dell'undicesimo canto. Tutto
ciò è abbastanza consono allo spirito moderno che è - o era fino a qualche
tempo fa - poco incline alla pazienza davanti alle sottigliezze metafisiche e
alle lontane ricerche spirituali, tanto è ansioso di mettersi all'opera e
interessato soprattutto, come del resto Arjuna, a una regola d'azione che si
possa mettere in pratica, ad un dharma, però un modo errato di considerare
questa Scrittura.
La perfetta equanimità che la Gita
insegna non è il disinteresse, poiché il grande comandamento dato ad Arjuna,
dopo che sono state poste le basi dell'insegnamento ed eretta la struttura
principale: "Sorgi, stermina tutti i
tuoi nemici e godi della prosperità del tuo regno", non ha proprio
l'aria di un altruismo intransigente, né di un'abnegazione pura da ogni passione
e desiderio. È invece uno stato intimo di equilibrio e di grandezza, che è il
fondamento della libertà spirituale. In quest'equilibrio, in questa libertà,
dobbiamo fare "l'opera che dev'esser
fatta", frase che la Gita impiega nel senso più esteso e che comprende
tutte le opere, sarvakarmàni, e
oltrepassa di molto, benché possa includerli, il dovere sociale e l'obbligo
morale. Non spetta alla scelta individuale il compito di stabilire quale azione
si debba fare; però neppure il diritto all'azione e il rifiuto di ogni pretesa
ai frutti di essa rappresentano l'ultima parola della Gita, ma soltanto una
formula preliminare che dirige i primi passi del discepolo quando comincia
l'ascesa dello yoga. In realtà, tale regola viene annullata ad uno stadio
successivo. La Gita infatti prosegue affermando energicamente che l'uomo non è
l'autore dell'azione che compie; è Prakriti, la Natura, la grande forza nei
suoi tre modi d'azione, che opera attraverso di lui, e bisogna ch'egli impari a
vederci che non è lui ad agire. Quindi "il diritto all'azione" è un'idea valida soltanto finché
restiamo nell'illusione di essere noi ad agire; dobbiamo necessariamente
abbandonarla, assieme "alla pretesa
ai frutti dell'azione", nel momento in cui diveniamo consci del fatto
che non siamo noi gli autori di ciò che facciamo. Scompare allo tendenza
egoistica di attribuire tutto a sé stessi, si tratti del diritto all'azione o
di quello ai suoi frutti.
Il determinismo di Prakriti, però,
non è ancora l'ultima parola della Gita. L'assenza di desideri, la rinuncia ai
benefici dell'azione non sono altro che mezzi per entrare e per vivere con lo
spirito, il cuore e l'intelligenza, nella coscienza divina; la Gita afferma
esplicitamente che questi sono i metodi da usare finché il discepolo è da parte
sua incapace di vivere in quella condizione oppure di sviluppare gradualmente,
con la pratica, tale stato superiore. Ma insomma, che cos'è quel Divino che
Krishna dichiara esser egli stesso? È il Purushottama - il Purusha supremo -,
di là dal Sé che non agisce, di là da Prakriti che agisce, fondamento di
quello, padrone di questa, il Signore di cui tutte le cose sono la
manifestazione, che ha sede nel cuore delle sue creature, anche nella loro
attuale soggezione a màyà, e che da là dirige le opere di Prakriti; in realtà,
i combattenti schierati sul campo di Kurukshetra sono già stati uccisi, sebbene
momentaneamente siano ancora in vita, proprio da Lui, che utilizza Arjuna come
suo strumento o come l'occasione immediata di quel grande massacro. Prakriti non
è altro che la sua forza esecutrice. Il discepolo deve elevarsi sopra quella
forza e i suoi tre modi o guna; egli deve diventare trigunatita[20]. Non
a quella egli deve rimettere le sue azioni, su cui non ha più “pretesa' né “diritto',
ma all'Essere supremo. Affidando a Lui lo spirito e l'intelligenza, il cuore e
la volontà, pienamente conscio di sé, di Dio e del mondo, con un perfetto
equilibrio, una perfetta devozione, un completo abbandono, egli deve compiere
le sue opere in offerta al Signore di tutte le energie e di tutti i sacrifici.
Quando l'uomo si identificherà con quella volontà e sarà cosciente di quella
coscienza che agisce in lui, Quello prenderà la decisione e l'iniziativa
dell'azione. Ecco la soluzione che il divino Maestro propone al discepolo.
Non è necessario cercare quale sia Ia
grande, la suprema parola della Gita, il suo mahavakya; la Gita stessa infatti
la rivela nella sua ultima frase, nota dominante del grande accordo: "Con tutto il tuo essere, prendi
rifugio nel Signore che ha sede nel tuo cuore; la sua grazia ti condurrà alla
pace suprema e all'eternità. Ti ho così rivelato la conoscenza più segreta di
tutti i segreti. Ascolta ancora la Mia parola suprema, la più segreta di tutte:
Con il tuo pensiero costantemente rivolto a Me, sii il Mio devoto; offriMi i
tuoi sacrifici e prosternati davanti a Me; la Mia promessa è solenne, perché Mi
sei caro. Abbandona tutti i dharma e rifugiati in Me solo, ti libererò da ogni
peccato, non ti crucciare."
Il sistema della Gita consiste in tre
gradi attraverso i quali l'azione si eleva dal piano umano al piano divino e
abbandona la schiavitù della legge inferiore per la libertà. Dapprima, bisogna
che l'uomo - finché si crede l'autore dell'atto - rinunci al desiderio e,
raggiungendo una perfetta equanimità, compia le opere come un sacrificio
offerto a una divinità che è il solo e supremo Sè, pur senza averlo ancora
intimamente realizzato. È il prima grado. In seguito l'uomo deve abbandonare,
ed è il secondo grado, non soltanto il desiderio ai frutti dell'azione ma anche
la pretesa di esserne l'autore, e riconoscere il Sé come il principio sempre
uguale, inattivo, immutabile, e tutte le opere come semplici operazioni della
forza universale, dell'anima della Natura, di Prakriti, il potere ineguale,
attivo e mutevole. Infine, il terzo grado, che consiste nel vedere il supremo
Sé come il supremo Purusha che governa Prakriti, il principio di cui l'anima
nella Natura è manifestazione parziale, e dal quale tutte le azioni sono
dirette, in una trascendenza perfetta, con la mediazione della Natura. A lui
devono essere offerti l'amore, l'adorazione e il sacrificio delle opere; tutto
l'essere umano deve abbandonarsi a lui e l'intera coscienza deve elevarsi fino
a vivere in quella coscienza divina, in modo che l'anima umana possa
partecipare alla sua divina trascendenza, di là dalla Natura e dalle opere, e
possa agire in perfetta libertà spirituale.
Il primo grado è il karma yoga, il sacrificio delle opere
fatte senza egoismo; in questo caso la Gita mette l'accento sull'azione. Il
secondo grado è lo jnana yoga, la
scoperta del Sé e la conoscenza della sua vera natura e di quella del mondo; in
tal caso l'accento è posto sulla conoscenza, ma il sacrificio delle opere resta
sempre valido e la via delle opere si confonde, senza però scomparire, con la
via della conoscenza. Il terzo grado è il bhakti
yoga, l'adorazione e la ricerca del supremo Sé quale Essere divino.
L'accento qui è sulla devozione; tuttavia la conoscenza non le è subordinata; è
invece innalzata, resa più viva, più perfetta dalla devozione. La duplice via
diventa la triplice via della conoscenza, delle opere e della devozione. Ed è
così conseguito il frutto del sacrificio, quell'unico frutto che resta offerto
all'uomo che cerca: l'unione con l'Essere divino e l'unità realizzata con la
suprema Natura divina.
Prima
di seguire il Maestro della Gita sul tracciato della triplice via dell'uomo, in
cui la sua volontà, il suo cuore e il suo pensiero si elevano verso l'Altissimo
e penetrano nel cuore dell'Essere che è il fine supremo di ogni azione, di
tutto l'amore e di tutta la conoscenza, dobbiamo ancora una volta considerare
la situazione di fatto donde scaturisce il racconto della Gita. La
considereremo adesso nella sua portata generale, come il prototipo della vita
umana e persino della vita del mondo. Difatti, sebbene Arjuna si preoccupi
esclusivamente della propria situazione, della propria lotta interiore e della
regola d'azione ch'egli deve seguire, tuttavia, come abbiamo visto, la domanda
particolare che rivolge e il modo in cui la rivolge suscitano il problema
generale della vita umana e dell'azione, l'esigenza di conoscere che cos'è il
mondo, perché esiste, e come, dal momento che è quello che è, la vita in questo
mondo possa conciliarsi con la vita nello Spirito. Il Maestro insiste sulla
necessità di risolvere anzitutto questo problema difficile e profondo, poiché
la sua soluzione sta alla base dell'ordine di un'azione che Arjuna deve
eseguire, alla luce di una conoscenza liberatrice che procede da un nuovo
equilibrio dell'essere.
Ma
qual è dunque la natura della difficoltà per l'uomo che deve prendere il mondo
così com'è, e viverci, e che tuttavia vorrebbe condurre, interiormente, una
vita spirituale? Qual è quell'aspetto dell'esistenza che spaventa la sua mente
lucida, che provoca ciò che il primo canto della Gita, con un titolo assai
espressivo, chiama “Lo yoga dello sgomento di Arjuna”, l'afflizione, lo
scoraggiamento dell'uomo costretto ad affrontare ad occhi aperti lo spettacolo
del mondo tale quale realmente è, una volta che il velo dell'illusione etica
(l'illusione della rettitudine personale) è lacerato, e prima di aver raggiunto
una più alta riconciliazione con sé stesso? Proprio quell'aspetto è raffigurato
esteriormente con la strage e il massacro di Kurukshetra, e spiritualmente con
la visione del Signore del tutto, che sorge sotto la forma del Tempo per
divorare e distruggere le proprie creature. È questa la visione del Signore di
ogni esistenza come Creatore universale, ma anche come Distruttore universale -
il Signore di cui l'antica Scrittura poteva dire, con un'immagine crudele:
"I saggi e gli eroi sono il suo
cibo, e la morte il condimento del suo banchetto." Si tratta sempre
della stessa verità, intravista dapprima in modo indiretto e oscuro nei fatti
della vita, percepita in seguito direttamente e chiaramente dall'anima in una
visione di ciò che si manifesta nella vita. L'aspetto esteriore è quello
dell'esistenza del mondo e dell'uomo, la quale procede attraverso lotte e
massacri; l'aspetto interiore è quello dell'Essere universale che realizza sé
stesso attraverso un'immensa creazione e un'immane distruzione. La vita come
campo di battaglia e campo di morte: ecco che cos'è Kurukshetra. Dio il
Terribile: ecco la visione che appare ad Arjuna sul campo della carneficina.
"La guerra", dice Eraclito, "è il padre di tutte le cose, la guerra è il
sovrano onnipotente." Questa massima racchiude una profonda verità,
come del resto la maggior parte dei detti memorabili del filosofo greco. Pare
infatti che da una collisione di forze, materiali o meno, siano nate tutte le
cose di questo mondo, se non il mondo stesso, che sembra poi svilupparsi
attraverso una lotta di forze, di tendenze, di principi, di esseri, per creare
continuamente cose nuove, sempre distruggendo le vecchie. Così il mondo ha
l'aspetto di avanzare verso chissà quale scopo: verso una finale
disintegrazione, dicono alcuni; in una serie di cicli privi di ogni finalità,
dicono altri; in una progressione di cicli che conducono, attraverso tutta
l'agitazione e l'apparente confusione e con un'approssimazione sempre più alta,
ad una divina apocalisse - ed è questa la conclusione più ottimistica. In ogni
modo, una cosa è certa: non soltanto qui non c'è costruzione senza distruzione
e non esistono armonie se non attraverso un equilibrio di forze opposte,
ottenuto con molti antagonismi attuali o virtuali, ma inoltre ogni vita, per
sussistere, esige costantemente nutrimento, quindi di divorare altre vite. La
nostra stessa vita corporea è una continua morte e una continua rinascita, il
corpo una città assediata, attaccata da forze offensive, protetta da forze
difensive, la cui funzione è di divorarsi a vicenda; ed è l'esempio tipico di
ogni aspetto della nostra esistenza. Fin dal principio della vita sembra che
sia stato dettato questo comandamento: "Non
conquisterai nulla senza combattere contro i tuoi simili e contro l'ambiente
che ti circonda; vivrai esclusivamente mediante la battaglia e la lotta,
assorbendo altre vite in te. La prima legge di questo mondo che io ho fatto è:
creazione e conservazione tramite la distruzione."
Il
pensiero antico accettava tale punto di partenza nella misura in cui poteva
percepirlo osservando il mondo. Le antiche Upanishad lo videro molto
chiaramente e lo espressero appieno in tutta la sua crudezza, senza aggiungere
né commenti tranquillizzanti né scappatoie ottimistiche. La fame, che è la
morte, dicevano, è il creatore e il signore di questo mondo; esse
rappresentavano l'esistenza vitale con l'immagine del cavallo del sacrificio.
Alla materia diedero un nome che comunemente significava cibo. La chiamiamo
così, dissero, poiché essa è divorata e divora le creature. "Colui che mangia è mangiato", è la
formula del mondo materiale, tale quale la riscoprirono Darwin e i suoi
seguaci, quando conclusero che la lotta per la vita è la legge che governa
l'evoluzione dell'esistenza. La scienza moderna non ha fatto altro che ripetere
la vecchia verità che era stata espressa in formule più vigorose, più larghe e
più esatte dalla massima di Eraclito e dalle immagini delle Upanishad.
Nietzsche
ha molto insistito sulla guerra come aspetto della vita e sul guerriero come
prototipo perfetto dell'uomo. Questi può essere all'inizio l'uomo-cammello, e
più tardi l'uomo-bambino; tra queste due tappe però deve diventare
l'uomo-leone, se vuole raggiungere la perfezione. Per quanto possiamo
dissentire su molte conclusioni morali e pratiche che a Nietzsche parve bene di
dover dedurre, tali teorie, attualmente così screditate, sono incontestabilmente
giustificate e ci rammentano una verità che preferiremmo fingere d'ignorare. È
bene che questa verità ci sia ricordata; in primo luogo perché ogni anima forte
vi trova un effetto tonico, che la salva dalla mollezza e dalla rilassatezza
troppo incoraggiate, da quella specie di sentimentalismo all'acqua di rose,
filosofico, religioso e morale, che ama contemplare la natura sotto il suo
aspetto d'amore, di vita, di bellezza e di bene, ma che distoglie lo sguardo
dalla sua crudele maschera di morte, che adora Dio come Shiva, ma che rifiuta
di adorarlo come Rudra[21];
secondariamente, perché non riusciremo mai a risolvere le discordanze e le
opposizioni dell' esistenza, fino a quando non avremo il coraggio e l'onestà di
guardarla direttamente in faccia. Dobbiamo anzitutto vedere ciò che sono la
vita e il mondo; in seguito potremo cercare il miglior modo di trasformarli in
ciò che devono essere. Se quest'aspetto ripugnante dell'esistenza racchiude in
sé qualche segreto dell'armonia finale, ignorandolo o attribuendogli scarsa
importanza, ci lasceremo sfuggire tale segreto, e tutti i nostri sforzi per
trovare una soluzione andranno a vuoto, per colpa della nostra compiacente
ignoranza dei veri elementi del problema. Se d'altronde, quest'aspetto
dell'esistenza nasconde un nemico che dobbiamo abbattere e tenere ai nostri
piedi, estirpare ed eliminare, non guadagneremo nulla sottovalutandone il
potere d'influenza sulla vita, o rifiutando di riconoscere la forza con cui è
radicato nel passato effettivo e nei principi realmente operanti
dell'esistenza.
La
guerra e la distruzione non sono soltanto un principio universale della nostra
vita di qui, nel suo aspetto puramente fisico; esse dirigono anche la nostra
esistenza mentale e morale. Appare evidente che nella vita reale dell'uomo, sia
intellettuale, sia sociale, politica o morale, non possiamo avanzare di un solo
passo senza incontrare lotta e battaglia tra ciò che esiste e vive e ciò che
cerca di vivere e d'esistere e tra tutto ciò che si cela dietro a questi due partiti.
È impossibile, almeno allo stato attuale degli uomini e delle cose, crescere,
avanzare, compiere il proprio destino, e contemporaneamente osservare in modo
reale e concreto il comandamento di non nuocere al prossimo[22], che
tuttavia ci viene dato come la migliore e più alta regola di condotta. Dite che
non dovremmo servirci altro che della forza spirituale, e mai distruggere con
la guerra o con l'impiego, foss'anche difensivo, della violenza fisica? E sia,
benché la forza asurica nell'uomo e nelle nazioni possa, nell'attesa che la
forza spirituale divenga efficace, calpestare e distruggere tutto, massacrare,
incendiare e profanare, come la vediamo fare oggi, con la differenza però che,
in tal caso, lo farebbe liberamente e che il vostro non intervento avrebbe
forse causato una strage tanto grande quanto l'avrebbero causata altri
ricorrendo alla violenza; forse sareste riusciti a diffondere un ideale, che un
giorno avrebbe potuto condurre - che anzi dovrà condurre - ad un migliore stato
di cose. Ma persino la forza spirituale distrugge, quando è efficace. Soltanto
coloro che l'hanno usata con gli occhi bene aperti sanno quanto essa sia più
terribile e più distruttiva della spada o del cannone, e solamente quelli la
cui vista non si ferma all'atto e ai suoi risultati immediati possono vedere
quanto sia spaventoso il susseguirsi dei suoi effetti, quante cose essa
distrugga, e con quelle cose, tutta la vita che ne dipendeva e che di quelle si
nutriva. Il male non può perire senza causare la distruzione di gran parte di
ciò che fonda la propria esistenza sul male; si tratta pur sempre di una
distruzione, anche se a noi personalmente è risparmiata la sensazione dolorosa
di un atto di violenza.
Inoltre,
ogni volta che usiamo la forza spirituale, costruiamo contro il nostro nemico
una grande forza karmica, di cui non siamo in grado di controllare i movimenti
successivi. Vashishtha si servì della forza spirituale contro la violenza
guerriera di Vishvàmitra, ed eserciti di Unni, di Shaka e di Pallava si
precipitarono sull'aggressore. Il semplice atteggiamento di calma passiva
dell'uomo spirituale, vittima della violenza e dell'aggressione, provoca
l'azione retributiva di terribili forze cosmiche; può quindi essere più
caritatevole opporsi, anche con la forza, a coloro che rappresentano il male,
piuttosto di permettere loro di calpestare tutto fino a richiamare su di sé una
distruzione peggiore di qualunque altra noi avessimo mai pensato di infligger
loro. Non basta che le nostre mani rimangano pulite e la nostra anima pura
perché la legge di guerra e di distruzione scompaia dal mondo; deve anzitutto
essere divelto dall'umanità ciò che ne costituisce la radice. Tanto meno la
semplice immobilità e l'inerzia di coloro che non vogliono o non possono
opporre alcuna resistenza al male aboliranno tale legge; infatti l'inerzia -
tamas - è ancor più nociva di quanto lo possa essere il principio rajasico di
lotta, il quale almeno crea più di quanto distrugga. Quindi, per quanto concerne
il problema dell'azione dell'individuo, il suo astenersi dalla lotta e dalla
distruzione che inevitabilmente ne consegue, nelle loro forme fisiche più
brutali, può aiutare lo sviluppo del proprio essere morale, ma lascia intatta
la potenza dell'Uccisore delle creature.
Del
resto, tutta la storia dell'umanità testimonia l'irriducibile vitalità, il
persistente predominio di quel principio nel mondo. Come palliativo, è naturale
che si cerchi di insistere su altri aspetti. La lotta e la distruzione non sono
tutto; come esiste il principio salvatore di associazione e di reciproco aiuto,
esiste anche il principio di dissociazione e di lotta; come c'è la forza della
rivendicazione egoistica, c'è anche quella dell'amore; come c'è l'impulso di
sacrificare gli altri a sé stessi, esiste pure quello di sacrificarsi per il
prossimo. Quando però vediamo come, in realtà, questi principi hanno operato,
non siamo più tentati di ignorare la forza dei loro opposti. L'associazione non
è stata creata soltanto con uno scopo di collaborazione, ma anche per la difesa
e l'aggressione, per rafforzarci contro tutto ciò che ci attacca e ci resiste
nella lotta per la vita. L'associazione si è dimostrata un sostegno
dell'egoismo, della rivendicazione, della guerra della vita contro la vita.
Persino l'amore è stato costantemente un potere di morte. In particolare
l'amore del bene e l'amore di Dio, nel modo in cui sono stati abbracciati
dall'ego umano, sono responsabili di molte lotte, distruzioni, massacri. Il
sacrificio di sé è cosa grande e nobile ma, al massimo delle sue possibilità, è
un riconoscimento della legge secondo cui la vita si afferma attraverso la
morte, e diviene l'offerta di sé sull'altare di qualche potenza che esige una
vittima perché l'opera desiderata possa essere compiuta. L'uccello-madre che
affronta l'animale da preda per difendere i piccoli, il patriota che muore per
la libertà del suo paese, il martire di una religione o il martire di un'idea
sono, a differenti gradi nella scala della vita animale, i più alti esempi del
sacrificio di sé; è fin troppo chiaro quale verità essi affermino.
Se
consideriamo i risultati che ne conseguono, un facile ottimismo diventa ancor
più insostenibile. Prendete il caso del patriota che muore perché il proprio
paese possa essere libero, e osservate quello stesso paese qualche decennio più
tardi, dopo che il Signore del Karma ha pagato il prezzo del sangue versato e
delle sofferenze che furono inflitte; lo vedrete diventare a sua volta
oppressore, sfruttatore, conquistatore di colonie e di possedimenti, un paese
che divora altri popoli per poter vivere e riuscire a dominare. I martiri
cristiani perirono a migliaia, opponendo la loro forza spirituale alla forza
dell'Impero affinché Cristo vincesse e il Cristianesimo si affermasse. La forza
spirituale trionfò, il Cristianesimo prevalse - ma non il Cristo; la religione
vittoriosa divenne una chiesa militante e dominatrice, e una potenza che si
diede a persecuzioni più fanatiche di quelle della fede e dell'impero a cui
essa si era sostituita.
Persino
le religioni si organizzano come potenze di lotta reciproca e combattono tra di
loro con accanimento per vivere, crescere e possedere il mondo.
Tutto
ciò sembra indicare la presenza di un elemento dell'esistenza - l'elemento
iniziale, forse, - che non sappiamo come dominare, sia perché non può esser
dominato, sia perché non abbiamo fissato su di esso uno sguardo abbastanza
penetrante e imparziale, per riconoscerlo tranquillamente e onestamente, e
scoprire così la sua natura. Dobbiamo guardare in faccia l'esistenza, se il
nostro scopo è quello di trovarne la giusta spiegazione, qualunque essa possa essere.
E guardare l'esistenza in faccia, significa guardare Dio in faccia, poiché i
due non possono esser distinti, né d'altronde si può sottrarre la
responsabilità delle leggi dell'esistenza a Colui che le ha create, o a Ciò che
ha costituito il mondo. Ma anche in questo caso, preferiamo camuffare la realtà
e prestarci all'equivoco. Abbiamo costruito un Dio d'amore e di misericordia,
un Dio giusto, equo e virtuoso secondo le nostre proprie concezioni morali
della giustizia, della virtù e dell'equità, e tutto il resto non è Lui, non è
opera sua, vediamo, ma è l'opera di qualche potere diabolico, cui Egli
permette, per una ragione qualsiasi, di elaborare la propria cattiva volontà -
oppure è l'opera di qualche tenebroso Ahriman contrapposto al nostro grazioso
Ormuzd -, oppure ancora, deriva dalla colpa di un uomo egoista e peccatore che
ha corrotto ciò che era uscito perfetto dalle mani di Dio. Come se fosse stato
l'uomo a creare la legge che impone la morte al mondo animale e la necessità di
divorarsi a vicenda, o quel processo terrificante per cui la natura crea e
preserva, ma nello stesso tempo, con un'azione parallela, inseparabile,
distrugge e uccide! Vi sono ben poche religioni che abbiano il coraggio di dire,
senza riserve, come fecero quelle dell'India, che tale enigmatica potenza
cosmica è una divinità unica, una Trinità[23], e
di presentare l'immagine della forza che agisce nel mondo non soltanto nelle
sembianze della benefica Durgà, ma anche in quelle della terribile Kàli nella
sua sanguinaria danza di distruzione, dicendo: "Anche questa è la Madre; sappi che anche questo è Dio; anche questo,
adoralo se ne hai il coraggio." È significativo che la religione che
ha avuto questa inflessibile onestà e questo straordinario coraggio sia
riuscita a creare una spiritualità profonda ed estesa che nessun'altra può eguagliare.
La verità infatti è il fondamento della vera spiritualità e il coraggio ne è
l'anima stessa.
Tutto
ciò non significa che la guerra e la distruzione siano l'alfa e l'omega
dell'esistenza, che l'armonia non sia superiore alla guerra, che l'amore non
manifesti il Divino più della morte, o che noi non dobbiamo cercare di
sostituire alla forza fisica la forza spirituale, alla guerra la pace, alla rivalità
l'unione, all'odio l'amore, all'egoismo l'universalità, alla morte la vita
immortale. Dio non è soltanto il Distruttore, è anche l'Amico delle creature;
non è soltanto la Trinità cosmica, ma anche il Trascendente; la terribile Kàli
è pure la Madre amorevole e benefica, il Signore di Kurukshetra è il divino
compagno e l'auriga, Colui che attrae gli esseri, Krishna incarnato. Dovunque
Egli ci conduca, attraverso lotte, conflitti e confusione, qualunque sia lo
scopo, lo stato divino verso cui Egli ci attira, si tratta certamente di una
trascendenza che oltrepassa tutte quelle apparenze su cui ci siamo così
lungamente soffermati. Ma dove e come, a quale trascendenza e sotto quali
condizioni - questo dobbiamo scoprirlo; e per scoprirlo bisogna anzitutto vedere
il mondo qual è, osservarne e valutarne correttamente l'azione, quale ci
appariva all'inizio ed ora, perché in seguito il suo percorso e il suo scopo si
rivelino più chiaramente. Dobbiamo riconoscere Kurukshetra per quello che è:
dobbiamo sottometterci alla legge che condiziona la vita alla morte, prima di
poter trovare la nostra via verso la vita immortale; dobbiamo aprire gli occhi,
con uno sguardo meno spaventato di quello di Arjuna, alla visione del Signore
del tempo e della morte e cessare di negare, di odiare il Distruttore
universale o di indietreggiare davanti a Lui.
Per
potere apprezzare l'universalità dell'insegnamento della Gita, dobbiamo
accettare intellettualmente il suo punto di vista e la maniera coraggiosa con
la quale ci prospetta la Natura manifestata e lo sviluppo cosmico. Il divino
auriga di Kurukshetra si rivela come il Signore dei mondi, l'Amico e la Guida
onnisciente di tutte le creature, e come il Tempo, il Distruttore "che si erge per la distruzione di tutti
questi popoli". Seguendo in ciò la grande ampiezza delle spirito
religioso induista, la Gita afferma che anche questo secondo aspetto è Dio; non
tenta di sfuggire all'enigma che il mondo presenta, cercando di sottrarsi
attraverso la porta di servizio. Prendiamo il caso dell'uomo che non considera
l'esistenza come la semplice azione meccanica di una forza materiale, brutale e
indifferente e neppure come un giuoco meccanico d'idee e di energie che sorgono
da una non-esistenza primigenia o che si riflettono in un'anima passiva, od
anche come l'evoluzione di un sogno o di un incubo nella coscienza superficiale
di una Trascendenza indifferente e immutabile che non subisce l'influenza di
questo sogno e che non vi prende parte. Supponiamo anche che quest'uomo
ammetta, come lo fa la Gita, l’esistenza di Dio, ossia dell'Essere onnipresente
e onnipotente, ma sempre trascendente, mediante il quale il mondo è manifestato
e che si manifesta nel mondo, di un Dio che non è lo schiavo, ma il padrone
della propria coscienza, della propria natura o della propria forza creatrice
(maya, prakriti o shakti), il cui disegno e la cui concezione cosmici non
potrebbero essere frustrati dalle sue creature, umane o diaboliche, e che non
ha bisogno di giustificarsi trasferendo sul creato e sul manifestato la
responsabilità di una parte della sua creazione o manifestazione.
In
questo caso l'essere umano deve partire da un grande e difficile atto di fede.
Messo davanti a un mondo che è apparentemente un caos di poteri in lotta, un
conflitto di vaste e oscure forze, una vita che sussiste solo mediante il
continuo cambiamento e la morte, minacciata da ogni parte dal dolore, dalla
sofferenza, dal male e dalla distruzione, deve in tutto ciò riconoscere il
Divino onnipresente. Sapendo che questo enigma dovrà avere una soluzione e che
sopra l'ignoranza in cui vive deve pur esistere una conoscenza che può tutto
conciliare, bisogna che assuma questa fede quale punto d'appoggio: "Anche se mi farai perire, ho fede in Te."
Infatti ogni dottrina o fede umana, se è attiva e affermativa, sia teistica,
panteistica o ateistica, implica più o meno esplicitamente e completamente un
simile atteggiamento. Essa ammette ed essa crede; ammette le contraddizioni del
mondo e crede in un principio supremo - Dio, Essere universale o Natura - che
ci renderà capaci di oltrepassare, superare o armonizzare queste
contraddizioni, forse di fare le tre cose a un tempo, cioè di armonizzare
superando e oltrepassando.
In
ciò che concerne le realtà della vita umana, si deve quindi accettare il suo
aspetto di lotta e di battaglia che si amplia sino alle crisi più estreme, come
quella di Kurukshetra.
Dobbiamo
ricordarci che la Gita è stata composta in un tempo in cui la guerra era più di
adesso una parte necessaria dell'attività umana e che l'idea della sua
eliminazione dallo svolgersi della vita sarebbe stata una perfetta chimera. Il
vangelo di pace universale e di buona volontà fra gli uomini - senza buona
volontà reciproca, universale e totale, non può esistere una pace vera e
permanente - non è mai riuscito, neppure per un istante, a impossessarsi della
vita umana nel corso dei cicli storici del suo sviluppo, perché moralmente,
socialmente e spiritualmente la specie non era pronta e perché l'equilibrio
della Natura, nella sua evoluzione, non avrebbe permesso di prepararla
immediatamente per una simile trascendenza.
Anche
nei tempi attuali, non siamo andati oltre la possibilità di un sistema di
compromessi per gli interessi in conflitto, capace tutt'al più di ridurre il
numero delle peggiori forme di lotta. E per avvicinarsi a questa fine ideale,
il mezzo che l'umanità si è vista obbligata a adottare, spinta dalla natura che
le è propria, è stato un mostruoso massacro senza esempi nella storia; una
guerra universale, piena di amarezza e di odio irriducibile, è stato il cammino
più breve e il mezzo più efficace che l'uomo moderno abbia saputo trovare per
stabilire la pace universale[24]. Una
pace che non si appoggi su nessun cambiamento fondamentale della natura umana,
ma solo su nozioni intellettuali, su convenienze economiche, su un retrocedere
vitale e sentimentale davanti alla perdita di vite umane, alla durezza e agli
orrori della guerra, capace di raggiungere al massimo qualche accordo di
carattere politico, non può dare serie garanzie di solidità e di durata. Un
giorno verrà in cui l'umanità sarà preparata spiritualmente, moralmente e
socialmente per il regno della pace universale, ma in tale attesa, la battaglia
intesa come aspetto della vita, la natura e la funzione dell'uomo come
guerriero, devono essere accettate, e ogni religione e filosofia pratiche
devono tenerne conto. La Gita, che prende la vita così com'è e non soltanto
come potrebbe essere in un futuro più o meno lontano, ricerca come possano,
quest'aspetto e questa funzione necessari alla vita, entrare in armonia con
l'esistenza spirituale.
Per
questo la Gita s'indirizza a un combattente, a un uomo d'azione, che ha il
dovere di combattere e di proteggere, in quanto la guerra è una delle funzioni
che spettano a un governo per la protezione di coloro che non sono tenuti a
combattere, coloro che non possono proteggere sé stessi e che rimangono perciò
esposti alla violenza dei forti. La guerra deve inoltre, mediante l'estensione
morale dell'idea precedente, assicurare la protezione del debole e
dell'oppresso e mantenere nel mondo il diritto e la giustizia. Tutti questi
ideali, l'ideale sociale e pratico, l'ideale morale e cavalleresco, fanno parte
del concetto che si ha in India dello kshatriya, dell'uomo che ha la funzione
di essere guerriero, capo e, per sua natura, cavaliere e re. Quantunque le più
generali e più universali idee della Gita abbiano per noi la maggiore
importanza, non dobbiamo escludere radicalmente dalle nostre considerazioni le
sfumature e le tendenze che ricevono dalla cultura indiana e dal particolare
sistema sociale da cui sono uscite. Le concezioni fondamentali di questo
sistema differiscono dal sistema moderno. Per lo spirito moderno l'uomo è nello
stesso tempo un pensatore, un lavoratore (o un produttore) e un combattente, e
la tendenza del sistema sociale è di riunire queste attività e di esigere da
ogni individuo il suo contributo alla vita e ai bisogni intellettuali,
economici e militari della comunità, senza tener conto delle disposizioni,
della natura e del temperamento di ognuno. L'antica civiltà indiana attribuiva
un'importanza particolare alla natura individuale, alla sua tendenza, al suo
temperamento, cercando di determinarne il tipo etico, la funzione e il posto
che gli competeva nella società. Soprattutto essa non considerava l'uomo come
un essere sociale, o la pienezza della sua esistenza sociale come l'ideale più
alto; essa vedeva piuttosto nell'uomo un essere spirituale in via di formazione
e di sviluppo e considerava la sua vita sociale, la sua legge morale, il giuoco
del suo temperamento e l'esercizio della sua funzione come i mezzi e i gradi
della sua formazione spirituale. Il pensiero e la conoscenza, la guerra e il
governo, la produzione e la distribuzione delle ricchezze, il lavoro manuale e
il servizio costituivano funzioni sociali accuratamente differenziate, ciascuna
assegnata a coloro che vi erano naturalmente chiamati, assicurando in tal modo
il giusto mezzo mediante il quale ognuno, individualmente, poteva avanzare sulla
via dello sviluppo spirituale e del perfezionamento di sé.
Certamente
l'idea moderna di un obbligo comune in tutte le principali attività umane ha i
suoi vantaggi: favorisce la solidarietà, l'unità e rende piena la vita della
comunità, favorendo in tutti i sensi il completo sviluppo dell'essere umano, in
opposizione alla divisione senza fine e alla superspecializzazione del lavoro,
con la conseguente limitazione artificiale della vita dell'individuo cui il
sistema indiano conduce inesorabilmente. Ma l'idea moderna offre anche i suoi
inconvenienti e, in certe conseguenze delle sue troppo logiche applicazioni,
porta a grottesche e disastrose assurdità. Ciò appare evidente nel carattere
della guerra moderna. Partendo dall'idea di un comune obbligo militare, che
vincola ogni individuo a combattere per difendere la comunità in cui vive e di
cui profitta, è nato il sistema per il quale ogni uomo della nazione viene
gettato nella sanguinosa trincea per uccidere ed essere ucciso; pensatori,
artisti, filosofi, sacerdoti, mercanti e artigiani, sono tutti strappati alle
loro naturali funzioni, la vita della comunità disorganizzata, la ragione e la
coscienza calpestate, gli stessi ministri della religione, chiamati dalle proprie
funzioni o dallo Stato che li paga a predicare il vangelo della pace e
dell'amore, vengono forzati a rinnegare la propria fede e a divenire i macellai
dei propri fratelli! Non soltanto i decreti arbitrari dello Stato militare
violano la coscienza e la natura, ma la difesa nazionale, spinta ad estremi
insensati, fa del suo meglio per divenire un suicidio collettivo.
La
civiltà indiana, al contrario, si è sempre proposta di ridurre al minimo i
livelli e i disastri delle guerre. Limitava, a questo proposito, l'obbligo
militare alla sola e poco numerosa classe destinata per nascita, natura e
tradizione a questa funzione, che trovava i mezzi naturali per il proprio
sviluppo attraverso il coraggio, la disciplina, il soccorso disinteressato e la
nobiltà cavalleresca, qualità alle quali la vita di soldato, sotto la spinta di
un alto ideale, offre il campo e le occasioni. In tal modo gli altri membri
della comunità erano protetti contro la morte e l'oltraggio, la loro vita e le
loro occupazioni disturbate il meno possibile. Alle tendenze combattive e
distruttrici della natura umana era lasciato solo un terreno limitato, una
specie di campo chiuso, in modo da causare il minimo danno possibile alla vita
generale della razza, mentre nello stesso tempo la funzione guerriera,
sottoposta ai suoi alti ideali etici e a tutte le regole possibili di umanità e
di cavalleria, era costretta a nobilitare coloro che l'esercitavano, anziché
incoraggiarne la brutalità. Dobbiamo sempre ricordare che la Gita si riferisce
a questo tipo di guerra, a qualcosa che è sottoposto a queste condizioni - una
guerra considerata come parte inevitabile della vita umana, ma limitata e
regolata in modo da servire, come le altre attività, allo sviluppo spirituale e
morale, considerato allora come lo scopo ultimo e vero della vita -, una guerra
distruttrice della vita corporea dell'uomo individuale, contenuta entro certi
limiti attentamente stabiliti, ma costruttrice della propria vita interiore e
dell'elevazione morale della razza. Che la guerra abbia nel passato, quando era
mossa da un ideale, aiutato ad elevarsi, come nello sviluppo della cavalleria,
nell'ideale indiano dello kshatriya, in quello giapponese del samurai, sono
fatti che possono essere negati solo dai fanatici del pacifismo. Una volta
esaurita la sua funzione, deve allora sparire, poiché il tentativo dì
sopravvivere alla propria utilità apparirebbe come pura brutalità, una violenza
priva del proprio ideale e dell'aspetto costruttivo e rifiutata dallo spirito
in progresso dell'essere umano. Ma, per avere un'esatta visione della nostra
evoluzione, dobbiamo riconoscere i servizi che nel passato ha reso alla specie.
Tuttavia
il fatto fisico della guerra è solo una manifestazione particolare ed esteriore
di un principio generale della vita, di cui lo kshatriya è la manifestazione
esteriore e il tipo generale necessario all'integralità della perfezione umana.
La guerra riproduce e incarna fisicamente l'aspetto della battaglia e della
lotta che appartiene a ogni vita, alla nostra vita interiore e a quella
esteriore, in un mondo che ha per metodo lo scontro di forze opposte; mediante
una reciproca distruzione queste forze progrediscono verso un riassestarsi
continuamente mutevole che esprime una progressiva armonizzazione e mira a una
perfetta armonia che si appoggia su qualche non ancora compreso potenziale
dell'unità. Lo kshatriya è il tipo e l'incarnazione umana del combattente, che
accetta questo principio della vita e lo affronta come un guerriero teso verso
la conquista, che non indietreggia davanti alla distruzione dei corpi e delle
forme, che passa su tutto ciò che gli si oppone pur di realizzare certi
principi del diritto, della giustizia e della legge, su cui fonderà l'armonia
verso la quale tutta la lotta è tesa. La Gita accetta quest'aspetto
dell'energia universale e il fatto fisico che la incarna: la guerra, estrema
contraddizione dell'alta aspirazione dell'anima verso la pace interiore, e la
non-violenza[25] di fuori. Essa si rivolge
all'uomo d'azione, a colui che lotta, al combattente: lo kshatriya,
necessariamente immerso in un tumulto di combattimenti e di azioni che sembrano
la contraddizione stessa dell'alto ideale dell'anima, del calmo dominio di sé.
Per risolvere la contraddizione, la Gita cerca un punto di unione fra i due
termini e un equilibrio che servirà di base a quest'armonia e trascendenza.
L'uomo
risponde alla battaglia della vita nel modo più conforme alla tendenza
dominante della propria natura. Secondo la filosofia sankhya, che la Gita accetta su questo punto, esistono tre qualità
essenziali[26] o modi dell'energia
universale e, dì conseguenza, tre qualità essenziali della natura umana:
sattva, il modo dell'equilibrio, della conoscenza e della soddisfazione; rajas,
il modo della passione, dell'azione, dell'emozione e della lotta, e tamas, il
modo dell'ignoranza e dell'inerzia.
L'uomo
dominato da tamas tende più a subire i colpi della violenza e gli urti delle
energie del mondo che stanno intorno a lui e convergono su di lui, ad esserne
tormentato e sopraffatto, che a reagire contro tali violenze e urti; al
massimo, aiutato dalle altre qualità, cerca di sopravvivere, di sussistere
finché può, di proteggersi nella fortezza di una ridda abituale di pensieri e
di atti in cui si sente fino a un certo punto protetto, in grado di respingere
le più alte esigenze della propria natura ed esonerato dall'obbligo di lottare
per un ideale e uno sviluppo.
L'uomo
dominato da rajas si getta nella battaglia e tenta di utilizzare questa lotta
di forze in favore del proprio beneficio egoistico, tenta di uccidere,
conquistare, dominare, godere; oppure, aiutato sino a un certo limite dalla sua
natura sattvica, fare della lotta stessa un mezzo per ampliare il proprio
dominio interiore, la propria gioia e il proprio potere. La battaglia della
vita diviene per lui gioia e passione, in parte come fine a sé stessa, per il
piacere dell'attività e il senso del potere, in parte come mezzo di crescita e
di sviluppo naturale.
L'uomo
dominato da sattva, situato in mezzo alle discordie della vita, cerca un
principio di legge, di diritto, di equilibrio, di armonia, di pace e di
soddisfazione. L'uomo puramente sattvico, generalmente mediante un distacco
interiore o una ripulsione esteriore davanti al conflitto e ai tormenti
dell'energia attiva del mondo, tende a cercare in sé stesso questo principio,
sia per uso proprio sia per trasmetterlo, una volta acquisito, ad altri
spiriti, Ma quando l'uomo sattvico accetta parzialmente l'impulso rajasico,
cerca piuttosto d'imporre alle lotte e al caos apparente, il principio di
armonia e di equilibrio, di preparare la vittoria della pace, dell'amore e
dell'armonia sul principio della guerra, della discordia e della lotta. Tutti
gli atteggiamenti adottati dallo spirito umano nei confronti del problema della
vita derivano dall'una o dall'altra di queste qualità o modi, oppure da un
tentativo di stabilire fra di esse un equilibrio armonioso.
Ma
può sopravvenire una fase in cui l'uomo deluso dalle soluzioni che il triplice
modo della Natura gli offre, traigunya,
abbandoni il problema e cerchi una soluzione più alta, fuori o sopra la Natura.
Cerca un'uscita verso qualcosa che sia, o al di fuori e sprovvisto di qualità -
e quindi di attività -, o superiore alle tre qualità - e dì conseguenza capace
di azione, - ma senza essere toccato o dominato da quest'azione: nirguna o trigunatita. Aspira sia alla
pace assoluta dell'esistenza incondizionata, sia al calmo dominio di
un'esistenza superiore. Il moto naturale del primo atteggiamento tende verso la
rinuncia al mondo, sannyasa; il
secondo verso uno stato superiore alle esigenze della Natura inferiore e al suo
turbinio di azioni e di reazioni; il suo principio è l'equanimità e la rinuncia
interiore alle passioni e ai desideri. Il primo atteggiamento è quello che
mette in evidenza il movimento iniziale di Arjuna, l'indietreggiare di fronte al
risultato disastroso di tutta la sua attività eroica nel grande cataclisma
della battaglia e del massacro di Kurukshetra; di fronte alla caduta del
principio di azione che ha seguito sino a quel momento, l'inazione e il rifiuto
della vita e delle sue esigenze gli sembrano la sola via d'uscita. Ma a uno
stato di superiorità interiore e non di rinuncia fisica alla vita e all'azione,
la voce del divino Maestro lo chiama....
Sannyasa
è la rinuncia alla vita, all'azione e al triplice modo della Natura; ma questo
stato non può essere avvicinato che mediante l'una o l'altra di queste qualità
(guna). L'incitamento può essere tamasico - senso d'impotenza, di paura, di
avversione, di ripulsione, di orrore del mondo e della vita; o forse proviene
dalla qualità rajasica che tende verso tamas - senso di stanchezza davanti allo
sforzo da compiere, d'infelicità, di disappunto, il rifiuto di accettare ancora
questa vana tormenta di attività con i suoi dolori e insoddisfazioni eterni.
Oppure può essere l'impulso di rajas che tende verso sattva - il desiderio di
raggiungere qualcosa di più elevato di ciò che la vita può dare, di conquistare
uno stato superiore, di calpestare la vita stessa sotto l'azione di una forza
interiore che cerca di spezzare tutti i legami e di superare i propri limiti. O
ancora può essere l'impulso sattvico - una percezione intellettuale della
vanità della vita, dell'assenza di ogni vero scopo e di ogni ragione di questo
eterno girare in tondo dell'esistenza del mondo; oppure una percezione
spirituale di Ciò che è fuori del tempo: dell'Infinito, del Silenzioso, della
pace senza né nome né forma situata oltre. Il retrocedere di Arjuna è
l'indietreggiare tamasico di un uomo che si trova davanti all'azione sattvico-rajasica. Il Maestro potrebbe
incoraggiare l'orientamento di questo moto, utilizzandolo come un fosco
passaggio verso la purezza e la pace della vita ascetica; oppure purificarlo di
un sol tratto ed elevarlo alle altezze eccezionali della rinuncia sattvica. In
realtà, non fa nulla di tutto ciò. Scoraggia questo moto d'indietreggiamento
tamasico e la tendenza alla rinuncia, dà ordine di continuare l'azione, questa
violenta e terribile azione, ma orienta il suo discepolo verso la più intima
rinuncia che costituisce la vera soluzione della crisi e indica il cammino
verso la superiorità dell'anima sulla Natura universale ed anche verso l'azione
dell'anima, calma e padrona di sé stessa, nell'universo. L'insegnamento della Gita
non è un ascetismo fisico, ma un'ascesi interiore.
Sin
dall'inizio Krishna, il divino Maestro, fa una distinzione che è d'estrema
importanza per la comprensione della Gita: la distinzione tra Sànkhya e Voga.
La
Gita è essenzialmente un'opera vedantina; è una delle tre autorità riconosciute
nell'insegnamento del Vedanta[28].
Tuttavia tutte le sue idee vedantine sono fortemente colorate dalle concezioni
proprie del Sànkhya e dello Yoga, ed è appunto da questa colorazione che deriva
il carattere sintetico peculiare della sua filosofia.
Che
cosa sono, insomma, il Sankhya e lo Yoga dì cui parla la Gita? Non certo i
sistemi filosofici che ci sono giunti sotto questi nomi, come vengono enunciati
nel “Sankhya-Karika” di Ishvara-Krishna, e nello “Yoga-Sutra” di Patanjali. Eppure, tutto ciò che è essenziale in
questi due sistemi, tutto ciò che in essi v'è di vasto, di totale, di
universalmente vero è ammesso dalla Gita, la quale però non accetta le
limitazioni che caratterizzano le due scuole rivali. Il suo Sànkhya è il
Sankhya vedantino, universalmente valido, di cui troviamo i principi e gli
elementi fondamentali nella grande sintesi delle Upanishad e negli ulteriori
sviluppi dei Purana. Il suo Yoga si fonda su una concezione, anch'essa assai
vasta, di una pratica e di una trasformazione interiore, entrambe
principalmente soggettive, necessarie alla scoperta del Sé e all'unione con
Dio, di cui il raja yoga è soltanto un'applicazione particolare, ma non la più
importante o la più vitale. La Gita sostiene che Sànkhya e Yoga, lungi dal
costituire due sistemi differenti, discordanti e incompatibili, sono tutt'uno
nel loro principio e nel loro scopo; le loro divergenze si limitano al metodo e
al punto di partenza.
Quali
sono le verità del Sànkhya? Questa filosofia prende il nome dal suo
procedimento analitico. Il Sànkhya è l'analisi, l'enumerazione, l'enunciazione
- mediante distinzione e discriminazione - dei principi del nostro essere, di
quei principi di cui la mentalità comune vede soltanto le combinazioni e i
risultati delle combinazioni. Il Sànkhya non cerca affatto la sintesi. Il suo punto
di partenza è dualistico - non di quel dualismo alquanto relativo, proprio
delle scuole vedantine che portano quel nome, dvaita - ma di un dualismo
assoluto e categorico. Il Sànkhya infatti spiega l'esistenza mediante, non uno,
ma due principi originali, la cui interazione è la causa dell'universo:
Purusha, l'inattivo, e Prakriti, l'attivo.
Purusha
è l'Anima, non nel senso comune o popolare del termine, ma in quello di Essere
puro e cosciente, immobile, immutabile e in sé luminoso. Prakriti è l'energia e
i suoi processi. Prakriti è meccanica (jada) ma, per il suo riflettersi in
Purusha, ci appare, nelle sue attività, come coscienza. Così si producono i
fenomeni di creazione, conservazione, dissoluzione, vita e morte, coscienza e
incoscienza, conoscenza sensoria, conoscenza intellettuale e ignoranza, azione
e inazione, felicità e sofferenza, tutti fenomeni che il Purusha, sotto
l'influenza della Prakriti, attribuisce a sé stesso, mentre in realtà non
appartengono a lui, ma all'azione e al movimento di Prakriti.
Prakriti
è costituita dai tre guna o modi essenziali d'energia: sattva, germe
d'intelligenza, che sostiene le operazioni dell'energia; rajas, germe di forza
e d'azione, che crea le operazioni dell'energia; tamas, germe d'inerzia e di
inintelligenza, negazione di sattva e di rajas, che dissolve ciò che essi
creano e sostengono. Quando questi tre poteri dell'energia di Prakriti sono in
equilibrio, tutto è allo stato di quiete: non vi è movimento, azione o
creazione, e quindi non vi è nulla che si rifletta nell'immutabile essere
luminoso dell'Anima cosciente. Ma quando l'equilibrio si rompe, i tre guna
cadono in uno stato d'instabilità in cui lottano tra di loro e reagiscono l'uno
sull'altro. Comincia allora l'avvicendamento inestricabile e incessante di
creazione, conservazione e dissoluzione, in cui si svolgono i fenomeni del
cosmo. Questo movimento continua finché il Purusha consente a riflettere
l'agitazione che oscura la sua eterna natura attribuendo a questa il carattere
mutevole della natura di Prakriti; ma quando ritira il suo assenso, i guna
riprendono il loro equilibrio e l'Anima ritorna alla sua eterna, immutabile
immobilità: essa è liberata dai fenomeni.... Cosi il Sànkhya spiega l'esistenza
del cosmo.
Ma
da dove provengono quell'intelligenza e quella volontà coscienti che noi
percepiamo come una parte tanto importante del nostro essere, e che di solito,
istintivamente, non attribuiamo alla Prakriti, ma al Purusha? Secondo il
Sànkhya, l'intelligenza e la volontà rientrano completamente nell'energia
meccanica della Natura e non sono proprie dell'Anima; esse costituiscono la
buddhi, uno dei ventiquattro tattva o
principi cosmici. Prakriti, il primo dei tattva nell'evoluzione del mondo, ne è
la base, con i suoi tre guna e come sostanza originaria delle cose,
non-manifestata, incosciente, dalla quale evolvono successivamente cinque
condizioni elementari dell'energia o della materia - materia ed energia sono la
stessa cosa per la filosofia Sànkhya. Queste sono chiamate con i nomi dei
cinque elementi concreti (bhúta in sanscrito) del pensiero antico: etere,
acqua, fuoco, aria e terra; si deve però ricordare che questi elementi non
vanno intesi nel senso scientifico moderno del termine; essi sono condizioni
'sottili' dell'energia materiale, assolutamente introvabili allo stato puro nel
mondo fisico sensibile[29].
Tutti gli oggetti sono creati dalla combinazione di queste cinque condizioni o
elementi. Rispettivamente, ognuno di essi è la base di una delle cinque
proprietà dell'energia-materia: suono, tatto, forma, gusto e odore, che
costituiscono il mezzo attraverso cui la mente sensoria percepisce gli oggetti.
Così, i cinque elementi o condizioni materiali espressi dall'energia originaria
e le cinque relazioni sensorie attraverso cui la materia è conosciuta, compongono
quello che nel linguaggio moderno si potrebbe chiamare l'aspetto oggettivo
dell'esistenza cosmica.
Tredici
altri principi costituiscono l'aspetto soggettivo dell'energia cosmica. Essi
sono: buddhi o mahat, ahankara, manas e le sue dieci funzioni sensorie - cinque di conoscenza e
cinque d'azione. Manas, la mente, è il senso fondamentale che percepisce gli
oggetti e reagisce su di essi; essa ha un'attività al tempo stesso inferente ed
efferente: riceve attraverso la percezione ciò che la Gita chiama i contatti
esteriori delle cose - formandosi così la sua idea del mondo -, ed esercita le
sue reazioni di vitalità attiva. Ma specializza le sue più comuni funzioni di
ricettività mediante i cinque sensi di percezione - udito, tatto, vista, gusto
e olfatto - che hanno per oggetto le cinque rispettive proprietà della materia;
d'altro canto, specializza alcune necessarie funzioni vitali di reazione per
mezzo dei cinque sensi di azione, che hanno per oggetto la parola, la
locomozione, l'atto dell'afferrare, l'escrezione e la generazione. Buddhi, il
principio di discriminazione, è al tempo stesso intelligenza e volontà;
considerato come facente parte della Natura, è il potere che distingue e
coordina. Ahankara, il senso dell'ego, è in buddhi il principio soggettivo che
induce il Purusha a identificarsi con Prakriti e con le sue attività. Benché
questi principi siano soggettivi, rientrano nondimeno nell'energia incosciente
e sono meccanici, come gli altri dieci che costituiscono le attività oggettive
della natura. Se stentiamo a capire come l'intelligenza e la volontà possano
essere proprietà della natura incosciente meccanica, ed essere esse stesse
meccaniche, dobbiamo ricordare che la scienza moderna è stata indotta alla
stessa conclusione. Ma il Sankhya spiega ciò che la scienza moderna lascia
nell'oscurità, ossia il processo per cui ciò che è meccanico e incosciente
assume l'apparenza di coscienza. A causa del riflettersi di Prakriti in Purusha
la luce della coscienza dell'Anima viene attribuita alle operazioni
dell'energia meccanica; avviene che il Purusha, osservando la Natura come
testimone, dimentica sé stesso, cade nell'illusione (generata nella natura) e
crede di essere lui a pensare, a sentire, a volere, ad agire, mentre in realtà
le operazioni di pensiero, di senso, di volontà e di azione sono sempre
effettuate dalla Natura e dai suoi tre modi, e mai completamente da lui.
Sbarazzarsi di quest'illusione è il primo passo verso la liberazione dell'Anima
dalla Natura e dalle sue opere.
Ci
sono certo moltissime cose della nostra esistenza che il Sànkhya non chiarisce;
ma se ciò di cui abbiamo bisogno è una spiegazione razionale dei processi
cosmici nei loro principi, che serva di base per il grande obiettivo comune a
tutta la filosofia antica - la liberazione dell'anima dalla soggezione alla
natura cosmica - allora la spiegazione del mondo e la via di liberazione
proposte dal Sànkhya sembrano valide ed efficaci come ogni altro sistema del
genere. Ciò che in un primo momento non riusciamo ad afferrare è la ragione per
cui il Sànkhya introduce nel suo dualismo un elemento di pluralismo, affermando
l'esistenza dì una Prakriti da un lato e di molti Purusha dall'altro.
L'esistenza di una Prakriti e di un Purusha potrebbe sembrare sufficiente a
spiegare la creazione dell'universo e la sua evoluzione; tuttavia il Sankhya
era obbligato, dalla sua osservazione rigorosamente analitica dei principi
delle cose, a sfociare nel pluralismo. Innanzi tutto, sta di fatto che nel
mondo ci sono molti esseri coscienti, e che ognuno ha dello stesso mondo una
visione propria, un'esperienza indipendente dalla realtà sia oggettiva che
soggettiva; ognuno è in differente rapporto con gli stessi processi di
percezione e di reazione. Se ci fosse soltanto un unico Purusha, quest'indipendenza
e questa separatività centrali non esisterebbero: tutti vedrebbero il mondo in
modo identico, con un'oggettività e una soggettività che sarebbero comuni.
Siccome Prakriti è una, tutti sono di fronte allo stesso mondo; siccome i suoi
principi sono sempre gli stessi, i principi generali che costituiscono
l'esperienza interna ed esterna sono uguali per tutti; quindi le infinite
differenze di visione, di prospettiva e di atteggiamento, di azione, di
esperienza e di evasione dall'esperienza - differenze non delle operazioni
naturali che sono le stesse, ma della coscienza testimone che osserva - sono
assolutamente inspiegabili se non si presuppone la molteplicità dei testimoni,
l'esistenza, cioè, di molti Purusha. In questo senso, un pluralismo di Anime è
la logica necessità per un puro sistema Sànkhya, una volta che questo abbia
divorziato dagli elementi vedantini della conoscenza antica, da cui era
originariamente derivato. Con la relazione tra un Purusha e una Prakriti si
possono spiegare il cosmo e i suoi processi, ma non la molteplicità degli
esseri coscienti nel cosmo.
C'è
un'altra difficoltà, anch'essa molto grave. Questa filosofia, come le altre, si
propone per meta la liberazione. E la liberazione si effettua quando il Purusha
ritira il suo assenso alle attività di Prakriti, attività che Prakriti svolge
per il piacere del Purusha. Ma, in fondo, questo è soltanto un modo di dire. Il
Purusha è passivo, e l'atto di dare o di ritirare l'assenso non può in realtà
appartenergli, dev'essere un movimento della Prakriti stessa. Se esaminiamo
attentamente il problema, vedremo che questo movimento, nei limiti in cui è
un'operazione, consiste in un rovesciamento o in un ripiegamento del principio
di buddhi, la volontà discriminatrice. Buddhi si è prestata alle percezioni
della mente sensoria; si è dedicata a discriminare e a coordinare le operazioni
dell'Energia cosmica, identificando, con l'aiuto del senso dell'ego, il Purusha
testimone con le attività di Prakriti - pensiero, sensazione, azione. Mediante
il processo di discriminazione, buddhi giunge alla chiara percezione che questa
identificazione è un'illusione; essa distingue infine il Purusha dalla Prakriti
e si rende conto della confusione provocata dalla rottura dell'equilibrio dei
guna. Buddhi, intelligenza e volontà al tempo stesso, ripiega di fronte alla
menzogna che aveva fino allora sostenuto, e il Purusha, cessando d'esser
legato, non si associa più all'interesse che la mente presta al gioco cosmico.
Il risultato finale sarà questo: Prakriti perderà il potere di riflettersi nel
Purusha, poiché il senso dell'ego non avrà più alcun effetto, e la volontà
intelligente, trasformandosi in indifferenza, cesserà d'essere il mezzo della
sua sanzione: necessariamente, quindi, i tre guna dovranno cadere in uno stato
d'equilibrio, il gioco cosmico dovrà cessare e il Purusha ritornare nella sua
immobile quiete. Ma se esistesse soltanto un Purusha, l'universo intero
cesserebbe d'esistere non appena si verificasse quel ripiegamento del principio
discriminatore di fronte all'illusione. Stando a quanto vediamo, nulla di tutto
ciò succede. Pochi esseri - tra gli innumerevoli milioni di esistenze -
giungono alla liberazione o vi si avvicinano; gli altri non ne sono minimamente
toccati, e la natura cosmica, nel suo gioco con gli esseri, non è assolutamente
disturbata da quel rifiuto sommario che dovrebbe rappresentare la fine di tutte
le sue attività. Solo la teoria dei Purusha molteplici e indipendenti può
spiegare questo fatto.
La
Gita parte dalla stessa analisi e sembra in un primo momento accettarla
pienamente, persino quando espone il suo Yoga. Essa accetta la Prakriti, i suoi
tre guna e i suoi ventiquattro tattva; accetta la molteplicità degli esseri
coscienti nel cosmo; accetta, come mezzi di liberazione, la dissoluzione del
senso identificatore dell'ego (ahankara), l'azione discriminante della volontà
intelligente e la trascendenza di là dall'azione dei tre guna. Lo yoga, che sin
dall'inizio Krishna chiede ad Arjuna di praticare, è lo yoga di buddhi, lo yoga
della volontà intelligente. Vi è però una divergenza, di importanza capitale:
il Purusha è considerato unico, e non molteplice. Se si eccettua questa
differenza. il Sé della Gita, libero, immateriale, immobile, eterno,
immutabile, è una descrizione vedantina del Purusha del Sànkhya, eterno,
passivo, immobile, immutabile. Ma questa differenza capitale - che ci sia un
solo Purusha e non molti - risolleva tutte le difficoltà evitate dal Sànkhya e
richiede una nuova e diversa soluzione. La Gita fornisce questa soluzione immettendo
nel suo Sànkhya vedantino le idee e i principi dello Yoga vedantino.
Il
primo elemento importante lo troviamo già nella concezione del Purusha.
Prakriti svolge le sue attività per il piacere del Purusha; ma questo piacere,
da che cosa è determinato? Secondo la rigorosa analisi del Sànkhya, soltanto da
un assenso passivo del Testimone silente. Passivamente questi acconsente
all'azione della volontà intelligente e del senso dell'ego, passivamente
acconsente che questa volontà si ritiri dal senso dell'ego. È il Testimone,
l'origine dell' assenso, quello che riflette le opere della Natura, e così
facendo le sostiene. (Questa è la posizione del Sànkhya). Il Purusha della Gita,
invece, è il Signore della Natura; è l'Ishvara. Se l'attiva volontà intelligente
appartiene alla Natura, l'origine e il potere della volontà procedono dal
Purusha, dall'Anima cosciente, dal Signore della Natura. Il Purusha non è
soltanto il Testimone, ma è il Signore della conoscenza e della volontà, la
causa suprema dell'azione di Prakriti, la causa anche del suo ritiro
dall'azione. Secondo l'analisi del Sànkhya, Purusha e Prakriti, nel loro
dualismo, sono la causa dell'universo; secondo il Sànkhya sintetico della Gita,
il Purusha, per mezzo della sua Prakriti, è la causa del cosmo. Ci rendiamo
subito conto di quanto siamo lontani dal rigido purismo dell'analisi
tradizionale.
Ma
che dire di quel Sé unico, immutabile, eternamente libero, che costituiva il
punto di partenza della Gita? Esso è libero da ogni cambiamento e non è implicato
nel cambiamento; è il non-nato, il non-manifestato, il Brahman; eppure è "quello da cui tutto questo (mondo) è diffuso".
Parrebbe quindi che il principio dell'Ishvara appartenga all'essere stesso del
Sé: il Sé è immobile ed è tuttavia la causa e il signore di ogni azione e di
ogni movimento. Ma come? E che dire della molteplicità degli esseri coscienti
nel cosmo? Questi non sembrano esserne i signori (isha), ma ben piuttosto i non-signori (an-isha), poiché sono sottomessi all'azione dei tre guna e all'illusione
del senso dell'ego. Se quindi, come sembra affermare la Gita, questi sono tutti
l'unico Sé, da dove proviene la loro involuzione, la soggezione e l'illusione?
Come si può spiegare tutto ciò, se non affermando la pura passività del
Purusha? E inoltre, da dove proviene la molteplicità? E com'è possibile che il
Sé unico raggiunga la liberazione in un corpo e in una mente, pur rimanendo in
altri corpi e in altre menti nell'illusione e nella schiavitù? Sono queste
difficoltà che non si possono lasciare senza soluzione.
La
Gita trova la risposta, nei canti che seguono, attraverso un'analisi del
Purusha e della Prakriti, che introduce nuovi elementi, propri di uno Yoga
vedantino, ma estranei al Sànkhya tradizionale. Essa parla dei tre Purusha, o
piuttosto dei tre stati del Purusha. Le Upanishad, quando trattano le verità
del Sànkhya, sembrano talvolta parlare di due Purusha. Vi è un non-nato dai tre
colori, dice un testo, l'eterno principio femminile di Prakriti, con i suoi tre
guna, che crea incessantemente; vi sono due non-nati, due Purusha, di cui uno
aderisce a Prakriti e trova in essa la propria gioia, mentre l'altro
l'abbandona poiché ha già provato tutte le gioie ch'essa poteva dargli. Un
altro versetto li descrive come due uccelli sullo stesso albero, compagni
eternamente accoppiati; uno mangia i frutti dell'albero - il Purusha nella
Natura, che trova la gioia nel cosmo - l'altro non mangia, ma - Testimone
silenzioso, staccato dalle gioie della natura - osserva il suo compagno; quando
il primo vede il secondo e scopre che tutto è la sua grandezza, allora è
liberato dalla sofferenza. I due versetti differiscono per quanto riguarda il
punto di vista, ma hanno un significato comune. Uno degli uccelli è il Sé, il
Purusha, eternamente non-legato, silente, "quello da cui tutto questo è
diffuso"; egli guarda il cosmo che ha diffuso, ma resta in disparte;
l'altro è il Purusha implicato nella Prakriti. Il primo versetto indica che i
due sono lo stesso uccello, e rappresentano due stati differenti - asservimento
e liberazione - dello stesso essere cosciente: il secondo Non-nato infatti
scende sino al piacere della Natura per poi ritirarsene. Il secondo versetto
mette in risalto ciò che non era possibile trovare nel primo, e cioè che nel
suo superiore stato di unità, il Sé è libero da sempre, inattivo, privo di
attaccamento, benché nel suo essere inferiore scenda sino alla molteplicità
delle creature di Prakriti, per poi ritirarsi e, attraverso qualche Creatura
individuale, ritornare allo stato superiore. Questa teoria del doppio stato
dell'Anima cosciente unica apre uno spiraglio; tuttavia il processo della
molteplicità dell'Uno è ancora oscuro.
A
questi due stati, la Gita, sviluppando il pensiero racchiuso in altri passaggi
delle Upanishad[30], ne aggiunge ancora uno, il
supremo, il Purushottama, il più alto
Purusha, la cui grandezza è tutta la creazione. Vi sono quindi tre stati: lo kshara, l'akshara, l'uttama. Lo
kshara, il mobile, il mutevole, è la Natura, svabhava, il multiforme divenire dell'Anima; il Purusha in questo
stato è la molteplicità dell'Essere divino, è il molteplice Purusha, non
separato da Prakriti, ma in essa. L'akshara, l'immobile, l'immutabile, è il Sé
silente e inattivo, l'unità dell'Essere divino, Testimone della Natura, ma non
implicato nel suo movimento; è il Purusha inattivo, libero da Prakriti e dalle
sue opere. L'uttama è il Signore, il Brahman supremo, il Sé supremo che
possiede al tempo stesso l'unità immobile e la mutevole molteplicità.
Attraverso una vasta mobilità, una vasta azione della sua natura, della sua
energia, della sua volontà e del suo potere, Egli si manifesta nel mondo;
attraverso una più grande calma, una più grande immobilità del suo essere, Egli
sta in disparte dal mondo; in quanto Purushottama, egli domina al tempo stesso la
separazione dalla Natura e l'attaccamento alla Natura. Il concetto di Purushottama, benché costantemente
implicito nelle Upanishad, se ne stacca per trovare nella Gita un'espressione
ben definita; esso eserciterà un forte influsso sugli ulteriori sviluppi della
coscienza religiosa indiana. Su di esso si basa la più elevata corrente del
bhakti yoga, che sostiene d'essere il superamento delle rigide definizioni
della filosofia monista, e che sta alle spalle della filosofia di devozione dei
Purana.
La
Gita inoltre non si accontenta di restare nei limiti dell'analisi che il
Sànkhya fa di Prakriti; quest'analisi infatti comprende soltanto il senso
dell'ego e non il Purusha molteplice, il quale appunto non vi figura come parte
di Prakriti, ma separato da essa. La Gita invece afferma che, per mezzo della
Sua natura, il Signore diventa il jiva.
Come può essere possibile, dal momento che esistono soltanto i ventiquattro
principi dell'energia cosmica e null'altro? Il divino Maestro è sostanzialmente
d'accordo con la teoria del Sànkhya: egli riconosce che essa dà una spiegazione
perfettamente valida delle operazioni apparenti della Prakriti cosmica e dei
suoi tre guna, e che la relazione da essa attribuita al Purusha e alla Prakriti
è altrettanto valida e di grande utilità ai fini pratici dell'implicazione e
del ritiro. Ma il Sànkhya tratta soltanto della Prakriti inferiore dei tre
guna, della Natura incosciente, apparente; esiste però una Natura più alta,
suprema, cosciente e divina, che è diventata l'anima cosciente, il jiva. Nella Natura inferiore, ogni
essere appare come ego; in quella superiore, ogni essere è il Purusha
individuale. In altri termini, la molteplicità fa parte della Natura spirituale
dell'Uno, "Quest'anima individuale",
dice il Supremo per bocca del suo Avatàr, "è
Me stesso; essa è nella creazione una manifestazione parziale di Me - mamaiva
anshah[31] - e possiede tutti i
miei poteri: essa è il testimone, essa dà la sanzione, sostiene, conosce,
dirige. Essa scende nella Natura inferiore e si crede legata all'azione, per
poter così gioire dell'essere inferiore, ritirarsi e riconoscersi come il
Purusha passivo libero da ogni azione. Essa può elevarsi sopra i tre guna e,
liberata dal legame dell'azione, possedere tuttavia l'azione, come faccio Io
stesso; essa può gioire pienamente della sua natura divina adorando il
Purushottama e giungendo all'unione con Lui."
Questa
è l'analisi su cui la Gita fonda le sue sintesi, quella del Vedanta, del
Sankhya e dello Yoga, e quella della conoscenza, dell'azione e della devozione.
È un'analisi che non si limita ai processi cosmici apparenti, ma penetra negli
occulti segreti della Natura ultra-cosciente, uttamam rahasyam. Per il Sankhya puro e semplice, combinare le
opere con la liberazione è contraddittorio e impossibile. Per il monismo puro e
semplice, continuare le opere come parte dello yoga e indulgere nella devozione
una volta raggiunta la liberazione, l'unione e la conoscenza perfette, diventa
qualcosa d'impossibile, o per lo meno d'irrazionale e d'inutile. La conoscenza
che la Gita ha elaborato dal sistema Sànkhya, unitamente al suo sistema di
Yoga, dissipano tutte queste contraddizioni e trionfano di tutti questi
ostacoli.
Dhritarshtra[32] disse:
1. A Kurukshetra[33], sul campo [del
compimento] del dharma[34] cosa fanno, o
Sanjaya, riuniti, avidi di combattimento, il mio popolo[35] e i Pàndava[36]
La
particolarità della Gita, fra le grandi opere religiose del mondo, e di non
essere un'opera isolata, il frutto della vita spirituale di una personalità
creatrice — come il Cristo, Maometto e il Buddha — o quello di un'epoca di
ricerca spirituale come lo sono i Veda o le Upanishad. È un episodio della
storia epica delle nazioni, delle loro guerre, degli uomini e dei loro fatti
d'armi; il suo insegnamento è dato nell'occasione di una crisi che attraversa
l'anima di uno dei suoi principali personaggi alle prese con l'azione che
corona la sua vita — azione terribile, violenta e sanguinaria — nel momento in
cui doveva, o indietreggiare davanti all'atto o eseguirlo inesorabilmente fino
in fondo. L'insegnamento della Gita non deve quindi essere considerato
solamente alla luce di una filosofia spirituale o di una dottrina morale
generali, ma anche alla luce di una crisi pratica nell'applicazione dell'etica
e della spiritualità alla vita umana.
Si
potrebbe tradurre simbolicamente l'espressione "campo del compimento del
dharma" con "campo dell'azione umana, che è quello dell'evoluzione
del dharma". La Gita inquadra uno dei periodi di transizione e di crisi
che l'umanità deve periodicamente attraversare nel corso della sua storia, dove
grandi forze si urtano in gigantesche distruzioni e ricostruzioni,
intellettuali, sociali, morali, religiose e politiche; e queste crisi,
all'attuale stato psicologico e sociale dell'evoluzione umana, culminano
generalmente in una violenta convulsione fisica: lotte, guerre e rivoluzioni.
La Gita ammette la necessità nella natura di queste veementi crisi; non ne
accetta solamente l'aspetto morale, la lotta tra il giusto e l'ingiusto, tra la
legge del bene che si afferma e le forze che si oppongono a questo progredire,
ma anche l'aspetto materiale, la vera guerra in armi o qualsiasi altra lotta
fisica violenta tra gli esseri umani che rappresentano le forze in conflitto.
Un giorno verrà, e noi diremo anche, un giorno deve certamente venire, in cui
l'umanità sarà pronta spiritualmente, moralmente e socialmente per il regno
della pace universale; in attesa di questo giorno, le religioni e le filosofie
pratiche devono constatare e spiegare l'aspetto di lotta, come pure la natura e
la funzione dell'uomo nella sua qualifica di combattente. La Gita, prendendo la
vita tale e quale è, e non come potrebbe essere in un lontano avvenire, si
chiede in che modo quest'aspetto, questa funzione della vita, che sono
realmente un aspetto e una funzione dell' attività umana in generale, possano
armonizzarsi con l'esistenza spirituale.
Sanjaya disse:
2. Alla vista dell'esercito dei
Pandava, spiegato in ordine di battaglia, Duryodhana[37], il re, si avvicinò
al suo maestro[38]
e gli tenne questo discorso:
3. "Contempla, o Achàrya[39], il potente esercito
dei figli di Pàndu, raccolto dal figlio di Drupada[40], tuo intelligente
discepolo.
4-6. "Vedi, in questo potoente
esercito [ci sono] eroi e grandi arcieri che, nella battaglia, rivaleggiano con
Bhima[41] e Arjuna: Yuyudhàna,
Viràta e Drupada dal grande carro, Dhrishtaketu, Chekitàna e il valoroso
principe di Kàshi[42], Purujit e
Kuntibhoja, e Shaibya, grande fra tutti gli uomini, Yudhàmanyu il forte e
Uttamaujà, il vittorioso, il figlio di Subhadrà[43] e i figli di
Draupadi, tutti grandi guerrieri!
7. "Conosci, o Migliore fra i
due-volte nati[44],
coloro che dalla nostra parte si distinguono, i capi del mio esercito; te li
menzionerò per nome affinché tu impari a conoscerli.
8-9. "Tu stesso e Bhishma[45] e Karna[46] e Kripa[47], vittoriosi nelle
battaglie, Ashvatthàmà[48], Vikarna e
Saumadatti, ed altri numerosi eroi, pronti per me a rinunciare alla vita. Sono
tutti ben provvisti di armi e proiettili, tutti esperti nell'arte della guerra.
10. "Senza limiti è il nostro
esercito di cui Bhishma è il condottiero, mentre il loro, condotto da Bhima,
[benché grande] è limitato.
11. "Perciò, voi tutti, che vi
tenete al vostro posto di combattimento, proteggete come prima cosa
Bhishma!"
12. Allora il valoroso avo, il
vecchio Kaurava[49],
per animare il cuore di Duryodhana, ruggì come un leone con voce poderosa e
dette fiato alla sua conchiglia[50].
13. Allora, conchiglie e timpani,
corni, tamburi risuonarono d'un tratto e il clamore divenne immenso.
14. In piedi, sul grande carro
trainato da cavalli bianchi, Màdhava[51] e il figlio di Pàndu[52] dettero fiato alle
loro conchiglie divine.
Arjuna
è il combattente e il divino Krishna il conduttore del carro di combattimento.
Per spiegare la Gita, esiste un metodo secondo il quale, non solamente questo
episodio, ma l'intero Mahàbhàrata vengono trasformati in un'allegoria della
vita interiore, non riferendosi più alla nostra vita e alle nostre azioni
esteriori, ma soltanto alla battaglia dell'anima e delle forze che si contendono
la supremazia su di noi. È un concetto non convalidato né dal carattere
generale, né dallo stesso linguaggio del poema epico; spinta, quest'idea, fino
alle sue più estreme conclusioni logiche, trasformerebbe il linguaggio
filosofico diretto della Gita in una mistificazione costante, laboriosa ed
anche un po' puerile. Il linguaggio dei Veda, e perlomeno di una parte dei
Puràna, è nettamente simbolico, pieno d'immagini e di rappresentazioni concrete
di ciò che è dietro il velo. La Gita è invece scritta in termini chiari e
pretende risolvere le grandi difficoltà etiche che si sollevano nella vita
dell'uomo; non conviene quindi ricercare un senso nascosto a questo pensiero e
a questo linguaggio diretto, né torturarli per metterli al servizio della nostra
fantasia. Però tali concetti racchiudono una parte di verità, in quanto il
quadro in cui la dottrina viene esposta, senza essere simbolico, è certamente
tipico — e il quadro di un discorso come quello espresso dalla Gita deve
necessariamente esserlo, se deve avere un qualche rapporto con ciò che
racchiude.
Esistono
in verità, nella Gita, tre elementi che sono, sotto il punto di vista
spirituale, significativi, quasi simbolici, tipici dei rapporti e dei problemi
più profondi della vita spirituale e dell'esistenza umana fino nelle sue più
profonde radici. Questi tre elementi sono rappresentati dalla persona divina
del Maestro, dalle relazioni caratteristiche col suo discepolo e dalle
circostanze in cui l'insegnamento si svolge. Il Maestro è lo stesso Dio sceso
tra gli umani, il discepolo è il primo o, come oggi diremmo, l'uomo più
rappresentativo della sua epoca, amico intimo dell'Avatàr e suo strumento
d'elezione, il suo protagonista nell'opera immensa e nell'immensa lotta di cui
lo scopo segreto, ignorato dagli stessi protagonisti, è noto solamente al Dio
incarnato che dirige tutto da dietro il velo della sua insondabile conoscenza;
l'occasione è una crisi violenta, nel momento in cui l'angoscia e la difficoltà
morale, la violenza cieca dei moti apparenti di quest'opera e di questa lotta
s'impongono allo spirito dell' uomo rappresentativo con l'urto di una
rivelazione tangibile, e sollevano l'intero problema del senso di Dio nel
mondo, dei fini, della tendenza e del significato della vita e della condotta umane.
15-16. Hrishikesha[53] dette fiato alla sua
Panchajanya[54]
e Dhananjaya[55]
alla sua Devadatta; Vrikodara[56], dalle imprese
terrificanti, soffiò nella grande conchiglia Paundra; il re Yudhishthira,
figlio di Kunti, fece risuonare Anantavijaya; Nakula e Sahadeva, Sughosha e
Manipushpaka.
17-18. E il re di Kàshi dal grande
arco e Shikhandi dal grande carro, Dhrishtadyumna e Viràta, e Sàtyaki
l'invitto, Drupada e i figli di Draupadi tutti insieme, o Signore della terra,
e il figlio di Subhadrà, dalle forti braccia, fecero risuonare le loro
conchiglie da tutte le parti.
19. Il fragoroso tumulto che
rimbombava fra la terra e il cielo fece fremere il cuore dei figli di
Dhritaràshtra.
20. Allora, vedendo i figli di
Dhritaràshtra allineati in ordine di battaglia, e i proiettili che già
solcavano il cielo, il figlio di Pàndu, che aveva per insegna una scimmia[57], afferrò il suo arco,
o Signore della terra, e disse queste parole a Hrishikesha.
Il
cameratismo simbolico fra Arjuna e Krishna, fra l'anima umana e l'anima divina,
si ritrova spesso nella letteratura religiosa indiana: nel viaggio al cielo di
Indra e Kutsa seduti sullo stesso carro, nell' immagine dei due uccelli sullo
stesso albero data dall'Upanishad, nei due personaggi gemelli Nara e Nàràyana,
i `veggenti' che si dedicano insieme alla tapasyà per acquistare conoscenza. Ma
nei tre casi, ciò che è messo in evidenza è l'idea della conoscenza divina in
cui, come dice la Gita, culminano tutte le azioni; qui, al contrario, è
l'azione che conduce a questa conoscenza, e a questa azione prende
personalmente parte il divino Conoscitore. Arjuna e Krishna, l'umano e il
divino, si trovano riuniti non come dei profeti in un tranquillo eremo
consacrato alla meditazione, ma l'uno come combattente e l'altro tenendo le
redini del carro da guerra, in un campo di battaglia pieno di clamori e in
mezzo a una nube di frecce. Il Maestro della Gita non è soltanto il Dio
nell'uomo che si rivela attraverso le parole di conoscenza, ma anche il Dio
nell'uomo che fa muovere tutto il nostro mondo d'azione, mediante il quale e
grazie al quale tutta l'umanità esiste, lotta e soffre, e verso cui tutta
l'umanità si muove e progredisce. È il Segreto Signore delle opere e del
sacrificio e l'Amico dei popoli.
Arjuna disse:
21-23. "O Achyuta[58], arresta il carro fra
i due eserciti in modo che io possa vedere questi uomini impazienti di battersi
e che devo affrontare in combattimento. Voglio contemplare coloro che sono qui
raccolti per difendere la causa del perverso figlio[59] di
Dhritaràshtra."
La
Gita inizia con l'azione, e Arjuna è l'uomo d'azione e non di conoscenza. Un
tratto essenziale dell'uomo prammatico è quello di svegliarsi ai sensi
dell'azione che deve compiere attraverso le sue stesse sensazioni. Ha richiesto
al suo amico e conduttore del carro d'arrestarsi fra i due eserciti, non a
motivo di un profondo pensiero, ma soltanto per il desiderio orgoglioso di
guardare in faccia le miriadi di campioni dell'ingiustizia che deve combattere,
vincere e massacrare "in una festa di combattimento", per il trionfo
del diritto. Questo spettacolo gli rivela il senso di una guerra civile e
familiare, guerra in cui gli uomini, non solamente di una stessa razza, di una
stessa nazione, di uno stesso clan, ma di una stessa famiglia, di uno stesso
lare, si affrontano in campi opposti. Tutti coloro che l'uomo sociale considera
i più cari, i più sacri, deve affrontarli come nemici e massacrarli; tutti
questi legami sociali devono essere tagliati con la spada. Non che fino a quel
momento l'avesse ignorato, ma non era mai stato messo di fronte all'evidenza di
ciò.
Ossessionato
dalle sue prerogative di casta, dalle ingiustizie che ha dovuto subire, dai
principi della sua vita — la lotta per il il diritto è il dovere dello
kshatriya, difensore della giustizia e della legge — non aveva riflettuto
profondamente, non l'aveva sentito nel suo cuore come l'essenza stessa della
sua vita. Ed ecco che il divino Auriga glielo rivela, lo situa in modo
sensazionale davanti ai suoi occhi, colpendolo fortemente al centro stesso del
suo essere sensitivo, vitale ed emotivo.
Sanjaya disse:
24-25. Interpellato così da Gudàkesha[60], Hrishikesha arrestò
il migliore dei carri fra i due eserciti, o Bhàrata[61], di fronte a Bhishma,
a Drona e a tutti i principi della terra e disse: "Contempla, o figlio di
Prithà[62], i Kuru, tutti qui
riuniti."
26. Allora
il figlio di Prithà vide nelle opposte fazioni, zii, nonni, maestri, cugini,
figli e nipoti, suoceri, amici e benefattori.
27. Vedendo
tutti quei parenti spiegati per la battaglia, invaso da una grande compassione,
disse turbato queste parole.
Arjuna disse:
28-29. "O Krishna, vedendo la
mia gente così disposta per il combattimento, le mie membra vengono meno, la
bocca diviene secca, il mio corpo trema e i capelli mi si rizzano sulla testa;
Gàndiva[63] mi sfugge di mano e
la mia pelle sembra ardere.
30. "Non posso reggermi in
piedi, il mio spirito vacilla e ho presagi funesti, o Keshava[64].
31. "A che pro uccidere i miei
nella battaglia, o Keshava? Non desidero né vittoria, né regno, né piaceri.
32. "Cos'è per noi un regno, o
Govinda[65]? Cosa i piaceri e la
stessa vita?
Arjuna
è l'uomo abituato a muoversi con fiducia attraverso le vicissitudini e le
difficoltà della vita e che, a un certo momento, scopre che tutti i suoi
principi non servono a nulla, si sente senza una base e persino privo di
fiducia in sé stesso e nella vita.
Il
primo effetto è una violenta crisi dell'anima e del corpo che trascina dietro
di sé il disgusto per l'azione, per i moventi che la determinano e per la vita
stessa. Arjuna respinge lo scopo di vita perseguito dall'umanità egoista: la
felicità e la gioia; respinge la ragione di vita dello kshatriya: vittoria,
autorità, potere, dominio sugli uomini. Che cos'è, dopo tutto, la lotta per la
giustizia, una volta ridotta alla sua espressione pratica, se non semplicemente
la lotta per i propri interessi, per gli interessi dei propri fratelli, del
proprio partito o per il possesso, la gioia e il potere? Ma a questo prezzo non
vale la pena di lottare, poiché in loro stessi non hanno valore; valgono per
mantenere l'equilibrio della vita sociale e nazionale che, dopo tutto, è
proprio ciò che rimarrebbe distrutto distruggendo la famiglia e la razza.
Allora viene la crisi delle emozioni.
33-35. "Coloro per cui
desideriamo regni, terre e piaceri, eccoli qui davanti a noi, avendo
abbandonato vita e ricchezze — maestri, padri e figli, ed anche nonni, zii e
suoceri; nipoti, cognati ed altri parenti e amici. Non desidero ucciderli,
anche se essi dovessero uccidermi, o Madhusùdana[66], e questo neppure per
il regno dei tre mondi[67] — ancor meno quindi
per regnare sulla terra!
36. "Dopo aver ucciso i figli di
Dhritaràshtra, quale piacere potremmo avere ancora dalla vita, o Janàrdana[68]? Uccidendoli,
soltanto il peccato si attaccherebbe a noi, anche se sono uomini versati al
male.
Tutto
ciò è peccato spaventoso; ecco che il senso morale si sveglia per giustificare
la rivolta delle sensazioni e delle emozioni. Non c'è nulla che possa
giustificare questo massacro, né il diritto, né la giustizia, e meno ancora quando
si tratta di uccidere coloro che sono il naturale oggetto della nostra
venerazione e del nostro amore, coloro la cui morte toglierebbe ogni attrazione
alla nostra vita. Violare questi sacri sentimenti non può essere virtù, non può
essere che crimine odioso. È chiaro che l'offesa, l'aggressione, il primo
peccato, i delitti di cupidigia e di passione egoistica che hanno provocato la
crisi, provengono dai nostri avversari; tuttavia la resistenza armata al male,
in queste condizioni, sarebbe essa stessa un peccato e un delitto peggiore del
loro, in quanto il partito avverso è accecato dalla passione ed incosciente del
suo errore, mentre noi, da questa parte, peccheremmo con chiaro senso di
colpevolezza. E per quale scopo poi? Per difendere la morale familiare, la
legge sociale e nazionale? Ma sono proprio quei valori che la guerra civile
distruggerebbe.
37. "Non è cosa degna uccidere i
figli di Dhritaràshtra, nostri parenti. In verità, come potremmo esser felici,
o Màdhava, dopo aver ucciso la nostra propria famiglia?
38-39. "Anche se loro, accecati
dalla cupidigia, non vedono nessun male a distruggere la famiglia, nessun
peccato a combattere gli amici, perché noi non dovremmo avere la saggezza di
ritrarci davanti un peccato cosi grande, o Janàrdana, noi che vediamo nella
distruzione della famiglia tutto il male possibile?
40. "La distruzione della
famiglia causa la rovina delle tradizioni eterne[69]; con il crollo delle
tradizioni, il disprezzo dei doveri[70] sottomette la
famiglia tutta intera.
41. "Quando domina il disprezzo
dei doveri, o Krishna, le donne della famiglia si corrompono; la corruzione
delle donne, o Discendente dei Vrishni[71], determina la
confusione delle caste[72].
42. "Questa confusione vale
l'inferno[73]
per i distruttori della famiglia e per la famiglia stessa; soccombono anche gli
spiriti degli antenati, privati d'offerte e di libagioni[74].
43-44. "Questi misfatti,
compiuti dai distruttori della famiglia, conducono alla confusione delle caste;
le eterne leggi della razza[75] e la legge morale
della famiglia vengono così infrante. E gli uomini, dalle tradizioni familiari
corrotte, sono inevitabilmente votati all'inferno, o Janàrdana. Così ci è stato
detto.
45. "In verità, un gran peccato
stavamo per commettere, noi che cercavamo di massacrare la nostra gente per la
brama dei piaceri di un regno.
46. "È meglio per me che i figli
di Dhritaràshtra mi uccidano nella battaglia, disarmato e senza
resistere."
Sanjaya disse:
47. Avendo così parlato sul campo di
battaglia, Arjuna, con l'animo angosciato, si accasciò sul sedile del carro,
lasciando cadere l'arco divino e la faretra inesauribile[76].
Anche
se Arjuna non è preoccupato che della propria situazione, della propria lotta
interiore e della legge d'azione che è obbligato a seguire, il problema da lui
posto — come lo pone — solleva in realtà tutto il problema della vita e
dell'azione umana: che cos'è il mondo, perché esiste, com'è possibile, essendo
il mondo quello che è, conciliare la vita nel mondo con la vita nello spirito.
Questo problema, profondo e difficile, viene affrontato da Krishna per farne la
base stessa del suo comandamento per un'azione che deve provenire da un nuovo
equilibrio dell'essere, alla luce della conoscenza liberatrice. Qual è dunque
la difficoltà per l'uomo che deve accettare il mondo così com'è, che in questo
mondo deve agire, ma che vorrebbe vivere nel proprio intimo la vita spirituale?
Qual è dunque l'aspetto dell' esistenza che terrorizza la sua mente e causa ciò
che il primo canto della Gita indica con un nome quanto mai significativo, “Lo
yoga dello sgomento di Arjuna”, quando la disperazione e lo scoraggiamento sono
sofferti dall'essere umano. costretto a guardare in faccia lo spettacolo
dell'universo nella sua cruda realtà, quando il velo dell'illusione etica,
dell'illusione di rappresentare la giustizia, è stato strappato dai suoi occhi,
prima che non sia arrivato ad una riconciliazione superiore con sé stesso?
È
l'aspetto che raffigura, esteriormente, la carneficina di Kurukshetra e,
spiritualmente, la visione del Signore di tutte le cose come Tempo — il Tempo
che si erge per divorare e distruggere gli esseri da lui stesso creati.
L'aspetto esteriore è l'esistenza del mondo e l'esistenza umana che avanzano
attraverso lotta e stragi; l'aspetto interiore è l'Essere universale che
realizza sé stesso in una vasta creazione e in una vasta distruzione.
La
vita come battaglia e campo di morte come lo è Kurukshetra; Dio, il Terribile,
è la visione di Arjuna sul campo del massacro.
Noi
dobbiamo accettare Kurukshetra, dobbiamo sottometterci alla legge della vita e
della morte prima di poter rintracciare il cammino della vita immortale;
dobbiamo aprire gli occhi, con uno sguardo meno atterrito di quello di Arjuna,
alla visione del Signore del Tempo e della Morte, cessare di negare, di odiare
e di sfuggire l'universale Distruttore.
CANTO
II
[a] LA FEDE DEL GUERRIERO ARIANO
Sanjaya disse:
1. Ad Arjuna, invaso da un sentimento di pietà, con gli
occhi pieni di lacrime e affranto dallo scoraggia-mento, Madhusùdana rivolse
queste parole.
Il Beato Signore disse:
2. "Da dove viene questa tua debolezza nel momento
della difficoltà? Essa è indegna di un Ariano, non viene dal cielo, o
Arjuna, e non conduce alla gloria.
Le parole di Krishna lasciano
intravedere la vera natura di ciò che ha privato Arjuna delle sue qualità
eroiche. Avremmo potuto credere che il divino Maestro incoraggiasse il suo
discepolo alla bontà, alla santità, all'abnegazione e a separarsi dalle vie del
mondo. A questo irrompere dell'appassionato esame di coscienza di Arjuna, della
sua avversione per l'imminente massacro, al sentimento di dolore e di peccato,
a questo suo tormento davanti ad una vita vuota e desolata, al presentimento
dei cattivi risultati di un'azione malvagia, il Maestro risponde con severo
biasimo. Ci troviamo forse davanti ad un vangelo di guerra e d'eroismo, ad una
fede nella potenza e nella forza bruta secondo il credo di Nietzsche, oppure
davanti ad una lezione di durezza ebraica o teutonica che ritiene debolezza la
pietà ed incita l'eroe norvegese a ringraziare Dio di avergli concesso un cuore
duro? No, l'insegnamento della Gita emana dalla fede indiana, e lo spirito
indiano ha sempre situato la compassione fra i più alti valori della natura
divina.
Esiste una divina compassione che
dall'alto scende su di noi, ma per l'uomo la cui natura non possiede questa
compassione, credersi un uomo superiore, un superuomo, è follia e insolenza, in
quanto può esserlo solo colui che manifesta al grado massimo, nell' umanità, la
suprema natura del Divino. Questa compassione vede con amore, saggezza e calma
vigilanza la battaglia e la lotta, la forza e la debolezza dell'uomo, le sue
virtú e i suoi vizi, le sue gioie e le sue sofferenze, la sua scienza e la sua
ignoranza, la sua saggezza e la sua follia, la sua aspirazione e le sue cadute,
e sempre interviene per aiutare e guarire. Nel santo e nel filantropo può
prendere la forma di pienezza d'amore o di carità, e nel pensatore e nell'eroe
assumere l'ampiezza e il potere di una saggezza che soccorre. Nel guerriero
ariano, questa compassione, anima della sua cavalleria, lo spinge ad aiutare il
debole e l'oppresso, il ferito e il vinto. È anche la divina compassione che
rovescia il tiranno e l'oppressore presuntuoso, non con un gesto di collera o
di odio, perché né odio né collera appartengono al Divino, come non gli
appartiene la tortura degli inferni, ma con lo stesso amore per l'asura[77]
messo a morte che per l'infelice oppresso, come l'ha chiaramente compreso
l'antica spiritualità indiana.
Ma non è questa la compassione che spinge
Arjuna a rifiutare il suo dovere e la sua missione. Non è compassione, ma
impotenza e pietà verso sé stesso, un ritrarsi davanti alla sofferenza mentale
che l'azione dovrà imporgli. Per un ariano, la pietà verso sé stesso è il piú
vile dei sentimenti.
3. "Non cedere a questo vile sentimento, o figlio di Pritha,
non è degno di te: scaccia la vergognosa debolezza e sorgi, o Parantapa[78]!"
La pietà di Arjuna per gli altri è
anche una forma di debolezza verso sé stesso; è la ripulsione ispirata
dall'atto di uccidere, l'indietreggiare emotivo ed egoistico del cuore davanti
alla distruzione dei parenti, perché senza di essi la vita non avrebbe più
senso. Quella pietà è una debolezza della mente e dei sensi, debolezza che
potrebbe essere benefica per uomini di un livello inferiore, che, se non
fossero deboli, sarebbero duri e crudeli. Ma non è questo il cammino
dell'ariano evoluto, che deve svilupparsi attraverso una continua ascesa di
forza in forza. Non ad Arjuna appartiene il diritto di deridere quello che farà
o non farà, secondo le sue passioni o le sue emozioni, d'indietreggiare davanti
a una distruzione necessaria invocando il cuore o la sua ragione egoistica, di
rifiutare il compito che gli arrecherà do re e solitudine nella vita, o perché
il risultato terrestre non merita la pena di tanto sacrificio di uomini. Tutto
ciò è venir meno, per debolezza, alla sua più alta natura.
Arjuna disse:
4. "Come potrò io, combattere sul campo di battaglie
trafiggere con frecce Bhishma e Drona, così degni di rispetto e di venerazione,
o Arisudana[79]
5. "Meglio vivere elemosinando che uccidere questi
venerandi maestri. Essi sono i miei maggiori[80];
uccidendoli, godrei piaceri e ricchezze macchiati di sangue.
6. "Non so nemmeno se sia preferibile vincerli od esser
da loro vinti; i figli di Dhritaràshtra sono davanti a noi, schierati in ordine
di battaglia, sono essi che dobbiamo uccidere; ma la loro morte ci farà odiare
la vita.
Arjuna tenta ancora una volta di
giustificare il rifiuto di combattere, mettendo in giuoco tutte le difficoltà
del suo essere inferiore che indietreggia di fronte all'eccidio e alle gioie
macchiate di sangue che ne seguirebbero, ai diritti del cuore che vacilla
davanti al vuoto che i creerebbe nella sua vita, quale risultato anticipato
della sua azione.
Anche le abituali nozioni del codice
morale fanno sentire la loro protesta, facendolo fremere davanti alla necessità
di uccidere Bhishma e Drona, i suoi guru. La sua ragione anche si ribella, la
ragione che non vede che spaventosi risultati, senza nessun vantaggio,
dall'opera terribile e violenta che gli è stata assegnata.
7. "Una debolezza sentimentale ha offuscato la mia vera
:natura; ho perduto il senso del dovere[81].
Io Ti domando: Dimmi con chiarezza quale sia il meglio - dimmelo decisamente.
Sono il Tuo discepolo - Ti prego, istruiscimi, in Te prendo rifugio.
Pur protestando contro l'ordine che
riceve e respingendolo, Arjuna accetta il biasimo. É consapevole della sua
debolezza, ma tuttavia cede ad essa. Riconosce che la pusillanimità l'ha privato
della sua vera ed eroica natura. La sua coscienza è smarrita davanti ai
concetti del bene e del male, e in questo turbamento accetta quale maestro
l'Amico divino.
8. "Davvero non vedo nulla che possa allontanare da me
l'angoscia che offusca i miei sensi, neppure se avessi su questa terra un regno
senza rivali o il dominio sugli dèi[82]."
Sanjaya disse:
9. Avendo così parlato a Hrishikesha[83]
e dopo aver detto a Govinda[84]:
"Non combatterò più", Gudàkesha[85],
il terrore dei nemici, rimase in silenzio.
10. A lui, che vedeva cosi scoraggiato fra i due eserciti,
Hrishikesha, quasi sorridendo, disse queste parole, o Bhàrata[86].
Arjuna ha tentato di giustificare il
suo rifiuto ricorrendo all'etica e alla ragione, riuscendo appena a mascherare
con parole apparentemente ragionevoli il ribellarsi delle emozioni ignoranti e
indisciplinate. Sono le rivendicazioni egoistiche di Arjuna che Krishna
incomincia a distruggere, per far posto alla legge superiore che lo spingerà a
superare i moventi egoistici dell'azione.
Il Beato Signore disse:
11. "Tu piangi su uomini per i quali non ci si deve
affliggere, e tuttavia le tue parole sono quelle della saggezza[87].
I veri saggi non piangono nè per i vivi né per i morti.
Vedremo in seguito che la risposta del
Maestro segue due linee differenti; dapprima una breve replica fondata sulle
più alte idee della civiltà ariana, nella quale Arjuna è stato allevato, poi
una più ampia spiegazione fondata su una conoscenza più intima che favorisce
l'accesso alle profonde verità dell'essere umano. Questo è il vero punto di
partenza dell'insegnamento della Gita, La prima risposta si appoggia sui
concetti filosofici e morali del Vedanta e sulle idee sociali del dovere e
dell'onore che formavano il fondamento etico della società ariana.
12."Mai vi è stato tempo in cui Io non esistessi, né tu
né questi re di uomini; noi tutti mai cesseremo d'essere nell'avvenire.
Il dolore per la morte fisica dei suoi
amici e parenti è un'afflizione che la saggezza e la vera conoscenza della vita
non approvano; l'uomo che sa, non si affligge né per i vivi né per i morti,
perché non ignora che la sofferenza e la morte sono solo semplici incidenti nel
corso della storia dell'anima. La realtà è rappresentata dall'anima e non dal
corpo.
13. "L'anima[88],
dopo che in questo corpo mortale ha vissuto la fanciullezza, la giovinezza e la
vecchiaia, assume un altro corpo. L'uomo che è in pace non ha motivo di
turbarsene.
Lo spirito calmo e saggio, il
pensatore, vede la realtà dell'essere oltre l'apparenza della vita, del corpo e
dei sensi e si eleva sopra i desideri fisici ed emotivi della natura ignorante
fino a raggiungere il solo e vero scopo dell'esistenza umana.
Qual è la realtà di questo scopo
supreme? La vita e la morte, che si ripetono nelle età dei grandi cicli del
mondo, non sono che un lungo processo evolutivo per cui l'uomo si prepara
all'immortalità e se ne rende capace.
14. "I contatti con le cose materiali, o figlio di
Kunti[89],
che danno il freddo e il caldo, il piacere e la sofferenza, vanno e vengono. Impara
a sopportarli, o Bhàrata[90]
15. "L'uomo che a questi contatti non si turba, che
resta saldo ed equanime nella gioia e nella pena, costui, o migliore degli
uomini[91]',
si rende degno dell'immortalità.
Per immortalità non si deve intendere
sopravvivenza alla morte - essa già appartiene a tutte le creature dotate di
una mente - ma trascendenza alla vita e alla morte. Ciò significa che l'uomo
cessa di vivere come corpo animato dalla mente, per vivere come spirito nello
Spirito. Chiunque sia soggetto al dolore e all'afflizione, chiunque sia schiavo
delle sensazioni e delle emozioni, e che si lasci prendere dai contatti con le
cose esteriori, non è adatto all'immortalità. Tutto ciò dev'essere sopportato
fino alla conquista, fino a che l'uomo, libero e dominatore, non possa provarne
dolore, fino a che non sia capace di accogliere tutti gli avvenimenti, gioiosi
o tristi, del mondo esteriore, con animo invariabile, calmo e saggio, nello
stesso modo in cui vengono accolti dallo Spirito eterno, tranquillo, nella
parte più segreta di noi.
16. "Ciò che esiste non può cessare d'esistere, e ciò
che non esiste non può cominciare ad essere. La fine di queste opposizioni
d'essere è stata scorta da coloro che vedono la verità essenziale.
La morte non esiste, poiché la morte
colpisce il corpo, e il corpo non è l'uomo. L'anima è, e non può cessare
d'essere, anche se cambia di forma e d'apparenza. Questa opposizione fra ciò
che è e ciò che non è, l'equilibrio fra l'essere e il divenire, si risolvono
quando l'anima realizza d'essere il Sé unico e imperituro da cui quest'universo
si è diffuso.
17. "Sappi dunque che quello[92],
da cui tutto si è diffuso, è indistruttibile; non vi è nulla che possa causarne
la distruzione.
18. "Questi corpi hanno [necessariamente] una fine. Ma
ciò che abita questi corpi è indistruttibile e senza fine. Combatti quindi, o
Bhàrata!
19. "Colui che vede Quello come l'uccisore e colui che
pensa che Quello è ucciso, non hanno la conoscenza [non percepiscono la
verità]. Quello né uccide né viene ucciso.
20. "Non nasce né muore; non è cosa che un giorno
cominciò ad esistere e che andandosene non ritornerà mai più all'esistenza. É
senza nascita, infinito, eterno, permanente; non ucciso quando il corpo viene
ucciso.
21. "Colui che lo conosce come eterno, indistruttibile,
senza nascita e senza fine, come potrebbe, o Pàrtha[93],
uccidere o far uccidere qualcuno?
22. "Come un uomo cambia un vestito usato per prenderne
uno nuovo, così l'Abitante del corpo[94]
abbandona i corpi logori per rivestirne dei nuovi.
23. "Le armi non possono ferirlo, le fiamme non possono
consumarlo, le acque penetrarlo, il vento disseccarlo.
24. "Non lo si può ferire, ardere, bagnare, disseccare.
Esso si tiene eternamente immobile, onnipenetrante, immutabile, esistente per
l'eternità.
25. "Lo si dice[95]
inafferrabile[96], inconcepibile,
immutabile. Così conoscendolo, non affliggerti dunque.
Non manifestata, come invece lo è il
corpo, ma più grande di qualsiasi manifestazione, l'anima non può essere
analizzata dal pensiero, perché va oltre la più alta intelligenza (supera la
mente); non è suscettibile ai cambiamenti, a modificarsi, come lo sono la vita,
i suoi organi e gli scopi di questi organi, va oltre i cambiamenti della mente,
della vita e del corpo, pur rimanendo tuttavia la Realtà che tutto il resto
tenta di rappresentare.
26. "Anche se tu lo credessi eternamente soggetto alla
nascita e alla morte, non per questo, o guerriero dal braccio possente[97],
devi affliggerti.
27. "Se certa è la morte per chi è nato, altrettanto
certa è la nascita per chi è morto. Perché dovrebbe causarti afflizione ciò che
è inevitabile?
La nascita e la morte sono circostanze
inevitabili nella manifestazione del Sé, dell'anima. La nascita è
un'apparizione fuori da uno stato in cui essa non è inesistente, ma soltanto
non manifestata ai nostri sensi mortali; la morte è il ritorno a quel mondo o a
quella condizione non manifestata, da cui emergerà di nuovo nella
manifestazione fisica. L'agitazione della mente fisica e dei sensi per la morte
e per l'orrore della morte - sul letto di morte o sul campo di battaglia - è la
più assurda delle reazioni nervose. Piangere la morte degli uomini è
un'afflizione ignorante e inutile, perché nessuno è uscito dall'esistenza,
nessuno ha subito un cambiamento doloroso e terribile; nell'al di là non sono
meno esistenti o in circostanze più infelici di quanto lo siano nella vita.
28. "Gli esseri[98]
sono non-manifestati all'inizio del loro esistere, manifestati nel mezzo e di
nuovo non-manifestati nella loro disintegrazione. É motivo questo di afflizione?
29. "L'uomo contempla Quello come una meraviglia, un
altro ne parla come di una meraviglia, un terzo ne sente parlare come di una
meraviglia, ma nessuno, in verità, l'ha conosciuto.
È l'Unico, il Divino, il padrone del
corpo, quaggiù velato dal mondo; la vita non è che la sua ombra; la venuta
dell'anima nella manifestazione fisica o la sua uscita al momento della morte
non sono per Lui che episodi di minima importanza. Quando veniamo a sapere che
noi siamo Lui, parlare di noi come coloro che uccidono o che vengono uccisi è
un'assurdità. Non vi è che una sola cosa: la verità che dobbiamo vivere,
l'Eterno che si manifesta come anima dell'uomo nel gran ciclo del suo
pellegrinaggio, con la nascita e la morte quali pietre miliari, il mondo
dell'al di là come luogo di riposo, le circostanze della vita, felici o
disgraziate, come mezzo di progresso, come campo di battaglia e di vittoria, e
l'immortalità come punto finale dell'anima in viaggio.
30. "Questo Abitante del corpo in ciascuno di noi è
eterno e indistruttibile, o Bhàrata; ecco perché non devi piangere su nessuna
creatura.
31. "Considera il tuo dovere[99],
non farti prendere dall' emozione, non c'è nulla di meglio per lo kshatriya che
una giusta battaglia[100].
Ma come l'alta conoscenza che Krishna
sta impartendo ad Arjuna, può giustificare l'azione che viene comandata e il
massacro di Kurukshetra? La risposta è che l'azione che deve compiere è
qualcosa d'inevitabile sul cammino che deve percorrere. Questa azione si
presenta inevitabile nella funzione imposta dal suo svadharma, dal suo dovere sociale, dalla legge della sua vita e
dalla legge del suo essere. Questo mondo, manifestazione del Sé nell'universo
materiale, non è solamente un ciclo di sviluppo interiore, ma anche il terreno
su cui le circostanze esteriori della vita devono essere accettate come
condizione e occasione di questo sviluppo. È un mondo di aiuto scambievole e di
lotta; il progresso che ci offre non è lo scivolare nella pace e nella serenità
attraverso gioie facili; ogni passo in avanti va conquistato con sforzi eroici
in mezzo a un conflitto di forze contrarie. Gli kshatriya sono coloro che
accettano il combattimento interiore ed esteriore fino al conflitto più fisico
che possa esistere, la guerra; la natura degli kshatriya, uomini forti, è il
combattimento, la forza, la nobiltà e il coraggio; la loro virtù è la difesa
del diritto, e il loro dovere l'accettazione, senza riserva, della battaglia.
32. "Quando una simile battaglia si offre così
naturalmente, è come se si aprissero le porte del cielo; felici sono gli
kshatriya, o figlio di Pritha.
Il Maestro s'interrompe un istante per
dare un'altra risposta al lamento di Arjuna, all'Arjuna che teme di perdere,
con la morte dei suoi, la ragione d'essere e lo scopo di vivere. Qual è la vera
aspirazione di uno kshatriya e quale il suo vero stato di felicità? Non è certo
il piacere personale, le gioie domestiche e una vita comoda, e nemmeno la
tranquilla gioia in compagnia di amici e di parenti. Combattere per il diritto
è lo scopo della sua vita, non esiste per lui felicità maggiore che trovare una
causa che gli permetta di sacrificare la sua vita o, se raggiunge la vittoria,
di ottenere la gloria e la corona dell'eroe.
33. "Ma se tu rifiuti questa lotta secondo giustizia[101],
tradirai il tuo dovere[102]
e la tua gloria, e commetterai peccato.
Senza interruzione si svolge una lotta
fra il bene e il male, fra il giusto e l'ingiusto, fra le forze che proteggono
e quelle che opprimono. Quando questa lotta si conclude con una battaglia
fisica, il campione, l'alfiere del diritto non deve più tremare o esitare
davanti alla terribile violenza dell'opera che deve affrontare. La sua virtù e
il suo dovere sono la battaglia e non l'astensione, e il peccato lo colpirebbe,
non uccidendo ma rifiutandosi di uccidere.
34. "Inoltre, gli uomini parleranno sempre della tua
vergogna, e per l'uomo d'onore, il disonore è peggiore della morte.
35. "I grandi guerrieri penseranno che per paura ti sei
astenuto dal combattimento, e coloro che ti tenevano in alta stima ti disprezzeranno.
Avvilire l'ideale dello kshatriya,
permettere che il suo onore venga offuscato, dare l'esempio di un eroe fra gli
eroi che si espone a macchiarsi di vigliaccheria e debolezza, significa
abbassare il livello morale dell'umanità, tradire sé stesso e tradire ciò che
il mondo si attende dai suoi capi e dai suoi re.
36. "Molte parole di vituperio pronunceranno i tuoi
nemici, gettando il dubbio sulla tua forza. Cosa potrebbe esserci [per te] di
più penoso?
37. "Ucciso, raggiungerai il cielo; vittorioso tu
godrai la terra. Sorgi dunque, o figlio di Kunti, deciso a combattere.
L'eroico appello di Krishna può
sembrare di un grado inferiore a quello della spiritualità stoica che precede,
e a quello della spiritualità più profonda che seguirà. Nei versetti successivi
il Maestro ingiunge ad Arjuna di considerare uguali agli occhi dell'anima la
buona e la cattiva fortuna, la perdita e il guadagno, la vittoria e la
sconfitta, e di lanciarsi nella battaglia.
L'etica indiana ha sempre riconosciuto
la necessità pratica d'ideali progressivi per lo sviluppo della vita morale e
spirituale dell'uomo. "Ti ho già
mostrato," dice sostanzialmente Krishna, "in quale direzione ti guidi la più alta conoscenza del sé e del
mondo; ho finito adesso di mostrarti per quale cammino ti dirigano il tuo
dovere sociale e i valori morali dalla tua casta. Che tu accetti l'uno o
l'altro il risultato non cambia. Ma se tu dovessi essere insoddisfatto del tuo
dovere sociale e della virtù propria dello kshatriya, se tu dovessi pensare che
essi ti conducono al dolore e al peccato, allora, ti scongiuro, elevati a un
ideale più alta, non cedere a un ideale inferiore."
38. "Vedi con occhio equanime il piacere e la pena, il
guadagno e la perdita, la vittoria e la sconfitta e gettati nella battaglia;
così non commetterai peccato."
Il tal modo, tutti gli argomenti di
Arjuna - quello dell'afflizione, quello dell'orrore del massacro, quello del
peccato e quello dei risultati nefasti della sua azione - ricevono una risposta
in accordo con la conoscenza più alta e l'ideale morale più elevato che la sua
razza abbia mai raggiunto nell'epoca in cui si svolgono i fatti della Gita.
[b]
LO YOGA DELLA VOLONTÀ INTELLIGENTE
39. "Questa è la conoscenza[103]
trasmessa dal Sànkhya[104].
Ascolta adesso quella che t'impartisce lo Yoga; se ti lascerai penetrare
profondamente da questa sapienza, o figlio di Pritha, potrai sfuggire ai
vincoli dell'agire[105].
"Ti ho esposto l'equilibrio che apporta l'intelligenza
liberatrice, secondo il Sànkhya," dice ad Arjuna il
divino Maestro. "Ti proporrò adesso
un altro equilibrio, quello secondo lo Yoga. Tu indietreggi davanti alle
conseguenze dei tuoi atti, tu desideri altri risultati e abbandoni il vero
cammino perché non te li può dare; ma questa maniera di concepire le opere e i
loro frutti - desiderio dei frutti come movente dell'azione e azione come mezzo
per soddisfare il desiderio - è il servaggio dell'ignorante che non conosce ciò
che sono le opere, la loro vera origine e la loro vera utilità. Il mio yoga ti
libererà dall'asservimento alle tue opere."
40. "In questo sentiero nessuno sforzo è perduto,
nessun ostacolo può prevalere; anche un minimo di questo dharma[106]
libera da una grande paura.
Arjuna è in preda al terrore che assale
l'uomo: paura del peccato, paura della sofferenza, in questo mondo e
nell'altro, paura di un mondo di cui ignora la vera natura, paura di un Dio che
non conosce e le cui intenzioni cosmiche gli sono velate.
41. "L'intelligenza risoluta si dimostra unificata e
stabile, o Gioia dei Kuru[107];
instabile ed estremamente divisa è invece l'intelligenza dell'irresoluto.
La volontà intelligente unificata è
stabilita con fermezza nell'anima illuminata e concentrata nella conoscenza
interiore di sé. L'intelligenza è invece dispersa quando si occupa di numerose
e svariate cose, trascurando la sola necessaria. Sottoposta all'agitazione
continua del pensiero discorsivo, si disperde nella vita e nell'azione
esteriori alla ricerca dei frutti.
42-43. "Coloro che non posseggono un chiaro
discernimento si compiacciono dei precetti vedici[108]
intesi alla lettera e proclamano, con fiorito parlare, che la stretta
osservanza [delle Scritture] è sufficiente, o Figlio di Pritha. Anime di
desiderio e ricercatori di paradisi, parlano del concetto della rinascita come
del frutto delle azioni compiute sulla terra[109]
e prescrivono molti riti speciali per ottenere godimento e poteri.
Nei primi sei canti, la Gita fissa le
basi della sua sintesi dell'azione e della conoscenza, la sua sintesi del
Sànkhya, dello Yoga e del Vedanta. Osserva dapprima che il termine karma,
l'azione, le opere, viene interpretato dagli antichi vedantini, da coloro che
si attaccano all'interpretazione letterale dei Veda, secondo una loro
particolare accezione; la parola Veda significa per loro i sacrifici e le
cerimonie vediche, compiute secondo riti precisi e complicati. Questi
sacrifici, dice la Gita, sono offerte di desiderio fatte nella speranza di una
ricompensa, sulla terra o in cielo, in questa vita o in un'altra - godimenti o
poteri, gioie più grandi, immortalità e suprema salvazione.
La Gita non rifiuta, come il Buddismo
per esempio, l'idea del sacrificio, ma essa preferisce elevarlo e renderlo più
ampio. Essa non nega l'efficacia del sacrificio vedico, la riconosce, ammette
anche che, grazie a questo sacrificio, si possano ottenere godimenti su questa
terra e un paradiso nell'al di là. "Io stesso," dice più avanti il
divino Maestro (IX, 23), "sono colui che accetta il sacrificio e a cui
tutti i sacrifici vengono offerti, sono Io colui che concede i frutti,
rivestendo la forma degli dèi, poiché questo cammino hanno scelto gli uomini
per avvicinarMi. Ma non è il vero cammino, e il godimento del paradiso non è né
la liberazione né il compimento che l'uomo deve cercare”. Sono gl'ignoranti che
adorano gli dèi, senza sapere chi adorano sotto queste forme divine. Malgrado
la loro ignoranza, essi adorano l'Unico, il Signore, il solo Deva, ed è Lui che
accetta le offerte. Al Signore dev'essere offerto il sacrificio - il vero
sacrificio di tutte le energie e di tutte le attività della vita - con
devozione, senza desiderio, per il solo amore del Signore e per il bene dei
popoli. Attraverso l'intrico dei suoi riti, il vedavada maschera questa verità,
rendendo l'uomo schiavo dell'azione dei tre guna: ed è per questo che si deve
condannarlo severamente e respingerlo con forza. L'idea centrale non dev'essere
però distrutta; una volta trasfigurata ed elevata, essa diviene parte
importantissima della vera esperienza spirituale e del metodo di liberazione.
44. "Coloro che si lasciano così fuorviare, attaccati
al godimento e al potere, per quanto perspicace possa essere la loro
intelligenza[110], non possono
fissarsi nella contemplazione perfetta[111].
L'unione con il Sé esige la
concentrazione perfetta del pensiero e della volontà; il pensiero che vaga ad
ogni istante non può pervenire a così elevata altezza.
45. "I Veda si occupano del giuoco dei tre guna[112];
ma tu, o Arjuna, liberati dalle tre qualità, portati oltre gli opposti[113],
e per sempre stabilito nel vero essere, senza curarti di acquistare e
conservare, prendi possesso del vero Sé[114].
Il Veda si occupa della conoscenza del
Divino, dell'Eterno, del Brahman: ma si tratta della conoscenza del Brahman
rivelato dalle operazioni di Prakriti, dal giuoco dei tre guna. Brahman è uno,
ma il suo svolgersi nelle opere di Prakriti assume due aspetti: l'Essere
immutabile, samam brahman, atman, e il creatore originario delle
opere del Divenire, sarvabhutani (tutte
le creature). Questi due aspetti vengono definiti come l'anima immobile ed onnipresente
delle cose e il principio spirituale del loro mobile svolgimento. La Bhagavad Gita
li chiama akshara purusha e kshara purusha, il Purusha statico,
equilibrato in sé stesso, e il Purusha che sostiene l'azione di Prakriti. Si
può anche dire che lo kshara purusha è
uscito, o procede, dall' akshara purusha, il Sé immutabile che si mantiene
dietro i guna, le tre qualità di Prakriti, e dietro le loro operazioni. Gli
uomini, sommersi dall'ignoranza, vengono trascinati dai movimenti della Natura
e travolti dal giuoco dei guna. Per ricuperare il loro equilibrio interiore
devono divenire coscienti del Sé silenzioso, immobile, immutabile, atman, samam
brahman.
46. "Per il bramino[115]'
che possiede la conoscenza, i Veda sono tanto inutili quanto può esserlo un
pozzo in un luogo inondato dalle acque.
I Veda e le Upanishad non sono
necessari all'uomo che ha ottenuto la conoscenza attraverso l'esperienza
spirituale diretta. Possono persino essere per lui un ostacolo, perché la
lettura della Scrittura Sacra - certamente a motivo del conflitto fra i testi e
le loro molteplici interpretazioni - turba e devia l'intendimento, che può solo
trovar la certezza e la concentrazione nella luce interiore (Il, 52-53).
47. "Tu hai diritto all'azione, ma in nessun caso ai suoi
frutti, non devi compiere l'opera per i frutti che essa ti procura, ma nemmeno
devi attaccarti alla non-azione.
Dice in sostanza il Maestro: "Ti ho assegnato l'intero dominio
dell'azione umana per compiere il progresso dell'uomo, dalla Natura inferiore fino
alla Natura superiore, dal non-divino apparente fino al divino cosciente. Colui
che conosce Dio deve muoversi in questo campo di attività umane."
Ma "i frutti delle azioni non devono essere il tuo movente!" Ciò
che all'uomo viene ingiunto non è l'opera compiuta sotto la spinta del
desiderio, come per coloro che seguono alla lettera i Veda, e nemmeno il
diritto di soddisfare attraverso un'attività costante una mente agitata e piena
di energia, come rivendica l'uomo pratico e dinamico.
48. "Saldamente stabilito nello yoga[116],
o Conquistatore di tesori, compi la tua azione libero dall'attaccamento,
imperturbabile nella sconfitta e nel successo. Yoga significa equanimità.
Quali possono essere le conquiste e i
possessi dell'anima libera? Possedendo il Sé, essa possiede tutto. Tuttavia
l'uomo liberato non si astiene dall'azione. In questo risiede la forza e
l'originalità della Gita che, dopo aver affermato per l'anima liberata il
valore di questa condizione statica, di questa superiorità sulla Natura, del
vuoto da cui è costituita di solito l'azione della Natura, può ancora
rivendicare per quest'anima la continuazione dell'agire, ed anche imporla,
evitando in tal modo il gran difetto delle filosofie puramente quietistiche e
ascetiche, errore da cui oggi tentano di sottrarsi.
A causa della sua intelligenza deviata,
l'uomo prova speranza e timore, collera, afflizione e gioie effimere; potrebbe
altrimenti compiere le sue opere in perfetta serenità e libertà. È per questo
che ad Arjuna viene imposto in primo luogo lo yoga dell'intelligenza, il buddhi
yoga.
49. "L'azione è di gran lunga inferiore allo yoga dell'
intelligenza; rifugiati nell'intelligenza, o Conquistatore di tesori; pietà
destano coloro che compiono le opere con mira ai loro frutti.
Agire con giusta intelligenza e, di
conseguenza, con giusta volontà, saldamente stabilito nell'Uno, cosciente del
Sé unico in tutti, incominciando con serena equanimità, senza agitarsi in tutti
i sensi unto dai mille impulsi del sé mentale di superficie, significa agire secondo
lo yoga della volontà intelligente.
50. "Colui che mediante l'intelligenza ha raggiunto
l'unione [con il Sé][117],
si eleva sopra il bene e il male.
Lotta dunque per realizzare lo yoga; lo yoga è l'abilità
nelle opere.
Anche in questo mondo di opposti (II,
45), colui che ha raggiunto la divina unione, si eleva - oltre il bene e il
male - a una legge superiore fondata sulla libertà venuta dalla conoscenza di
sé. Si potrebbe Pensare che le azioni effettuate senza il desiderio dei frutti
siano senza effetto, senza efficacia, senza una spinta sufficiente, senza una
forza animatrice ampia e vigorosa. No, l'azione fatta nello yoga non solamente
è la più alta, ma la più saggia, la più potente e la più efficace, anche per le
cose dì questo mondo. Essa è ispirata dalla conoscenza e dalla volontà dal
Maestro delle opere: "Lo yoga è la
vera abilità nelle opere."
51. "I saggi che rinunciano al frutto delle loro azioni
e che, mediante l'intelligenza, hanno raggiunto l'unione [con il sé], vengono
liberati dal legame delle nascite e raggiungono una condizione stabile di là da
ogni male.
Ma le azioni dirette verso la vita non
allontanano forse dai fini universali degli yogi che, secondo l'unanime
opinione, consistono nello fuggire alla schiavitù di questa miserabile e
dolorosa nascita umana? No, i saggi che agiscono senza desiderio per i frutti
delle loro azioni e in perfetta unione con il Divino vengono liberati dalla
schiavitù delle nascite e raggiungono il perfetto stato (vedi più avanti, II,
68-72), dove non esistono i mali che affliggono il pensiero e la vita
dell'umanità sofferente.
52. "Quando la tua intelligenza avrà superato il
turbine dell'illusione[118],
allora perverrai all'indifferenza per ciò che hai udito e per ciò che devi
ancora udire[119].
53. "Quando la tua intelligenza, [in questo momento]
sviata dalle Scritture rivelate, rimarrà salda e immota in samadhi[120],
allora raggiungerai lo yoga."
Questa critica alle Scritture rivelate,
shruti, offende talmente il sentimento religioso convenzionale che la comoda e utile
inclinazione umana di voler torturare i testi ha tentato naturalmente di dare a
questi versetti un senso differente. Ma il loro significato è chiaro e coerente
da un capo all'altro, e viene confermato da un passaggio ulteriore dove è detto
che la conoscenza di colui che conosce supera la portata dei Veda e delle
Upanishad (VI, 44).
Tuttavia la Gita non tratta con spirito
di semplice negazione o non ripudia parti così importanti della cultura ariana.
La sua critica tende ad eliminare l'interpretazione egoistica, limitata e
chiusa di loro che vogliono interpretare alla lettera le Sacre Scritture. Come
è già stato detto (II, 43 c), la Gita accetta l'idea centrale del sacrificio
vedico, ma lo purifica e lo trasfigura.
Arjuna disse:
54. "Qual è, o Keshava, il segno dell'uomo saldamente
stabilito nella saggezza[121]
e immerso in samadhi? II saggio dall'intelligenza stabile, come parla, come si
siede, come cammina?"
Arjuna, esprimendo il sentimento
dell'uomo medio, chiede, del samadhi, un segno facile da distinguersi,
materiale. Tali indicazioni non possono essere fornite, e il Maestro non tenta
di farlo; poiché il solo criterio possibile dell'entrata in samadhi è interiore.
L'equanimità è il segno principale dell'anima liberata e i segni più evidenti
dell'equanimità sono anch'essi soggettivi.
Per samadhi, s'intende generalmente
l'estasi, la trance yoghica. Ma la perdita di coscienza del mondo esteriore non
accompagna necessariamente l'unione completa; l'estasi è un'intensità
particolare del samadhi, non ne è il segno essenziale (vedi il commento al versetto
seguente).
Il Beato Signore disse:
55. "Quando un uomo allontana dalla sua mente[122]
tutti i desideri, o figlio di Pritha, e trova solo soddisfazione nel Sé[123]
e dal Sé, si può dire che egli è saldo nella saggezza.
Il segno del samadhi è rappresentato
dall'espulsione di tutti i desideri, dalla loro incapacità di raggiungere la
mente, ed è lo stato interiore da cui nasce la libertà, la felicità dell'anima
raccolta in sé stessa, con una mente calma, uguale, equilibrata, sopra le
attrazioni e le ripulsioni, sopra le alternative di sole e di tempesta, esente
dalle tensioni della vita esteriore. In questa condizione l'uomo vive ritirato
interiormente anche quando agisce esteriormente; concentrato in sé anche quando
lo sguardo si posa sugli oggetti; unicamente occupato nel Divino, anche quando
agli occhi altrui sembra preoccuparsi degli affari del mondo.
56. "Colui che non si turba mentalmente in mezzo ai
dolori e che va esente dal desiderio in mezzo ai piaceri colui che ha
abbandonato la passione, la paura e la collera, è ritenuto un saggio
dall'intelligenza stabile.
La Gita impone di affrontare il
desiderio e di sopprimerlo. La sua prima descrizione dell'equanimità è quella
dello stoico, ma se accetta questa filosofia eroica, vi aggiunge anche la
visione sattvica della conoscenza, con alla base l'aspirazione a realizzare il
Sé libero e, ad ogni passo, l'ascesa verso la Natura divina.
57. "Colui che non prova attaccamento per cosa alcuna
e, allorquando sopravvengano il male e il bene, non si affligge o si rallegra,
in lui la saggezza è saldamente stabilita.
58. "Allorché ritrae i sensi dagli oggetti sensibili,
come la tartaruga le membra, in lui la saggezza è saldamente stabilita.
Il primo moto dev'essere quello di sbarazzarsi
dal desiderio, sola radice del male e della sofferenza; e per sbarazzarsi dal
desiderio bisogna metter fine alla causa del desiderio stesso, all'impazienza
dei sensi di voler afferrare gli oggetti e gioirne. Bisogna frenare i sensi
quando stanno per precipitarsi di fuori, bisogna richiamarli e riportarli alla
sorgente, dove devono mantenersi tranquilli nella mente, la mente tranquilla
nell'intelligenza e l'intelligenza tranquilla nell'anima e nella conoscenza di
sé, che osserva l'azione della Natura ma senza esserle sottomessa e nulla
desiderare della vita materiale.
"Ma," aggiunge Krishna (nel versetto
seguente), "per evitare il malinteso
che certamente ne deriverebbe, quello che t'insegno non è un ascetismo
esteriore, una rinuncia fisica agli oggetti dei sensi, ma un ritiro interiore,
una rinuncia al desiderio."
59. "Quando dall'anima[124]
di colui che si astiene dall'usufruirne si ritraggono i sensi, ma
l'inclinazione[125]
per essi permane, con la visione del Supremo[126]
anche questa svanisce.
A partire dal momento in cui l'anima si
incarna in un corpo, deve normalmente occuparsene nutrendolo, affinché possa
esercitare la sua normale azione fisica. Astenendosi dal nutrire il corpo,
l'anima sopprime solamente il contatto materiale con l'oggetto dei sensi, non
sopprime il rapporto interiore che è quello che rende pernicioso il contatto.
Essa lascia intatto il piacere che i sensi hanno per l'oggetto - rasa -,
l'attrazione e la ripulsione, i due aspetti di rasa. L'anima deve invece poter
sopportare il contatto fisico senza risentire interiormente la reazione dei
sensi.
L'equanimità stoica si giustifica,
nella disciplina della Gita, come elemento che può associarsi, aiutandola, alla
visione del Supremo - param drishtvà -
ossia alla realizzazione di un nuovo stato di coscienza che la Gita ci descrive
nei versetti seguenti - lo stato brahmico (II, 68-72).
60. "O figlio di Kunti, l'impeto dei sensi trascina con
violenza anche la mente del saggio che lotta [per la perfezione].
61. "Ritornato padrone dei sensi, si mantenga saldo
nello stato di unione con Me, prendendoMi come [scopo] supremo[127].
In colui che domina i sensi, la saggezza è saldamente stabilita.
Nessun consiglio è più corrente di
quello di dominare i sensi, ma questa padronanza non può essere compiuta alla
perfezione mediante un atto della sola intelligenza, o una disciplina solamente
mentale. Non può essere ottenuta che mediante lo yoga - l'unione - con qualcosa
di più elevato dell'intelligenza e a cui siano inerenti la calma e il dominio
di sé stessi. Questo yoga potrà avere successo solamente con la consacrazione,
l'abbandono, votandosi interamente al Divino, a Me, dice Krishna. Il liberatore
è in noi, ma questo liberatore non è la nostra mente, la nostra intelligenza,
la nostra volontà personale, anche se ne sono gli strumenti: è il Signore, in
cui - la Gita ce lo dirà alla fine - dobbiamo prendere integralmente rifugio.
Per questo motivo il nostro essere deve esserGli totalmente consacrato e
mantenere con Lui il contano dell'anima.
62-63. "Nell'uomo che indugia assorto negli oggetti dei
sensi, nasce l'attaccamento per essi; dall'attaccamento nasce il desiderio, dal
desiderio la collera; la collera conduce allo smarrimento, lo smarrimento alla
perdita della memoria e la perdita della memoria produce la distruzione
dell'intelligenza; e in seguito a questa distruzione l'uomo giunge a rovina.
La passione oscura l'anima, la volontà
e l'intelligenza dimenticano di vedere e di tenersi fermamente stabilite
nell'anima che osserva con calma; la memoria del vero Sé è perduta, e con
questa perdita, la volontà intelligente si oscura e può essere anche distrutta;
poiché da quel momento essa non esiste più nella nostra memoria ma si dilegua
in una nube di passione; diveniamo passione, collera o dolore, cessiamo d'essere
il Sé, l'intelligenza e la volontà.
64-65. "Ma colui che si muove fra gli oggetti sensibili
con i sensi sottomessi al Sé, esente dall'attaccamento e dall'avversione,
questi, padrone di sé stesso, perviene alla serenità. La serenità genera in lui
la sparizione del dolore; e quando l'anima è serena, l'intelligenza è presto
stabilita.
Ma come è possibile stabilire questo
contatto con gli oggetti dei sensi, quest'impiego che non dipende da essi? È
possibile, param drishtva, mediante
la visione del Supremo - param, l'Anima, il Purusha; è possibile quando
l'intero essere soggettivo, mediante lo Yoga dell' intelligenza, vive in unione
o in unità col Supremo. Allora, liberati da tutte le reazioni, i sensi non
reagiranno più davanti all'attrazione ed alla ripulsione; sfuggiranno al
dualismo dei desideri, positivi e negativi, e così, la calma, la pace, la
chiarezza, la felice tranquillità si diffonderanno nell'uomo. Questa chiara
tranquillità è la sorgente della felicità dell'anima; l'afflizione perde il suo
potere; l'intelligenza si stabilisce rapidamente nella pace del Sé; la
sofferenza viene distrutta. A questa immutabilità della buddhi nell'equilibrio
e nella conoscenza di Sé - immutabilità calma, senza desideri, senza dolore -
la Gita dà il nome di samadhi.
66. "L'uomo non unito [al Sé][128]
non possiede né intelligenza né concentrazione; colui che manca di
concentrazione è privo di pace; e senza la pace come potrebbe esser felice?
67. "Colui, la cui mente si lascia sviare dai sensi
vagabondi, vede ben presto la saggezza allontanarsi come una nave trasportata
dal vento sulle acque.
68. "Di conseguenza, o Guerriero dal braccio possente,
colui i cui sensi si sono distolti per ogni verso dagli oggetti sensibili, è
fermamente stabilito nella saggezza.
È il rinnovarsi dall'esortazione fatta
prima (Il, 58-59) e, come in quel caso, si deve comprendere che l'eccitazione -
attrazione o ripulsione - causata dagli oggetti sensibili, deve essere frenata,
superata e conquistata.
La Gita incomincia da qui la
descrizione dello stato brahmico, coronamento dello yoga della volontà
intelligente.
69. "Ciò che è notte per tutti gli esseri, è stato di
veglia per colui che ha la padronanza di sé, e il loro stato di veglia è notte
per il saggio veggente.
Il saggio che compie le opere senza il
desiderio dei frutti e in unione costante col Supremo, raggiunge lo stato di
perfezione dove non esiste alcuno dei mali che affliggono l'umanità (II, 51). È
il rovesciamento di tutte le concezioni, di tutte le esperienze, della
conoscenza, dei valori e delle percezioni, prerogativa delle creature legate
alla terra. La vita sottomessa agli opposti, che per queste creature è il
giorno, lo stato di veglia, la coscienza, la brillante condizione d'attività e
di conoscenza, è per il saggio veggente un sonno turbato, un'oscurità d'anima,
la notte; e la coscienza superiore che per loro e notte oscura, il sonno in cui
cessano conoscenza e volontà, è lo stato di veglia per il saggio che ha
conquistato la padronanza di sé stesso, il giorno luminoso di esistenza vera,
di conoscenza e di potere.
70. "Colui in cui tutti i desideri entrano come entrano
le acque nell'oceano, che senza tregua si riempie, ma che tuttavia non aumenta
mai di livello, raggiunge la pace - non colui che è preda del desiderio[129].
71. "L'uomo che abbandona tutti i desideri, che vive e
agisce senza brama, che non possiede più né ‘me’ né ‘mio’, costui raggiunge la
[grande] pace.
72. "Tale è lo stato brahmico[130],
o figlio di Pritha. Colui che lo ha raggiunto non può più smarrirsi; e se vi si
attiene fortemente, anche al momento della morte, raggiunge il nirvana in
Brahman."
Egli continua ad agire, ma ha
abbandonato tutti i desideri e tutte le passioni. È entrato nella grande pace e
non è più sviato dall'apparenza delle cose. Ha spento nell'Unico il suo ego
individuale, vive in questa unità e, saldamente stabilito in essa al momento
della sua fine, può raggiungere il Nirvana, l'estinzione nel Brahman - non
l'annichilamento dei Buddisti, ma la grande immersione del sé personale
separato nella vasta realtà dell'Esistenza una, infinita e impersonale.
Tale è - riunendo sottilmente Sankhya,
Yoga e Vedanta, - la prima base dell'insegnamento della Gita. È lungi
dall'essere l'insegnamento completo, ma è la prima fusione pratica
indispensabile della conoscenza e dell'azione, che contiene già l'indicazione
del terzo elemento, il più intenso, quello che perfeziona la pienezza
dell'anima: la devozione e l'amore divino.
Arjuna disse:
1. "Se ritieni la conoscenza[131] superiore
all'azione, o Janàrdana, perché vuoi impormi questo terribile atto, o Keshava?
Arjuna
non ignora l'insegnamento in cui è dichiarato che la via della conoscenza, per
chi rinuncia alla vita e alle opere, conduce l'uomo alla perfezione. Lo stesso Krishna
sembra ammettere la dottrina sànkhyana ortodossa quando dice che le opere sono
inferiori allo yoga dell'intelligenza (II, 49), pur ripetendo con insistenza
che le opere fanno parte dello yoga. Il suo insegnamento sembra dunque
infirmato da una radicale incoerenza. Rispondendo a questa obiezione la Gita
incomincia a sviluppare con maggior chiarezza la dottrina positiva e imperativa
delle opere.
2. "Con questo modo ambiguo di
esprimerTi, il mio intelletto si confonde; dimmi con chiarezza quale sia l'unica
regola cui attenermi per raggiungere il sommo bene."
Arjuna
esige una regola di condotta precisa e definita.
Il Beato Signore disse:
3. "O [eroe] Senza-macchia[132], già ti avevo
indicato le due vie della consacrazione: quella del Sànkhya attraverso lo yoga
della conoscenza e quella dello yoga delle opere.
I
primi sei canti della Gita sintetizzano in un ampio quadro di verità vedantina
i due metodi, considerati abitualmente come differenti, ed anche opposti.
Krishna incomincia dimostrando che la rinuncia fisica, sannyàsa, non è il solo
cammino a disposizione e nemmeno il migliore.
4. "Non è con l'astenersi dalle
opere che l'uomo raggiunge la non-azione[133], e nemmeno con la
rinuncia[134]
al mondo può raggiungere la perfezione[135].
Naishkarmya è la tranquilla assenza d'azione che
l'anima, il Purusha, deve raggiungere, perché è Prakriti che agisce. Nelle
attività dell' essere l'anima deve elevarsi sopra qualsiasi impegno e
raggiungere un equilibrio e una serenità invariabili, osservando le operazioni
di Prakriti senza esserne turbata. Questo significa naishkarmya, e non la
cessazione delle opere da parte di Prakriti.
Ma
se le opere di Prakriti continuano, come è possibile per l'anima non sentirsi
coinvolta? Come posso combattere e allo stesso tempo impedire all'anima di
pensare, di non sentire che io, l'individuo, sto combattendo? Come non
desiderare la vittoria e non sentirsi amareggiati dalla sconfitta? Per il
Sànkhya, quando l'uomo è impegnato nelle attività della Natura, la sua
intelligenza è presa nelle reti dell'egoismo, dell'ignoranza e del desiderio, e
in tal modo e attirata verso l'azione. Se al contrario l'intelligenza si
ritrae, l'azione deve cessare, e con essa cesseranno il desiderio e
l'ignoranza. Di conseguenza, per il Sànkhya l'abbandono del mondo e delle opere
una parte indispensabile, una circostanza inevitabile per il movimento di
liberazione. Questa obiezione, propria della logica comune, viene prevista
immediatamente dal Maestro. "No," dice Krishna, "una simile
rinuncia, non soltanto non è indispensabile, ma nemmeno possibile."
5. In verità, nessuno può rimanere un
solo istante inattivo; ogni uomo è ineluttabilmente costretto all'azione dai
guna, che prendono nascita dalla Natura[136].
Una
delle caratteristiche di maggior rilievo della Gita è di fornire una percezione
intensa della grande azione cosmica su cui dovevano insistere più tardi gli shaka[137]
tantrici che considerarono Prakriti o Shakti superiore al Purusha. Anche se
questa caratteristica non risulta chiaramente espressa, è sufficientemente
forte, se viene associata agli elementi teistici e devozionali della Gita, per
introdurre un attivismo che modifica considerevolmente la tendenza quietistica
dello yoga concepito dall'antico Vedanta metafisica. L'uomo col suo corpo di
carne ed ossa, che vive nel mondo della Natura materiale, non può astenersi
dall'azione, nemmeno per un secondo; la sua esistenza in questo mondo è in sé
stessa un'azione. L'intero universo è un atto di Dio; il fatto di vivere, il
Suo movimento.
6. "Colui che, dominando gli
organi dell'azione[138], lascia che la sua
mente si occupi degli oggetti dei sensi, costui si smarrisce nella menzogna.
Karma
- l'azione, le opere - non vuoi rappresentare solamente i nostri movimenti e le
nostre attività fisiche; la nostra esistenza mentale è pure una grande e
complessa azione, è anzi la parte più ampia e più importante dell'azione
dell'infaticabile energia - la causa soggettiva che determina l'esistenza fisica.
Non serve a nulla reprimere l'effetto se conserviamo l'attività nella causa
soggettiva.
Gli
oggetti dei sensi sono soltanto l'occasione della nostra servitù, e l'interesse
che presta loro l'intelligenza ne è il mezzo, Io strumento. Infatti, le azioni
del corpo e dell'intelligenza non sono in sé stesse né una servitù né la causa
della servitù, ma la potente energia della Natura che mantiene il ruolo
principale. La Natura pretende di seguire le sue vie e di continuare il giuoco
nel vasto campo delle sue attività mentali, vitali e fisiche, ma ciò che in
essa è vera-mente pericoloso, è il potere che hanno i tre guna di turbare e
deviare l'intelligenza, e con ciò di oscurare l'anima. Secondo la Gita, come
vedremo più avanti, è il luogo dove si nasconde il nodo dell'azione e della
liberazione. Colui che è libero dalla deviazione e dall'offuscamento causato
dai tre guna, può continuare la sua azione, sia essa la più ampia, la più
ricca, la più intensa, la più violenta, senza che nulla arrivi a sfiorare il
Purusha. L'anima possiede il naishkarmya.
7. "Colui che domina i sensi con
la mente e che, senza attaccamento, intraprende, servendosi dei suoi organi
d'azione, lo yoga delle opere[139], costui eccelle, o
Arjuna.”
8. "Compi dunque l'azione che ti
è stata prescritta[140], poiché l'agire è
superiore al non-agire; senza l'azione non potresti mantenere nemmeno la vita
fisica[141].”
"Compi l'azione in completa
padronanza di te stesso," dice
Krishna. "Ti ho detto che la
conoscenza e l'intelligenza sono superiori alle opere (II, 49), ma con questo
non ho voluto dire che l'inazione sia superiore all'azione; la verità risiede
esattamente nel contrarlo."
Conoscenza
non significa rinuncia alla opere, essa significa equanimità e non attaccamento
al desiderio e agli oggetti dei sensi; conoscenza significa equilibrio della
volontà intelligente nell'anima libera, svincolata dagli strumenti inferiori di
Prakriti e dominante le opere della mente, dei sensi e del corpo grazie al
potere della conoscenza di sé e alla pura felicità senza oggetto della
realizzazione spirituale. È niyatam karma
(l'azione che ti ho prescritto).
9. "Perché non compie le opere
con spirito di sacrificio, il mondo [degli uomini] è incatenato all'azione;
compi l'opera tua offrendola in sacrificio, o figlio di Kunti, libero
dall'attaccamento.”
Essendo
la nostra Natura quella che è e il desiderio il principio della sua azione,
com'è possibile istituire una vera azione senza desiderio? Ciò che generalmente
si chiama azione disinteressata non è in realtà un'azione senza desiderio, è
semplicemente la sostituzione di certi piccoli interessi personali con desideri
di più grande portata quali virtù, patria, umanità, che hanno solamente
l'apparenza di essere impersonali. Come giungere quindi alla vera assenza del
desiderio? Offrendo tutte le opere in sacrificio - tale à la risposta del
Maestro.
10. "Nei tempi remoti, il
Signore delle creature[142], creando gli esseri
insieme al sacrificio disse: `Col sacrificio genererete [frutti e discendenza],
che sia per voi la vacca dell'abbondanza[143].”
Tutti
gli stati d'essere e tutte le azioni di Prakriti non esistono che per il Divino
e nel Divino; da Lui vengono, grazie a Lui durano e a Lui fanno ritorno. 'Tutta
la vita ed ogni esistenza di questo mondo sono un sacrificio offerto dalla
Natura (Prakriti) al Purusha. Finché saremo dominati dal senso dell'ego non
potremo percepire questa verità e nemmeno agire secondo il suo spirito; agiremo
per la soddisfazione dell'ego e nello spirito dell'ego e non certamente con
spirito di sacrificio. L'egoismo è il centro della schiavitù. Agendo per il
Divino senza nessun pensiero egoistico, scioglieremo il nodo della schiavitù ed
arriveremo alla libertà.
11. `Mediante il sacrificio nutrite[144] gli dèi[145] e che gli dèi vi
nutrano; nutrendovi gli uni gli altri, raggiungerete il supremo bene.
12. Nutriti e fortificati dal
sacrificio, gli dèi vi daranno le gioie desiderate. Colui che gode di questi
doni senza restituirli agli dèi, in verità, è un ladro.
13. "I buoni che mangiano i
resti del sacrificio si liberano dal peccato; ma i malvagi che preparano il
cibo solo per sé stessi, in verità, si nutrono di peccato.
I
resti del sacrificio contengono il nettare dell'immortalità, amrita, vero resto dell'offerta lasciata
in dono dalla divinità. Abbiamo qui un'immagine dell'antico simbolismo vedico
in cui il soma, offerto agli dèi e bevuto dagli uomini, era il simbolo
materiale dell'amrita, l'immortale
delizia dell'estasi divina ottenuta mediante il sacrificio.
14-15. "Dal nutrimento
provengono le creature; dalla pioggia ha origine il nutrimento; dal sacrificio
nasce la pioggia e dall'agire il sacrificio. Sappi che l'azione ha origine in
Brahman[146]
e Brahman dall'Immutabile[147]. Per questo, Brahman
che tutto compenetra è sempre presente nel sacrificio.
Dal
Brahman con qualità (saguna), o kshara purusha, procedono tutte, le operazioni
dell'energia universale, karma, che si estrinsecano nell'uomo e in tutte le
creature; da questa azione (karma) procede Il principio del sacrificio. Lo
scambio materiale fra uomini e dei è basato sullo stesso principio, come la
Gita lo dimostra spiegando che la nascita delle creature dipende fisicamente
dalla pioggia e dal nutrimento che essa produce, che a loro volta dipendono dal
sacrificio.
Tutte
le operazioni di Prakriti, nella loro vera natura, sono un sacrificio in cui
l'Essere divino, supremo Signore dei mondi, è Colui che gode del sacrificio
delle opere e delle energie (V, 29). Conoscere questo Divino che tutto penetra
e che è stabilito nel sacrificio, è la vera conoscenza, la conoscenza vedica.
16. "Colui che non partecipa in
questo mondo al movimento circolare [della vita] gode il piacere dei sensi
immerso nel peccato; egli vive invano, o figlio di Prithà.
Nella
Gita non c'è molto che sia puramente locale o che aderisca a un'epoca
particolare; il suo spirito è così ampio, così profondo e universale che anche
queste apparenti limitazioni possono essere facilmente universalizzate senza
che il senso dell'insegnamento ne soffra diminuzione o violenza; al contrario,
superando la portata che appartiene al paese o all'epoca, si guadagna in
profondità, in verità e in potere. Infatti la Gita stessa suggerisce il
significato più ampio che possa essere dato a un'idea di per sé stessa locale o
limitata. Per esempio, essa si basa sull'antico sistema e sull'antica idea
indiana del sacrificio come interscambio fra dèi e uomini - sistema e idea
praticamente sorpassati da molto tempo anche in India e senza realtà per lo
spirito umano in generale; ma nella Gita il senso della parola sacrificio è
così sottile, così figurato e simbolico e la concezione degli dèi così poco
mitologica o locale, così interamente cosmica e filosofica, che possiamo
accettare tutto come l'espressione di un fatto psicologico e legge generale
della Natura. Possiamo quindi applicare l'insegnamento ai moderni concetti di
scambio fra una vita e l'altra, al sacrificio etico e al dono di sé, col fine
di rendere più ampie queste concezioni e proiettare su di esse un aspetto più
spirituale alla luce di una Verità più profonda e di maggior portata.
Avendo
esposto in tal modo la necessità del sacrificio, Krishna continua esponendo la
superiorità dell'uomo spirituale nei riguardi delle opere.
17. "Per l'uomo che fonda la sua
gioia solo nel Sé, colui che del Sé è soddisfatto, felice solamente nel Sé, per
lui non esiste opera che debba essere compiuta.”
18. "In questo mondo non ha
nulla da guadagnare dall'agire o dal non-agire. Egli non dipende da nessuna di
queste esistenze per qualsiasi cosa [debba ottenere].”
Nei
versetti 10-16, la Gita presenta il concetto vedico del sacrificio, e lo fa
impiegando un linguaggio che sembra a prima vista sostenere la necessità dei
riti prescritti dai Veda. I versetti 17-18, al contrario, descrivono la
liberazione come è vista dal Vedanta (Upanishad).
Abbiamo
qui i due ideali - il vedico e il vedantino - messi a confronto in tutta
l'intensità dei loro contrasti e delle loro opposizioni originali. Da una parte
l'ideale attivo che cerca le soddisfazioni terrene e un più gran bene nell'al
di là, da ottenersi col sacrificio e la reciproca dipendenza fra l'essere umano
e le forze divine; dall'altra parte, in opposizione, il più austero ideale
dell'uomo liberato che, indipendente nello Spirito, non ha più rapporti con Ia
gioia, con le opere, coi mondi umani o divini, e che esiste solo nella pace del
supremo Sé, solamente felice nella gioia del Brahman. I versetti che seguono
creano una base di conciliazione fra i due estremi. Il segreto non consiste nel
cessare di agire quando ci si volge verso la più alta verità, ma d'agire senza
desiderio, sia prima d'aver raggiunto questa verità, sia dopo. L'uomo liberato
non ha da trarre nessun beneficio dall'azione e nemmeno dall'inazione, ma non è
mirando a scopi personali che la scelta dev'essere fatta.
19. "E perciò compie sempre,
senza attaccamento, l'opera che dev'essere fatta[148]; poiché l'uomo,
compiendo le sue opere senza attaccamento, raggiunge il [bene] supremo.
È
vero che le opere e il sacrificio sono un mezzo per arrivare al bene supremo;
ma ci sono tre tipi di opere: quelle compiute senza sacrificio, per la propria
soddisfazione e che, per essere interamente egoistiche, tradiscono la vera
legge, lo scopo e l'utilità della vita; quelle che vengono fatte con desiderio,
ma tuttavia offerte in sacrificio, in cui la soddisfazione del desiderio è il
risultato del sacrificio e che, per questa ragione ed entro questi limiti, si
vedono consacrate e santificate; ed infine le opere compiute senza né desiderio
né attaccamento. Sono queste ultime che conducono l'anima dell'uomo al bene
supremo.
20. "In verità, per mezzo delle
opere Janaka[149]
ed altri conseguirono la perfezione; ma tu devi agire mantenendo anche lo sguardo
sulla coesione del mondo[150].
Pochi
passaggi della Gita sono cosi importanti come quelli dal versetto 20 al 26.
Dobbiamo chiaramente comprendere che la Gita non ci propone la legge di un
ampio altruismo morale e intellettuale, ma quella di un'unità con Dio e col
mondo delle creature che vivono in Dio e in cui Egli dimora. Non ci incita a
subordinare l'individuo alla società o all'umanità o ad immolare l'egoismo
sull'altare della collettività umana; essa c'impone di cercare in Dio il
compimento dell'individuo e di sacrificare l'ego sull'unico e vero altare, su
quello della Divinità che tutto contiene.
21. "Qualunque cosa compia il
migliore fra gli uomini. viene messa in pratica dagli uomini di un livello
inferiore. L'umanità segue il modello da lui creato.
La
legge data qui dalla Gita è la legge del superuomo, dell'essere umano divenuto
divino, del migliore, non secondo il senso di una superumanità alla Nietzsche -
mal proporzionata e male equilibrata - olimpica, apollinea o dionisiaca,
angelica o demoniaca, ma nel senso dell'uomo la cui personalità è stata offerta
per intero all'essere, alla natura e alla coscienza dell'unica Divinità
trascendente e universale, e che perdendo il suo piccolo sé ha trovato il più
grande Sé, divenendo divino. Elevarsi oltre l'imperfetta Prakriti inferiore,
fino all'unità con l'essere divino, fino alla coscienza e natura divine, è
l'oggetto dello yoga. Ma una volta realizzato quest'oggetto, una volta che
l'uomo abbia raggiunto la condizione brahmica e che la visione falsa ed
egoistica che ha di sé e del mondo sia perduta, che veda tutti gli esseri nel
Sé, in Dio, e il Sé in tutti gli esseri, Dio in tutti gli esseri, quale dovrà
essere l'azione risultante da questa visione, dato che l'azione sussiste, e
quale il movente cosmico o individuale delle opere?
È
la domanda di Arjuna (II, 54), ma la risposta di Krishna non viene data
situandosi dal punto di vista di Arjuna. Il movente non può essere il desiderio
personale secondo i piani intellettuale, morale o emotivo già abbandonati -
anche il movente morale non è più, perché l'uomo liberato supera la distinzione
inferiore del peccato e della virtù, e vive nella gloria di una purezza di là
dal bene e dal male. Non può essere nemmeno il richiamo spirituale verso il suo
perfetto sviluppo mediante le opere disinteressate, perché questo richiamo ha
ricevuto la sua risposta; il suo sviluppo è perfetto e finito. Il movente
dell'azione può solamente essere quello di mantenere imiti i popoli. È
necessario mantenere la coesione di questi popoli in cammino verso un lontano
ideale divino per impedirne lo smarrimento, la confusione e la mancanza di
comprensione che li condurrebbero alla dissoluzione e alla distruzione. Il
mondo che avanza nell'oscuro crepuscolo o nella notte dell'ignoranza, troppo
facilmente cadrebbe in una simile sorte se non fosse condotto, mantenuto, entro
i grandi margini della sua disciplina, dall'illuminazione, dalla forza e
dall'autorità dell'esempio visibile e dall'influsso invisibile dei suoi
migliori componenti. Ma l'uomo divenuto divino è il migliore, in un senso assai
poco comune, e il suo esempio, il suo influsso avranno un tale potere da non
trovare paragone nell' esempio e nell'influsso di nessun uomo semplicemente superiore.
Per rendere perfettamente chiaro il suo pensiero, il divino Maestro, l'Avatar,
offre ad Arjuna il proprio esempio.
22. "O figlio di Prithà, non c'è
nulla nei tre mondi[151] che Io debba fare,
né alcuna cosa da ottenere che non abbia già ottenuto, eppure rimango
[impegnato] nell'azione.
23-24. "Gli uomini seguono in
ogni modo le Mie orme: Se non rimanessi infaticabilmente [impegnato] nell'azione,
se cessassi d'agire, i mondi cadrebbero in rovina; creerei il caos e diverrei
il distruttore di queste creature.
I
due versetti precedenti, in cui la Gita propone il Signore stesso come esempio
all'uomo liberato, rivestono un profondo significato, in quanto rivelano la
base stessa della sua filosofia delle opere divine. L'uomo liberato è colui
che, per essersi elevato fino alla divina natura, compie le proprie azioni
secondo questa natura divina. Né l'attività dell'uomo dinamico, né la luce
inattiva dell'asceta e del quietista, né la personalità impetuosa dell'uomo
d'azione, né l'impersonalità indifferente del saggio e del filosofo, sono il
completo ideale divino. Esistono due tipi opposti: l'uomo che vive nel mondo e
l'asceta o filosofo quietista - l'uno immerso nell'azione del Purusha mutevole,
kshara, l'altro che tenta di rimanere nella pace del Purusha immutabile,
akshara; ma il completo ideale divino partecipa della natura del Purusha
supremo, uttama[152],
che trascende l'opposizione e concilia tutte le possibilità divine.
25. "Gl'ignoranti agiscono con
attaccamento all'azione mentre il saggio[153], o Bharata, deve agire senza attacca-mento e col
solo scopo di mantenere la coesione del mondo[154].
26. "Colui che ha la conoscenza
non turbi lo spirito degli ignoranti attaccati all'azione. Il saggio deve
impegnarli in tutte le opere che egli stesso compie nella saggezza e nello
yoga.
Colui
che conosce Dio deve agire nell'intero dominio delle opere umane. L'azione
individuale, l'azione sociale, tutte le opere dell' intelletto, del cuore e del
corpo, egli le compirà non per sé stesso, ma per Dio nel mondo, per Dio in tutti
gli esseri, affinché questi esseri Possano avanzare, come lui stesso ha fatto,
lungo la via delle opere verso la scoperta del Divino in ogni uomo e in tutto.
Può darsi che le sue opere non presentino differenza essenziale con quelle
degli altri; il suo campo d'azione potrebbe comprendere la guerra e il governo
dei Popoli, come pure l'insegnamento e il pensiero o la grande varietà di
scambi che esistono fra gli uomini. Tutto questo sarà però svolto in uno
spirito differente, e precisamente questo spirito sarà la grande calamita
capace di elevare gli uomini al proprio livello, la gran leva che solleverà la
massa degli esseri nella loro lunga ascesa.
I
passaggi in cui la Gita insiste sulla soggezione alla Natura da parte “dell'anima
di desiderio”, sono stati talvolta interpretati come l'affermazione di un
determinismo assoluto e meccanico, che chiude le porte ad ogni possibile
libertà in seno all'esistenza cosmica. Il linguaggio impiegato è senza dubbio
forte e sembra anche categorico. Ma in questo caso, come in altri, bisogna
accettare il pensiero della Gita come un tutto e non forzare il senso di certe
affermazioni prese isolatamente. Nella nostra esistenza cosciente vi sono
diversi piani, ma ciò che riveste verità pratica su uno qualsiasi di essi
assume un aspetto completamente diverso e cessa di esser vero, non appena ci
portiamo a livelli più elevati da cui le cose possono esser viste con visione
panoramica.
27. `"Quando tutte le opere sono
compiute dai guna [modi della Natura], l'uomo il cui sé è traviato dal senso
dell'ego pensa: “Sono io colui che agisce”.
28. "Ma chi conosce il vero
principio della divisione dei guna e delle azioni si accorge che sono i guna
che agiscono e reagiscono gli uni sugli altri, e perciò non ha attacca-menti, o
Guerriero dal braccio possente.
29. "I fuorviati dai guna della
Natura sono asserviti alle azioni prodotte da questi modi o qualità. Che
nessuno dotato di conoscenza turbi la mente di chi non ha la conoscenza
completa[155].
Ecco
qui una chiara distinzione fra due livelli di coscienza, fra due concezioni
dell'operare: quella dell'anima prigioniera della sua natura egoistica, che
agisce sotto l'impulso della Natura, con l'illusione del libero arbitrio, e
quella dell'anima liberata dalla sua identificazione con l'ego, che osserva,
sancisce e dirige le opere della Natura.
Abbiamo
accennato alla soggezione dell'anima alla Natura; ma la Gita, quando fornisce
la distinzione fra i caratteri dell'anima c quelli della Natura, afferma che se
la Natura è l'esecutore, l'anima è sempre il Signore, l'Ishvara. La Gita parla
del sé come fuorviato dall'egoismo, mentre per i vedantini il vero Sé è il
Divino, eterna-mente libero e cosciente di sé.
Chi
è dunque questo sé fuorviato dalla Natura, quest'anima ad essa soggetta?
Ci
stiamo esprimendo nel linguaggio corrente della nostra visione inferiore o
mentale delle cose: questa è la risposta; noi parliamo del sé apparente,
dell'anima apparente, non del vero Sé, del vero Purusha. In realtà stiamo
parlando dell'ego soggetto alla Natura, ed è inevitabile che sia così, perché è
parte della Natura, perché è uno dei tanti ingranaggi del suo meccanismo; e
quando, al livello mentale, la coscienza del sé s'identifica con l'ego, essa
crea l'apparenza di un sé inferiore, di un sé-ego. Generalmente, quello che
concepiamo come anima non è altro che la personalità naturale, non la vera persona,
il Purusha, ma l'anima di desiderio in noi, un riflesso della coscienza del
Purusha nelle opere di Prakriti; infatti quest'anima di desiderio non è che
un'azione dei tre guna e di conseguenza una Parte della Natura. Possiamo perciò
dire che esistono in noi due anime, l'anima apparente o anima di desiderio, che
cambia col cambiare dei guna, interamente costituita e determinata da essi, e
il Purusha, eterno e libero, non limitato dalla Natura e dai suoi guna Nello
stesso modo esistono in noi due “sé”.
Il
sé apparente o ego, centro mentale in noi che s'impadronisce della mutevole
azione di Prakriti, della personalità instabile, e dice: "Io sono questa
persona, io sono quest'essere naturale, io compio le opere" - non
accorgendosi che l'essere naturale è semplicemente la Natura, una composizione
dei guna.
Esiste
però il vero Sé, il vero sostenitore, il possessore e il signore della Natura,
rappresentato dalla personalità naturale instabile, senza però essere lui
stesso questa personalità. Per essere liberi, bisogna sbarazzarsi degli impulsi
dell'anima di desiderio c della falsa visione del sé come ego (messo in
evidenza nel versetto che segue).
Questa
concezione del nostro essere parte dall'analisi del duplice principio della
nostra natura secondo la visione Sànkhya: Purusha e prakriti. Purusha inattivo,
a-karta, Prakriti attiva, Metri; Purusha, l'essere pieno di luce della
coscienza; Prakriti, Natura meccanica, le cui opere si riflettono nel testimone
cosciente, il Purusha. Prakriti agisce mediante l'ineguaglianza dei tre modi, i
guna, che perpetuamente si urtano, si mescolano e si alternano l'uno con
l'altro e, attraverso la funzione di ego mentale, essa fa in modo che il
Purusha s'identifichi con tutto questo giuoco e crei così, nella silenziosa
eternità del Sé, il sentimento di una personalità attiva, mobile e temporale.
Se
nessun’altra soluzione fosse possibile, il solo rimedio sarebbe di ritirare
completamente il nostro assentimento e, con questo ritirarlo, permettere alla
nostra natura di ricadere nell'equilibrio immobile dei tre guna, cessando in
tal modo qualsiasi azione. Quantunque sia indiscutibilmente un rimedio - il
rimedio che sopprime il male e l'ammalato -, è ciò che la Gita sconsiglia ad
ogni passo. Ritirarsi in un'inazione tamasica è quello che farebbe precisamente
un ignorante, se lo mettessimo improvvisamente di fronte alla verità. In quale
contraddizione, confusione o inerzia si cadrebbe allora? (Da qui il consiglio
di non seminare il turbamento negli spiriti).
30. "Con la coscienza fermamente
stabilita nel Sé[156], abbandonaMi[157] tutte le opere;
senza preferenze né preoccupazioni per te stesso, combatti, libero da codesta
tua febbre.
31. "Gli uomini che, con fede e
senza vane critiche, seguono il Mio insegnamento, vengono liberati dal legame
delle opere.
32. "Gli insensati che biasimano
il Mio insegnamento e rifiutano di seguirlo, ingannati dalla loro conoscenza,
s'avviano verso la loro perdita.
Queste
verità superiori non possono essere utili che su piani superiori di più vasta
coscienza e di più vasta esistenza, poiché sono esperienze di verità che devono
essere realmente vissute. Considerare queste verità da un piano inferiore,
significa vederle male, comprenderle male e probabilmente servirsene male. La
distinzione del bene e del male è un fatto e una legge di ordine pratico,
valevole per la vita umana egoistica, nel ciclo di transizione fra l'animale e
il divino. Ma è anche vero - ed è una verità d'ordine superiore - che passando
ad un piano più elevato, ci situiamo sopra tale opposizione, di là dal bene o
dal male, nello stesso modo in cui lo è il Divino. Ma la mente non ancora
matura, che s'impadronisce di questa verità senza liberarsi della coscienza
inferiore dove questa verità non è praticamente valida, ne farà una comoda
scusa per dar libero corso alle proprie inclinazioni asuriche, sprofondando
sempre di piú nei pantani della perdizione.
È
la stessa cosa per la verità che si esprime parlando del determinismo della
Natura; essa rimarrebbe incompresa e male impiegata se venisse usata come la
usano coloro che affermano che un uomo è quello che ne ha fatto la sua natura e
non può agire altrimenti. È vero in un certo senso, ma non certamente nel senso
in cui l'ego debba considerarsi irresponsabile del suo operato e, in tal modo,
reclamare l'impunità. In effetti, il sé-ego ha la volontà e ha il desiderio, e
finché agisce secondo questo desiderio e questa volontà, anche se secondo
natura, deve subire le reazioni del karma. Si trova preso in una fitta rete o
in una trappola che alla sua esperienza attuale può sembrare inesplicabile,
illogica, ingiusta e terribile a causa della limitata conoscenza che ha di sé,
ma è una trappola che lui stesso ha scelto una rete che lui stesso ha tessuto.
33. "Tutti gli esseri seguono la
loro natura. A cosa serve la coercizione? Lo stesso saggio agisce secondo la
propria natura.
34. "Negli oggetti sensibili si
trova nascosto ciò che ai sensi produce attrazione o ripulsione. Che nessuno
cada sotto il loro potere poiché sono per lui due nemici.
35. «È preferibile seguire la propria
legge d'azione[158], che [se può
sembrare] imperfetta, che la legge altrui, e se [l'azione] sembra migliore.
Vale più morire osservando la propria legge, perché la legge altrui è piena di
pericoli."
Considerato
isolatamente, (il versetto 33) sembra affermare categoricamente e senza
speranza l'onnipotenza della Natura sull'anima. Su quest'affermazione riposa
l'ingiunzione (del versetto 35) di conformarsi fedelmente alla legge della
propria natura. Per sapere esattamente cosa significa svadharma, bisogna aspettare gli ultimi canti della Gita. Ma questo
termine non vuoi certamente dire che dobbiamo seguire qualsiasi impulso, anche
perverso, che ci spinga verso ciò che noi chiamiamo natura. Infatti in questi
due versetti, la Gita ci fornisce un'altra ammonizione, quella di "non cadere sotto l'attrazione e la
ripulsione, i due nemici dell'anima". Un po' più avanti (versetto 35)
l'Istruttore parla del desiderio e della sua inseparabile compagna, l'ira, e
ripete che la passione, grande nemica dell' anima, dev'essere abbattuta.
Dobbiamo quindi distinguere l'essenziale della natura, la sua azione originale
e inevitabile, che a nulla servirebbe contenere o sopprimere, da quella
accidentale - smarrimenti, confusioni, perversioni -, che dobbiamo invece
dominare. Conviene anche imparare a distinguere, da una parte la costrizione e
la soppressione, nigraha, e
dall'altra un ben diretto e bene impiegato dominio, samyama. Nigraha è la
violenza fatta dalla volontà alla natura, che finisce sempre per deprimere i
poteri naturali dell' essere; samyama,
è il dominio de! Sé superiore sul sé inferiore, che riesce a conferire a questi
poteri pienezza d'azione e il massimo d'efficacia (II, 50).
L'uomo
non è come la tigre, il fuoco o la tempesta; egli non Può uccidere e
giustificarsi col dire: "Ho agito secondo la mia natura”. Non lo può dire
perché non ha la natura, e di conseguenza la legge d'azione, svadharma, della tigre, del fuoco e
della tempesta. Egli possiede una volontà cosciente ed intelligente, buddhi,
alla cui guida deve ricorrere per le sue azioni. Non facendolo, agendo ciecamente
secondo i propri impulsi e le proprie passioni, non seguendo la legge del suo
essere, non agisce al massimo delle sue possibilità umane, ma bensí come lo
farebbe un animale. L'uomo sa più o meno imperfettamente che deve dominare la
sua natura tamasica e rajasica con l'aiuto di quella sattvica, e che a ciò
tende la perfezione della sua normale umanità.
Ma
la natura in cui sattva predomina segna forse uno stato di libertà? La volontà
cosciente intelligente, buddhi, possiede il libero arbitrio?
La
Gita lo smentisce, situandosi nel punto di vista di una coscienza superiore, dove
solamente la libertà può esistere. Buddhi è anche uno strumento della Natura e,
quando agisce, anche nel senso pienamente sattvico, è sempre la Natura che
agisce. La più sattvica delle volontà è così contrariata dagli altri guna,
rajas e tamas, che introducendosi in essa la circuiscono a tal punto che solo
una parte rimane della virtù originale; ed è proprio ciò che permette questa
possibilità di travestimenti, di commedia involontaria e spesso innocente, di
falsa apparenza e di sotterfugio che l'occhio esperto dello psicologo discerne
anche nell'azione apparentemente più pura. Quando crediamo di agire liberamente
non ci accorgiamo che dietro la nostra azione lavorano forze che sfuggono alla
più oculata introspezione; quando crediamo di esserci liberati dall'ego, l'ego
è là, nascosto nella mente del santo come in quella del peccatore. E quando i
nostri occhi si aprono realmente sulle azioni e sui moventi segreti che le
animano, siamo obbligati di dire, con la Gita: "Sono i modi della Natura
(i guna) che agiscono sui modi" (III, 28).
Arjuna disse:
36. "O Discendente dei Vrishni[159], chi spinge dunque
l'uomo verso il peccato, anche contro la sua volontà, come se vi fosse
costretto?"
Il Beato Signore rispose:
37. "Il desiderio[160], con [la sua
compagna] la collera[161], parto di rajas[162], è il grande
istigatore del peccato, colui che tutto divora; sappi che è il nemico di questo
mondo[163].
L'uomo
dinamico non si sente soddisfano con ideali che non permettano il totale
spiegamento della Natura cosmica, il giuoco dei tre modi o qualità di questa
Natura e l'umana attività della mente, del cuore e del corpo. "La piena
attività," dirà l'uomo dinamico, "rappresenta il mio ideale di
perfezione umana, della divina possibilità dell'uomo. Ogni essere umano è
legato alla propria natura; in questa natura deve cercare la propria
perfezione, tendere il proprio sforzo per raggiungerla seguendo la linea della
sua personalità, del suo svadharma,
ma nella vita, nell'azione, non fuori dalla vita e dall' azione."
"Sì," risponde la Gita, "ma è vero solo in parte: il compi-mento
di Dio nell'uomo, il giuoco del Divino nella vita, fanno parte della perfezione
ideale. Ma se la cercate solo all'esterno, nella vita, nel principio
dell'azione, non la troverete mai, poiché in tal caso agirete secondo la vostra
natura - che in sé è principio di perfezione - ma sarete eternamente sottoposti
- e questo è principio d'imperfezione - ai suoi modi, alle sue opposizioni
d'attrazione e di ripulsione, di piacere e di dolore, c soprattutto al modo
rajasico, col suo principio di desiderio e di collera, col suo corteggio di
cupidigia e di dolore."
38-39. "Nello stesso modo in cui
il fumo ricopre la fiamma, la polvere Io specchio e l'utero l'embrione, o
Figlio di Kunti, così ricopre e nasconde la conoscenza[164] questo persistente
nemico del saggio, la cui forma è il desiderio[165], fuoco insaziabile.
40. "I sensi, la mente[166] e l'intelligenza[167] sono la sua dimora;
attraverso questi, velando la conoscenza, travia l'anima incarnata[168].
"Tuttavia,
è proprio nelle ristrette limitazioni di questi sensi, di questa mente e di
questa intelligenza, in questo giuoco della Natura inferiore, che vorreste
condurre la vostra ricerca di perfezione! Lo sforzo sarebbe vano. All'aspetto
dinamico della vostra natura si deve prima aggiungere l'aspetto quietistico;
bisogna che vi eleviate sopra questa Natura inferiore fino a situarvi di là dai
tre guna, fino al principio supremo, all'anima. Solo quando avrete raggiunto la
pace dell'anima diverrete capaci di un'azione libera e divina."
41. "Perciò, tu [che sei] il
migliore fra i Bharata[169], incomincia con il
dominare i tuoi sensi e abbatti questo peccato, distruttore della conoscenza
perfetta[170].
42. "I sensi, dicono, sono
superiori [agli oggetti sensibili]; la mente è sopra i sensi; sopra la mente è
la volontà intelligente, ma più grande ancora dell'intelligenza è Lui, [il
Purusha].
Per
comprendere questo versetto e quello che segue dobbiamo ricordarci dell'ordine
psicologico del Sànkhya, adottato dalla Gita. Da una parte vi è l'anima
cosciente, il Purusha, calma, inattiva, una, immutabile, fuori dall'evoluzione;
dall'altra parte vi è la Natura dinamica, la Prakriti, inerte se non attivata,
animata dalla presenza dell'anima cosciente; essa è di triplice aspetto e
capace di evoluzione. Il contatto fra l'anima e la Natura genera il giuoco del
soggettivo e dell'oggettivo che è la nostra esperienza dell'essere. Si
manifesta dapprima quello che per noi è soggettivo, perché l'anima cosciente è
la causa originale, e la forza incosciente della Natura la causa secondaria e
subordinata; tuttavia la Natura e non l'anima fornisce gli strumenti della
nostra soggettività. In principio, emanata dalla Natura, viene buddhi, la
facoltà di discernimento e di determinazione, accompagnata dalla sua facoltà
subordinata, ahankara, l'ego, che ci
spinge a considerarci come un'entità separata dal resto.' Da ciò si manifesta
poi la facoltà che afferra la differenziazione degli oggetti: manas, la mente
sensoria. In terzo ed ultimo luogo, da manas si manifestano i sensi - cinque di
percezione e cinque d'azione.
Nel
viaggio di ritorno dell'anima, che si ritira da Prakriti per ritornare al
Purusha, va considerato l'ordine inverso. Per questo la Gita indica l'ordine
ascendente delle nostre facoltà soggettive.
43. "Divenuto in tal modo cosciente
di Colui che è di là dall'intelligenza, rinsaldando il sé[171] per mezzo del Sé[172], uccidi [in te], o
Guerriero dal braccio possente, questo nemico in forma di desiderio, così
difficile da vincere."
Di
conseguenza, dice la Gita, è il Purusha, causa suprema della nostra vita
soggettiva, che dobbiamo comprendere e di cui dobbiamo divenire coscienti con
l'aiuto della nostra intelligenza; in Lui la nostra volontà dev'essere
stabilita. Se mediante il Sé superiore, quello realmente cosciente, riusciamo a
mantenere fermamente equi-librato e in pace il nostro sé soggettivo inferiore,
quello della Natura (inferiore), potremo allora distruggere il nemico insidioso
e attivo della nostra pace e della padronanza di noi stessi: il Desiderio.
Il Beato Signore disse:
1. Questo yoga imperituro, già lo
esposi a Vivasvàn[173]; Vivasvàn lo
trasmise a Manu[174] e a Ikshvàku[175].
Parlando
di questo yoga in cui l'azione e la conoscenza diventano una sola cosa e
vengono offerte al Purushottama, Krishna dichiara, di sfuggita, che si tratta
dello stesso antico e originale yoga che Egli stesso aveva insegnato in altre
epoche a Vivasvàn e che oggi ripete ad Arjuna, perché da lui si sente amato con
devozione e perché è suo compagno e amico.
2. Così trasmesso dall'uno all'altro
lo conobbero i saggi regali[176], fino a che questo
yoga si perse nel trascorrere del tempo, o Terrore dei nemici.
3. Questo antico yoga ti è stato oggi
rivelato, perché sei Mio devoto[177] e Mio amico - questo
è il sommo segreto[178].
È
superiore alle altre forme di yoga, perché le altre conducano al Brahman
impersonale o a una Divinità personale, alla liberazione in una conoscenza
fuori dell'azione o a una liberazione nell'estasi della beatitudine, mentre
questo yoga rivela integralmente il più alto segreto; ci porta alla pace
divina, alle opere divine, alla conoscenza, all'azione e all'estasi divine,
unificate in una perfetta libertà; tutte le altre forme di yoga sono in esso
riunite, nello stesso modo in cui l'essere supremo del Divino concilia e
riunisce nel suo seno tutti i poteri, tutti i principi diversi, a volte
opposti, del suo essere manifestato. Lo yoga della Gita non è dunque un
semplice karma yoga, come taluni credono, il più basso dei tre sentieri dello
yoga classico, ma uno yoga supremo, sintetico ed integrale, che dirige verso
Dio tutte le facoltà del nostro essere.
Arjuna disse:
4. Vivasvàn è nato prima di Te, Tu
sei venuto dopo; in che modo devo intendere che Tu gli hai rivelato questo yoga
fino dal principio dei tempi?
L'intelligenza
pratica di Arjuna rimane sconcertata dall'affermazione di Krishna di essere
stato Egli stesso a rivelare a Vivasvàn questo yoga, perdutosi successivamente
ed infine nuovamente rivelato al suo amico devoto. Arjuna, richiedendone la
spiegazione, provoca la famosa dichiarazione, così spesso citata, sull'Avatar e
sull'opera che questi svolge nel mondo (versetti 7 e 8).
Il Beato Signore disse:
5. Numerose sono le Mie vite passate,
o Arjuna, così come le tue; tutte Io le conosco, ma tu non le conosci, o
Terrore dei nemici.
6. Sebbene Io sia il Non-nato, il Sé
imperituro, il Signore[179] di tutte le
creature, ricorrendo alla Natura[180] che Mi è propria[181], vengo all'esistenza
mediante i Miei stessi poteri.
Per
lo spirito moderno, l'idea dell'Avatar è, fra tutte quelle che dall'Oriente
tentano di penetrare la coscienza umana razionalizzata, una delle più difficili
da essere capita e accettata. Il razionalista sostiene che, se Dio esiste, è un
essere extra-cosmico o super-cosmico, che non interviene negli affari del mondo
ma li fa governare dal meccanismo fisso delle leggi naturali. Spirito puro, non
può rivestire un corpo; infinito, non può essere finito come l'essere umano;
creatore non-nato, non può essere creatura nata in questo mondo. Sono cose impossibili
anche per la sua assoluta onnipotenza. Il Maestro sembra aver presenti queste
obiezioni, a prima vista così potenti per la ragione. Non dice forse che,
sebbene il Divino sia non-nato, dall'esistenza imperitura, Signore di tutti gli
esseri, nasce ricorrendo all'azione della sua natura mediante la forza della
sua stessa maya? Non dice forse (IX, 11) che, disprezzato dagli ignoranti
perché abita un corpo umano, è in verità nel suo supremo essere il Signore di
tutti; che nell'attività della coscienza divina è il creatore del quadruplice
ordine e l'autore delle opere nel mondo, e allo stesso tempo, nel silenzio
della divina coscienza, il testimone imparziale delle opere della sua stessa
natura, il supremo Purushottama oltre il silenzio o l'attività?
La
Gita riesce a confutare tutte le obiezioni, a conciliare tutte le
contraddizioni, perché parte dalla concezione vedantina dell'universo e di Dio.
Per essa tutto è Dio, tutto è spirito o esistenza del Sé, tutto è Brahman,
l'Uno senza secondo; non c'è altro, non c'è nulla che non sia Quello, non può
esserci altro e nulla che non sia Quello. Non solamente lo Spirito ha la piena
capacità di prendere forma o di unirsi a una forma materiale o mentale e di
rivestire una natura o un corpo limitati, ma quaggiù tutto è Quello, il mondo
esiste solo grazie a tale relazione, a tale accettazione delle forme. Siamo
quindi ben lontani dall'idea che il mondo sia un meccanismo di leggi senza che
anima e spirito intervengano nei movimenti delle forze o nell'azione
dell'intelligenza e del corpo - salvo forse qualche Spirito originale,
indifferente, esistente in qualche parte fuori del mondo o al di sopra.
L'intero mondo e ognuna delle sue parti componenti non sono altro che la forza
divina in azione, che determina e dirige fino nei più piccoli movimenti, che
abita ognuna delle sue forme e possiede ogni anima e ogni intelligenza. Tutto
vive in Dio, in Lui si muove e giustifica il proprio essere; Egli è in tutto,
Egli agisce e manifesta il suo Essere. Siamo ben lontani da un Non-nato
incapace di nascita; tutti gli esseri sono, persino nella loro individualità,
lo Spirito non-nato, unico; nascita e morte sono fenomeni attraverso i quali
riveste o cambia una forma. Il perfetto che riveste l'imperfetto è il fenomeno
mistico dell'universo. L'imperfezione appare nelle forme e nell'azione della
mente o del corpo che viene rivestito; essa sussiste nel fenomeno, ma chi
riveste non è imperfetto, nello stesso modo in cui, nel sole che tutto
illumina, non esistono difetti né di luce né di percezione, essi sono presenti
solamente nell'organo individuale di percezione visiva.
7-8. Ogni volta che la giustizia[182] declina e che
l'ingiustizia[183]
si afferma, o Bhàrata, incarno Me stesso e nasco di età in età nelle creature,
per la protezione dei buoni, la distruzione dei malvagi e per ristabilire la
giustizia.
9. Colui che conosce il vero
principio della Mia nascita e della Mia azione divina, quando abbandona il
corpo, non rinascerà più, o Arjuna; egli verrà a Me.
10. Liberati dall'attrazione della
paura e della collera, purificati mediante l'austerità della conoscenza,
imbevuti di Me, avendo in Me preso rifugio, molti hanno raggiunto la Mia natura[184] [divina].
Dobbiamo
attentamente notare che il fatto di ristabilire il dharma nel mondo non è il
solo oggetto della discesa dell'Avatar, di questo grande mistero divino
manifestato nell'umanità. Mantenere il dharma non è né un motivo sufficiente né
lo scopo supremo della manifestazione di un Cristo, di un Krishna o di un
Buddha; non è altro che la condizione generale di un fine più elevato e di una
su-prema e più divina utilità. La nascita divina ha due aspetti: uno è la
discesa, la nascita di Dio nell'umanità, la Divinità che si manifesta nella
forma e nella natura umane, l'eterno Avatar; l'altro è un'ascesa, la nascita
dell'uomo alla divinità, l'uomo che si eleva fino alla natura e alla coscienza
divine. Questa è la seconda nascita dell'essere, la nuova nascita, quella
dell'anima. La venuta dell'Avatar e il man tenimento del dharma aiutano questa
nuova nascita.
La
venuta dell’Avatar avviene per spingere l'uomo all'ascesa verso la Divinità;
sarebbe un fenomeno superfluo se dovesse limi-tarsi solo a mantenere il dharma,
in quanto il semplice diritto, la semplice giustizia, i semplici modelli di
virtù possono sempre esser conservati mediante i comuni mezzi dell'onnipotenza
- grandi uomini, grandi movimenti, vita e opere di saggi, di re e di maestri
religiosi - senza che ci sia il bisogno di una vera incarnazione. L'Avatar
viene come manifestazione della natura divina nella natura umana, rivelandosi
nelle qualità del Cristo, di Krishna o del Buddha, affinché la natura umana,
modellando i suoi principi, il suo pensiero, la sua sensibilità, la sua azione
e il suo essere sulle linee della natura di questi esseri straordinari, possa
raggiungere la trasfigurazione divina. Il Cristo, Krishna, il Buddha si tengono
al centro, quali porte d'ingresso, divenendo loro stessi la via che gli uomini
devono seguire. É per questo motivo che le incarnazioni divine presentano agli
uomini il loro proprio esempio e si dichiarano la via e la porta; affermano
anche l'identità del loro essere umano con l'essere divino, dichiarano che il
Figlio dell'uomo e il Padre che è nei cieli sono uno, che Krishna nel suo corpo
umano e il Signore supremo, l'Amico di tutte le creature, non sono che due
rivelazioni dello stesso Purushottama divino, rivelato qui sotto forma umana,
là come il suo proprio essere.
La
nascita del Divino nell'uomo è una crescita della coscienza umana per
raggiungere la coscienza divina, il cui punto culminante è la perdita del sé
separato in questa più ampia coscienza. L'anima fonde la sua individualità in
un essere universale e infinito, oppure la perde nelle altezze di un essere
trascendentale; essa diviene una col Sé, col Brahman, il Divino, o, come
qualche volta è stato detto, essa “diventa” l'unico Sé, il Brahman, il Divino.
Ma questa suprema unione, questa sommità del divenire, fa ancora parte
dell'ascesa. Ogni jiva giunge a questa nascita, senza peraltro rappresentare
una discesa della Divinità, senza essere un Avatar. L'anima esce dalla presente
individualità nell'universo e si sveglia a una supercoscienza infinita; ma ciò
non significa che debba possedere la coscienza interiore dell'Avatar o la sua
azione caratteristica.
Questa
entrata nella coscienza divina può accompagnarsi ad un'azione riflessa del
Divino, un'azione che penetra o scende nelle parti umane dell'essere e si
riversa sulla natura, sull'attività, sulla mentalità e anche sul corpo degli
uomini. Il Signore sì mantiene nel cuore, dice la Gita - intendendo il cuore
dell'essere sottile, il centro delle emozioni, delle sensazioni, della
coscienza mentale dove il Purusha individuale risiede - ma si mantiene velato,
avvolto dalla sua Màyà. Al di sopra, in un piano interiore ancora per noi
sovracosciente, che gli antichi mistici chiamavano il Cielo o i Cieli, il
Signore e il jiva si mantengono uniti come se possedessero una sola e stessa
essenza: sono il Padre e il Figlio di certi simbolismi, l'Essere divino e
l'Uomo divino che da lui procede, nato dalla Natura superiore o divina - la
Vergine Madre[185], paraprakriti, paramaya -
nella Natura inferiore o umana. Questo sembra essere il senso intimo della
dottrina cristiana dell'Incarnazione. Nella Trinità cristiana, il Padre si tiene
sopra i Cieli interiori; il Figlio, la suprema Prakriti divenuta il jiva della Gita, discende nel corpo
mortale, come uomo divino sulla terra; lo Spirito Santo, il puro Sé, la
coscienza brahmica, è ciò che li unisce e il mezzo di comunicazione; ci è stato
detto che lo Spirito Santo discese su Gesù, e la discesa stessa diede alla
semplice umanità degli apostoli i poteri della coscienza superiore.
11. Qualunque sia la maniera in cui
gli uomini vengono a Me, in quella maniera vengono accolti dal Mio amore[186], o figlio di Prithà,
[poiché] gli uomini seguono[187] la Mia via.
12. Coloro che desiderano quaggiù il
successo[188]
delle loro opere, sacrificano agli dèi[189]; in verità, nel
mondo degli uomini, le opere danno rapidamente e facilmente i loro frutti.
L'altra
realizzazione, la perfezione (nello yoga) attraverso il sacrificio fatto, in
piena conoscenza, alla Divinità suprema, è molto più difficile; i suoi
risultati appartengono a un piano più elevato dell'esistenza ed è più difficile
raggiungerli. Per questo motivo gli uomini devono seguire la quadruplice legge
della loro natura e delle loro opere e, sul piano dell'azione nel mondo,
ricercare il Divino mediante le sue diverse (forme e) qualità.
13. Ho creato il quadruplice sistema
delle caste secondo una divisione fondata sui guna e le opere[190]. Sappi che, sebbene
Io ne sia l'autore[191], non agisco[192] e sono immutabile.
La
Gita non prende il quadruplice ordine delle caste nel senso ristretto che gli
si attribuisce abitualmente, nemmeno lo considera come un ordine sociale eterno
e universale. Quest'ordine è solamente la forma concreta di una verità
spirituale, in sé stessa indipendente da tutte le forme, riposa sull'opera
giusta in quanto espressione giustamente ordinata dalla natura dell'individuo
attraverso il quale l'opera è compiuta, assegnando all'individuo la linea e il
campo d'azione secondo la qualità (guna) che gli è propria e la funzione in cui
trova la propria espressione.
14. Le opere non Mi toccano e non ho
desiderio dei loro frutti; colui che cosi Mi conosce non è più vincolato dalle
opere.
Dio
non è l'autore delle opere, secondo il senso personale che riveste la nostra
azione in seno a Prakriti, in quanto il Signore agisce per mezzo del suo
potere, della sua natura cosciente, della sua forza effettiva, Shakti, Màyà,
Prakriti, ma resta sopra, non impegnato o sottomesso ad esse; non é vincolato o
toccato dalle leggi, dai procedimenti e dalle abitudini d'azione che Egli
stesso crea, al punto di essere incapace - come a noi succede - di distinguere
fra sé stesso e i processi mentali, vitali e fisici. È colui che fa le opere,
ma che non agisce, kartaram akartaram,
15. Così consapevoli, gli antichi
cercatori di liberazione[193] compirono le loro
opere; in tal modo compi le tue come lo fecero gli antichi dei tempi andati.
I
benefici della venuta dell'Avatar sono per coloro che imparano da lui la vera
natura della nascita divina e delle opere divine, che riempiono il loro essere
della sua coscienza e prendono in lui rifugio; purificati dalla forza
realizzatrice della loro conoscenza e liberati della loro natura inferiore,
raggiungono l'essere divino e la Natura divina. L'Avatar viene a rivelare la
divina Natura dell'uomo, sopra la Natura inferiore, e a mostrare ciò che sono
le opere divine, libere, non egoistiche, disinteressate, impersonali,
universali, piene di luce divina, di potere e di amore divini. Egli viene come
personalità divina a riempire la coscienza dell'essere umano, per sostituire la
sua personalità egoistica e limitata e per liberarla, per farla uscire dalle
strettoie dell'ego aprendola all'infinito e all'universale, per scioglierla dall'obbligo
della nascita e condurla all'immortalità. Egli viene come potere e amore divini
per chiamare a sé gli uomini affinché in lui trovino rifugio, rifiutando le
debolezze della loro volontà, i tormenti della loro paura, della loro collera e
delle loro passioni - affinché, liberati dall'agitazione e dalla sofferenza,
imparino a vivere nella calma e nella beatitudine del Divino.
La
forma in cui l'Avatar si presenta, il suo nome, l'aspetto del Divino che egli
manifesta, non hanno importanza essenziale; poiché, in tutti i modi e secondo
la loro natura, gli uomini seguono il cammino che dal Divino è stato loro
assegnato e che alla fine li condurrà a Lui. L'aspetto del Divino che conviene
alla loro natura è quello che seguono più facilmente quando l'Avatar viene a
loro per condurli. In qualsiasi modo gli uomini accettino Dio, l'amino e
prendano gioia in Lui, in questo stesso modo Dio accetta l'uomo, l'ama e prende
gioia in lui.
Raggiungere
la nascita divina - la nascita a una più alta coscienza che divinizzi l'anima -
e compiere le opere divine prima di aver ottenuto questa divina nascita, come
mezzo per raggiungerla e, dopo averla raggiunta, come mezzo per esprimerla, è
quanto rappresenta l'intero sistema del karma-yoga della Gita. Questo grande
insegna-mento non cerca di definire le opere mediante i segni esteriori che le
renderebbero riconoscibili e paragonabili; la Gita rinuncia persino,
deliberatamente, alle distinzioni etiche comuni attraverso le quali gli uomini
cercano di guidarsi rischiarati dalla luce della loro ragione. I segni mediante
i quali la Gita distingue le opere divine sono tutti profondamente intimi e
soggettivi; essi sono invisibili, ultra-etici, spirituali. Non possono essere
riconosciuti che alla luce dell'anima che compie le opere.
16. Su ciò che è l'agire[194] e il non-agire[195] gli stessi antichi
saggi rimangono perplessi; Io ti rivelerò l'agire, la cui conoscenza ti
libererà dal male.
17. Si deve comprendere cosa sia
l'agire e cosa l'azione sbagliata[196], ed anche cosa sia
il non-agire. Misteriosa è la via delle opere.
L'agire
compiuto nel mondo è simile a un'intricata foresta attraverso la quale l'uomo
si muove il meglio che può, incespicando, rischiarato dalle idee dell'epoca in
cui vive, dai criteri della sua personalità e da quelli delle persone che lo
circondano, o piuttosto guidato dalle idee di numerose epoche, di numerose
personalità, da strati successivi di pensiero e di etica appartenenti a
infiniti cicli sociali, tutti inestricabilmente aggrovigliati. Queste idee
temporanee e convenzionali, anche se pretendono d'essere l'assoluta e
immutabile verità, sono empiriche e irrazionali anche quando imitano la giusta
ragione.
Il
saggio che, in mezzo a tutta questa confusione, cerca la solida base di una
legge fissa e di una verità originale, si vede costretto a porsi la suprema
domanda: L'agire, la vita stessa, non sono forse un inganno, un tranello?
Cessare ogni azione, a-karma, non è forse l'ultimo rifugio di un'umanità stanca
e disingannata?
No,
dice Krishna, attraverso l'azione, attraverso le opere e non mediante
l'inazione, la conoscenza e la liberazione vengono raggiunte. Su questo punto i
saggi stessi rimangono perplessi e si sbagliano.
Qual
è dunque la soluzione? Quali le opere che ci libereranno dal dubbio,
dall'errore, dall'afflizione, dai mali della vita, dai risultati incerti,
impuri, sconcertanti delle nostre azioni - anche le più pure e le meglio
intenzionate -, dai milioni di forme del male e della sofferenza?
18. Colui che vede nell'agire il
non-agire e nel non-agire l'agire, è saggio fra gli uomini; unito [al Sé][197] compie tutte le
opere.
Krishna
risponde che non è necessario fare distinzioni esteriori, evitare il lavoro
necessario al mondo, imporre limiti o barriere alle attività umane. Al
contrario, l'agire non deve conoscere limiti, ma le azioni devono essere
compiute con l'anima unita al Divino. La cessazione dell'agire non è il giusto
cammino; l'uomo che è stato penetrato dalla ragione superiore si accorge che
l'inazione è in sé - stessa un'azione continua, uno stato di soggezione alle
attività della natura e ai suoi modi. La mente che si rifugia nell'inattività
fisica è ancora nell'illusione di essere l'autrice delle opere; commette l'errore
di prendere l'inerzia per liberazione; non si rende conto che, anche in ciò che
sembra inerzia assoluta - un'inerzia maggiore di quella della pietra o della
zolla di terra -, la Natura è all'opera e mantiene inalterata la sua attività.
Al contrario, anche in mezzo al turbinio dell'azione, l'anima non è incatenata
all'agire, non si sente né l'autore né il responsabile di ciò che fa.
Colui
che vive nella libertà dell'anima, e non nella schiavitù dei modi della Natura,
è liberato dall'agire.
19, Colui le cui imprese sono esenti
dalla spinta del desiderio, colui le cui azioni vengono consumate dal fuoco
della conoscenza, è chiamato saggio[198] da quelli che sanno.
L’uomo
liberato non teme l'agire; egli è l'agente vasto e universale di tutte le
azioni, non soggetto alla Natura come gli altri uomini, ma in equilibrio nella
calma silenziosa dell'anima, in tranquilla unione con il Divino; egli non è che
il canale, e la sua natura, cosciente del Signore, è a lui sottomessa quale
strumento. Grazie alla purezza e all'ardente intensità di questa conoscenza,
tutte le sue opere sono consumate come in un fuoco e la sua mente non ne
conserva la minima traccia, il minimo segno che la sfiguri. Egli rimane calmo,
silenzioso, imperturbabile, bianco, pulito, puro. Compiere tutte le azioni sotto
l'impulso di questa conoscenza liberatrice, senza l'egoismo proprio all'autore,
è il primo segno che distingue il divino operaio.
Il
secondo è dato dall'assenza del desiderio. Senza l'egoismo dell'autore, il
desiderio diviene impossibile, deperisce e, mancante di nutrimento, s'affloscia
e muore d'inedia. Visto dall'esterno, l'uomo liberato sembra intraprendere
opere d'ogni specie come gli altri uomini, forse su più grande scala e con
maggior forza ed energia, in quanto la forza della volontà divina opera nella
sua natura attiva; ma le sue imprese non sono motivate dal desiderio; egli ha
abbandonato l'attaccamento ai frutti dell'azione, e quando si agisce senza
desiderio di ricompensa, ma unicamente come strumento impersonale nelle mani
del Signore delle opere, il desiderio non può trovar posto. Nemmeno il
desiderio di servire con successo deve infiltrarsi, poiché il risultato
appartiene al Signore; è Lui che lo determina, e non la volontà e lo sforzo
personali. Anche il desiderio di servire per soddisfare il Signore delle Opere
deve sparire, poiché il vero autore è Lui e la gloria non deve ricadere sulla
personalità umana limitata, ma su di una forma della divina Shakti all'opera
nella Natura. L'anima e la mente dell'uomo liberato non fanno nulla; anche se
la natura dell'uomo lo impegna nell'azione, è la Natura, la Shakti esecutiva,
la Dea cosciente, diretta dall'Abitante divino, che compie l'azione.
20. Abbandonato l'attaccamento ai
frutti dell'azione, indipendente da tutto, sempre felice, non agisce, anche se
impegnato nell'agire.
Un
altro segno del divino operaio è la gioia e la perfetta pace interiore che
risiedono nel centro stesso della coscienza divina e non dipendono da nulla per
nascere e per durare- pace e gioia innate, sostanza della coscienza, dell'anima
e della stessa natura dell'essere divino. L'uomo comune dipende dalle cose
esteriori per la sua felicità, ecco il perché del desiderio, ecco perché è
soggetto alla collera e alla passione, al piacere e al dolore, alla gioia e
alla disperazione. Egli valuta tutte le cose con la bilancia della buona e
della cattiva fortuna. Tutto questo non tocca l'anima divina, sempre
soddisfatta senza dipendere da nulla.
21. Non ha preferenze, ha rinunciato
ad ogni forma di possesso; domina il suo pensiero e il suo cuore[199], e, pur agendo coi
mezzi fisici, non commette peccato.
L'uomo
liberato riceve ciò che la volontà divina gli concede; non desidera nulla, non
è geloso; ciò che gli viene concesso l'accetta senza ripulsione e senza
attaccamento; ciò che lo abbandona, lascia che se ne vada a raggiungere il
turbinio delle cose, senza rammarico, senza affliggersi e senza avere il senso
di perdere qualcosa. L'azione dell' uomo liberato è puramente fisica, tutto il
resto viene dall'alto e non dal piano umano; tutto il resto è solo un riflesso
della volontà, della conoscenza e della gioia del divino Purushottama. Per
questo l'uomo liberato, staccato dall'agire e dal suo oggetto, non suscita
nella propria mente e nel proprio cuore le reazioni che chiamiamo passione e
peccato. Il peccato non consiste tanto nell'azione esteriore quanto nella
reazione impura della volontà personale, della mente e del cuore che segue o
causa l'azione. L'impersonale, lo spirituale è sempre puro e trasmette la sua
inalienabile purezza a tutto ciò che fa. Questa impersonalità spirituale è il
terzo segno del divino operaio.
Il
risultato di questa conoscenza, di questa assenza di desiderio e di questa
impersonalità è una perfetta equanimità nell'anima e nella natura. (L'equanimità
è il quarto segno del divino operaio.
22. Soddisfatto di ciò che la sorte
gli assegna, libero dall' invidia, libero dai contrari, uguale nel successo e
nell' insuccesso, anche quando agisce non è soggetto a vincoli.
Gli
avvenimenti felici e gli avvenimenti infausti, così importanti per l'anima
umana soggetta al desiderio, vengono accolti con equanimità dall'anima divina
libera dal desiderio, che si accorge che le loro fibre, strettamente unite,
servono a tessere le forme progressive dell'eterno Bene. L'uomo liberato non
può essere vinto, poiché per lui tutto è in marcia verso la vittoria divina sul
campo di Kurukshetra della Natura - il campo dell'azione, che è allo stesso
tempo il campo del dharma in evoluzione; egli sa che ogni fase del conflitto è
stata voluta e tracciata dalla visione cosciente del Maestro della battaglia,
Signore delle opere e Guida del dharma.
23. Per l'uomo che ha raggiunto la
liberazione, che ha abbandonato ogni attaccamento e che opera con la coscienza[200] saldamente fissata
nella conoscenza, offrendo la sua azione in sacrificio, l'intero operare si
dissolve.
La
liberazione non impedisce l'agire. L'uomo liberato sa che l'attività non
proviene da lui, ma dai tre guna, modi o qualità della Natura. Questa superiorità
dell'anima calma, che osserva il proprio agire senza immedesimarsi col
movimento dei guna, è anche un segno evidente del divino operaio. Questa idea
potrebbe facilmente condurre alla dottrina di un determinismo meccanico della
Natura e finire in una perfetta indifferenza, in una completa irresponsabilità
dell'anima, se Ia Gita non evitasse l'errore di questo concetto con la luce
offerta dall'idea “superteistica” del Purushottama. Essa dimostra che in fondo
non è la Natura che determina l'azione dell'anima, ma la volontà del Supremo
che ispira la Natura. Il Divino suscita, ispira, determina l'intera azione;
l'anima umana impersonale nel Brahman è il canale puro e silenzioso del potere
divino che si serve della Natura per eseguire il divino movimento.
Così,
e solamente così, devono essere le opere dell'anima liberata, in quanto essa
non agisce per iniziativa personale - tale è l'agire del perfetto karma yogi.
Sono atti che emanano da uno spirito libero e spariscono senza alterarlo, come
le onde che si elevano e spariscono sulla superficie di profondità coscienti cd
immutabili.
La
Gita ci darà adesso una spiegazione minuziosa di cosa intende per sacrificio,
yajna, una spiegazione particolareggiata, che non lascerà dubbi sull'impiego
simbolico delle parole e sul carattere psicologico del sacrificio prescritto
dal suo insegnamento.
24. Brahman è l'atto di offrire,
Brahman è l'offerta[201], dal Brahman[202] viene versata sul
fuoco del sacrificio[203] di Brahman. In
verità si raggiunge il Brahman concentrandosi[204] perfettamente
nell'azione, che è essa stessa il Brahman.
Questo
è il modo di conoscere con cui l'uomo liberato deve compiere il sacrificio
delle opere. È la stessa conoscenza espressa in altri tempi dalle grandi parole
vedantine: "Io sono Lui", "In verità tutto ciò è Brahman",
"Brahman è questo Sé". È la conoscenza dell'unità totale - quella
dell'Unico manifestato come attore, come atto e come oggetto dell'atto, come
conoscitore, come conoscenza e come oggetto della conoscenza. L'energia
universale in cui è versata l'offerta è il Divino; l'energia dell'offerta
consacrata è il Divino; tutto ciò che viene offerto non è altro che una forma
del Divino; colui che porge l'offerta è lo stesso Divino nell'uomo; l'azione,
l'opera, il sacrificio sono l'attività, il movimento del Divino; il Divino è Io
scopo da raggiungere mediante il sacrificio. Per chi possiede questa conoscenza
e vive e agisce in essa, non c'è opera che possa incatenarlo, non può esistere
azione personale che possa essere rivendicata dall'ego; solo esiste il divino
Purusha che agisce nell'essere mediante la Prakriti divina, che offre tutto nel
fuoco dell'energia cosmica cosciente, mentre la conoscenza e il possesso
dell'esistenza e della coscienza divina da parte dell'anima che è a lui imita,
sono lo scopo di tutta quest'attività e di tutto questo movimento diretto verso
Dio. Conoscere ciò, vivere e agire in questa coscienza unificatrice, significa
essere libero.
Ma
neppure tutti gli yogi hanno raggiunto questa conoscenza.
25. Certi yogi offrono il sacrificio
agli dèi[205];
altri l'offrono invece al fuoco[206] di Brahman.
Coloro
che offrono il sacrificio agli dèi concepiscono il Divino con forme e poteri
diversi; lo cercano con mezzi diversi, comandamenti, leggi, dharma, o attraverso
rigidi riti d'azione, di disciplina, di consacrazione; ma per colui che ha la
conoscenza, l'atto stesso del sacrificio, la semplice offerta al Divino di
tutto ciò che fa, il rimettere tutte le sue attività alla Coscienza e
all'Energia divine, è l'unica via, l'unico dharma.
Molti
sono i mezzi del sacrificio, molte le offerte. Esiste il sacrificio psicologico
del dominio di sé e della disciplina interiore, che conducono al possesso e a
una conoscenza di sé superiori.
26. Alcuni offrono l'udito e gli altri
sensi al fuoco del dominio di sé[207]; altri offrono il
suono e gli altri oggetti sensibili al fuoco dei sensi.
Esiste
una disciplina che placa i sensi in tal modo che l'anima può attraversare il
velo dell'azione mentale ed apparire calma e serena nella sua purezza. Esiste
la disciplina in cui si ha la percezione sensoria senza permettere alla mente
d'essere turbata o toccata dalle attività dei sensi, che divengono essi stessi
pure fiamme di sacrificio.
27. Altri offrono al fuoco dello yoga
del dominio di sé, ravvivato dalla conoscenza, tutte le attività dei sensi e
quelle dell'energia vitale[208].
Attraverso
questa disciplina, quando il Sé è conosciuto, tutte le azioni e le percezioni
sensorie e tutte le attività dell'essere vitale vengono ricevute dall'anima in
uno stato di silenziosa calma.
28. Alcuni offrono in sacrificio i
loro beni, altri le loro austerità[209] o il loro yoga [le
pratiche del loro yoga][210], mentre altri
ancora, asceti fermamente stabiliti nei loro voti, offrono il loro studio
[delle Scritture] e la loro conoscenza.
29. Coloro che si consacrano al
dominio del respiro[211] sacrificano il fiato
espirato[212]
a quello inspirato[213] e il fiato inspirato
a quello espirato, dopo aver disciplinato il doppio movimento della loro
respirazione.
30. Altri ancora, che hanno regolato
il cibo, versano in sacrificio il loro fiato vitale[214] negli altri fiati
vitali. Tutti hanno imparato la scienza del sacrificio e mediante il sacrificio
hanno distrutto le impurità.
Tutti
i sacrifici tendono alla purificazione dell'essere; ogni sacrificio è una via
che ha per scopo la ricerca del Supremo. La sola cosa necessaria, il principio
permanente di salvezza in queste diversità, è subordinare e controllare le
attività inferiori, ridurre la pressione del desiderio e sostituirlo con una
forza superiore, abbandonare il godi-mento puramente egoistico per una felicità
divina che provenga dal sacrificio, dalla consacrazione di sé, dal dominio di
sé e dall'abbandono degli impulsi inferiori a favore di uno scopo più nobile e
più elevato.
31. Coloro che godono il nettare
dell'immortalità[215] che resta dal
sacrificio, raggiungono l'eterno Brahman; ma colui che per non compiere il
sacrificio non possiede questo mondo, come potrebbe possedere l'altro [mondo],
o Migliore dei Kuru?
Il
sacrificio è la legge del mondo, e nulla può essere ottenuto senza di esso; né
il dominio in questa terra, né il possesso dei cieli nell'al di là, né il
possesso supremo del Tutto.
32. In tal modo mille forme di
sacrificio irradiano dalla bocca di Brahman. Sappi che tutte sono nate dall'agire
e, così sapendo, tu sarai liberato.
Sono
mezzi e forme dell'unica grande Esistenza in attività, mezzi mediante i quali
l'essere umano può offrire Ia sua azione a Colui di cui l'esistenza esteriore è
una parte e con il quale il suo essere intimo è unificato.
Tutte
queste forme provengono dall'unica vasta energia del Divino e da quest'energia
sono formate. Essa si manifesta attraverso il karma universale e fa di tutte le
attività cosmiche un'offerta progressiva al Sé, unico Signore.
Per
l'essere umano, l'ultimo stadio di quest'offerta è la conoscenza di sé e il
possesso della coscienza divina o coscienza brahmica: "E così sapendo tu
sarai liberato."
33. Il sacrificio della conoscenza[216], o Parantapa, è più
grande di qualsiasi altro sacrificio materiale, in quanto tutte le opere, o
Figlio di Prithà, trovano la loro conclusione nella conoscenza[217].
34. Acquisiscila[218], umiliandoti [ai
piedi del maestro spirituale], mediante la ricerca e il servizio[219]. I saggi che hanno
conquistato la visione dei principi[220] [delle cose], ti
istruiranno in questa conoscenza.
35. In possesso di questa conoscenza,
tu non ricadrai nell'illusione[221], o Figlio di Pàndu;
poiché allora tu vedrai nel Sé[222], quindi in Me stesso[223], tutti gli esseri[224] senza eccezione.
II
Sé è questa unica e immutabile realtà che tutto penetra, che tutto contiene,
autoesistente, quello stesso Brahman nascosto dietro la nostra mente, in cui si
estende la nostra coscienza quando è liberata ' 'Viso. Vedremo allora tutti gli
esseri come il divenire, bhutani, nel
seno di quest'Essere unico autoesistente. Ma vedremo che questo Sé. questo
Brahman immutabile, è anche la rappresentazione che fa di sé stesso nella
nostra esistenza e di cui tutto, mutevole e immutabile, è la manifestazione.
Egli è Dio, il Divino, il Purushottama.
36. Anche se tu fossi il più grande
dei peccatori, sulla barca della conoscenza passerai attraverso ogni peccato.
37. Nello stesso modo in cui il fuoco
riduce il legno in cenere, o Arjuna, il fuoco della conoscenza riduce in cenere
le opere.
38. Non esiste al mondo nulla che
purifichi come la conoscenza; chi ha raggiunto la perfezione yoghica, con
l'andar del tempo, da sé stesso la trova nel Sé.
In
questo inizio d'insegnamento, la Gita fissa lo yoga e la conoscenza come le due
ali che servono all'ascesa dell'anima. Lo yoga è l'unione tramite le opere
divine, compiute senza desiderio e con animo uguale di fronte alle cose e agli
uomini, come un sacrificio offerto al Supremo; la conoscenza è la base su cui
si fondano questa assenza dì desiderio, questa equanimità e questo potere di
sacrificio. Infatti, le due ali si aiutano reciprocamente nel loro volo. Più le
opere sono compiute senza desiderio, con equanimità, con spirito di sacrificio,
più la conoscenza si accresce; e con la crescita della conoscenza l'anima si
afferma nell'assenza di desiderio, nell'equanimità e nello spirito di
sacrificio che accompagna le opere.
39. L'uomo che ha fede, che è padrone
di sé stesso e che si dà senza nulla riservarsi[225], raggiunge la
conoscenza e, avendola conseguita, raggiunge presto la pace suprema.
La
conoscenza cresce nell'uomo e l'uomo cresce in questa conoscenza a mano a mano
che l'assenza di desiderio, l'equanimità e la devozione al Divino divengono più
vaste. Ma tutto ciò ha valore sola-mente per la conoscenza suprema, in quanto
la conoscenza accumulata dall'intelletto umano è laboriosamente riunita dai
sensi e dalla ragione, e proviene dall'esterno. Per ottenere questa conoscenza
intuitiva è indispensabile possedere la fede e il dominio di sé stessi, ed essere
coscientemente concentrati, tatparah,
sulla verità della suprema Realtà in cui tutto esiste, affinché possa
manifestare in noi la sua luminosa esistenza.
40. Ma l'anima[226] piena di dubbi,
ignorante e senza fede, è votata alla perdizione, poiché né questo né un altro
mondo e neppure la felicità, sono per l'anima che si abbandona al dubbio.
Dobbiamo
avere una fede che nessun dubbio intellettuale giunga a turbare. Infatti, è
risaputo che senza fede nulla di decisivo può esser compiuto in questo mondo o
in altri mondi; solamente assicurandosi una sicura base e un sostegno positivo
l'uomo può raggiungere un certo successo, la soddisfazione e la felicità, su
questa terra o in cielo. La mente puramente scettica si perde nel vuoto.
41. Colui che attraverso lo yoga ha
rinunciato alle opere, che attraverso la conoscenza ha distrutto il dubbio, che
possiede il Sé, non è più vincolato alle opere, o Conquistatore di ricchezze.
Quando
la Gita dice che la totalità delle opere trova il suo compi-mento nella
conoscenza (IV, 33), o che il fuoco della conoscenza riduce in cenere tutte le
opere (IV, 37), non significa che si debba abbandonare l'azione. Quello che la Gita
vuol dire è chiaramente espresso in questo versetto: "Lo yogi che possiede la conoscenza non rimane vincolato dalle
proprie opere".
42. Con la spada della conoscenza
taglia dunque il dubbio, che nasce dall'ignoranza che dimora nel tuo cuore,
rimani fermamente stabilito nel tuo yoga e sorgi, o Bhàrata.
Il
dubbio e lo scetticismo hanno un'utilità temporanea per la conoscenza
inferiore; per la conoscenza superiore sono intoppi. Il segreto non consiste in
un equilibrio fra verità ed errore, ma in una realizzazione progressiva della
verità che si rivela. Non si tratta di una verità che si debba provare, ma di
una verità che si deve vivere interiormente, una realtà più grande in cui si
deve crescere. Non è il sortilegio dell'ignoranza in cui viviamo, ma una verità
esistente in sé e di per sé stessa evidente. I dubbi, le perplessità che c'impediscono
di accettarla e di seguirla, provengono dall'ignoranza di questa mente e di
questo cuore fuorviati dai sensi e turbati nel loro giudizio, che vivono nella
verità inferiore dei fenomeni, mettendo in dubbio, di conseguenza, le realtà
superiori. Questi dubbi debbono essere tagliati dalla spada della conoscenza,
dice la Gita, dalla conoscenza realizzatrice e ricorrendo costantemente allo
yoga, o in altre parole, vivendo in totale unione col Supremo. "Quando la verità è conosciuta, tutto è
conosciuto" ;Shandilya Upanishad, cap. 2).
Arjuna disse:
1. Tu lodi, o Krishna, la rinuncia
alle opere[227]
e anche lo yoga [delle opere][228]. Quale delle due
cose è la migliore? Dimmelo chiaramente.
Nuovamente,
Arjuna è perplesso: da un lato le opere compiute senza desiderio - principio
dello Yoga - e dall'altro la rinuncia alle opere - principio del Sànkhya - si
trovano riunite, l'una accanto all'altra, come facessero parte dello stesso
metodo, senza che però si possa intravedere la possibilità di un accordo tra
loro. A dire il vero, il Maestro ha già tentato una conciliazione quando ha
proposto di liberarci dall'illusione d'essere l'autore delle opere,
abbandonando le attività nelle mani del Signore del Sacrificio, e di vedere
l'azione persistere ancora nell'inazione esteriore, e nell'azione apparente una
vera inazione (IV, 18). Ma una risposta del genere, espressa in termini quasi
enigmatici, è troppo sommaria, troppo sottile per la mentalità pratica di
Arjuna; questi non ne ha saputo cogliere il senso, o comunque non ne ha
penetrato lo spirito o la portata.
La
risposta è importante, poiché essa presenta con estrema chiarezza la
distinzione ed indica, senza tuttavia svilupparla completa-mente, la linea
secondo cui la conciliazione è possibile.
2. La rinuncia [alle opere] e lo yoga
delle opere conducono entrambi al bene supremo; tuttavia lo yoga è superiore
alla rinuncia.
Lo
yoga delle opere è da preferire alla rinuncia materiale ad agire, perché
quest'ultima è difficile per gli esseri incarnati che, avendo un corpo, non
possono evitare d'agire, mentre lo yoga praticato mediante le opere è
interamente efficace e conduce l'anima al Brahman in modo rapido e sicuro.
3. Dev'essere sempre considerato un
sannyàsin[229]
[anche quando è impegnato nell'azione], colui che non prova né desiderio né
avversione; in quanto, libero dalla schiavitù dei dualismi, o Guerriero dal
braccio possente, egli facilmente si svincola dal legame [delle opere].
4. Separare il Sànkhya dallo Voga è
parlare da bambini, non da saggi; chi si dedica esclusivamente a uno dei due,
ottiene il frutto di entrambi.
5. Lo stato che raggiungono coloro
che seguono il Sànkhya è raggiunto anche da coloro che seguono lo Yoga; colui
che vede Sànkhya e Yoga come la stessa cosa, questi appunto vede.
La
Gita afferma insistentemente che Sànkhya e Yoga sono tutt'uno nel loro
principio e nel loro scopo; la loro unica differenza consiste nel punto di
partenza e nel metodo. Il Sànkhya parte dalla discriminazione e dall'analisi
intellettuale, lo Yoga si basa sulle opere; queste due vie si riuniscono alla
fine per giungere alla stessa meta. Nella loro integralità, ognuna contiene
l'altra.
6. Ma la rinuncia, o Guerriero dal
braccio possente, è difficile da ottenere senza lo yoga; il saggio che attraverso
lo yoga si è unito [al Sé][230] giunge rapidamente
sino al Brahman.
La
penosa disciplina del sannyasa esteriore
non è necessaria. È vero che bisogna rinunciare all'azione, come pure al frutto
dell'azione, ma dev'essere una rinuncia interiore, non esteriore; non si deve
seguire l'inerzia della natura, ma offrire l'azione al Signore del Sacrificio,
nella calma e nella gioia dell'Impersonale, da cui proviene ogni azione senza
che la pace ne sia turbata. Il vero sannyasa
dell'azione consiste nel rimettere tutte le attività al Brahman (V, 10-12).
7. Colui che mediante lo yoga si è
unito [al Sé], anima pura, padrone di sé stesso, che ha dominato i sensi, il
cui sé è diventato il sé di tutti gli esseri, costui, anche quando agisce, non
è coinvolto nell'azione.
8-9. "In realtà io non compio
cosa alcuna", pensa colui che unito [al Sé] conosce l'essenza delle cose.
Quando vede, ode, tocca, odora, gusta, cammina, dorme, respira, quando parla,
afferra, dà, quando apre gli occhi o li chiude, in tutto ciò egli non riconosce
altro che l'opera dei sensi, che si muovono in mezzo agli oggetti dei sensi.
Il
saggio sa che le azioni non gli appartengono, ma che appartengono alla Natura,
e con questa conoscenza è libero; ha rinunciato alle opere e non compie nessuna
azione, benché l'azione si compia suo tramite; diventa il Sé, il Brahman (V,
24), vede tutta la realtà come il divenire dell'Essere in sé esistente, e la
propria esistenza come una delle infinite forme di quel divenire; vede che
tutte le azioni sono soltanto lo sviluppo della Natura cosmica che opera
mediante la natura individuale di ognuno, e che anche la propria azione fa
parte della stessa attività cosmica.
10. Come l'acqua non può aderire alla
foglia del loto, così il peccato non può macchiare colui che, avendo
abbandonato ogni attaccamento, agisce riponendo in Brahman ogni sua opera.
Lo
yoga delle opere consiste, come abbiamo visto, nell'offerta di ogni azione al
Signore, e raggiunge il suo culmine nell'abbandono delle opere al Brahman,
all'essere del Signore. Quest'abbandono non è esteriore, ma interiore, non è
materiale, ma spirituale. Quando le opere "si appoggiano", come dice
la Gita, "sul Brahman", cessa la personalità dell'autore - che
diviene così un semplice strumento; sebbene agisca, egli non fa nulla, poiché
ha abbandonato al Signore non soltanto il frutto delle opere, ma le opere
stesse e la loro esecuzione; il Divino lo alleggerisce allora del fardello
delle opere; il Supremo diventa (ad un tempo) l'autore, l'azione, e il
risultato dell'azione.
11. Avendo abbandonato ogni
attaccamento, gli yogi compiono l'azione col corpo, con la mente, con
l'intelligenza o persino con i soli sensi[231], per la loro
purificazione[232].
12. Colui che è unito [al Sé][233] e ha rinunciato al
frutto dell'azione ottiene la pace che si fonda sul Brahman; ma colui che non è
in unione e che, sotto l'impulso del desiderio, è attratto dal frutto
dell'azione, quello in verità è incatenato.
13. L'anima incarnata[234] che mentalmente[235] ha rinunciato ad
ogni attività, sta serena e sovrana nella città dalle nove porte[236], senza agire o
essere la causa di nessuna azione.
14. Il Signore[237] non crea
[direttamente] né le azioni del mondo né la tendenza all'azione, e neppure il
legame tra l'azione e il suo frutto; è la natura individuale[238] che manifesta tutte
queste attività.
15. Il Signore[239] non accetta né i
peccati né i meriti di nessuno[240]; la conoscenza è
avvolta dall'ignoranza, e per-ciò le creature sono smarrite.
16. Ma in coloro in cui questa
ignoranza è distrutta dalla conoscenza del Sé[241], questa conoscenza,
come un sole, fa risplendere il Supremo[242].
Questa
conoscenza di cui parla la Gita non è un'attività intellettuale della mente; è
una crescita luminosa sino allo stato più elevato dell' essere, grazie
all'azione della luce risplendente del sole divino della Verità, di "quel Sole di Verità che sta nascosto nelle
tenebre" della nostra ignoranza - come dice il Rig Veda. Il Brahman
immobile sta nei cieli dello spirito, sopra questa Natura inferiore turbata
dagli opposti: è inaccessibile sia alla virtù sia al peccato, poiché non
accetta né il nostro senso del peccato né l'orgoglio della nostra virtù; è
insensibile al piacere e al dolore, indifferente alla nostra gioia nel successo
e alla nostra tristezza nell'insuccesso, signore di tutto, supremo, che tutto
pervade, Prabhu, Vibhu, calmo, forte, puro, equo in ogni cosa; Lui, origine della
Natura, Lui che, pur senza essere direttamente l'autore delle nostre azioni, è
il testimone della Natura e delle sue opere, non più c'impone l'illusione di essere
gli autori delle opere, in quanto tale illusione è il risultato dell'ignoranza
della Natura inferiore. Ma quella libertà, quella padronanza, quella purezza,
noi non possiamo vederle, siamo troppo sviati dall'ignoranza naturale che ci
nasconde l'eterna conoscenza di noi stessi, che è quella del Brahman segreto
nell'intimo del nostro essere. Ma al ricercatore perseverante la verità giunge
e gli toglie la naturale ignoranza; essa risplende come un sole a lungo
nascosto e rivela alla nostra visione l'essere supremo, di là dagli opposti
dell'esistenza inferiore. Il risultato, come dice la Gita, è una perfetta equanimità
verso tutto e verso tutti, e allora soltanto possiamo porre completamente le
nostre opere fra le mani del Brahman.
17. Con tutto l'essere consacrato a
Quello[243],
con l'intelligenza fissa su Quello, con Quello come solo Sé e scopo supremo,
essi vanno dove non c'è ritorno; i loro peccati sono dissolti dalla conoscenza.
18. I saggi vedono con occhio
equanime il bramino colto ed erudito, la vacca, l'elefante, il cane e chi
mangia la carne del cane[244].
Il
saggio ha per tutti, nel suo cuore, la stessa benevolenza, lo stesso affetto
divino. Le circostanze possono determinare l'effusione o il conflitto
esteriore, ma non possono mai turbare il suo “occhio equanime”, il suo cuore
aperto e il suo abbraccio interiore che si estende a tutto.
19. Persino quaggiù[245] hanno dominato la
natura creata coloro la cui mente è stabilita nell'equanimità; essi vivono nel
Brahman, poiché il Brahman è equo[246] e oltre [ogni]
colpa.
Il
Brahman è equo, samam, e quando
possediamo quella perfetta equanimità, quando vediamo con “occhio equanime” il
bramino colto ed erudito, la vacca, l'elefante e il paria, sapendo che sono
tutti l'unico Brahman, allora, e allora soltanto possiamo, vivendo in quest'
unità, vedere - come il Brahman - che le nostre opere procedono dalla Natura,
ed essere completamente liberati dal timore dell'attaccamento, del peccato e
della schiavitù. Colpa e peccato non possono più esistere, perché abbiamo dominato
questa natura creata, piena di desiderio, e le sue opere e reazioni che
appartengono all'ignoranza. Quando viviamo nella suprema e divina Natura, le
nostre opere sono esenti da colpa o da difetto, poiché questi sono creati dalla
parzialità dell'ignoranza. Il sereno Brahman è esente da colpe, di là dalla
confusione del bene e del male; vivendo nel Brahman ci eleviamo anche noi oltre
il bene e il male; possiamo agire in quella purezza, senza macchia, avendo per
fine unico e costante il lavoro per il bene di tutti gli esseri (V, 25).
20. Con l'intelligenza stabile,
svincolato dall'illusione, colui che conosce il Brahman, che vive nel Brahman,
non si rallegra quando succede qualcosa di piacevole, non si rattrista quando
sopravviene qualcosa di spiacevole.
Dopo
aver parlato della perfetta equanimità di chi conosce il Brahman e si è elevato
sino alla coscienza del Brahman, la Gita espone nei nove versetti seguenti la
sua concezione del brahma yoga e del nirvàna nel Brahman.
21. Con l'anima staccata dai contatti
esteriori, egli trova la felicità[247] che esiste nel Sé: e
con il Sé unito al Brahman per mezzo dello yoga, gode di una felicità[248] imperitura.
22. Il piacere nato dal contatto [con
le cose] genera il dolore, o Figlio di Kunti; esso ha un inizio e una fine, e
il saggio[249]
non se ne compiace.
23. Colui che quaggiù, prima ancora
d'essere liberato dal corpo, è capace di sopportare l'impeto del desiderio e
della collera, quello è unito [al Sé] e ha raggiunto la felicità.
Non
essere attaccati, dice la Gita, è indispensabile se si vuole essere liberi
dall'assalto del desiderio, della collera e della passione, e senza tale
libertà la vera felicità non è possibile. La felicità e l'equanimità di cui
parla la Gita devono essere conquistate interamente dall'uomo in possesso di un
corpo: l'uomo non deve tollerare nessuna traccia di soggezione alla Natura
inferiore, avvalendosi dell'idea che la perfetta liberazione verrà quando avrà
abbandonato il corpo. La perfetta libertà spirituale dev'essere conquistata
qui, sulla terra, e bisogna possederla e gioirne durante la vita umana.
24. Colui che trova in sé la
felicità, la quiete gioiosa e anche la luce interiore, quello yogi diventa il
Brahman[250]
e raggiunge l'estinzione dell'io nel Brahman[251].
Qui,
molto chiaramente, Nirvàna significa l'estinzione dell'ego nel più elevato e
spirituale Sé interiore, per sempre fuori dal tempo e dallo spazio, non legato
alla catena della causa e dell'effetto o ai cambiamenti provocati
dall'evoluzione del mondo, che ha in sé la luce e la felicità, ed è per sempre
in pace.
Lo
yogi cessa d'essere l'ego, la piccola persona limitata dalla mente e dal corpo,
diventa il Brahman ed è unito in coscienza con la divinità immutabile del Sé
eterno, che è immanente nel suo essere naturale. Ma si tratta dell'accesso allo
stato di sonno profondo del samàdhi, senza coscienza del mondo, oppure del
movimento preparatorio alla dissoluzione dell'essere naturale e dell' anima
individuale in un Sé assoluto, del tutto e per sempre di là dalla Natura e
dalle sue opere, laya, moksha?
25. I rishi[252], purificati da ogni
contaminazione, che hanno distrutto il peccato e tagliato il nodo del dubbio,
che hanno acquisito la padronanza di sé stessi e che si sono votati al bene di
tutti gli esseri, giungono all'estinzione nel Brahman.
26. Quanto agli asceti[253] che si sono liberati
dal desiderio e dalla collera, padroni della loro mente[254], che conoscono il
Sé, l'estinzione nel Brahman li avvolge[255].
Per
queste anime, l'estinzione nel Brahman è 'tutt'attorno', le avvolge; esse già
vivono in Lui. Si può anche dire che conoscere e possedere il Brahman significa
essere in Nirvàna. È chiaro che questa è un'estensione dell'idea di Nirvàna.
L'assenza di ogni macchia dovuta alle passioni, l'autocontrollo di una mente
equa sulla quale si fonda la libertà, l'equanimità nei riguardi di tutti gli
esseri e l'amore per tutti, la distruzione definitiva del dubbio e
dell'oscurità pro-venienti dall'ignoranza che ci mantiene separati dal Divino,
la conoscenza del Sé unico in noi e in tutti, sono evidentemente le condizioni
del Nirvàna esposte in questi versetti della Gita; sono la sostanza spirituale
del Nirvàna e contribuiscono a costituirlo. Così descritto, il Nirvàna è
chiaramente compatibile con la coscienza del mondo e con l'azione nel mondo. I
saggi che lo possiedono sono coscienti del Divino e, tramite le opere, in
intima relazione con Lui in questo mutevole universo. Essi agiscono per il bene
di tutte le creature.
Per
Nirvàna nel Brahman si deve intendere la distruzione o l'estinzione della
coscienza separatrice limitata, generatrice dell' errore e della divisione,
portata alla superficie dell'esistenza dalla maya inferiore dei tre guna.
L'accesso al Nirvàna è il passaggio ad un'altra coscienza, vera e unificatrice,
che è il cuore dell'esistenza, il suo contenente e il suo totale contenuto, il
suo sostegno, la sua intera verità originale, eterna e finale. Quando
raggiungiamo il Nirvàna, quando vi entriamo, non soltanto l'abbiamo in noi, ma
intorno a noi, poiché non soltanto la coscienza del Brahman vive segretamente
in noi, ma noi viviamo in essa. Questa coscienza è il Sé che siamo dentro dì
noi, il Sé supremo del nostro essere individuale, ma anche il Sé di tutte le
esistenze. Vivendo in questo Sé noi viviamo in tutto, e non più soltanto nel
nostro essere egoistico; grazie all'unione con il Sé, un'unità stabile con
tutto ciò che è nell'universo diventa la natura stessa del nostro essere, lo
stato base della nostra coscienza attiva e il motivo base di ogni nostra
azione.
27-28. Avendo abolito il contatto con
gli oggetti esteriori e concentrato la visione tra le sopracciglia, avendo reso
uguale il fiato inspirato e il fiato espirato[256] dalle narici, avendo
dominato i sensi, la mente e l'intelligenza, il saggio che si consacra alla
liberazione[257]
e che ha respinto il desiderio, la paura e la collera, è libero[258] per sempre.
Il
procedimento yoghico indicato in questi versetti introduce un elemento che
sembra differire completamente dallo yoga delle opere e persino dal puro yoga
della conoscenza raggiunta mediante la discriminazione e la contemplazione;
tutti i suoi tratti sono caratteristici del raja yoga, di cui espongono
l'ascesi psicofisica. C'è il riferimento al dominio di tutti i movimenti della
mente, al controllo della respirazione, pranayama,
al ritiro dei sensi e della visione all'interno di sé. Tutte queste pratiche
conducono all'estasi interiore, alla `trance' del samadhi; esse hanno per
oggetto moksha, e moksha significa nel linguaggio corrente
la rinuncia - non soltanto alla coscienza separatrice dell'ego, ma a tutta
quanta Ia coscienza attiva - e la dissoluzione del nostro essere nel Brahman
supremo. Dobbiamo forse supporre che la Gita adotti questo significato e faccia
di questo pro-cedimento l'ultimo movimento di una liberazione ottenuta
attraverso la dissoluzione? Oppure Io considera soltanto un metodo particolare,
un aiuto specialmente efficace al fine di dominare la mente rivolta verso
l'esteriore? Si tratta della raccomandazione finale, dell'ultima parola?
Vedremo che c'è ragione di considerare questo procedimento sia come un metodo
particolare, un aiuto, sia come una delle porte che danno accesso al movimento
finale, il quale però non consiste in una dissoluzione, ma in un'ascesa
all'esistenza ultracosmica. Infatti, la raccomandazione espressa in questo
passaggio non è l'ultima parola. La parola finale, il punto culminante, si
trova nel versetto seguente, l'ultimo del canto.
29. Sono Io, il Signore sovrano[259] di tutti i mondi e
l'Amico di tutti gli esseri, colui che coglie il frutto del sacrificio e
dell'ascesi[260].
Chi Mi conosce come tale raggiunge la pace.
In
questo passaggio ritroviamo tutta la forza del karma-yoga; la conoscenza del
Brahman attivo, della super-anima cosmica, viene insistentemente presentata
come una delle condizioni della pace del Nirvàna. Ritorniamo così alla grande
idea della Gita, all'idea del Purushottama. Benché questo nome non venga
espresso sin verso la fine del poema, è sempre al Purushottama che Krishna si
riferisce quando dice “Io” e “Me”; egli intende cioè, il Divino che è il Sé
unico nel nostro essere immutabile e intemporale, che è anche presente nel
mondo, in tutte le esistenze e in tutte le attività, Signore del silenzio e
della pace, Signore del potere e dell'azione, incarnato, in questo tremendo
conflitto, nella forma del divino Auriga. È il Trascendente, il Sé, il Tutto,
il Signore di ogni essere individuale; è Colui che coglie il frutto di ogni
sacrificio e di ogni ascesi, tapasyà; e perciò l'uomo che cerca la liberazione
compirà le opere come un sacrificio e un'ascesi. È il Signore di tutti i mondi,
manifestato nella Natura e negli esseri; perciò l'uomo liberato continuerà ad
agire affinché i popoli di questi mondi siano diretti e governati giustamente, loka-sangraha (III, 20, 21). t l'Amico
di tutte le creature; perciò il saggio che ha trovato il Nirvàna in sé e
attorno a sé si occupa ancora e sempre del bene di tutti gli esseri - come pure
il Nirvana del Buddismo Mahàyàna ha fatto delle opere di compassione universale
il suo simbolo più alto. Inoltre, anche quando ha trovato nel suo sé immutabile
e intemporale l'unità col Divino, il saggio è ancora capace - poiché abbraccia
anche le relazioni del giuoco della Natura - d'amore divino per l'uomo e
d'amore per il Divino, bhakti. Che
sia questa la tendenza del pensiero sarà ancor più evidente quando avremo
approfondito il senso del sesto canto, vasto commento e completo sviluppo
dell'idea contenuta negli ultimi versetti del quinto - il che dimostra
l'importanza che attribuisce loro la Gita.
Il Beato Signore disse:
1. Il vero sannyàsi[261], il vero yogi, è
colui che compie l'opera che deve compiere[262] senza pensare al
frutto dell' opera stessa, non colui che non accende il fuoco [del sacrificio],
astenendosi dall'agire.
2. Sappi, o figlio di Pàndu, che ciò
che si chiama sannyàsa non è altro che lo yoga, e nessuno diviene yogi se non
ha rinunciato alla volontà-desiderio[263].
Il
Maestro insiste dapprima - ed è assai significativo - sull'affermazione molte
volte ripetuta che la vera essenza del sannyasa
è la rinuncia interiore e non quella esteriore. Le opere devono farsi, ma
secondo quali intenti e in che ordine?
3. Per il saggio che sale il pendio,
l'azione è la causa[264] della liberazione;
per colui che ha raggiunto la sommità dello yoga, la serenità[265] è la causa [della
perfezione delle opere].
Le
opere sono la causa, ma la causa di che? La causa della perfezione di sé, della
liberazione, del Nirvana neI Brahman, poiché se si adempiono le opere
praticando fermamente la rinuncia interiore, allora la perfezione, la
liberazione, la conquista della mente di desiderio, del sé egoista e della
natura inferiore possono essere facilmente conseguite.
E
quando la sommità è stata raggiunta? Allora le opere non sono più la causa; la
calma della padronanza e del possesso di sé, acquisiti mediante le opere
divine, divengono la causa. Ma ancora una volta, la causa di che? Della
stabilità nel sé, della coscienza che si ha del Brahman e della perfetta
equanimità di cui sono tessute le opere divine dell'uomo liberato.
4. Di colui che non ha più
attaccamento né per gli oggetti sensibili né per le opere, e che ha rinunciato
alla volontà-desiderio[266], si dice che ha
raggiunto la sommità dello yoga.
Tale
è lo spirito in cui l'uomo liberato compie le opere; egli agisce senza
desiderio e senza attaccamento, senza volontà personale egoistica e senza la
ricerca mentale, causa del desiderio.
5. Mediante il Sé libera il sé[267] e non degrada sé
stesso, poiché in verità solo il sé è amico del sé e solo il sé è nemico del
sé.
6. Il sé è l'amico del sé per colui
il cui sé è stato vinto dal Sé, ma per colui il cui sé non è stato conquistato,
in verità il sé gli è ostile e può anche agire da nemico[268].
7. Il supremo Sé[269] è concentrato[270] in colui il cui sé è
stato conquistato e pacificato, e che rimane indifferente davanti al freddo o
al caldo, al piacere o al dolore, all'onore o al disonore.
Colui
che ha conquistato il sé inferiore ha raggiunto la calma per-fetta in cui il Sé
supremo gli si manifesta. Questo supremo Sé è sempre in samadhi, concentrato
sul proprio essere, non solamente nella trance della coscienza ritirata
nell'intimo, ma anche nello stato di veglia di una mente esposta agli opposti,
alle cause del desiderio e della perturbazione, al dolore e al piacere, al caldo
e al freddo, all'onore e alla vergogna. Questo Sé superiore è l'akshara, (il Brahman) immutabile,
imperturbabile.
8. Dello yogi che trova la propria
soddisfazione nella conoscenza perfetta[271] [del Brahman], e
che, imperturbabile e padrone dei sensi, non vede differenza fra la zolla di
terra, la pietra e l'oro, si dice che è unito[272] [al Sé, al Brahman].
9. Eccelle colui la cui intelligenza
rimane imperturbabile[273] davanti all'amico
benevolente, al nemico, all'indifferente, a colui che odia, allo straniero o a
quelli che gli sono vicini, al peccatore e al santo.
L'Akshara,
il Sé superiore, si tiene sopra i cambiamenti e le perturbazioni dell'essere
sottomesso alla natura; si può anche dire che lo yogi è in unione col Sé quando
come Lui rimane imperturbabile e superiore a tutte le apparenze e a tutti i
cambiamenti e quando, pienamente soddisfatto della conoscenza di sé, osserva
con equanimità tutte le cose, tutte le circostanze e tutte le persone.
10. Che lo yogi si tenga in un luogo
isolato e, solo, dominando pienamente sé stesso e i suoi pensieri[274], libero dal
desiderio e dall'idea di possedere qualcosa, si dedichi costantemente
all'unione [col Sé].
Questo
yoga non è facile da ottenere, come lo stesso Arjuna suggerisce poco dopo,
poiché la mente agitata può essere sempre strappata alle cime di una coscienza
elevata, dall'assalto delle cose esteriori, e ricadere sotto il dominio
dell'afflizione, della passione e della mancanza di equanimità (come reazione
alle circostanze). Sembra che per questo motivo la Gita inserisca uno speciale
procedimento di meditazione proprio del raja-yoga, disciplina pratica possente
e via sicura verso la padronanza della mente e delle sue operazioni.
11. Dopo aver scelto un luogo pulito
per sedersi, non troppo alto né troppo basso, lo ricopra di erba sacra[275], di una pelle di
daino e di una di stoffa, una sull'altra.
12. Seduto sul suo seggio, la mente
concentrata, l'attività dei sensi e dei pensieri[276] sotto controllo, che
egli pratichi lo yoga per la propria purificazione[277].
13-14. La testa, il collo e il corpo
eretti e immobili, gli occhi fissi sull'estremità del naso[278], senza volgersi
attorno, sereno e senza paura, saldo nel voto di castità[279], che si mantenga
seduto in yoga[280], con tutto l'essere
mentale sotto controllo e rivolto verso di Me, e si consacri interamente a Me[281].
15. Lo yogi con la mente sottomessa,
costantemente unito a Me, raggiunge la pace suprema del nirvana, la cui base è
in Me[282]
situata.
Una
volta spenti tutti i desideri e le passioni, che alla mente non venga più permesso
di esteriorizzarsi sotto forma di pensiero e che la pratica di questo yoga
silenzioso e solitario sia divenuta una regola, quali relazioni possono
sussistere col mondo dei contatti esteriori e delle instabili apparenze? Quali
azioni si possono ancora esercitare su di esso? Senza dubbio lo yogi rimane
ancora qualche tempo nel proprio corpo, ma la caverna, la foresta o la montagna
sembrano essere per lui il quadro più appropriato, il solo possibile per la sua
vita che continua nell'estasi del samadhi come sola gioia e sola
preoccupazione.
Tuttavia,
il punto finale, finché si è ancora in vita, non è un nirvana che elimini tutte
le possibilità d'azione nel mondo, ogni rapporto col resto del mondo. La Gita
non raccomanda la rinuncia ad ogni tipo d'azione. (Vedi i versetti seguenti.)
16. In verità lo yoga non è né per
colui che mangia troppo né per colui che digiuna, e nemmeno per chi dorme
troppo o veglia continuamente, o Arjuna.
17. Lo yoga distrugge la sofferenza
di colui in cui tutto è unificato[283], si tratti del sonno
o della veglia, del cibo, dell'abbandono o dell'agire.
Da
questi versetti si comprende generalmente che tutto dev'essere regolato, fatto
in giusta misura, e tale può essere effettivamente il loro significato. Ma in
ogni modo, quando lo yoga è raggiunto, tutto dev'essere vukta in un altro senso: il senso che questa parola ha nella Gita.
In tutte le circostanze, nella veglia e nel sonno, nel riposo o mangiando, nel
giuoco o nell'azione, lo yogi sarà unito al Divino, lo yogi farà tutto nella consapevolezza
che il Divino è il Sé, il Tutto che sostiene e contiene la propria vita e la
propria azione.
Il
desiderio e l'ego, la volontà personale e il pensiero della mente devono essere
moventi solo nell'azione della Natura inferiore. Quando lo yogi ha abbandonato
l'ego, è divenuto il Brahman e vive in una coscienza trascendentale e
universale - diviene questa stessa coscienza -, l'azione scaturisce allora
spontaneamente; si rivela una luminosa conoscenza più alta di quella mentale;
un potere più potente della volontà personale compie le opere e ne riceve i
frutti; l'azione personale è cessata, tutto è stato assorbito nel Brahman e
assunto dal Divino (XVIII, 57).
18. Dell'uomo il cui pensiero[284], esente da
desiderio, interamente sottomesso, riposa nel Sé, si dice: "Egli è in
unione[285]".
19. Come la fiamma di una lampada
riparata dal vento non oscilla, così è lo yogi che ha sottomesso la mente e che
pratica l'unione[286] col Sé.
20. La condizione in cui la mente
dominata dalla pratica dello yoga trova la quiete[287], e dove [lo yogi]
contempla il Sé mediante il sé, e nel sé trova la sua gioia;
21. La condizione in cui lo yogi
conosce la felicità suprema[288], percepita
dall'intelligenza[289], liberata dalla
presa dei sensi, e in cui prende stabile dimora nella verità essenziale[290] [del suo essere] per
non più uscirne;
22. È la conquista massima che possa
ottenere, nella quale una volta saldamente stabilito, non è più sconvolto dai
più crudi tormenti.
23. Yoga è la rottura dell'unione con
la sofferenza; questo yoga deve essere praticato risolutamente e senza mai
abbandonarsi allo scoraggiamento.
Allora
l'anima è soddisfatta, poiché conosce la vera e incomparabile beatitudine. Non
è mediante il piacere, prerogativa della niente e dei sensi, ma in una serena
felicità interiore che l'anima è protetta dalle perturbazioni mentali e non può
ricadere dalla verità spirituale del suo essere.
24-25. Dopo aver rinunciato a tutti i
desideri generati dalla volontà egoistica[291] e impiegando la
mente per do-minare i sensi da ogni parte [affinché non si disperdano], lo yogi
raggiunge a poco a poco la quiete mediante l'intelligenza sostenuta fermamente,
finché la mente concentrata sul Sé non pensi più a nulla.
Si
insiste in questo versetto sulla necessità di tranquillizzare la mente emotiva,
la niente di desiderio e i sensi, che ricevono i contatti esteriori e ad essi
rispondono con le reazioni emotive abituali; ma anche la mente pensante deve
estinguersi nel silenzio dell'Essere esistente in sé.
26. Ogni volta che la sua mente
incostante, senza stabilità, sfugge al controllo, che la freni e la sottometta
al Sé.
27. La suprema felicità scende sullo
yogi che ha calmato la sua mente e spento le sue passioni, e che, puro da ogni
peccato, è divenuto il Brahman[292].
28. In tal modo, lo yogi che ha
rifiutato il peccato e praticato costantemente l'unione [col Sé] gode
facilmente la suprema felicità del contatto con Brahman.
29. Colui il cui sé è unito [al Sé]
mediante lo yoga[293], vede il Sé presente
in tutte le creature e tutte le creature nel Sé; egli vede tutto con l'occhio
dell'equanimità[294].
30. Colui che Mi[295] vede in tutto e che
vede il tutto in Me, più non può perderMi o essere da Me perduto.
Per
lui, tutto ciò che vede è il sé, tutto è il suo sé, tutto è il Divino. Ma non
corre forse il pericolo di perdere tutti i risultati di questo difficile yoga,
di perdere il Sé e ricadere nella mente, se resta anche per un solo attimo nel
dominio instabile dello Kshara? Non
rischia di perdere il Divino per ritrovare al suo posto l'ego e la natura
inferiore? No, dice la Gita, questa pace del nirvana, pur essendo ottenuta
attraverso la mediazione dell'Akshara, è fondata sull'essere del Purushottama,
che si stende sul mondo delle creature; il Divino, il Brahman, pur
trascendendolo, abbraccia anche il mondo, ma non rimane prigioniero della
propria trascendenza; si deve scorger lo in tutte le cose, vivere e agire in
questa visione; tale è il frutto perfetto dello yoga. Ma perché si deve agire?
Non è forse più sicuro ritirarsi nella solitudine e vivere in un samadhi interiore,
gettando occasionalmente uno sguardo sul mondo, vederlo nel Brahman, nel
Divino, senza però parteciparvi, senza viverci o agire in esso? Non dovrebbe
essere questa la legge, la regola, il dharma di questo supremo stato
spirituale? No, e ancora no! Per lo yogi che ha raggiunto la liberazione non
esiste altra legge, altra regola o altro dharma che questa semplicissima: "vivere nel Divino, amare il Divino ed
essere uno con tutti gli esseri". La sua libertà non è una libertà
contingente, ma assoluta, esistente in sé, che non dipende dalle regole di
condotta, dalle leggi di vita, o da limitazione di qualsiasi genere. Non ha più
bisogno dei metodi di yoga, perché perpetua-mente in yoga.
31. Lo yogi che, fermamente stabilito
nell'unità, Mi adora con amore[296] - Me che sono
presente in tutti gli esseri -, vive e agisce in Me, in qualsiasi modo egli
viva e agisca.
L'amore
spiritualizzato del mondo, divenuto esperienza d'anima a partire da
un'esperienza dei sensi, è fondato sull'amore verso Dio, e in quest'amore non
esiste né pericolo né imperfezione. Abbiamo forse bisogno, durante molto tempo,
del timore e del disgusto del mondo per svincolarci dalla Natura inferiore,
quando in realtà si tratta del timore e del disgusto verso il nostro ego che si
riflette sul mondo. Vedere Dio nel mondo significa nulla temere e abbracciare
tutto nel suo essere; vedere il Divino in tutto significa nulla odiare e nulla
respingere, ma amare Dio nel mondo e il mondo in Dio.
Tuttavia,
non si dovrebbero temere o evitare le cose della Natura inferiore che lo yogi
ha dovuto superare con dura lotta? No, nemmeno quelle, tutto è riunito
nell'uguaglianza della visione del Sé.
32. Colui che, prendendo il Sé come
punto di paragone, vede tutte le cose con equanimità, si tratti del piacere o
del dolore, è considerato, o Arjuna, lo yogi supremo[297].
Ciò
non significa ch'egli debba ricadere dalla felicità spirituale nella sofferenza
del mondo, nemmeno per compassione verso l'afflizione altrui, ma osservando
negli altri il giuoco degli opposti da lui stesso abbandonato e superato, vedrà
tutto in sé stesso, il suo sé in tutto e Dio in tutto. Senza essere turbato o
smarrito dall'apparenza delle cose, accetterà quest'apparenza solo per aiutare
a guarire, per lavorare per il bene di tutti gli esseri, per condurre gli
uomini alla felicità spirituale e per contribuire al progresso del mondo verso
Dio; egli vivrà la vita divina per tutto il tempo che dovrà restare sulla
terra. Si può veramente chiamare col nome di yogi supremo colui che può vivere
così, l'amante di Dio che può scorgere tutta l'esistenza di Dio, contemplare
con calma la Natura inferiore e le opere della màyà dei tre guna, agire in esse e su di esse senza turbamento e
senza ricadere dai cieli e dal potere dell'unità spirituale, restando libero
nell'ampiezza della visione divina, dolce, grande e luminoso nella forza della
Natura divina. Lo yogi che così opera ha conquistato la creazione (V,19).
Arjuna disse:
33. Non vedo come l'agitazione
[mentale] possa garanti-re a questo yoga, che Tu poggi sull'equanimità, una
base molto solida, o Madhusùdana.
34. La mente è per sua natura
agitata, o Krishna; essa è possente, turbolenta, indomabile e, come il vento,
difficile da essere sottomessa.
Il Beato Signore disse:
35. Senza dubbio, o Guerriero dal
braccio possente[298], la mente è ribelle
e difficile da sottomettersi; ma con la pratica[299] e il distacco[300] essa si sottomette,
o figlio di Kunti.
36. È certo che lo yoga è difficile
da realizzare per colui che non ha raggiunto il dominio di sé; ma chi riesce a
controllarsi può realizzarlo mediante sforzi ben diretti.
Arjuna disse:
37. Quale sarà il destino di colui
che ha la fede, ma che non ha saputo avere su di sé la dovuta padronanza ed ha
lasciato che la mente si smarrisse lontano dallo yoga senza raggiungere la
perfezione totale[301]?
38. Non perisce forse come una nuvola
che si lacera, o Guerriero dal braccio possente[302], respinto da una
parte e dall'altra[303], instabile e
smarrito lontano dal sentiero che conduce a Brahman?
39. Questo dubbio che è in me, o Krishna,
Ti prego, dissipalo totalmente; Tu solo puoi distruggerlo.
II Beato Signore disse:
40. Figlio di Prithà, né in questo
mondo né nell'altro esiste per lui distruzione, poiché all'uomo dal nobile
agire nulla di male può accadere, o amato!
41. Arrivato al mondo dei giusti e
avendovi dimorato per molti e molti anni, colui che nel passato era caduto dal
sentiero dello yoga, rinasce in una casa pura e prospera.
42. O anche in una famiglia di yogi
che hanno raggiunto la saggezza; è però ben difficile ottenere una simile
nascita.
43. In questa nuova vita e
condizione, recupera lo stato di unione mediante l'intelligenza[304] che gli apparteneva
nella vita anteriore, e riprende così il cammino verso la totale perfezione, o
Gioia dei Kuru.
44. Egli è trascinato irresistibilmente
dalla sua pratica anteriore; e nell'ardore della sua ricerca della conoscenza supera
anche la Parola rivelata[305].
45. Ma lo yogi che ha lottato per la
perfezione attraverso numerose nascite e che, puro da ogni peccato, compie
assidui sforzi, raggiunge la suprema destinazione.
46. Lo yogi è più grande dell'asceta[306]; si dice che sia più
grande del saggio[307], più grande
dell'uomo d'azione[308]. Diventa yogi,
Arjuna!
Diventa
yogi, Arjuna! - Yogi è colui che cerca e ottiene, mediante l'azione, la conoscenza,
l'ascesi o qualsiasi altro mezzo, non la conoscenza e il potere spirituali o
qualsiasi altra cosa che sia fine a sé stessa, ma unicamente l'unione con Dio,
poiché in questa unione tutto il resto è contenuto e mediante essa portato
oltre le sue naturali possibilità, sino a ricevere un significato interamente
divino.
47. E di tutti gli yogi, colui che
nel più profondo del suo essere si è dato a Me e Mi adora con amore[309] e fede[310], lo ritengo come
l'essere che più si è unito a Me nello yoga[311].
La
Gita, qui o altrove, presenta la bhakti come
l'azione dello yoga. Si può dire, per riassumere questa parte
dell'insegnamento: "Chiunque ami Dio
in tutto e la cui anima riposi sull'unità divina, in qualunque modo egli viva e
agisca, vive ed agisce in Dio."
Di
tutti gli yogi il più grande è il bhakta.
Questa è la parola finale di questi primi sei canti. Essa contiene il germe di
tutto il resto, di tutto ciò che rimane ancora inespresso e che in nessun luogo
si trova interamente espresso, rimanendo per sempre un mistero e un segreto - il
mistero spirituale supremo e il segreto divino.
Il Beato Signore disse:
1. Ascolta, o figlio di Prithà, come,
praticando lo yoga con la mente concentrata su di Me ed accettandoMi come [il
solo] sostegno, senza il minimo dubbio tu Mi conoscerai integralmente.
2. Ti esporrò la conoscenza integrale[312], senza nulla
omettere; quando avrai conosciuto questa sapienza, null'altro ti rimarrà da
conoscere in questo mondo.
L'Essere
divino è tutto, vasudevah sarvam (VII,
19); di conseguenza, se si conoscono integralmente tutti i suoi poteri e tutti
i suoi principi, tutto è conosciuto, non soltanto il puro Sé, ma anche il
mondo, l'azione e la Natura. Non rimane più nulla da conoscere su questa terra
perché tutto è la sua divina Esistenza. Percepiamo le cose in un modo ignorante
perché la nostra visione non è integrale, perché riposa sulla mente e sulla
ragione che dividono, e sull'idea separativa dell'ego. Dobbiamo sbarazzarci di
questa visione mentale egoistica Per raggiungere i due aspetti della vera
conoscenza unificatrice: l'essenziale, jnana,
e il comprensivo, vijnana, il diretto
risvegliarsi spirituale verso l'Essere supremo e la conoscenza intima e
corretta dei principi della sua esistenza - Prakriti e Purusha; l'insieme di
questi due aspetti ci permette di conoscere tutto ciò che è contenuto nella sua
origine divina e nella suprema verità della sua natura. Questa conoscenza
integrale, dice la Gita, è cosa rara e difficile.
3. Fra migliaia di uomini, [appena] uno
solo tenta di raggiungere la perfezione e, fra coloro che la raggiungono,
[appena] uno solo riesce a conoscerMi nei Miei principi.
4. Terra, acqua, fuoco, aria, etere[313], mente[314], intelligenza[315], ego[316], sono le otto
divisioni della Mia natura[317].
Per
incominciare e per dare un fondamento a questa conoscenza integrale, la Gita
stabilisce la profonda e capitale distinzione che sta alla base di ogni yoga,
la distinzione fra le due Nature: la Natura fenomenica e la Natura spirituale.
È la prima nuova idea metafisica della Gita, quella che l'aiuta a utilizzare le
nozioni della filosofia Sànkhya, per poi superarle e dare ai loro termini, che
però mantiene e rende più ampi, un senso vedantino. Una Natura in otto parti è
la descrizione sankhyana di Prakriti.
Il Sànkhya non va oltre, e siccome non va oltre, si vede costretto a stabilire
una divisione insuperabile fra l'Anima e la Natura, dovendo enunciarle come due
entità primordiali completamente distinte. Anche la Gita, se si arrestasse qui,
dovrebbe creare l'antinomia incurabile fra il Sé e la Natura cosmica;
quest'ultima si limiterebbe allora alla maya dei tre guna, e tutta l'esistenza
cosmica non sarebbe che il semplice risultato di questa maya; non potrebbe
essere altra cosa. Esiste invece qualcosa d'altro, un principio più elevato,
una Natura dello Spirito.
5. Quella è [la Mia Natura] inferiore[318]: sappi però che
esiste l'altra Mia Natura suprema[319], che diviene l'anima
individuale[320]
e sostiene il mondo, o Guerriero dal braccio possente.
Si
tratta del Purushottama, dell'Essere
supremo, dell'Anima suprema, dello Spirito trascendente e universale. Paraprakriti designa l'eterna Natura
originale dello Spirito e la sua Shakti trascendentale
e creatrice. Parlando dell'origine del mondo, vista dalla forza attiva della
sua natura, Krishna afferma: "... è la matrice di tutti gli esseri"
(VII, 6), e continua ad esporre lo stesso fatto secondo il punto di vista
dell'anima creatrice: "Io sono l'origine di questo universo e anche la sua
dissoluzione; al di là di Me non vi è nulla di supremo..."
La
suprema Natura, Paràprakriti, è
quindi il potere cosciente, infinito e fuori del tempo dell'Essere esistente in
sé, e tutti gli esseri del cosmo, che escono dall'eternità (assenza di tempo)
per entrare nel tempo, ne sono la manifestazione. Per assicurare nel cosmo una
base spirituale a questo divenire universale e innumerevole, la Natura suprema
prende la forma del jiva. In altri termini, la molteplice ed eterna Anima del
Purushottama appare come un'individuale esistenza spirituale in ognuna delle
forme del cosmo. Tutti gli esseri ne sono penetrati tramite la vita dello
Spirito unico e indivisibile; tutti sono sostenuti nella loro personalità,
nella loro azione e nella loro forma dall'eterna molteplicità del Purusha
unico. Dobbiamo fare attenzione a non commettere l'errore d'identificare questa
suprema Natura con il jiva manifestato
nel tempo, in questo senso: che non debba esserci nulla all'infuori di lui o
che questa Natura sia solo la natura di un divenire e non la natura
dell'essere. La suprema Natura dello Spirito non potrebbe essere così
costituita. Anche nel tempo essa rappresenta qualcosa di più; altrimenti, nel
cosmo, la sola verità sarebbe una natura molteplice e nel mondo non potrebbe
esistere natura di unità. Non sarebbe ciò che la Gita afferma; essa non dice
che la suprema Prakriti è nella sua essenza il jiva, ma che è divenuta il jiva,
e questa espressione sta a indicare che dietro la sua manifestazione come jiva
vi è originalmente qualcosa d'altro e di superiore: la Natura del supremo e
unico Spirito. Il jiva, come vedremo più avanti (XV, 8), è il Signore,
l'Ishvara, manifestato solo in parte. Gli esseri, anche nella loro totale
molteplicità, non possono, nel loro divenire, costituire il Divino integrale in
questo universo o negli innumerevoli altri universi; solo giungono a
manifestare una parte dell'Uno infinito. Brahman, l'unica Esistenza
in-divisibile, risiede in essi come se Egli fosse diviso. L'unità è la più
grande verità, la molteplicità la verità minore, pur rimanendo tutte e due una
verità e nessuna di esse un'illusione.
6. Comprendi che essa è la matrice di
tutti gli esseri[321]; [grazie ad essa] Io
sono l'origine[322] dell'intero universo
e anche la sua dissoluzione[323].
In
questo caso, l'Anima superiore, Purushottama, e la suprema Natura,
Paraprakriti, si compenetrano, divengono una sola e stessa realtà. In effetti,
quando Krishna dichiara: "Io sono l'origine e la dissoluzione di
quest'universo", appare evidente che si tratta di Paràprakriti, la Natura
suprema del suo essere, che rappresenta le due cose simultaneamente. Lo Spirito
è l'Essere supremo nella sua infinita coscienza, e la Natura suprema è
l'infinita forza o volontà d'essere dello Spirito - la stessa coscienza
infinita sotto l'aspetto di divina energia e di divina azione sovrannaturale.
L'origine è il movimento di evoluzione di questa Energia cosciente emanata
dallo Spirito, la sua attività nel mutevole universo; la dissoluzione è il
richiamo di quest'attività mediante il ritorno dell'Energia in seno
all'esistenza immutabile dello Spirito.
Mediante
l'unità di questa Natura spirituale il mondo è sostenuto e da essa è nato con
tutti i suoi divenire, ed essa ancora, nell'ora della dissoluzione, attira a sé
l'intero universo con tutte le sue creature. Ma alla base di quest'azione dello
Spirito, del suo manifestarsi e del suo ritirarsi nei periodi di riposo, vi è
il jiva, base dell'esistenza molteplice. Si può dire che egli sia l'anima
molteplice, o l'anima della molteplicità di cui abbiamo l'esperienza in questo
mondo. Il suo essere sempre unito al Divino, non differisce da Lui che
nell'aspetto di potere, in quanto il jiva non è che il sostegno di una parte
dell'azione del Potere unico, individualizzato nel numero.
7. Nulla esiste che sia a Me
superiore, o Conquistatore di tesori; tutto ciò è a Me unito come una collana
di perle al suo filo.
È
la Natura suprema dello Spirito, il Potere cosciente e infinito del suo essere,
cosciente di sé, cosciente di tutto, che possiede tutta la saggezza, che
mantiene i fenomeni in rapporto gli uni con gli altri, che li penetra, che
dimora in essi e che serve loro di base e li inserisce nel sistema della
propria manifestazione. Questo unico e supremo Potere si manifesta in tutti,
non solamente come l'Unico, ma come il jiva,
“la presenza spirituale”; esso si manifesta anche come essenza di tutte le
qualità nella Natura. Questa suprema qualità non è il giuoco dei tre guna che
si limita ad essere un fenomeno della qualità e non la sua spirituale essenza.
È piuttosto la forza interiore, unica e tuttavia variabile, inerente a tutte le
variazioni superficiali. Essa è una verità fondamentale del Divenire, una
verità che ne sostiene le apparenze o concede loro un significato spirituale e
divino. Le operazioni dei guna sono solo i divenire superficiali e instabili
della ragione, della mente, dei sensi, dell'ego, della vita e della materia;
questa qualità suprema è piuttosto il potere essenziale, stabile, originale,
intimo in ogni divenire - svabhàva.
Questo svabhàva determina la legge di
ogni divenire e di ogni jiva; esso
costituisce l'essenza della loro natura e ne sviluppa i movimenti. In ogni
crea-tura è il principio che deriva da un divino e trascendente Divenire e che
a lui si ricongiunge immediatamente.
Se
l'anima, jiva, impegnata quaggiù nel
povero, inferiore e limitato giuoco delle qualità fenomeniche, vuole sfuggirvi,
se vuoi essere divina e perfetta, deve ricorrere alla pura azione della qualità
essenziale del suo svabhàva e
ritornare alla legge più alta del proprio essere in cui scoprirà la volontà, la
forza, il principio dinamico e il giuoco supremo della sua natura divina.
8. Io sono il sapore nelle acque[324], o figlio di Kunti,
sono la luce della luna e del sole, la sillaba AUM[325] in tutti i Veda. Io
sono il suono nell'etere e la virilità nell'uomo.
(In
questo versetto e nei versetti seguenti) la Gita fornisce numerosi esempi che
dimostrano come il Divino, mediante il potere della sua suprema Natura, si
manifesti ed agisca dall'interno degli esseri animati e di quelli cosiddetti
inanimati.
Secondo
un punto di vista materiale, la materia è la realtà, e le relazioni sensorie un
suo derivato; ma dal punto di vista spirituale la verità risiede esattamente
nel contrario. La materia e tutto ciò che è materiale rappresentano forze
derivate e, in fondo, solo vie o condizioni concrete, mediante le quali il
giuoco della "qualità della natura" nelle cose si manifesta alla
coscienza sensoria del jiva. Il solo fatto originale ed eterno è rappresentato
dall'energia della Natura, ossia dal potere e dalla qualità d'essere che ha in
tal modo la possibilità di manifestarsi attraverso i sensi... "Io sono," dice Krishna, "la luce del sole e della luna, la virilità
dell'uomo, l'intelligenza dell'intelligente, l'energia dell'energico, la forza
del forte, l'ascesi dell'asceta" (vedi versetti che seguono). In ogni
caso, ciò che viene dato come segno caratteristico per rivelare la presenza
divina nella Natura, è l'energia della qualità essenziale, da cui ogni divenire
dipende per produrre i risultati che ha prodotto.
Krishna
dice ugualmente: "In tutti i Veda io
sono la sillaba AUM", ossia la base di tutti i suoni dotati del potere
creatore del Verbo rivelato. 'AUM' è la forma universale unica d'energia del
suono e della parola (shabda e vak), quella che contiene e riassume, sintetizza
e libera tutto il potere e il potenziale spirituale del suono e della parola;
tutti gli altri suoni, che servono a tessere le parole del linguaggio, sono
considerati come sviluppi evolutivi. Tutto è dunque chiaro. Non sono gli
sviluppi fenomenici dei sensi, della vita, della luce, dell'intelligenza,
dell'energia, del potere, della virilità, della forza ascetica che appartengono
in proprio alla suprema Prakriti, ma la qualità essenziale, nel suo potere
spiri-male - lo svabhava. La forza
dello spirito così manifestato, la luce della sua coscienza e il potere della
sua energia in ogni cosa, rivelati da un segno puro e originale, costituiscono
la natura propria (di quella cosa). Questa forza, questa luce, questo potere
formano l'eterno germe di cui tutti gli altri fenomeni ne sono gli sviluppi, i
derivati, le variazioni e le circostanze plastiche. Ecco perché la Gita dà come
enunciato generale (VII, 10): "Sappi che Io sono l'eterno seme di tutti
gli esseri, o Figlio di Prithà." Questo seme eterno è il potere
dell'essere spirituale, la volontà cosciente nell'essere, il seme che il Divino
(XIV, 4) getta nel grande Brahman, nell'immensità supermentale, ed è da questa
semenza che gli esseri nascono all' esistenza. Questo seme spirituale si
manifesta mediante la qualità essenziale del divenire e ne costituisce lo svabhadva.
9. Io sono il puro profumo della
terra, la risplendente energia del fuoco; in tutti gli esseri[326] Io sono la vita e
negli asceti[327]
l'austerità[328].
10. Sappi che sono l'eterno seme[329] di tutti gli esseri,
o figlio di Prithà; Io sono l'intelligenza dell'intelligente, l'eroismo[330] dell'eroe.
Vedere
la parte finale del commento al versetto 8.
11. Sono la forza del forte, libera
dal desiderio e dalla passione; e negli esseri sono il desiderio che non è
contrario al dharma, o Migliore fra i Bharata.
La
distinzione pratica fra il potere originale della qualità essenziale (svabhava)
e i derivati fenomenici della Natura inferiore, fra la cosa stessa nella sua
purezza e la cosa nelle sue apparenze esteriori, viene qui chiaramente
indicata.
Come
è possibile che il Divino possa essere il desiderio, kama, quando il desiderio
è stato denunciato come il nemico pericoloso che dobbiamo abbattere? Ma quello
è il desiderio appartenente alla Natura inferiore dei guna, desiderio la cui
origine risiede nell'essere rajasico; è ciò che generalmente intendiamo per
'desiderio'. L'altro desiderio, quello spirituale, è una volontà non contraria
al dharma. Il dharma, nel senso spirituale, non è la moralità o l'etica. Il dharrna,
dice la Gita (XVIII, 47-48), è l'azione diretta da svabhàva, e quindi la legge
essenziale di ogni natura. Lo svabhàva è nella sua essenza la pura qualità
dello spirito con l'inerente potere di volontà cosciente e la sua forza
caratteristica di azione. Il desiderio di cui si parla qui è di conseguenza la
volontà divina, consapevole dello scopo che vuoi raggiungere, che cerca e
scopre in noi, non il piacere della Prakriti inferiore, ma l'Ananda del proprio
giuoco e del proprio compimento; è il desiderio delle divine delizie di
esistenza che spiega la sua forza cosciente d'azione in accordo con la legge
dello svabhàva.
12. Sappi che sono l'origine dei
divenire[331],
siano questi sattvici, rajasici o tamasici; in verità Io non sono in essi ma
essi sono in Me.
In
che modo si deve capire che il Divino non è nei divenire, nelle forme e negli
attributi della Natura inferiore, quando essi stessi sono nell'essere del
Divino? In un certo senso, Egli deve essere evidente-mente in essi, altrimenti
non potrebbero esistere. Ma, ed è questa l'idea che la Gita vuole esprimere, la
vera Natura spirituale del Divino, la Natura suprema, non è loro prigioniera;
essi sono i fenomeni del suo essere, creati dall'azione dell'ego e
dell'ignoranza. L'ignoranza ci presenta, almeno in parte, ogni cosa sotto una
visione rovesciata e un'esperienza falsificata. Immaginiamo l'anima nel corpo
come il risultato e il derivato del corpo - ed è così che la sentiamo; ma il
corpo è nell'anima, il corpo è un risultato e un derivato dell'anima. Noi consideriamo
lo spirito come una piccola parte - il Purusha "non più grande del pollice" (Katha Upanishad, II, 1, 12) -
nell'enorme massa di fenomeni materiali e mentali che ci costituisce; in realtà
questa massa, malgrado la sua imponente apparenza, non è che una cosa
insignificante nell'infinità d'essere dello spirito. Anche in questo caso,
queste cose sono nel Divino più che il Divino in esse.
13. Il mondo è tratto in inganno[332] da queste condizioni
del divenire[333]
composte dai guna, e non riconosce Me che sono ad essi superiore e imperituro.
È
maya, la Natura inferiore dei tre guna, che crea una falsa idea delle cose e
conferisce loro un carattere inferiore, è la forza d'illusione che devia la
nostra conoscenza, crea falsi valori, ci avvolge nell'ego, nella mente, nei
sensi, nell'essere fisico, nell'intelligenza limitata e ci nasconde la suprema
verità della nostra esistenza. Questa ingannevole maya ci vela il Divino che
siamo, lo spirito infinito e imperituro. Se potessimo vedere che il Divino è la
vera verità della nostra esistenza, tutto cambierebbe nella nostra visione,
tutto rivestirebbe il vero carattere, la nostra vita e la nostra azione
acquisterebbero valori divini e i loro movimenti seguirebbero la legge della
Natura divina.
14. Questa Mia divina maya[334], composta dai guna,
è difficile da essere attraversata; vi riescono solo coloro che cercano rifugio
in Me.
Questa
(maya) è essa stessa divina, è lo sviluppo della Natura del Divino, ma del
Divino sotto forma degli dèi; essa è daivi, "degli dèi", o se si
preferisce della Divinità, ma della Divinità sotto il suo aspetto diviso e
soggettivo, sotto il suo aspetto cosmico inferiore, sattvico, rajasico e
tamasico. 1; un velo cosmico che la Divinità ha tessuto intorno al nostro
intendimento; Brahmà, Vishnu e Rudra (Shiva) ne hanno teso i fili complessi; la
Shakti, la Natura suprema, celata dappertutto nella trama, ne è la base.
Bisogna che questa tela venga elaborata e terminata in noi, per volgerci poi -
attraverso o fuori di essa, abbandonandola dietro di noi come un oggetto senza
utilità - non più verso gli dèi, ma verso la Divinità suprema e primigenia, in
cui scopriremo l'ultimo significato degli dèi e delle loro opere, e le verità
spirituali più profonde della nostra esistenza imperitura.
Dopo
averci dato nei primi quattordici versetti di questo canto una verità
filosofica importante, la Gita ne dà, nei sedici restanti, l'immediata
applicazione. Essa se ne serve come punto di partenza per unire la conoscenza
alla devozione - la sintesi preliminare delle opere e della conoscenza è già
stata fatta nei canti precedenti.
15. Coloro che fanno il male,
smarriti come uomini fra i più vili, non pervengono a Me; la facoltà di
conoscenza che posseggono è rapita da mayà[335] e prendono la natura
dell'asura[336].
Questo
smarrimento è il risultato di una frode all'anima fatta dall'ego ingannatore.
Chi fa il male non può raggiungere il Supremo perché il suo desiderio è di
soddisfare, al livello più basso della natura umana, l'idolo rappresentato
dall'ego; l'ego è il suo vero Dio. La mente e la volontà che si precipitano
nell'attività della mayà dei tre guna
non sono lo strumento dello spirito, ma le schiave volontarie o le vittime
consenzienti dei loro desideri.
La
Gita, fin dall'inizio, ha affermato che la condizione fondamentale per la
nascita nell'esistenza divina superiore è la distruzione del desiderio rajasico
e della sua progenie. Il peccato non è altro che l'azione della natura
inferiore che cerca di soddisfare in modo grossolano le proprie tendenze
ignoranti, inerti o violente, tamasiche o rajasiche, in un gesto di ribellione
contro il dominio superiore dello spirito sulla natura.
Per
sbarazzarci del dominio di uno dei modi più bassi della Prakriti inferiore, bisogna
appoggiarsi all'aspetto più elevato di questa stessa Prakriti, al modo
sattvico, sempre alla ricerca di un'armoniosa luce di conoscenza e di una
giusta regola d'azione. Il Purusha, l'anima in noi che dà il consenso
all'impulso mutevole dei guna, deve approvare e sostenere quest'impulso
sattvico, questa volontà e questo temperamento sattvici che si muovono nel
nostro essere alla ricerca di più elevati valori. La direzione dell'essere deve
affidarsi alla volontà sattvica e non tanto a quella tamasica e rajasica. il
senso che ha l'intervento nelle azioni di una ragione superiore e il
significato di una vera cultura etica; è la legge della natura in noi che tenta
di evolvere da un'azione inferiore e disordinata a una superiore e ordinata,
non nella passione e nell'ignoranza, aventi come conseguenza il dolore e
l'inquietudine, ma nella conoscenza e nella volontà che hanno come risultato la
felicità, la pace e l'equilibrio interiori. Non possiamo andare oltre i tre
guna senza prima esserci assicurati il dominio del guna più elevato, sattva.
L'uomo
deve quindi divenire morale, sukriti,
per poi elevarsi alle altezze che superano ogni regola di vita puramente etica
ed entrare nella luce. nell'ampiezza e nel potere della natura spirituale, in
cui può sfuggire alla pressione degli opposti e al loro potere d'illusione
(VII, 27). Lì non è più alla ricerca del bene e del piacere personali, e
neppure tenta di sfuggire alla sofferenza e alla pena personali, in quanto
queste cose non Io toccano più. Non dice più "io sono virtuoso", "io
sono peccatore", ma agisce secondo la propria natura spirituale, per
volontà divina e per il bene universale.
Abbiamo
visto che la conoscenza di sé, l'equanimità, l'impersonalità, sono le prime
condizioni richieste, che una volta ottenute garantiscono la conciliazione
della conoscenza con le opere, della spiritualità con l'attività nel mondo, del
quietismo eternamente immobile del Sé fuori del tempo con l'eterno giuoco
dell'energia prammatica nella Natura. Ma la Gita pone una nuova e più grande
condizione al karmayogi che ha unito
lo yoga delle opere a quello della conoscenza. Non solo gli viene richiesto lo
yoga della conoscenza e quello delle opere, ma anche quello della bhakti, della
devozione al Divino, dell'amore, dell'adorazione, dell'aspirazione dell'anima
per il Supremo.
16. [Ma] quattro specie di uomini di
bene[337] vengono a Me con
devozione[338],
o Arjuna: colui che soffre, colui che ricerca la prosperità, colui che ricerca
la conoscenza e colui che ha la conoscenza[339], o migliore fra i
Bharata.
Si
può dire che queste quattro forme di bhakti rappresentano, nell' ordine
indicato, la bhakti della natura vitale, emotiva e affettiva, quella della
natura pratica e dinamica, quella della natura intellettuale che ragiona e
quella dell'essere intuitivo più alto che riunisce tutto il resto della natura
nell'unità con il Divino. Tuttavia si possono considerare le prime tre specie
come movimenti preparatori.
17. Supera quelli, il saggio[340] costantemente unito
[al Divino] mediante una devozione senza divisioni; in verità egli sommamente
Mi ama ed è da Me amato.
Questa
devozione unica è la sola legge della sua vita; egli è andato oltre le credenze
religiose, oltre le regole di condotta o gli scopi personali della vita. Non ha
afflizioni da guarire perché in possesso di Colui che è tutta felicità, non
deve soddisfare desideri in quanto possiede il Supremo e il Tutto, e a lui è
vicina l'Onnipotenza apportatrice di ogni compimento. Per lui non esiste né
dubbio né vana ricerca poiché tutta la Luce nella quale vive lo riempie di
conoscenza. Egli ama perfettamente il Divino e da Lui è amato, poiché, come
egli trova la Gioia nel Divino, Questi la trova in lui. Questo è l'amante di
Dio, che possiede la conoscenza, jnàni
bhakta.
18. Sono tutti nobili, senza eccezioni,
ma colui che ha la saggezza[341] è Me medesimo, in
quanto con l'anima unita [a Me, il Divino] Mi accetta come supremo scopo.
19. Dopo numerose vite, colui che
possiede la conoscenza[342] viene a Me. Però
molto rara è la grande anima[343] che sa che Vàsudeva
è tutto ciò che esiste[344].
La
Gita dice che solo dopo aver avuto la conoscenza integrale (VII, 2) e averla
vissuta durante numerose vite, si può raggiungere il Trascendente. La
conoscenza del Divino come tutto ciò che è, è difficile da ottenere, e rara è
sulla terra la grande anima, mahàtma,
capace di vederLo come tale, di entrare in Lui, in tutto il suo essere e in
ognuno degli aspetti della sua natura, mediante la grande forza della
conoscenza che tutto abbraccia.
"Colui
che ha la conoscenza, dice la Divinità nella Gita, è Me medesimo." Gli
altri afferrano solo motivi o aspetti della Natura; ma egli coglie il senso
dell'essere vero e totale del Purushottama, a cui si trova unito. La nascita
divina nella Natura suprema gli appartiene, integrale nell'essere, completa in
volontà, assoluta nell' amore, perfetta nella conoscenza. In lui l'esistenza
cosmica del jiva è giustificata
perché egli ha superato sé stesso e ha trovato la suprema e completa verità del
suo essere.
20. Coloro la cui conoscenza è stata
presa da questo o quel desiderio, si dirigono verso altri dèi[345], osservando gli uni
un rito e gli altri un rito diverso, secondo la tendenza delle loro nature.
21- Qualunque sia la forma[346] che un devoto[347] pieno di fede
desidera adorare, la sua fede Io rendo salda e immutabile.
22. Pieno di fede, egli rende il
culto a quella forma e ottiene da essa [l'adempimento dei] suoi desideri, ma in
verità sono Io che concedo questi benefici.
23. Ma sono effimeri i frutti che
ottengono questi esseri di scarsa intelligenza; coloro che sacrificano agli dèi
vanno agli dèi, i Miei devoti vengono a Me.
I
limiti di questa realizzazione spirituale sono gli dèi. (Coloro che si dirigono
agli dei) divengono coscienti del Divino nelle forme della mutevole Natura e lo
riconoscono come il dispensatore dei frutti che appartengono a questa Natura.
Ma coloro che adorano la Divinità integrale e trascendente abbracciano tutto
ciò e, trasformandolo, esaltano gli dèi sino al loro massimo e la Natura sino
alle proprie sommità; essi vanno oltre la stessa Divinità, raggiungono la
trascendenza e conoscono la sua realtà.
Tuttavia
la Divinità suprema non rifiuta questi adoratori a causa del loro imperfetto
modo di vedere. Il Divino, trascendente e su-premo, non nato, immutabile e
superiore a tutte queste manifestazioni parziali, non può essere facilmente
conosciuto dalle creature viventi.
24. Gli uomini privi d'intelligenza
pensano che Io, il Non-manifestato[348], sia limitato dalla
Mia stessa manifestazione[349]; essi ignorano la
Mia natura suprema[350], imperitura e
perfetta.
25. Celato dalla mia stessa forza
creatrice[351],
non a tutti sono manifesto, questo mondo illuso e smarrito non conosce Me, il
Non-nato e l'Imperituro.
Il
Divino si è avvolto nell'immenso mantello della sua maya, la maya del suo yoga,
per cui Egli è uno col mondo e tuttavia oltre il mondo, immanente ma nascosto,
stabilito in tutti i cuori, ma non a tutti rivelato. L'uomo immerso nella
Natura pensa che queste (forme divine), manifestazioni (del Divino) nella
Natura, costituiscano tutto il Divino, mentre non sono che le sue opere, la sua
forza e i suoi veli.
Se
il Divino, dopo aver smarrito gli uomini nel giuoco delle sue manifestazioni
nella Natura, non dovesse più ritrovarli, non vi sarebbe speranza divina per
nessun essere umano, per nessun'anima immersa nella maya. Per questo, quando
l'uomo si avvicina a Lui secondo la sua natura, Egli accerta la bhakti e vi risponde mediante la
compassione e l'amore divino. Queste forme (divine) non sono altro che una
specie di manifestazione attraverso cui l'imperfetta intelligenza umana può
toccare il divino; questi desideri, (queste preghiere,) sono i primi mezzi che
le anime impiegano per rivolgersi a Lui. Nessuna devozione è inefficace e senza
valore, qualunque siano le limitazioni; una sola cosa è importante: la fede.
"Qualunque sia la forma (di Me) che
un devoto pieno di fede desidera adorare, faccio in modo che questa fede sia
salda e senza debolezze." Mediante la forza di questa fede infusa nel
culto e nell'adorazione, l'adoratore ottiene la realizzazione spirituale di cui
è capace in quel momento. Tutto aspettandosi dal Divino, finirà per tutto
ricercare nel Divino. Dipendendo dal Divino per le sue gioie, imparerà a
fissare in Lui tutta la sua gioia. ConoscendoLo nelle sue forme e qualità,
arriverà a conoscere che è il Tutto, il Trascendente e l'origine di tutto. In
tal modo, mediante uno sviluppo spirituale (progressivo), la devozione si unirà
alla conoscenza.
26. O Arjuna, Io conosco gli esseri
che sono passati, gli esseri presenti e quelli che saranno, ma non c'è nessuno
che conosca Me.
27. Turbate dagli opposti[352] che generano il
desiderio e la ripulsione, o Bhàrata, tutte le creature di questo mondo sono
immerse nell'illusione, o Parantapa.
Questa
ignorante illusione è l'egoismo che non riesce né a vedere ne a comprendere il
Divino ovunque, perché non vede nella Natura che le coppie degli opposti; è
continuamente preoccupato dalla propria personalità separata e da ciò che a lui
piace o non piace. Per uscire da quel circolo vizioso, la prima cosa da farsi
nell'azione è sbarazzarsi del peccato dell'ego vitale, del fuoco della
passione, del desiderio tumultuoso della natura rajasica, e per far ciò bisogna
appoggiarsi all'impulso sattvico e stabilizzatore dell'essere etico.
28. Ma gli uomini dalle azioni pure[353], che hanno
abbandonato il peccato[354], liberi dal
turbamento degli opposti[355], adorano Me con
devozione, fedeli al loro voto [di consacrazione].
Quando
ciò sia fatto, o piuttosto mentre ciò si sta facendo - in quanto a partire da
un certo momento ogni crescita della natura sattvica si accompagna a una
crescente capacità di alta quiete, di equanimità e di trascendenza -, diviene
necessario elevarsi sopra gli opposti e divenire impersonale, imparziale, uno
con l'Immutabile, uno con tutte le creature. Questo processo di crescita nello
Spirito completa la nostra purificazione.
Mentre
ciò si sta compiendo, mentre l'anima si allarga nella conoscenza di sé, bisogna
crescere in devozione. Essa deve non solo agire con un ampio spirito di
equanimità, ma anche sacrificare al Signore, a questa Divinità in tutti gli
esseri che essa non conosce ancora perfettamente, ma che diverrà capace di
conoscere integralmente quando avrà la ferma visione del Sé unico dappertutto o
in tutto. Una volta che l'equanimità e la visione dell'unità siano
perfettamente raggiunte, una devozione integrale per il Divino diviene la legge
totale e unica dell'essere. Ogni regola di condotta si fonda su
quest'abbandono. L'anima si afferma allora nella bhakti e nel voto di
consacrazione di tutto il suo essere, di tutta la sua conoscenza, di tutte le
sue opere, in quanto possiede adesso, come base sicura, come fondamento della
propria esistenza e azione, la conoscenza perfetta, integrale e unificatrice
della Divinità che tutto crea.
29. Coloro che hanno preso rifugio in
Me e si sforzano di raggiungere la liberazione dalla vecchiaia e dalla morte,
pervengono alla conoscenza del Brahman[356], dell'integralità
del principio del Sé[357], e a quella di tutta
l'azione[358].
Una
conoscenza integrale è la condizione che permette al dono di sé di divenire
efficace. È la ragione per cui dobbiamo dapprima conoscere tutti i poteri e
tutti i principi della divina esistenza del Purusha, della sua completa
armonia, dell'essenza eterna e del pro-cesso vivente di questa divina esistenza,
Ma per l'antico pensiero, tutti i valori di questa conoscenza, tattva-jnana (la
conoscenza dei principi), risiedono nel potere di poterci liberare dalla
nascita mortale per farci entrare nell'immortalità dell'esistenza suprema. In
tal modo la Gita continua mostrandoci che questa liberazione raggiunge, al suo
vertice, il risultato ultimo del moto per il compimento spirituale di sé. La
conoscenza del Purushottama, dice la Gita, è la conoscenza perfetta del
Brahman.
30. Coloro che Mi conoscono e [che
conoscono] contemporaneamente i principi di questi divenire[359] [materiali], il
principio degli dèi[360] e quello del
sacrificio[361],
Mi conoscono anche nel momento di lasciare questo mondo e [anche in quel
momento] la loro coscienza[362] è unita a Me.
"Per questo vengono a Me." Non più
incatenati dall'esistenza mortale, raggiungono effettivamente lo stato supremo
del Divino, come coloro che immergono la loro personalità nel Brahman
impersonale e immutabile. Con queste parole la Gita chiude questo canto così
importante e decisivo.
Gli
ultimi due versetti del canto precedente contengono espressioni che ci
descrivono sommariamente i principi essenziali della manifestazione del Supremo
nel cosmo. In essi sono rappresentati tutti gli aspetti effettivamente creatori
e tutto ciò che interessa all'anima nel momento del suo ritorno alla conoscenza
integrale. Viene dapprima tad-brahman,
“quel Brahman”; poi adhyatma, il
principio del Sé nella natura; adhibhuta e
adhidaiva, il fenomeno oggettivo e
quello soggettivo dell'essere; e infine adhiyajna,
il segreto del principio cosmico nelle opere e nel sacrificio. Questi termini
non sono chiari o si prestano a interpretazioni diverse; bisogna che
l'accezione ne sia precisata e Arjuna, il discepolo, ne chiede subito la
spiegazione.
Arjuna disse:
1. Che cos'è il
Brahman? che cos'è il principio del Sé? che cos'è l'azione, o Purushottama[363]? Che cosa si deve
intendere per principio del divenire e per principio degli dèi?
2. Cosa costituisce il
sacrificio supremo in questo corpo, o Madhusudana[364]? In che modo possono
conoscerTi nel momento in cui abbandonano [il corpo] coloro che hanno acquisito
il dominio su sé stessi?
Il Beato Signore disse:
3. [Quel] Brahman è
l'Immutabile supremo[365]. Il principio del Sé[366] è la natura propria[367] [dell'anima
individuale], e karma è [qui] il nome dato all'impulso creatore[368] che richiama
all'esistenza la natura del divenire[369].
Krishna
risponde molto brevemente. La Gita non si dilunga mai in spiegazioni puramente
metafisiche; essa dà esattamente quello che ci vuole e nel modo più appropriato
affinché l'anima possa afferrare la verità e passare all'esperienza.
Per
“quel Brahman” - espressione assai impiegata dalle Upanishad per designare
l'esser esistente in sé, in opposizione all'essere fenomenico[370] -
la Gita sembra voglia alludere all'immutabile esistente in sé, aksharam paramam, suprema espressione
del Divino, e all'inalterabile unità su cui è fondato tutto ciò che si muove ed
evolve. Per adhyåtma essa intende lo svabhava, la via e la legge d'essere
spirituali dell'anima nella natura divina. Karma, dice la Gita, è il nome dato
all'impulso creatore, visarga, all'energia che proietta le cose fuori dal primo
essenziale divenire, lo svabhava, e che sotto il suo influsso effettua, crea,
sviluppa in Prakriti il divenire cosmico degli esseri.
4. La natura mutevole[371] è il principio dei
divenire [materiali][372], il principio degli
dèi[373] è il Purusha. Io
sono il principio del sacrificio[374] nel corpo [degli
esseri incarnati], o Migliore[375] degli esseri incarnati.
Per
adhibhúta si deve intendere l'intero
risultato del divenire mutevole, ksharo
badvah. Adhidaiva significa il Purusha, l'anima nella Natura, l'essere
soggettivo che situa davanti alla propria coscienza, per osservarlo e gioirne,
tutto questo mutevole divenire della sua esistenza che il karma elabora qui
nella Natura. Per adhiyajna, il
Signore delle opere e del sacrificio, dice Krishna, intendo Me stesso, il
Divino, la Divinità, il Purushottama che risiede segretamente in tutti gli
esseri incarnati. Questa formula comprende tutto ciò che esiste.
5. Colui che nel
momento della sua fine ha la mente a Me solo rivolta e in tal modo abbandona il
corpo, viene alla Mia natura[376] [divina], senza, a
questo proposito, dubbio alcuno.
6. Ma chiunque al momento
della fine abbandona il corpo con la mente fissata su qualche modo d'essere, egli
raggiunge, o figlio di Kunti, il modo che ha influito su di lui durante tutta
la vita fisica.
L'uomo
che nasce sulla terra si muove fra mondo e mondo spinto dall'azione della
Prakriti e del karma. "Purusha in Prakriti" è la formula: diviene ciò
che l'anima in lui pensa, contempla e adempie. Tutto ciò che è stato ha
determinato la presente nascita; e tutto ciò che è, pensa e fa in questa vita,
determina ciò che diverrà nei mondi dell'al di là e nelle vite future. Se la
nascita è un divenire, la morte è anche un divenire e in nessun modo una
cessazione. Il corpo e abbandonato, ma l'anima prosegue la sua strada.
È
quindi molto grande l'importanza che assume la condizione in cui si trova
l'uomo nel momento critico della partenza. Ciò che possiede tale potere di
salvezza non è però un ricordo evocato negli ultimi istanti sul letto di morte,
contrario a tutto il corso della vita e alla sua natura soggettiva passata o,
in ogni caso, senza una sufficiente preparazione. Il pensiero della Gita non ha
qui nulla che assomigli alle indulgenze e alle facilità concesse dalla
religione popolare; esso non ha nulla in comune con le immaginazioni
semplicistiche che fanno dell'assoluzione e dell'estrema unzione amministrate
dal prete la condizione sufficiente per un'edificante morte cristiana alla fine
di una vita tutt'altro che edificante, o che fanno di una morte avvenuta, per
precauzione o accidente, nella santa città di Benares o nel sacro Gange, un
sufficiente meccanismo di salvezza. Il divino divenire soggettivo, su cui la
mente deve saldamente afferrarsi nel momento della morte fisica, dev'essere lo
stesso che l'anima ha coltivato e in cui è cresciuta durante tutto il corso
della vita fisica.
7. Perciò, in ogni
momento ricordati di Me e combatti. Se la tua mente e la tua intelligenza Mi
sono consacrate, a Me solo tu verrai certamente.
8. Colui che, mediante
la pratica costante dello yoga, ha unito la sua coscienza[377] [a Me] e che, senza
lasciarsi deviare da nulla, medita sul Purusha supremo, questi, o figlio di Prithà,
raggiunge questo supremo e divino Purusha.
9-10. Chiunque è unito
[a Me] mediante la devozione e la forza dello yoga, e, con una mente che non
vacilla, medita sull'Onnisciente[378], sull'Antico[379], più sottile del
sottile, sul Sovrano e Sostegno di tutto, la cui forma non è pensabile e il cui
splendore è quello del sole che emerge dalle tenebre, e che al momento di
abbandonare il corpo attira la forza vitale[380] in mezzo alle
sopracciglia, raggiunge il supremo e divino Purusha.
Arriviamo
in questi versetti alla prima descrizione del supremo Purusha - la Divinità più
grande dello stesso Immutabile, a cui la Gita dà il nome di Purushottama.
Anch'Egli, nella sua eternità fuori del tempo, è immutabile e di là da ogni
manifestazione; qui, fuori del Tempo, arriva del suo essere solo qualche
pallido riflesso, attraverso simboli o travestimenti vari. Ai nostri occhi
appare come un' esistenza indefinita e indiscernibile perché la forma del Divino
supera le nostre possibilità di pensiero. Quest'Anima, questo supremo Sé è il Veggente,
l'Antico dei Giorni; nella sua saggezza e nella sua eterna visione Egli è il
Maestro e il Sovrano di tutte le esistenze, e tutte le cose hanno il loro posto
nel suo grande essere.
L'unione
per devozione con Dio, l'unione per amore di cui parla il versetto, non cede il
suo posto all'unione senza forma a cui conduce la via della conoscenza, che
fino alla fine è parte intrinseca dalla forza suprema dello yoga.
11. Ti descriverò
succintamente questo stato[381] che i conoscitori
del Veda dichiarano immutabile[382], quella condizione
che gli asceti[383] che si sono liberati
dalle passioni cercano di possedere conducendo una vita di austerità[384].
Quest'Anima
suprema è il Brahman immutabile, esistente in sé, di cui parlano coloro che
conoscono il Veda. Questa eterna Realtà è l'ultimo scalino, il più alto punto
d'appoggio, pada, dell'essere; è quindi lo scopo ultimo del movimento
dell'anima nel Tempo, quantunque essa non sia un movimento ma lo stato d'essere
(sthana) originale, eterno e supremo (VIII, 28).
12-13. Chiudendo le
porte [dei sensi], confinando la mente nel cuore e attirando verso la testa la
forza vitale[385],
'colui che, ben saldo nella concentrazione[386] dello yoga,
pronuncia la sillaba sacra AUM[387], e si ricorda di Me
nel momento in cui abbandona il corpo, questi raggiunge la sua suprema
destinazione[388].
La
Gita descrive la condizione mentale ultima dello yogi nel momento in cui,
attraverso la morte, passa dalla vita all'esistenza suprema e divina. È il modo
tradizionale di abbandonare il corpo per uno yogi, l'ultima offerta del suo
essere all'Eterno, al Trascendente. Ma ciò che questo versetto descrive non è
che il procedimento esteriore; la condizione essenziale è il ricordo continuo e
costante del Divino durante tutta la vita, anche in seno all'azione e alla
battaglia - la trasformazione, dell'atto di vivere, in uno yoga senza
interruzioni.
14. Colui che ha la
mente in modo continuo fissa su di Me, senza che altra cosa occupi la sua
coscienza[389],
questo yogi così costantemente unito [al Sé] Mi raggiunge facilmente, o figlio
di Prithà.
15. Le grandi anime[390] che sono a Me
pervenute non ritornano alla nascita, luogo di sofferenza e di soggiorno
precario, poiché esse hanno raggiunto la più alta perfezione[391].
16. Dal mondo di Brahmà[392] in giù. tutti sono
soggetti alla rinascita, o Arjuna, ma per chi viene a Me. o figlio di Kunti non
esiste rinascita.
L'anima
non ritorna alla terra quando ha raggiunto la condizione ultracosmica. Anche i
più elevati mondi celesti dell'ordine sono sottoposti alla rinascita, ma
nessuna nuova nascita è imposta a chi raggiunge il Purushottama. Di
conseguenza, tutto ciò che si può ottenere aspirando a conoscere l'indefinibile
Brahman, si attiene ugualmente mediante l'aspirazione più comprensiva e più
completa che raggiunge il Divino esistente in sé, Signore delle opere, Amico
della specie umana e di tutti gli esseri, attraverso la via della conoscenza,
delle opere e dell'amore. RicercarLo e conoscerLo in tal modo non vincola alla
rinascita e alla catena del karma. L'anima può quindi sfuggire in modo permanente
alla condizione transitoria e dolorosa dell'essere mortale.
E
qui la Gita, per precisare alla mente questo ciclo di nascite e' l'evasione
fuori dallo stesso, riprende la vecchia teoria dei cicli cosmi-ci, divenuta
parte integrante delle nozioni cosmologiche indiane.
17. Conoscono il giorno
e la notte coloro che sanno che il giorno di Brahmà[393] dura mille età[394] e che la sua notte
non finisce che dopo mille età.
È
un eterno ciclo di periodi alternati di manifestazione e di non-manifestazione
cosmiche, chiamati rispettivamente il giorno e la notte di Brahmà - il
Creatore; sono periodi uguali nel tempo, di mille età l'era di attività e di
altre mille quella di riposo silenzioso.
18. Con la venuta del
giorno[395]
tutti gli esseri manifestati[396] emergono dalla
non-manifestazione[397] e, quando la notte[398] sopraggiunge, si
dissolvono in ciò che è stato chiamatola non-manifestazione.
19. Questa moltitudine
di esseri[399]
che nascono e fina- stono senza posa, si dissolve necessariamente
all'avvicinarsi della notte, o figlio di Prithà, per risorgere al venire del
giorno.
20. Ma oltre questa
non-manifestazione[400] esiste un altro
stato[401]
non-manifestato, eterno[402], che non perisce
quando tutti questi esseri periscono.
21. Il Non-manifestato[403] è chiamato
l'Immutabile, e si parla di lui come della destinazione[404] suprema; coloro che
lo raggiungono non ritornano più. Quella è la Mia suprema dimora[405].
L'anima
che lo raggiunge sfugge al ciclo delle manifestazioni e delle
non-manifestazioni cosmiche.
Che
questa nozione cosmologica venga o no accettata dipende dal valore che siamo
disposti a dare alla conoscenza di "coloro
che conoscono il giorno e la notte". Ciò che importa è l'orientamento
che le viene impresso dalla Gita. Si potrebbe facilmente immaginare che
quest'Essere eternamente non manifestato, il cui stato sembra non avere
relazione alcuna con il manifesto e il non-manifesto, sia l'Assoluto indefinito
e per sempre indefinibile; il miglior modo di raggiungerlo non sarebbe quello
di elevarsi interiormente sino a Lui in una concentrazione combinata della
conoscenza mentale, dell' amore del cuore, della volontà yoghica e della forza
vitale, ma di sbarazzarsi di tutto ciò che con la manifestazione siamo
divenuti. In particolare, la bhakti potrebbe sembrare inapplicabile a un
Assoluto inaccessibile a ogni relazione. La Gita afferma invece con insistenza,
nel versetto seguente, che il supremo Purusha, anche se ultracosmico ed
eternamente non manifestato, deve essere conquistato mediante la bhakti.
22. Questo supremo[406] Purusha, o figlio di
Prithà, può essere raggiunto mediante una devozione immutabile verso Colui nel
cui seno tutti gli esseri[407] esistono e da cui tutto
questo universo è diffuso[408].
In
altre parole, il supremo Purusha non è un Assoluto incapace di rapporti e fuori
portata delle nostre illusioni; Egli è il Veggente, il Creatore e il Sovrano
dei mondi (VIII, 9) e, conoscendolo e amandolo come l'Uno e il Tutto, vasudevah sarvam (VII, 19), dobbiamo,
mediante l'unione con Lui di tutto il nostro essere cosciente, cercare
l'adempimento supremo, la perfetta perfezione e l'assoluta liberazione in tutte
le cose, in tutte le azioni e in tutte le energie.
Viene
subito dopo un curioso pensiero che la Gita prende in prestito dai primitivi
mistici vedantini, dove indica le diverse epoche in cui lo yogi deve
abbandonare il corpo a seconda che voglia rinascere sulla terra o evitare di
reincarnarsi.
23. Ti rivelerò adesso,
o migliore fra i Bharata, il momento in cui uno yogi parte per ritornare e
quello in cui parte per non più rivenire.
24. [Quando partono]
nel fuoco e nella luce, [o durante] il giorno, la luna crescente e i sei mesi
in cui il sole è al nord, coloro che conoscono il Brahman[409] vanno al Brahman.
25. [Quando parte] nel
fumo, [o durante] la notte, la luna calante, i sei mesi in cui il sole è al
sud, lo yogi entra nella luce lunare[410] per ritornare
[quaggiù].
26. La luce e le
tenebre, si dice siano le due eterne vie[411] del mondo; per mezzo
dell'una si parte per non piú ritornare, con l'altra si ritorna ancora.
Questa
nozione ci viene da un'epoca di mistici che vedevano in ogni cosa fisica il
simbolo effettivo di una realtà psicologica e che scoprivano dappertutto
un'interazione, una specie d'identità fra l'esteriore e l'interiore, per
esempio fra la luce e la conoscenza, fra il fuoco e l'energia spirituale. Ciò
che si ritrova all'origine di questo passaggio, sia esso un fatto psicofisico o
un simbolismo, basta per mettere in evidenza l'orientamento che ne segna la
fine: "Perciò, o Arjuna, realizza il
tuo yoga."
27. Lo yogi che conosce
le due vie, o figlio di Prithà, non può smarrirsi. Perciò, o Arjuna, realizza
il tuo yoga[412].
Dopo
tutto, l'essenziale è di unire l'intero essere al Divino, in tutti i modi e
così completamente che l'unione divenga naturale e continua, facendo della vita
un costante ricordo di Dio - non solo in pensiero e in meditazione ma anche
nell'azione, nel lavoro e nella battaglia, L'ingiunzione: "Ricordati di Me
e combatti", significa che il nostro pensiero non deve per un solo istante
perdere il contatto con L'Eterno; neppure negli urti della vita corrente che
abitualmente occupano l'intera mente.
È
una condizione che sembra assai difficile da realizzare, quasi impossibile. In
realtà non è possibile se altre condizioni non sono state previamente
realizzate. Se consciamente siamo divenuti un solo “sé” con tutto - un sé che
nel nostro pensiero è sempre e solamente il Divino -, se i nostri occhi e gli
altri sensi vedono e sentono il Divino ovunque, in modo che non sia possibile
sentire né pensare con i sensi non illuminati né essere null'altro che non sia
ciò che il Divino ha celato e manifestato nell'assieme di questa forma, se la
nostra volontà nel suo profondo sentire è unita a una volontà suprema, e se
ogni atto della volontà, della mente e del corpo e sentito come proveniente da
questa suprema volontà, come il suo movimento, impregnato di questa volontà o
identico ad essa, allora ciò che la Gita richiede può essere integralmente
compiuto. Il ricordo dell'Essere divino non è più un atto intermittente della
mente, diviene la condizione naturale delle nostre attività e, in un certo
senso, la sostanza stessa della nostra coscienza. Il jiva ha stabilito la giusta e naturale condizione - il rapporto
spirituale col Purushottama - e tutta la vita è divenuta uno voga, un'unità
perfetta e tuttavia in via di un eterno adempiersi
28. Lo yogi abbandona
dietro di sé i frutti assegnati agli atti meritori: [studio dei] Veda,
sacrifici, austerità e anche le offerte caritatevoli; egli conosce tutto ciò[413] e giunge alla
condizione[414]
originale e suprema.
Krishna,
il Maestro, incomincia a preparare lo spirito di Arjuna a ricevere la
conoscenza e la percezione della Divinità integrale, portandolo sino alla
visione descritta nel canto undicesimo, che permetterà al guerriero di
Kurukshetra di divenire cosciente di Colui che crea e sostiene il suo essere,
la sua azione e la sua missione - il Divino nell'uomo e nel mondo. Arjuna deve
sapere che non esiste che in Dio e che non può agire se non grazie alla forza
divina in lui, che le sue azioni sono gli strumenti dell'azione divina, la sua
coscienza egoistica un velo e una rappresentazione deformata, causata dall' ignoranza
del vero essere in lui, scintilla immortale della suprema Divinità.
Il Beato Signore disse:
1. A te che non fai critiche vane,
rivelerò adesso il più profondo segreto, la conoscenza integrale[415], conoscendo la quale
sarai liberato dal male.
2. Questa è la conoscenza reale,
mistero sovrano e purificatore supremo, accessibile alla percezione diretta[416], in accordo con la
legge [dell'essere][417], facile da
praticarsi e imperitura.
3. Le anime[418] che non hanno fede
in questa legge[419] [superiore], o
Terrore dei nemici, non arrivano a Me, ma ritornano sulla strada di questo
mondo[420]
di morte.
Questa
legge, questa verità superiore è qualcosa che dev'essere vissuta nella sempre
crescente luce dell'anima e non estratta a forza di argomenti dalle tenebre
della mente. E il solo metodo per poterla verificare è crescere in essa,
divenire questa verità. Non potremo divenire il divino Sé e vivere la verità
della nostra esistenza spirituale che superando il sé inferiore. Tutte le
apparenze di verità che possono essere opposte a questa affermazione sono
apparenze della Natura inferiore.
Per
crescere nella libertà della Natura divina, bisogna riconoscere e accettare la
Divinità nascosta nella nostra limitata natura attuale. Rimettendo nelle mani
del divino Purusha interiore l'attività di tutto ciò che siamo per natura, la
pratica di questo yoga diviene possibile e anche facile. La Divinità opera in
noi la nascita divina, progressivamente, semplicemente, infallibilmente,
prendendo il nostro essere nel suo essere e colmandolo della sua conoscenza e
della sua forza. Si appropria la nostra natura oscura e ignorante e la
trasforma nella sua luce e nella sua ampiezza.
4. Sono Io, dalla forma non manifesta[421], che ha diffuso
tutto questo universo; tutti gli esseri[422] dimorano in Me[423], ma Io non dimoro in
loro[424].
La
Gita inizia da questo punto a svelare il supremo segreto integrale, la verità
unica in cui l'aspirante alla perfezione e alla liberazione deve imparare a
vivere, la vera legge di perfezione delle parti spirituali che compongono il suo
essere e di tutti i loro movimenti. Questo supremo segreto è il mistero del
Divino trascendente, presente in ogni luogo e tuttavia talmente diverso e
talmente più grande dell' universo con tutte le forme in esso contenute, che
nulla può qui con-tenerlo, nulla che possa realmente esprimerlo, nessun
linguaggio preso dall'apparenza delle cose e dalle loro relazioni spaziali e
temporali che possa suggerire la verità del suo inconcepibile essere.
Esiste
Qualcuno o Qualcosa d'altro oltre l'universo, qualcosa d'inimmaginabile,
d'indicibile, una Divinità infinita e ineffabile oltre quello che le nostre più
sottili e più ampie concezioni dell' infinito ci permettono di presentire.
L'intera massa dei divenire in perpetuo movimento e mutamento, tutte le
creature, le esistenze, le cose, le forme che vivono e respirano, nulla di
tutto ciò può contenerlo. Non lo possono le loro esistenze separate o la loro
somma totale. Non in esse né mediante esse Egli vive, si muove e possiede il
suo proprio essere - Dio non è il Divenire. Sono le esistenze in Lui che vivono
e si muovono in Lui e che da Lui ricevono Ia verità - esse sono i suoi
divenire, Egli è il loro essere.
5. Tuttavia gli esseri non dimorano
in Me[425].
Osserva il Mio supremo yoga! Il Mio Sé[426] è l'origine e il
sostegno degli esseri, pur senza dimorare in essi[427].
Esiste
uno yoga del Potere divino, mediante il quale il Supremo crea fenomeni che
conferiscono una forma spirituale - non materiale - allo spiegamento della sua
infinità - uno spiegamento la cui estensione materiale non è che un'immagine.
Il mistero del Supremo consiste nell'essere ultracosmico, senza essere
tuttavia, in senso assoluto, extracosmico. Esiste nell'universo una presenza
permanente, sia pure non direttamente impegnata, dell'Essere di Dio, mama atma, in relazione permanente col
Divenire e che, col semplice fatto della sua presenza, permette la
manifestazione di tutte le creature.
6. Nello stesso modo in cui l'aria,
questo possente [elemento] che tutto penetra, ha il suo fondamento nell'etere[428], Io sono la base di
tutti gli esseri; è cosi che devi capire.
L'Esistenza
universale è infinita e penetra tutto, e l'Essere esistente in sé è anche
infinito e penetra tutto. Ma l'Esistente in sé è stabile, statico, immutabile,
mentre l'Universale è un moto di penetrazione. Il Sé è uno e non molteplice,
mentre l'Universale si esprime attraverso ogni esistenza ed è rappresentato
dalla somma di tutte le esistenze. L'uno è l'Essere, l'altro è il Potere
d'essere che si muove, crea e agisce nell'esistenza dello Spirito immutabile,
fondamentale, sostegno di tutto. Il Sé non dimora in tutte queste esistenze né
in alcuna di esse, esattamente come l'etere (o spazio) non è in nessuna forma,
anche se tutte le forme, in ultima analisi, derivano da esso. Neppure è
contenuto e costituito dall'insieme di tutte le esistenze - non più di quanto
l'etere non sia contenuto dall'estensione mobile del principio aria né
costituito dall'insieme delle sue forme e delle sue forze. Tuttavia nel
movimento è anche il Divino. Nel caso del Divino i due rapporti sono veri
simultaneamente.
7. Alla fine di un ciclo[429], o figlio di Kunti,
tutti gli esseri ritornano alla Mia [divina] Natura[430]; al principio del
ciclo successivo li emetto di nuovo.
8. Suscitando l'azione della Natura
che Mi è propria[431], emetto questa
moltitudine di esseri[432], tutti
inesorabilmente sottoposti alla dominazione della Natura [inferiore][433].
Il
jiva (VII, 5-7), ignorante, soggetto al turbinio ciclico della Natura, non è
padrone di sé stesso, ma dominato da essa. Solo ritornando alla coscienza
divina può raggiungere la padronanza e la libertà. Il Divino partecipa anche al
movimento ciclico come Spirito animatore e guida, senza esserne dominato o
coinvolto, ma accompagnandolo e modellandolo con il suo potere d'essere.
9. E queste opere non Mi vincolano
minimamente, o Conquistatore di tesori, poiché assisto non coinvolto a questi
atti [come se fossi uno spettatore] che li osserva dall'alto[434].
Se,
con il suo potere, (il Divino) accompagna la Natura e ne causa l'attività, si
trova ugualmente fuori dalla Natura, come se stesse sopra la sua azione
universale in una condizione superiore ai fatti cosmici. Nessun desiderio lo
domina e lo trascina vincolandolo ad essa e, di conseguenza, non resta
asservito alle azioni da essa compiute; Egli le precede e le supera
infinitamente, rimane immutato prima, durante e dopo il loro svolgersi
attraverso i cicli del Tempo.
Ma
dato che questa attività è l'azione della Natura divina, e che questa Natura
non può mai essere separata dal Divino, Egli deve essere immanente in tutto ciò
che essa crea. Senza dubbio questo rapporto non è l'intera verità, ma è una
verità che non possiamo permetterci di trascurare totalmente.
10. Da Me guidata, la Natura produce
gli esseri animati e inanimati; in tal modo, o figlio di Kunti, l'universo gira
e gira.
11. Gli insensati Mi disprezzano perché
Mi rivesto di un corpo umano[435], ma è perché non
conoscono la Mia suprema natura[436] di Signore delle
creature[437].
La
mente dei mortali si smarrisce perché, nella sua ignoranza, si arresta davanti
ai veli e si afferra alle apparenze; non vede che il corpo esteriore, la mente
umana, la maniera umana di vivere, e non ha della Divinità che risiede in ogni
creatura nessuna visione liberatrice. L'uomo non possiede la capacità di
riconoscere la divinità in lui e nemmeno può vederla negli altri uomini. Anche
se il divino si manifesta agli uomini come avatàr o come vibhúti, l'uomo rimane
cieco, trascura o disprezza la Divinità velata. Se non riesce a vederla nella
creatura vivente, come può riconoscerla nel mondo oggetti che vede dalla
prigione di un ego separatore, attraverso la finestra con sbarre di una mente
limitata? Non vede Dio nell'universo, non sa nulla del Supremo padrone di
questo mondo pieno di creature diverse che sono la sua dimora; è cieco alla
visione mediante la quale tutto nell'universo diventa divino e permette
all'anima di svegliarsi alla propria divinità, divenendo (della stessa natura)
del Divino, simile a Dio. Quello che vede con chiarezza - e vi si aggrappa con
passione - è la vita dell'ego alla ricerca delle cose finite, per loro stesse e
per la soddisfazione degli appetiti terrestri del corpo, dei sensi e
dell'intelletto.
12. Privi del vero modo di conoscere,
si rivestono della natura ingannevole[438] dell'asura e del
ràkshasa[439].
Vana è la loro speranza, vani i loro atti, vana la loro conoscenza.
Coloro
che si attaccano troppo a questa spinta mentale verso l'esterno cadono sotto il
dominio della Natura inferiore, si attaccano ad essa e ne fanno il loro
sostegno. Essi divengono preda della natura del ràkshasa, che tutto sacrifica alla soddisfazione violenta e senza
freni del suo ego vitale separato, facendone il fosco dio della volontà, del
pensiero, della passione e del piacere propri. Oppure, sferzati dalla
presunzione, dall'arroganza, dall'impulso egoistico, dall'appetito
intellettualizzato verso il godimento, propri dell'asura, soddisfatti di sé, ma
tuttavia sempre insoddisfatti, girano senza fine in un circolo sterile.
Vivere
continuamente in questa coscienza separativa dell'ego e farne il centro di
tutte le proprie attività significa rimanere tagliati fuori della vera
coscienza che in noi risiede. Il fascino che la coscienza dell'ego getta sugli
strumenti mal diretti dello spirito è un (vero) sortilegio che costringe la vita
a girare in tondo senza costrutto. La speranza, l'azione, la conoscenza (che
nascono da questa coscienza) sono cose vane, se si giudicano sulla base dei
criteri eterni e divini, in quanto questa coscienza chiude le porte alla grande
speranza, esclude l'azione liberatrice e bandisce la conoscenza che illumina. È
una falsa conoscenza, che vede il fenomeno ma non tocca la verità del fenomeno
stesso, una speranza cieca che corre dietro all'effimero e manca l'eterno,
un'azione sterile, il cui profitto viene annullato da una perdita (equivalente)
e che condanna a un lavoro da Sisifo.
13. Ma coloro la cui anima è grande[440] rivestono la natura
divina[441],
o Figlio di Prithà; essi conoscono in Me l'origine imperitura di tutti gli
esseri e Mi adorano con devozione assoluta.
Coloro
che hanno l'anima grande e si aprono alla luce e all'ampiezza della natura più
divina che sia accessibile all'uomo, sono soli sul cammino - stretto al
principio, ma inesprimibilmente largo alla fine - che conduce alla liberazione
e alla perfezione. La crescita di Dio nell'uomo è il vero compito dell'uomo; la
trasformazione assidua della natura inferiore asurica e ràkshasica è il senso
rigorosamente nascosto della vita umana. A mano a mano che questa crescita si
va compiendo, i veli cadono e l'anima comincia a scoprire il più grande
significato degli atti e il vero scopo dell'esistenza. L'occhio si apre al
Divino nell'uomo, si apre al Divino nel mondo, acquisisce una visione interiore
ed esteriore dello Spirito infinito, dell'Imperituro, origine di tutti gli
esseri, in tutti esistente, da cui e in cui tutti esistono eternamente. Quando
questa visione, questa conoscenza è afferrata dall'anima, l'aspirazione di
tutta la vita diviene un amore senza restrizioni e un'insondabile adorazione
verso il Divino e verso l'Infinito. La mente aderisce unicamente all'eterno,
allo spirituale, all'universale, al reale, dando valore solo a ciò che conduce
al beato Purusha. Non trova delizia che nella sua completa felicità. Ogni
Parola, ogni pensiero divengono un culto all'Anima suprema una e alla Persona
infinita, un solo inno all'universale grandezza - Luce, Bellezza, Potere e
Verità - rivelata in tutta la sua gloria allo spirito umano.
14. Ardenti e perseveranti nelle loro
risoluzioni, cantando senza posa le lodi a Me rivolte, Mi rendono omaggio con
devozione e Mi adorano in un'eterna unione[442].
Questo
persistente sforzo dell'essere interiore per aprirsi una breccia prende la
forma di ricerca spirituale, di aspirazione a possedere il Divino nell'anima e
a scoprirlo nella Natura. La vita intera diviene uno yoga senza interruzione,
una continua unione del Divino con lo spirito umano. Tale è il risultato della
devozione integrale; mediante il sacrificio, compiuto da un cuore devoto,
all'eterno Purushottama, essa produce l'elevazione di tutto il nostro essere,
di tutta la nostra natura.
15. Altri Mi offrono il sacrificio
della conoscenza[443] e Mi adorano come
l'Unico e il Molteplice, e come l'Innumerevole che mostra loro il viso da ogni
parte[444].
Questa
conoscenza diviene facilmente un'adorazione, una gran devozione, un vasto dono
di sé, un'offerta integrale, perché rappresenta la conoscenza di uno Spirito,
di un Essere, di un'Anima universale e suprema, che esige tutto quello che
siamo, ma che allo stesso tempo riversa su di noi, quando ad essa ci
avviciniamo, gli inesauribili tesori della delizia della sua esistenza, del suo
contatto, del suo abbraccio.
16. Io sono l'offerta rituale, Io
sono il sacrificio, Io sono l'oblazione agli antenati, Io sono l'erba che dà il
fuoco, Io sono l'inno sacro[445], Io sono il burro
chiarificato[446],
Io sono il fuoco e l'offerta.
La
via delle opere, anch'essa, si cambia in adorazione, in devozione mediante il
dono di sé, in quanto diviene il sacrificio totale della volontà e delle sue
attività all'unico Purushottama. Il rito vedico, nel suo aspetto esteriore, è
un simbolo la cui efficace e possente azione tende verso scopi meno elevati,
anche se celesti; il vero sacrificio è l'oblazione interiore dove il divino
Tutto diviene l'atto rituale, il sacrificio e ognuna delle circostanze
particolari al sacrificio.
17, lo sono il padre di questo
universo, Io sono la madre, colui che lo sostiene e il suo grande antenato; Io
sono il purificatore e il solo oggetto della conoscenza; Io sono la sillaba AUM[447], il Rik, il Sàma e
lo Yajur[448].
Per
l'anima che conosce, che adora e che, con la più grande sommissione, offre
all'Eterno le sue opere, il Divino è tutto e tutto è il Divino. Essa conosce
Dio come il Padre di questo mondo, che nutre, ama i suoi figli e veglia su di
loro. Essa conosce Dio come Madre divina, che li porta nel suo seno, che
prodiga loro la dolcezza del suo amore e riempie l'universo delle sue forme di
bellezza. Essa lo conosce come il supremo Creatore che ha fatto nascere tutto
ciò che è stato creato e diffuso nello spazio e nel tempo. Essa lo conosce come
il Signore e l'Ordinatore che distribuisce e dispensa all'universo e
all'individuo.
18. Io sono la via, il sostegno, il
signore, il testimone, la dimora, il rifugio, l'amico; Io sono l'origine e la
dissoluzione [dell'universo] e la sua base; lo sono il seme [degli esseri] che
non può perire e il [loro] luogo di riposo.
Il
mondo, il destino, l'incertezza delle eventualità non atterriscono chi è
sottomesso all'Eterno, e nemmeno la sofferenza e il male potrebbero smarrirlo.
Per l'anima che vede, Dio è la via e la meta del gran viaggio - un cammino su
cui non ci si può smarrire e una meta verso la quale i nostri passi,
saggiamente guidati, ci conducono con sicurezza.
19. Io riscaldo; Io trattengo o invio
la pioggia; Io sono l'immortalità[449] e anche la morte; Io
sono l'essere e il nonessere[450], o Arjuna.
20. Coloro che conoscono i tre Veda[451], che bevono il Soma[452] e che, purificati
dal peccato, Mi offrono sacrifici e pregano richiedendo la via del cielo,
quelli giungono al celeste mondo di Indra[453] e godono in cielo i
divini piaceri degli dèi.
21. Avendo esaurito in questo-mondo
celeste dai grandi godimenti i meriti [delle loro azioni][454], ritornano nel mondo
dei mortali. Seguendo i doveri[455] imposti dai tre
Veda, desiderosi[456] di godere, ottengono
la nascita e la morte[457].
L'antico
ritualista vedico imparava solo il senso essoterico del triplice Veda, si
purificava dal peccato, beveva il vino della comunione con gli dèi e cercava,
mediante il sacrificio e le buone azioni, la ricompensa del cielo. Questo modo
di credere nell'Aldilà e questa ricerca di un mondo divino assicurano,
all'anima che abbandona la vita, la forza di raggiungere quelle gioie del cielo
su cui si concentrano la sua fede e la sua ricerca. Ma il ritorno alla vita
mortale diviene allora indispensabile, perché lo scopo di questa vita non è
stato scoperto e raggiunto.
22. Agli uomini in costante yoga che
Mi adorano senza pensare ad altro, apporto sicurezza e protezione[458].
Su
questa terra e non fuori di essa dev'essere trovata la suprema Divinità; è qui
che la natura divina dell'anima dev'essere sviluppata partendo dall'imperfetta
natura fisica umana per scoprire, mediante l'unità col Divino, l'uomo,
l'universo e l'intera verità dell'essere, per essere vissuta e farne una
visibile meraviglia. In tal modo si completa il lungo ciclo del nostro divenire
e si giunge allo scopo supremo. Questa è l'occasione che la nascita umana offre
all'uomo senza possibilità di sosta, finchè il risultato finale non sia
raggiunto.
Non
vedere altro che il Divino, essere ad ogni momento in unione con Lui, amarlo in
tutte le sue creature, trovare in tutto la felicità divina, è la natura
dell'esistenza spirituale dell'amante di Dio. La visione che ha del Signore non
lo separa dalla vita, non gli manca nulla della pienezza dell'esistenza, poiché
lo stesso Dio diviene lo spontaneo dispensatore di ogni bene, di tutto ciò che
egli riceve dalla vita, tanto interiormente quanto esteriormente. La gioia
della terra e la gioia del cielo non sono che pallidi riflessi di ciò che può
ottenere, in quanto, man mano che aumenta di statura spirituale, il Divino
riversa su di lui tutta la sua luce, tutto il suo potere e tutta la gioia di
un'esistenza infinita.
23. Anche coloro che adorano altri
dèi[459] e offrono loro, con
fede, il sacrificio, essi proprio a Me sacrificano, o figlio di Kunti, benché
non secondo la regola prescritta[460].
24. In verità sono lo colui che
riceve con gioia[461] tutti i sacrifici e
ne è il Signore[462]; ma [questi devoti]
non conoscono la Mia essenza, e per questo si perdono.
Ogni
credo e ogni pratica religiosa, svolta sinceramente, è veramente una ricerca
del Divino unico, supremo e universale. Lui è il solo Signore del sacrificio e
dell'ascesi, Lui che riceve e accoglie lo sforzo dell'uomo e la sua
aspirazione. Per quanto piccola e bassa possa essere la forma d'adorazione, per
quanto limitata l'idea della divinità, limitati il dono di sé, la fede e lo
sforzo per superare le barriere imposte dalla natura materiale e passare dietro
il velo creato dall'adorazione del proprio ego, il filo che unisce l'anima
umana a quella universale si forma ugualmente e la risposta viene. Tuttavia la
risposta, frutto dell'adorazione e dell'offerta, rimane proporzionata alla
conoscenza, alla fede, al lavoro e non può andare oltre le loro limitazioni. Di
conseguenza, paragonandola alla più grande conoscenza di Dio, la sola capace di
scoprire l'intera verità dell'essere e del divenire, questa inferiore offerta
sacrificale non è fatta seguendo la legge suprema del sacrificio. Essa non è
fondata sulla conoscenza della Divinità suprema secondo la sua integrale
esistenza né sui veri principi della sua manifestazione, ma aderisce a
incomplete esperienze esteriori. Lo scopo del sacrificio risulta limitato perché
i moventi sono egoistici, l'azione e il dono di sé incompleti ed erronei. La
visione totale del Divino è la condizione indispensabile per un cosciente e
totale dono di sé. Qualsiasi altro modo di ricerca raggiunge solo risultati
mediocri e parziali, obbligandoci ad arretrare per ripartire sulla base di una
ricerca più ampia e verso una più grande esperienza di Dio.
25. Coloro che adorano gli dèi vanno
agli dèi[463];
coloro che adorano gli antenati vanno agli antenati[464]; agli spiriti della
natura vanno coloro che sacrificano a questi spiriti[465], ma coloro che
sacrificano a Me, vengono a Me.
Cercare
la Divinità suprema e universale, unicamente e interamente, significa
raggiungere tutta la conoscenza e il risultato che offrono le altre vie, senza
essere limitati da nessun aspetto, ma percependo in tutti gli aspetti la verità
divina in essi contenuta. Questa ricerca, nella sua progressione verso il
Purushottama, abbraccia tutte le forme dell'Essere divino.
26. Anche se con devozione Mi si
offre una foglia, un fiore o dell'acqua, accetto quest'offerta d'amore venuta
da un'anima piena di zelo.
La
minima, la più piccola fra le circostanze della vita, il dono più
insignificante di ciò che si è o di ciò che si ha, l'atto più trascurabile,
rivestono un divino significato e divengono offerte accettabili. La Divinità le
trasforma in un mezzo per entrare in possesso dell'anima della vita del suo
devoto.
27. Qualunque cosa tu faccia, mangi,
offra in sacrificio, ,qualunque cosa dia, qualunque austerità t'imponga, o glio
di Kunti, famMene un'offerta.
28. In tal modo sarai liberato dai
vincoli delle azioni che producono i risultati buoni e cattivi; con l'anima
unita [al Divino] mediante lo yoga della rinuncia[466], tu sarai libero e
verrai a Me.
È
così che spariscono le distinzioni create dal desiderio e dall'ego. Dato che
non vi è ricerca ansiosa di un felice risultato dell'azione, o l’apprensione
per un risultato sfavorevole, e che tutte le opere e i loro risultati vengono
abbandonati e rimessi al Supremo, a cui appartengono il lavoro e i frutti del
mondo, non esiste più schiavitù. Mediane a questo dono di sé assoluto, ogni
desiderio sparisce dal cuore e l'unione fra il Divino e l'anima individuale
diviene perfetta grazie alla rinuncia interiore dell'anima a una vita separata.
Ogni volontà, ogni azione, ogni risultato, divengono quelli del Divino,
agiscono divinamente attraverso la natura purificata e illuminata e cessano di appartenere
al limitato ego personale. La natura finita che riesce a compiere questo dono
di sé diviene un libero canale dell'Infinito; l’anima che si è elevata
spiritualmente sopra l'ignoranza e la limitazione ritorna alla sua unità con
l'Eterno.
29. Io sono identico[467] per tutti gli
esseri; nessuno Mi è caro, nessuno mi è odioso; ma coloro che Mi adorano[468] con devozione sono
in Me e Io sono in loro.
L'Eterno
è il Divino abitante di tutte le creature.... Egli non è né il nemico ne
l'amico parziale di nessuna di esse; nessuno ha mai rifiutato, nessuno eternamente
condannato, ne' arbitrariamente favorito; ma tutti finiscono per andare a Lui
attraverso i meandri dell'Ignoranza. Però è solo la perfetta adorazione che può
rendere cosciente questa esistenza interiore di Dio nell'uomo e dell'uomo in
Dio, e fare di quest'unione una cosa assoluta e perfetta. L'amore
dell'Altissimo e il dono totale di sé sono la via rapida e diretta che conduce
a questa divina unità.
30. Se un uomo di spregevole condotta
si volge verso di Me in un'adorazione solo a Me diretta[469], deve essere
ritenuto un uomo giusto[470], poiché giusta è la
sua risoluzione.
31. Egli diviene un'anima retta[471] e raggiunge l'eterna
pace; puoi essere certo, o figlio di Kunti, che questo Mio devoto[472] giammai perirà.
La
volontà del completo dono di sé spalanca le porte dello spirito e porta in
risposta all'essere umano la discesa e il dono completi del Divino; tutto in
noi riveste allora una nuova forma, tutto si assimila alla legge della divina
esistenza mediante una rapida trasformazione della natura inferiore in natura
spirituale. La volontà di darsi lacera il velo esistente tra Dio e l'uomo: essa
distrugge l'errore e abbatte ogni ostacolo. Chi affida invece l'aspirazione
alla forza umana e procede con lo sforzo di una laboriosa disciplina,
progredisce verso l'Eterno, verso la conoscenza e la virtù con grandi difficoltà
e immerso nella pena. Quando l'anima abbandona il suo ego e i suoi atti al
Divino, lo stesso Dio viene a noi e assume la responsabilità del nostro
fardello. All'ignorante concede la luce della divina conoscenza, al debole la
forza della divina volontà, al peccatore la liberazione della divina purezza, a
colui che soffre la gioia spirituale senza fine e l'ananda. La debolezza e i
barcollamenti della nostra forza umana cessano di avere importanza.
32. Anche se nati nel peccato[473], o donne, o vaishya[474] o shudra[475], chiunque prenda
rifugio in Me raggiunge la meta suprema.
Lo
sforzo preliminare e la preparazione, la purezza e la santità del bramino,
l'illuminata forza del rishi regale
(vedi versetto seguente), grande nelle opere e nella conoscenza, tutto ciò ha
valore, perché per-mette più facilmente alla creatura umana imperfetta di
accedere a questa vasta visione, a questo ampio dono di sé. Ma, anche senza
questa preparazione, tutti coloro che prendono rifugio in questo divino Amico
dell'uomo vedono aprirsi davanti a loro le porte divine: il vaishya preoccupato di accumulare
ricchezze e dalla cura della propria produzione, lo shudra impastoiato da mille penose restrizioni, la donna limitata
nel suo sviluppo dalle restrizioni impostele dalla società, e anche coloro,
"nati da un ventre impuro", a cui il karma passato ha imposto la
peggiore delle nascite, i fuori casta, i paria. Nella vita spirituale, tutte te
distinzioni esteriori a cui gli uomini concedono tanta importanza - perché la
loro forza oppressiva piace tanto alla mente rivolta verso l'esteriore - si
dileguano davanti all'uguaglianza della Luce divina e all'onnipotente Forza
imparziale.
33. Quanto più facilmente allora per
i santi bramini e i devoti rajarshi[476]! Tu che sei venuto
in questo effimero mondo senza gioia, amaMi e volgiti verso di Me[477].
Il
mondo terrestre, preoccupato dagli opposti e vincolato alle relazioni immediate
e transitorie dell'ora e del momento, rappresenta per 1'uomo finché rimane
attaccato a queste cose e accetta come legge della sua vita quello che esse gli
impongono, un mondo di lotta, di Sofferenza e di afflizione. La via della
liberazione ci è data dal rivolgersi non più verso l'apparenza creata dalla
vita materiale che grava col suo fardello la niente e la imprigiona nelle abitudini
della vita e del corpo, ma verso la divina. Realtà che attende di potersi
manifestare nella libertà dello Spirito.
34. Fissa su di Me la tua mente e
divieni Mio devoto; e onorandoMi, a Me sacrificando, a Me unito, avendo Me come
supremo [scopo][478], tu verrai a Me.
Una
volta che la Divinità interiore sia stata riconosciuta e accettata, l'intero
essere e la vita si eleveranno in una meravigliosa trasmutazione. Invece di
vedere ovunque l'ignoranza della Natura inferiore assorta nelle opere esteriori
e nelle apparenze, gli occhi vedranno Dio ovunque e si apriranno all'unità e
all'universalità dello Spirito, L'infelicità e il dolore del mondo spariranno
nella beatitudine di Colui che è tutto felicità; la nostra debolezza, i nostri
errori e i nostri peccati si cambieranno nella forza, nella purezza e nella
verità divine che tutto trasformano.
Unire
la mente alla coscienza divina, fare della nostra natura emotiva un amore unico
di Dio ovunque, fare delle nostre opere un sacrificio unico al Signore dei
mondi, e della nostra adorazione e aspirazione una sola adorazione e un dono di
noi stessi a Lui solo, dirigendo l'intero essere verso Dio in una totale
unione, è il mezzo per uscire dall'esistenza mondana (comune) per entrare in
quella divina. È questo l'insegnamento della Gita, un insegnamento di devozione
e d'amore divini, in cui la conoscenza, le opere e l'aspirazione del cuore si
uniscono in una suprema unificazione, conciliando tutte le divergenze,
allacciando tutti i fili in un vasto movimento di fusione e d'identificazione.
CANTO
X
[a] LA SUPREMA PAROLA DELLA GITA
Il Beato Signore disse:
1. Ascolta, o Guerriero
dal braccio possente, la suprema parola, quella che ti dirò affinché tu possa
trovare in Me la tua gioia, in Me che desidero il bene [della tua anima].
Questa
gioia del cuore in Dio costituisce la vera bhakti,
la sua essenza (X, 10). Rappresenta la condizione previa a quanto il Divino
incarnato dirà al suo strumento umano, Arjuna, dandogli l'ordine di agire.
2. La Mia nascita[479] non conoscono né gli
déi[480] né i grandi rishi[481], perché, in verità,
Io sono in tutti i sensi possibili l'origine[482] degli dèi e dei
rishi.
La
Gita armonizza e concilia gli elementi panteistici e teistici, che tra-scendono
le vette più elevate della nostra esperienza e della nostra concezione
spirituale. Il Divino è l'Eterno non-nato, l'Essere trascendente che non ha
origine, senza essere per questo né una negazione né un Assoluto privo di
rapporti con l'universo. È un Supremo positivo da cui derivano tutte le
relazioni cosmiche; tutti gli esseri creati ritornano a Lui e in Lui solo
trovano la loro vera e infinita esistenza.
Gli
dèi sono potenze imperiture, personalità immortali che animano, costituiscono e
dirigono consapevolmente le forze oggettive e soggettive del cosmo. Sono le
forme spirituali del primigenio ed eterno Divino, e da Lui discendono nelle
operazioni e nei processi cosmici. La loro intera esistenza, la loro natura, il
loro potere e la loro azione procedono dalla verità dell'Ineffabile
trascendente, Nulla è quaggiù creato in modo indipendente da questi agenti
divini, e nulla trova in loro causa sufficiente; causa spirituale, ragione
d'essere e volontà d'essere, tutto ha origine nella suprema e assoluta
Divinità.
3. Colui che conosce in
Me il senza-origine, il senza-nascita e il sovrano Signore dei mondi[483], egli, fra i
mortali, non è fuorviato dall'illusione ed è liberato da ogni peccato.
Il
Supremo che diviene l'intera creazione, ma che la supera infinita-mente, non è
una causa senza volontà che si mantiene in disparte dalla propria creazione.
Non è il testimone indifferente che attende impassibile che tutto si abolisca
da solo o ritorni all'immutabile principio originale. È il potente Signore dei
mondi e dei popoli che tutto governa, non solamente come forza interiore, ma
come forza che dirige dall'alto, dalla sua suprema trascendenza. Il cosmo non
può essere governato da un potere che non lo trascenda. La divina direzione
implica un sovrano onnipotente e non la forza automatica o la legge meccanica
di un divenire determinante, limitata dalla natura apparente del cosmo. Tale è
la concezione teistica dell'universo.
Tutti
i falsi passi dell'azione umana, le perplessità, l'insicurezza e l'afflizione
dell'intelletto, della volontà, del senso morale, delle sollecitazioni vitali,
delle emozioni e delle sensazioni, hanno origine dal modo esitante e incerto di
conoscere e volere proprio della mente mortale, ottenebrata dai sensi. Ma
quando l'uomo si accorge dell' origine divina di tutte le cose, quando il suo
sguardo passa pacata-mente dall'apparenza cosmica alla realtà trascendente, e
Inversamente da questa realtà all'apparenza, viene allora liberato dallo
smarrimento della mente, della volontà, del cuore e dei sensi e può procedere
in avanti luminoso e libero. Assegnando a ogni cosa il valore reale e supremo
in essa contenuto, e non quello passeggero e apparente, come avviene nella
maggiorana dei casi, scopre legami e rapporti occulti, orientando in piena
coscienza la sua vita e il suo agire verso il loro scopo vero ed elevato, e
governandoli mediante la luce e la forza che vengono dal Divino in lui. Nella
conoscenza, nella reazione dell'intelligenza e della volontà, nei fenomeni
sensori, percettivi o motori, sfugge all'errore che causa su questa terra il
peccato, il male e la sofferenza.
4-5. L'intelligenza, la
conoscenza, il liberarsi dall'illusione, l'impazienza, la verità, il dominio di
sé e la serenità; il piacere e il dolore, l'esistenza e la non-esistenza, la
paura e il coraggio, la non-violenza, l'equanimità, la soddisfazione,
l'austerità, la carità, l'onore e la vergogna, sono i differenti stati
[soggettivi][484]
delle creature[485], e tutti sono i Miei
divenire[486].
Osservando
l'insistenza che esprime l'impiego di tre parole derivanti dal verbo bhu, divenire, bhavah, bhutàni, bhavanti, vediamo che tutte le creature sono i
divenire del Divino, bhutani, tutti
gli stati e movimenti soggettivi sono suoi, con i loro divenire psicologici, bhavah, e questi stati soggettivi
secondari sono essi stessi, come i loro risultati apparenti e gli stati
spirituali superiori, tutti divenire dell'Essere supremo, bhavanti matta eva.
Il
teismo della Gita non è un teismo esitante e timido, spaventato dalle
contraddizioni del mondo, ma un teismo per il quale Dio è l'Essere originale
unico, onnisciente e onnipotente, che manifesta tutto in sé - bene e male,
dolore c piacere, luce e tenebre - e forma con questi materiali la sua stessa
esistenza, governando Lui stesso quello che in Sé stesso ha manifestato. Senza
essere toccato da questi contrari o legato alla propria creazione, superando la
Natura, ma tuttavia tenendosi in stretto rapporto con essa, è intimamente uno
con tutte le creature; è il loro Spirito, il loro Sé, la loro Anima suprema, il
loro Signore, il loro Amico, il loro Amante, il loro rifugio e sempre le
conduce dall'alto e dalla profonda intimità dell'essere, attraverso le apparenze
mortali dell'ignoranza, della sofferenza, del male e del peccato, verso la
luce, la felicità, l'immortalità e la suprema trascendenza. Tale è la pienezza
della conoscenza liberatrice, il cui carattere è segnato in questo canto da tre
versetti pieni di promesse (3, 7 e 11).
6. I sette antichi
grandi Rishi[487]
e i quattro Manu[488] sono anche i Miei
divenire[489],
nati dalla Mia mente[490], e da essi procedono
tutti gli esseri di questo mondo[491].
I
grandi Rishi, chiamati qui come nei Veda i sette Antichi Veggenti, sono le
Forze d'intelligenza di questa Saggezza divina che ha tutto sviluppato a
partire della propria infinità cosciente, facendo loro scendere la scala dei
sette principi della propria essenza[492]*.
A
ciò si aggiungono i quattro Manu eterni, Padri spirituali dell'uomo, in quanto
la Natura attiva della Divinità è quadruplice[493]** e
l'umanità esprime questa Natura attraverso il suo quadruplice carattere.
Anch'essi, come lo implica il loro nome, sono esseri mentali. Sono le creature
di questa vita, il cui giuoco dipende dalla mente manifestata o latente; tutti
gli esseri sono loro figli o discendenti.
7. Colui che conosce in
essenza[494]
questa Mia manifestazione[495] e questo Mio yoga,
senza dubbio si unisce a Me in uno yoga senza errore.
La
saggezza dell'uomo liberato non è, per la Gita, la coscienza di
un'impersonalità astratta e senza rapporti, una quiete inattiva. La mente e
l'anima di colui che ha raggiunto la liberazione sono in effetti profondamente
imbevute dalla percezione integrale di un mondo penetrato dalla presenza
animatrice e direttrice del divino Signore dell'universo. L'uomo liberato è
cosciente della trascendenza del suo spirito nei confronti dell'ordine cosmico,
ma mediante lo yoga divino diviene anche cosciente della sua unità con
quest'ordine. Vede ogni aspetto dell'esistenza trascendente, cosmica e
individuale nel giusto rapporto con la suprema verità e mette tutto nel posto
che gli compete in seno all'unità dello yoga divino.
Mediante
questo yoga, una volta divenuto perfetto, stabile e senza oscillazioni, è
capace di stabilirsi in qualsiasi equilibrio della Natura, di assumere
qualsiasi condizione umana, di adempiere nel mondo qualunque azione senza mai
separarsi dalla sua unità con il divino Sé, senza nulla perdere della sua
costante comunione col Maestro dell'esistenza.
8. Io sono l'origine[496] di tutto, da Me
tutto procede e si sviluppa; ciò conoscendo, i saggi[497] Mi adorano[498] con fervore e
devozione[499].
Dio
non crea nulla dal nulla, dal vuoto, da una matrice di sogni senza sostanza.
Egli crea prendendo dal proprio essere, in Lui resta il creato, tutto è nel suo
essere e tutto proviene dal suo essere. Questa verità ammette e supera la
visione panteistica delle cose. "Vàsudeva
è tutto" (VII, 19); ma Vàsudeva è tutto ciò che appare nel cosmo
Perché è anche quello che ne] cosmo non appare e tutto ciò che mai si
manifesterà....
Questa
conoscenza, trasposta sul piano affettivo ed emotivo sul piano del
temperamento, diviene un amore calmo e un'intensa adorazione del Divino
primigenio e trascendente, sopra di noi, del Signore sempre presente fra noi,
del Dio nell'uomo e nella Natura. È una saggezza dell'intelligenza che si
accompagna a uno stato di emozione spiritualizzata della Natura affettiva,
bhava.
9. Il loro pensiero[500] è a Me rivolto, la
loro vita[501]
a Me consacrata, non parlano che di Me e reciprocamente svegliandosi [alla
conoscenza], sono felici e pieni di gioia.
10. A coloro che in tal
modo sono costantemente uniti [a Me] e Mi adorano di amore intenso[502], concedo lo yoga
dell'intelligenza[503], grazie al quale
vengono a Me.
Questo
cambiamento del cuore e della mente è l'inizio di un cambiamento totale nella
natura. Una nuova nascita, una nuova crescita interiore ci prepara all'unità
con l'oggetto supremo del nostro amore e della nostra adorazione. L'anima trova
un'intensa delizia d'amore, priti,
nella grandezza, nella bellezza e nella perfezione dell'Essere divino, che vede
ormai dovunque nel mondo e sopra il mondo. Questa profonda estasi sostituisce
il piacere esteriore e distratto che la mente ha nella vita; o piuttosto attira
a sé una gioia completa-mente diversa e trasforma, mediante una meravigliosa
alchimia, i sentimenti della mente e del cuore e tutti i moti dei sensi.
Mediante
lo yoga della volontà e dell'intelligenza, fondato sull' unione illuminata
delle opere e delta conoscenza, la transizione si effettua nel passaggio dalle
torbide regioni della nostra mente inferiore all'immutabile calma
dell'Anima-testimone sopra la natura attiva. Ma ecco che mediante questo più
grande yoga dell'intelligenza, fondato sull'unione illuminata dell'amore e
dell'adorazione e in possesso di una conoscenza che tutto abbraccia, l'anima si
eleva in una vasta estasi sino a raggiungere l'intera verità trascendente del
Divino assoluto, origine di tutto. L'Eterno trova il suo compimento nello
spirito e nella natura individuali; lo spirito indi-e si esalta, dalla nascita
nel tempo sino alle infinite distese dell'Eterno.
11. Per pura compassione
verso costoro, dimorando in loro[504], dissipo le tenebre
che sorgono dall'ignoranza[505], mediante la splendente
lampada della conoscenza[506].
Non
appena questo stato interiore incomincia, sia pure nelle condizioni più
imperfette, il Divino lo conferma mediante la perfezione dello yoga della
volontà e dell'intelligenza. Ci illumina con la conoscenza, distrugge
l'ignoranza della mente e della volontà che separano .e dividono, e si rivela
allo spirito umano.
[b]
IL DIVINO POTERE DI TRASFORMAZIONE
Arjuna disse:
12. Tu sei il supremo
Brahman, il supremo rifugio, la suprema purezza; Tu sei l'Eterno, il divino
Purusha, la Divinità primigenia[507], il Non-nato,
l'Onnipresente[508].
Arjuna
accetta l'insegnamento impartitogli dal divino Maestro. La sua mente si vede
liberata dai dubbi e dalle ansiose ricerche; il suo cuore, non più rivolto
verso l'aspetto esteriore del mondo e la sua sconcertante apparenza, ma verso
il significato della suprema origine e della realtà interiore, è già libero dal
dolore e dall'afflizione, toccato dalla gioia ineffabile della divina
rivelazione. Le parole impiegate da Arjuna per esprimere la sua accettazione
insistono ancora sulla realtà profonda di questa conoscenza, sulla pienezza che
tutto abbraccia. Riconosce l'Avatàr, il Divino che, nel suo aspetto umano, gli
parla come Supremo Brahman, come il Tutto ultracosmico e l'Assoluto
dell'esistenza, in cui l'anima può rifugiarsi quando esce da questa
manifestazione e da questo imperfetto divenire per ritornare all'origine. Lo
riconosce come la suprema purezza di un'esistenza sempre libera cui Si giunge
mediante l'annullamento dell'ego nell' impersonalità immutabile del Sé,
eternamente calma e serena. Lo riconosce come l'Unico Permanente, l'Anima
eterna, il divino Purusha Acclama in Lui il Divino primigenio, adora il
Senza-nascita, Signore di tutte le esistenze, che si diffonde, penetra e
risiede nel cuore di tutti.
13. Tutti i rishi cosi
dicono di Te, e anche il divino veggente Nàrada[509]; Asita, Dévala e
Vyàsa[510]
l'hanno anche proclamato, e Tu stesso me lo dici.
È
una saggezza segreta che ci proviene dai veggenti, da coloro che hanno visto la
faccia di questa verità, che hanno ascoltato la sua parola, e il cui spirito ed
essere si sono uniti ad essa. Oppure si può riceverla dall'intimo, mediante una
rivelazione, un'ispirazione della Divinità interiore che c'illumina con la
splendente luce della conoscenza.
14. Ritengo verità
tutto ciò che mi dici, o Keshava[511]. Né gli déi[512] né i titani[513], o Beato, comprendono
la Tua manifestazione[514].
Una
volta rivelata, questa conoscenza dev'essere ricevuta con l'assenso della
mente, della volontà, e con la gioia e sommissione del cuore - i tre elementi
della completa fede mentale, shraddha.
Cosi Arjuna l'accetta. Ma nelle profondità del suo essere, uscendo
dall'intimità dell'essere psichico, sussiste ancora il bisogno di un più
profondo possesso; è l'aspirazione dell'anima che richiama a sé l’inesprimibile
realizzazione permanente, di cui la fede mentale non e che il preludio o
l'ombra, e senza la quale non può esserci unione completa con l'Eterno.
15- In verità, Tu
conosci Te stesso mediante Te stesso, o Purushottama[515], Origine di tutti
gli esseri[516],
Signore delle creature, Dio degli dèi, Signore dell'universo.
Arjuna
riconosce nell'Avatàr non solamente il Meraviglioso che è di là da tutte le
possibilità d'espressione, che nulla può manifestare, ma anche il Signore delle
creature, unica causa efficiente di tutti i divenire, il Dio degli dèi da cui
tutte le divinità sono sorte, il Signore di quest'universo che manifesta e governa
dall'alto mediante il potere della sua Natura suprema e della sua Natura
universale.
16. DegnaTi di
rivelarmi, senza nulla tralasciare, le Tue divine vibhuti[517] mediante le quali Tu
penetri i mondi e dimori [in essi e oltre][518].
Arjuna
riconosce in noi e intorno a noi che questo Vàsudeva è tutte le cose mediante
il potere dirigente delle vibhuti, suoi divenire, che penetrano il mondo,
costituiscono tutto e in tutto dimorano.
17. Come posso
riconoscerTi, o Yogi, costantemente meditando? In quale dei Tuoi aspetti[519] devo pensare a Te, o
Beato?
Anche
se Arjuna può aprirsi all'idea della suprema Divinità, all' esperienza del Sé
immutabile, alla percezione diretta del Divino immanente, al contatto
dell'Essere universale cosciente, trova difficile vedere Dio in ciò che ci
appare come la verità dell'esistenza, scoprirLo nella Natura e dietro il
travestimento dei fenomeni dell'universale divenire, in quanto tutto qui si
oppone alla sublimità di questa concezione unificatrice. Come accettare di
vedere il Divino sotto l'apparenza dell'uomo e dell'animale, dell'oggetto
inanimato, nel nobile e nel vile, nel soave e nel terribile, nel bene e nel
male? Almeno qualche sommaria indicazione si rende necessaria, qualche legame e
punto di passaggio, degli aiuti indispensabili per là sforzo verso l'unità.
Arjuna richiede inoltre l'enumerazione completa e particolareggiata dei
principali poteri del divino divenire; desidera che nulla manchi a questa
evocazione, nulla che rimanga per sconcertarlo.
18. Parlami ancora del
Tuo Yoga[520]
e della Tua manifestazione[521], senza omettere
particolari, o janàrdana[522]; la Tua parola è nettare
d'immortalità[523]
e mai mi stanco di udirla.
Arjuna
accetta la rivelazione che il Divino è tutto e il suo cuore trabocca di gioia -
le parole pronunciate dal Maestro sono per lui il nettare d'immortalità, amrita. La Gita fa qui allusione a un
fatto che non esprime in modo esplicito, ma che si trova frequentemente nelle
Upanishad, e che più tardi fu sviluppato con grande intensità di visione dal
Vishnuismo e dallo Shaktismo: la possibilità per l'uomo di vivere la gioia del
Divino nell'esistenza cosmica, nell'ananda universale, nel giuoco della Madre e
nella dolce bellezza del divino.
Il Beato Signore
rispose:
19. Ebbene, sì; ti
esporrò le Mie divine manifestazioni[524], ma soltanto le
fondamentali, o Migliore fra i Kuru[525], poiché, in verità,
non vi è limite al Mio estendersi.
Il
resto di questo canto ci fornisce la descrizione sommaria delle principali
manifestazioni, dei segni più importanti della forza divina presente nelle cose
e negli esseri dell'universo. Si riceve dapprima l'impressione che
l'esposizione di Krishna sia fatta alla rinfusa, senza un ordine prestabilito,
tuttavia la descrizione ci permette di scoprire un principio. Questo canto
viene chiamato lo Yoga delle Vibhúti - uno yoga indispensabile! Difatti, quando
dobbiamo identificarci imparzialmente col divino Divenire universale in tutta
la sua estensione - bene e male, perfezione e imperfezione, luce e tenebre -,
dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che in questo Divenire esiste un potere
di evoluzione ascendente, una crescente intensità di rivelazione divina, il
segreto della gerarchia delle cose, che ci eleva sopra le prime apparenze
ingannatrici e ci conduce, attraverso forme sempre più elevate, alla vasta
Natura ideale del Divino universale.
20. Io sono Colui[526] che risiede nel
Cuore di tutte le creature[527], o Gudàkesha[528]; e di tutti gli
esseri[529]
Io sono il principio, il mezzo e la fine.
Questa
sommaria enumerazione incomincia dal principio primordiale che serve di base
alla manifestazione dell'universo. In ogni essere e in ogni cosa Dio dimora
velato, ma può essere scoperto.... È il divino Sé interiore, nascosto alla
mente e al cuore in cui abita, ospite dell' anima che il Divino ha proiettato
nella Natura per rappresentarlo. Egli mette in movimento e dirige l'evoluzione
della nostra personalità nel Tempo e della nostra esistenza sensoria nello
Spazio - Spazio e Tempo che costituiscono l'estensione e i movimenti
concettuali del Divino in noi.
21. Degli Aditya[530] sono Vishnu, delle
luci il sole radiante, dei Marut[531] sono il Marici, e
tra i corpi celesti la luna.
Di
tutti questi esseri viventi, divinità cosmiche, creature sovrumane infraumane,
e di tutte queste qualità, poteri e oggetti, il primo, il principale, il più
grande in qualità è un potere speciale del divino Divenire - una vibhuti.
22. Tra i Veda Io sono
il Sama Veda[532];
tra gli dèi sono Vàsava[533]; dei sensi sono la
mente[534],
e negli esseri viventi[535] la coscienza[536].
23. Dei Rudra[537] sono Shankara[538]; Vittesha sono tra
gli Yaksha e i Ràkshasa[539]; dei Vasu[540] sono Pàvaka[541] e Meru[542] tra le alte
montagne.
24. Dei preti
familiari, o figlio di Prithà, sappi che Io sono il capo, Brihaspati; sono
Skanda[543]
tra i condottieri, e dei laghi sono l'oceano.
25. Sono Bhrigu tra i
grandi rishi, e delle parole la sillaba AUM[544]; delle preghiere
sono il japa[545],
e delle cose immobili l'Imalaia.
26. Degli alberi Io
sono l'ashvattha[546]; sono Nàrada[547] tra divini veggenti,
Chitraratha dei Gandharva[548], e dei perfetti[549] il saggio Kapila[550].
27. Dei corsieri, sappi
che Io sono Uchchaihshrayà, nato dal nettare[551], e Airàvata tra i
maestosi elefanti; e degli uomini Io sono il re.
28. Delle armi Io sono
la folgore; delle vacche sono la vacca Kàmadhuk[552]; sono Kandarpa[553] tra coloro che
generano, e dei serpenti Vàsuki.
29. Dei nàga[554] sono Ananta[555], degli spiriti delle
acque Varuna[556];
dei mani[557]
sono Aryaman[558],
e fra coloro che governano sono Yama[559].
30. Sono Prahlida tra i
titani[560];
dei calcolatori Io sono il Tempo[561]; delle bestie
selvagge sono il leone[562], e degli uccelli
Vainateya[563].
31. Dei purificatori,
Io sono il vento; dei guerrieri, Rama[564], e il gaviale[565] tra gli abitanti
delle acque; dei fiumi, sono il Gange.
32. Delle creazioni Io
sono il principio e la fine, e anche il mezzo, o Arjuna; delle scienze[566] sono la scienza del
Sé[567], e dell'oratore la
dialettica.
33. Delle lettere Io
sono la lettera A, e delle regole grammaticali sono quella delle parole
composte[568];
sono anche il Tempo[569] imperituro, e
l'Ordinatore [di tutte le creature] che guarda da ogni parte[570].
Dio
ò il Tempo imperituro, senza principio e senza fine, la più evidente forza del
divenire e l'essenza di tutto il movimento universale. In questo movimento del
Tempo e del Divenire, Dio appare alla nostra concezione e all'esperienza che di
Lui abbiamo mediante l'evidenza delle opere, come il Potere divino che ordina
tutto e pone ogni movimento nel posto che gli spetta. Sotto la forma di spazio,
è Lui che vediamo in tutte le direzioni, con i suoi milioni di corpi e le sue
miriadi di spiriti, manifestati in ogni creatura; è Lui stesso che vediamo in
tutto ciò che ci circonda.
34. Io sono la morte
che tutto divora e la nascita delle cose destinate ad essere; tra la parole
femminili sono la gloria, la bellezza e la prosperità, la parola, la memoria,
l'intelligenza, la costanza e la pazienza.
Nell'universo
Dio ci appare anche come lo spirito universale di distruzione che sembra creare
per poi distruggere. Tuttavia il suo Potere di divenire non cessa mai di agire,
in quanto la rinascita e la forza di nuove creazioni vanno sempre di pari passo
con la forza di morte e distruzione.
35. Tra gl'inni del
Sàma, Io sono il Brihat-sama[571], dei metri sono
Gayatri[572];
dei mesi màrgashirsha[573], e delle stagioni
quella dei fiori.
36. Del giocatore[574] Io sono lo spirito
del rischio, lo splendore dello splendido; sono la risolutezza e la vittoria,
sono la forza[575]
del forte[576].
37. Dei Vrishni[577] Io sono Vàsudeva,
Dhananjaya tra i Pandava[578]; dei saggi sono
Vyasa[579]
e dei poeti il saggio Ushanà[580].
Lo
stesso Krishna che, nel suo essere interiore e divino, rappresenta la divinità
in forma umana, è, nel suo essere esteriore e umano, la guida del suo tempo,
l'eroe dei Vrishni. L'avatàr è anche una vibhúti. La vibhúti umana è l'eroe
della specie in lotta per il divino adempimento, l'eroe nel senso di Carlyle,
un potere divino nell'uomo.
38. Sono lo scettro dei
sovrani e la saggezza politica di coloro che cercano la vittoria; dei segreti
lo sono il silenzio, e la conoscenza di coloro che sanno.
39. E anche il seme di
tutti gli esistenti[581], quali che siano, o
Arjuna, poiché nulla di animato o d'inanimato può esistere senza di Me.
Qualunque
sia il grado di manifestazione, tutti gli esseri sono, a loro modo e secondo la
loro natura, poteri della Divinità.... Il Divino è il seme di tutte le
creature, e di questo seme esse sono i rami e i fiori. solamente ciò che esiste
nel germe del loro essere può svilupparsi nella natura.
40. Le Mie divine
manifestazioni[582] sono senza fine, o
parantapa[583],
e solo ti ho esposto qualche esempio della Mia gloria infinita[584].
41. Tutto ciò che
esiste di glorioso[585], di bello, di
possente, sappi che ha avuto origine da una particella del Mio splendore[586].
Tutte
le categorie, i generi, le specie e tutti gl'individui, sono vibhúti
dell'Unico, Ma dato che Egli diviene apparente grazie al suo potere, la sua
evidenza ci appare in modo particolare in tutto ciò che ha un valore preminente
o sembra agire con forza speciale. Di conseguenza, possiamo vederlo soprattutto
in coloro in cui il naturale potere della specie raggiunge la più alta
manifestazione e l'indirizzo più rivelatore. In un certo senso, sono questi
delle vibhúti.
42. Ma quale bisogno
hai di conoscere tutti questi particolari, o Arjuna? [Ricordati che] solo con
una parte di Me stesso Io sostengo tutto questo Universo e [che in esso e oltre
esso] Io dimoro[587].
Tuttavia
il potere e la manifestazione più alti non sono ancora che minime rivelazioni
dell'Infinito. Lo stesso intero universo non è animato che da una piccola parte
della sua grandezza, illuminato da un solo raggio del suo splendore, glorioso
grazie a un lieve tocco della sua bellezza e della sua gioia. Questo è il senso
che i versetti di questo canto ci hanno esposto e che possiamo considerare come
il centro del suo significato.
CANTO
XI
LA VISIONE DELLO SPIRITO UNIVERSALE
[a] IL TEMPO, DISTRUTTORE DEI MONDI
Arjuna disse:
1. Il sublime segreto[588] di ciò che é
chiamato il principio del Sé[589] , la Tua bontà me lo
ha rivelato; le Tue parole hanno dissipato la mia illusione[590].
L'illusione
che con tanta tenacia possiede i sensi e la mente dell'uomo - l'idea che le
cose esistano per virtù propria, indipendente-mente da Dio, o che una cosa
sottoposta alla Natura possa muoversi e dirigersi per virtù propria -, questa
illusione che era la causa dei dubbi di Arjuna, del suo smarrimento e del suo
rifiuto di agire, è dissipata.
2. Ti ho ascoltato
parlare della nascita e della dissoluzione degli esseri, e della Tua imperitura
grandezza, o Tu, dagli occhi quali petali di loto[591].
Arjuna
conosce adesso il senso della nascita e della dissoluzione degli esseri. So che
la grandezza dell'Anima divina cosciente è il segreto dell'esistenza. Tutto è
lo yoga dell'eterno grande Spirito negli esseri e nelle cose, e ogni
avvenimento, il risultato e l'espressione di questo yoga; l'intera Natura contiene
velato il Divino e lavora attivamente a rivelarlo.
3. È certamente come
hai detto di Te stesso, o supremo Signore[592], ma vorrei vederTi
nella Tua forma sovrana[593], o Purushottama.
4. Se Tu pensi che
questa visione mi sia possibile, o Signore[594], Maestro dello yoga[595], mostrami il Tuo
imperituro Sé[596].
Arjuna
vorrebbe vedere la forma e il corpo del Divino, se la cosa fosse possibile....
La visione del Purusha universale è uno dei passaggi più conosciuti e più
potentemente poetici della Gita, ma il posto che le compete nel pensiero
dell'opera non appare immediatamente. Questa visione è, nella sua intenzione,
un simbolo poetico rivelatore; prima di poterne afferrare il senso, bisogna
vedere come è condotta, quale ne è il disegno e scoprire anche ciò che rappresenta
nei suoi aspetti più significativi. Arjuna la richiede spinto dal desiderio di
contemplare l'immagine vivente, la grandezza visibile del Divino invisibile,
l'incarnazione dello Spirito e del Potere che governano l'universo.... Ciò che
chiede di vedere non è certamente il silenzio nella sua forma d'immutabilità
inattiva, ma il Supremo da cui sono uscite tutte le energie e tutte le opere,
Colui le cui forme sono travestimenti e che rivela la sua forza attraverso le
vibhuti - il Signore delle opere, il Signore della conoscenza e
dell'adorazione, il Signore della Natura e di tutte le creature. Questa visione
universale e sublime, la richiede perché in tal modo deve ricevere, dallo
Spirito che si rivela nell'universo, l'ordine di compiere la sua missione nell'azione
cosmica.
Il Beato signore disse:
5. Osserva dunque, o
figlio di Prithà, le centinaia, le migliaia di forme divine che rivesto,
diverse in natura, forma e colore.
6. Guarda gli Aditya, i
Vasu, i Rudra, i due Ashvin e anche i Marut[597]; guarda, o Bhàrata,
le molte altre meraviglie che nessuno, prima d'ora, ha contemplato.
7. Osserva l'universo
intero e tutto ciò che contiene d'animato e d'inanimato; eccolo qui unificato[598] nel Mio corpo, o
Gudàkesha, con ogni altra cosa tu voglia vedere.
La
nota dominante (della visione che si apre davanti ad Arjuna), il significato
centrale, è la visione dell'Unico nel Molteplice, del Molteplice nell'Unico -
tutti sono l'Uno. È ciò che, agli occhi dello yoga divino, libera, giustifica,
spiega tutto ciò che è, che è stato e che sarà. Una volta percepita e ritenuta,
questa visione colpisce con la scintillante scure divina la radice dei dubbi e
delle perplessità, annullando tutti i rifiuti e tutte le opposizioni. È la
visione che concilia e unifica. Se l'anima può giungere all'unità col Divino
che questa visione rivela - Arjuna non l'ha ancora realizzato, e per questo è
terrorizzato da ciò che vede - tutto perde nel mondo il suo orrore, anche la
cosa più terribile. Percepiamo allora che anche l'orrido è un aspetto del Divino,
e che una volta afferrato il divino significato, possiamo accettare la totalità
dell'esistenza con coraggio e con una gioia che supera tutti gli ostacoli;
possiamo camminare con passo sicuro verso l'opera che ci è stata assegnata e,
dietro di questa, scorgere il supremo adempimento. L'anima ammessa alla divina
conoscenza che abbraccia tutto con un solo sguardo - non mediane una visione
parziale, divisa e di conseguenza conturbante e angosciosa - è capace di
scoprire un nuovo mondo e "ogni
altra cosa voglia vedere", e può, sulla base di questa visione che
tutto unisce e unifica, avanzare di rivelazione in rivelazione.
8. Ma tu non puoi
vederMi con l'occhio della tua condizione umana. Ricevi dunque la visione
divina[599]
e contempla il Mio supremo yoga[600].
L'occhio
umano non può vedere che le apparenze esteriori delle cose e farne delle forme
simboliche separate, capaci solo di rivelare qualche aspetto dell'eterno
mistero.
Sanjaya disse:
9-11. Quando Hari[601], il Signore dello
Yoga, ebbe così parlato, o re[602], svelò al figlio di
Prithà la suprema forma divina dai numerosi e meravigliosi aspetti, dalle
innumerevoli bocche e occhi, rivestita di ornamenti divini e provvista di armi
divine pronte [a colpire], ornata di ghirlande e di abiti divini, unta con
unguenti e profumi celesti, splendente di tutte queste meraviglie, senza limiti
e col volto che guarda in tutte le direzioni[603].
12. Se improvvisamente
si levasse nel cielo la luce di mille soli, sarebbe appena comparabile allo splendore
di questo sublime Essere[604].
13. Il figlio di Pàndu
contemplò allora l'intero universo, con le sue molteplici divisioni, unificato[605] nel corpo del Dio
degli déi[606].
14. Allora, stupefatto
e con brividi d'emozione[607], Dhananjaya si
prosternò davanti alla Divinità e, con le mani giunte, parlò.
Arjuna disse:
15. Nel Tuo corpo, o
Dio, vedo tutti gli dèi e la moltitudine dei vari esseri; Brahmà[608], il Signore[609], seduto sul fiore di
loto; tutti i rishi e i serpenti celesti[610].
16. Da ogni parte vedo
la Tua forma infinita[611], con innumerevoli
braccia, ventri e occhi; Ti contemplo, o Signore dell'universo[612], in Te non vedo né
principio, né termine, né parte di mezzo, o Signore di tutto e Forma universale[613].
17. Ti vedo cinto del
diadema, tenendo la mazza e il disco[614], quale massa di luce[615] ovunque risplendente;
il Tuo splendore[616] irradia da tutte le
parti e nella Tua immensità abbagli i miei occhi come il fuoco e il sole.
18. Tu sei l'Immutabile[617], il supremo oggetto
di conoscenza; Tu sei l'ultimo rifugio[618] di quest'universo; Tu
sei il guardiano della legge[619] eterna, che non
viene mai meno; Tu sei per me l'Anima primigenia[620].
19. lo Ti contemplo, o
Potere[621]
infinito, senza principio, senza parte di mezzo e senza fine, Tu dalle
innumerevoli braccia, che hai per occhi il sole e la luna; io vedo nella Tua
bocca incandescente il fuoco del sacrificio; la Tua energia[622] avvampa col suo
splendore tutto quest'universo,
Nella
grandezza di questa visione esiste anche l'immagine terrificante del
Distruttore. Questo infinito Potere, senza né principio né fine, è Colui da cui
tutto incomincia, in cui tutto esiste e finisce. Questo Divino abbraccia i
mondi con le sue innumerevoli braccia e li distrugge con le sue innumerevoli
mani.
20. Lo spazio fra la
terra e il cielo è pieno di Te, o Essere sublime[623]; i tre mondi[624], alla vista della
Tua forma meravigliosa e terribile, sono immersi nell'angoscia.
21. Ecco che in Te
penetra la moltitudine degli dèi[625]; pieno di emozione
qualcuno di essi giunge le mani e T'invoca; il coro dei perfetti[626] e dei grandi rishi[627] Ti saluta[628] e inneggia a Te con
inni di splendida esaltazione.
22. I Rudra, gli
Aditya, i Vasu e i Sàdhya, i Vishve-deva, gli Ashvin, i Marut e gli Ushmapà[629], le legioni dei
gandharva[630],
degli yaksha[631],
degli asura[632]
e dei siddha[633]
Ti contemplano pieni di stupore.
30. Le Tue lingue di fiamma
leccano i mondi da tutte le parti, divorandoli. I raggi della Tua energia
riempiono quest'universo, o Vishnu; il loro ardore terrificante li consuma.
31. Dimmi chi sei, Tu
dalla forma che ispira terrore. Io mi prosterno davanti a Te, suprema Divinità[634], siimi benevolo!
Voglio conoscerTi, Tu, l'Essere primigenio, perché in verità non comprendo il
Tuo modo di operare[635].
Quest'ultimo
grido di Arjuna mette in evidenza il doppio significato della visione. Essa è
l'immagine dell'Essere universale e supremo, dell'Antico dei Giorni, che esiste
eternamente. Lui è l'eterno creatore, poiché Brahma, il creatore, è una delle
divinità che si vedono nel suo corpo; Lui il preservatore dell'esistenza del
mondo, perché guardiano delle eterne leggi; ma è anche Lui l'eterno
distruttore, che distrugge per poter creare di nuovo. Lui il Tempo, la Morte, Rudra (Shiva), il danzatore dalla danza
calma e terribile. Lui Kàli dalla ghirlanda di crani, nuda nella battaglia, che
calpesta i corpi dei titani massacrati, spruzzata dal loro sangue. Lui il
ciclone, l'incendio e il terremoto, il dolore, la carestia, la rivoluzione e la
rovina, e l'oceano che inghiotte.
È
un aspetto da cui lo spirito umano preferisce ritrarsi per non avere la visione
del Terribile, come lo struzzo che nasconde la resta. La debolezza del cuore
umano non desidera che verità gradevoli e confortanti o, in mancanza di queste,
piacevoli favole. Non vuole la verità integrale in cui tante cose non sono né
chiare né piacevoli, ma dure da comprendere e ancor più dure da sopportare.
La
spiritualità indiana sa che Dio è Amore, Pace e calma Eternità. La Gita stessa,
che ci presenta queste terribili immagini, parla del Divino che s'incarna in
esse come dell'amico e dell'amante delle creature. Ma la divina direzione del
mondo possiede anche un aspetto più severo, quello che abbiamo incontrato nelle
prime pagine - l'aspetto di distruzione -, e trascurarlo significherebbe
mancare in pieno la realtà dell'Amore divino, della Pace e della calma Eternità
del Divino, e anche gettare su questi elementi un velo di parzialità e
d'illusione, perché la forma esclusivamente gradevole, in cui vorremmo
rinchiuderli, non sarebbe convalidata dalla natura del mondo in cui viviamo. Il
mondo del nostro lavoro e delle nostre battaglie è un mondo violento,
pericoloso, distruttore e divoratore, in cui la vita non esiste che allo stato
di precarietà e dove il corpo e l'anima dell'uomo si muovono in mezzo a
pericoli enormi, un mondo in cui, lo vogliamo o no, ogni passo in avanti
schiaccia o spezza qualcosa, dove ogni soffio di vita è anche un soffio di
morte.
Caricare
sulle spalle di un diavolo semi-onnipotente la responsabilità di tutto ciò che
ci sembra malvagio e terribile o metterlo da parte come una parte della Natura,
creando in tal modo un'opposizione irriducibile fra la Natura universale e la
Natura divina (quindi fra la Natura e Dio) - come se la Natura fosse
indipendente da Dio! -, oppure gettare la responsabilità sull'uomo e i suoi
peccati, come se quest'ultimo avesse una funzione preponderante nella
costruzione del mondo o potesse creare qualcosa contro la volontà di Dio, sono
sotterfugi comodi, ma malaccorti, ai quali il pensiero religioso dell'India non
ha mai fatto ricorso. Bisogna guardare coraggiosamente la realtà e vedere che è
Dio e nessun altro, che nel Suo essere ha creato il mondo e che l'ha fatto così
come lo vediamo. Bisogna vedere che la Natura che divora i suoi figli, il Tempo
che corrode la vita delle creature, la Morte universale e ineluttabile, la
violenza delle forze di Rudra, nell'uomo e nella Natura, sono anche la suprema
Divinità sotto uno dei suoi aspetti cosmici. Il tormento sul letto di dolore e
d'infortunio su cui giacciamo torturati, è il suo tocco, come lo sono la
felicità, la dolcezza e il piacere. Solamente quando potremo vedere con
l'occhio della completa unione e potremo sentire questa verità nelle profondità
del nostro essere, avremo la possibilità di scoprire completamente, dietro la
maschera, il viso calmo e bello della Divinità tutta beatitudine e, nel Suo tocco
che sonda le nostre imperfezioni, il contatto dell'amico che costruisce in noi
lo Spirito. Le discordie del mondo sono le discordie di Dio e solamente
accettandole e progredendo attraverso di esse potremo raggiungere i più grandi
accordi della Sua suprema armonia, le sommità, le immensità vibranti del Suo ànanda cosmico e trascendente.
Qual
è dunque il senso di questa fiamma creatrice e divorante rappresentata
dall'esistenza mortale, di questa lotta che si estende sul mondo intero, di
queste continue e disastrose rivoluzioni, di questi sforzi e di queste angosce,
di questo doloroso parto e di questa estinzione delle creature? Arjuna formula
la vecchia domanda ed esprime l'eterna preghiera.
Il Beato Signore disse:
32. Io sono il Tempo
distruttore dei mondi, divenuto maturo e impegnato quaggiù nello sterminio di
questi popoli. Anche senza di te questi guerrieri schierati in eserciti rivali
cesseranno d'essere.
Certamente
il Divino non vuole far capire che egli è solo lo Spirito del Tempo o che tutta
l'essenza dello Spirito del Tempo è la distruzione. Ma è questo per il
momento il piano delle sue opere.
La
distruzione si muove sempre alla pari con la creazione - simultaneamente o in
movimenti alternati - ed è mediante la distruzione e il rinnovo che il Signore
della Vita assicura il lungo lavoro di preservazione. La distruzione è quindi
la prima condizione del progresso. Interiormente, l'uomo che non distrugge le
proprie formazioni inferiori non può elevarsi a un'esistenza più grande.
Esteriormente, anche la nazione, la comunità o la razza che rifiuta troppo
lungamente di distruggere le sue antiche forme di vita si vede distrutta,
oppure invecchia e muore, e dalle sue macerie emergono nuove nazioni o razze.
33. Sorgi quindi,
ottieni la gloria, trionfa sui tuoi nemici e godi di un opulento regno. Essi
sono già stati da Me uccisi; sii semplicemente lo strumento [della loro
perdita], o Abile arciere[636].
Il
mio è un disegno lungimirante, risponde il Divino ad Arjuna, un disegno che
realizzerò infallibilmente e che né la partecipazione né l'astensione di un
qualunque essere umano può alterare o modificare, in quanto tutto è già da Me
compiuto nell'occhio eterno della Mia volontà prima ancora che l'uomo sulla
terra possa pensare ad intra-prenderlo. Io, come Tempo, devo distruggere le
vecchie strutture e edificare un nuovo regno, splendido e potente. Tu, quale
strumento umano del Potere e della Saggezza divini, in questa lotta che non
puoi impedire, devi combattere per il diritto, uccidere e vincere i tuoi
avversari. E come anima umana nella Natura, devi godere nella Natura i frutti
che ti offro, l'impero del diritto e della giustizia. Ti basti avere l'anima
unita a Dio, ricevere i Suoi ordini, compiere la Sua volontà, osservare con
calma il disegno supremo compiersi nel Inondo L'uomo può andare oltre la lotta
e la battaglia solo scoprendo la più alta legge della sua immortalità.
34. Drona, Bhishma,
Jayadratha, Karna e tutti questi altri eroici guerrieri, sono già stati da Me
uccisi; distruggili dunque e non affliggerti. Combatti, vincerai i tuoi
avversari.
Questo
è l'ordine finale e imperioso dato al protagonista della batta-glia del mondo.
Il frutto di questo grande e terribile atto è promesso e annunciato ad Arjuna,
non come un frutto da lui bramato - per questo frutto non deve esservi nessun
desiderio -, ma come il risultato della volontà divina: la gloria e il successo
nell'adempimento del compito che dev'esser portato a termine, la gloria che il
Divino con-cede a sé stesso attraverso la sua vibhuti.
[b] IL DOPPIO ASPETTO
Sanjaya disse:
35. Avendo udito da
Keshava[637]
queste parole, Kiriti[638] con le mani
congiunte, tremante di paura, rendendo nuovo omaggio, con voce mozza disse a
Krishna:
Arjuna disse:
36. A ragione, o
Hrishikesha[639],
il mondo gode e trova piacere cantando il Tuo nome. I ràkshasa terrorizzati
fuggono in tutti i sensi e la moltitudine dei perfetti s'inchina [in
adorazione].
Mentre
Arjuna è ancora sotto l'effetto terrificante della visione, le prime parole che
pronuncia non appena il Divino cessa di parlare esprimono eloquentemente una
realtà più grande che, dietro l'aspetto della morte e della distruzione, esalta
e rassicura. Il nome e la presenza del Divino hanno qualcosa che riempie di
gioia il cuore del mondo. È il senso profondo della visione. La tenebrosa
faccia di Kali si rivela come il dolce viso della Madre, e nello stesso seno
della distruzione si sentono le braccia protettrici dell'Amico delle creature;
nel male la pura e inalterabile Benevolenza, e nella morte l'immoralità. I ràkshasa, gigantesche e feroci potenze
di tenebra, terrorizzati dal Re dell'azione divina, fuggono disfatti, vinti,
distrutti. Ma i siddha, i perfetti, i
realizzati, coloro che sanno, cantano i nomi dell'Immortale e vivono nella
verità del suo essere, si prosternano davanti alle sue forme perché conoscono
di chi questa verità é l'altare e ciò che essa significa. Nessuno ha bisogno di
aver paura, salvo ciò che dovrà essere distrutto: il male, l'ignoranza, coloro che
tessono i veli della Notte, i poteri rakshasici. Ogni movimento, ogni azione di
Rudra (nome vedico di Shiva) il Terribile ha come ultimo scopo la perfezione,
la luce e la divina pienezza.
37. Perché non
dovrebbero renderTi omaggio, o Spirito sublime[640], a Te Creatore delle
origini, più grande dello stesso Brahmà? Essere infinito, Signore degli dèi[641], Rifugio dei mondi,
Tu sei l'Imperituro, l'Essere e il Non-essere[642], e tutto Ciò che è
oltre questi termini[643].
La
creazione divina è eterna. Essa è l'Infinito che si manifesta eterna-te nelle
cose finite, lo Spirito che si cela e si rivela nel numero infinito delle
anime, nella meraviglia dei loro atti e nella bellezza delle forme. Ma oltre
questa diversità esiste il Supremo che mantiene queste mutevoli cose nell'unica
eternità del Tempo in cui tutto è eternamente presente.
38. Tu sei la Divinità
primigenia[644],
l'Anima non derivata[645], il luogo di riposo
del mondo. Tu sei il conoscitore, l'oggetto di conoscenza e il supremo rifugio.
Tu la forma infinita[646] da cui
quest'universo si è diffuso.
È
il Conoscitore che sviluppa nell'uomo la conoscenza di sé, la conoscenza del
mondo e quella di Dio; Egli è l'unico Oggetto di conoscenza che si rivela nel
cuore, nella mente e nell'anima dell'uomo, così perfettamente che ogni forma a
cui si apre la nostra conoscenza rappresenta una delle sue parziali
manifestazioni che si svolgono sino al culmine in cui Lo scopriamo e Lo vediamo
nell'intimo, in profondità e integralmente.
39. Tu sei Vàyu, Yama,
Agni, Varuna, Shashànka e Prajàpati[647], il grande Antenato.
Ti saluto, mille volte Ti saluto, e ancora di nuovo Ti saluto!
Rappresenta
gl'innumerevoli dèi, dal più piccolo al più grande; è il padre delle creature
che formano il suo popolo. È l'origine di Brahmà, il padre dei divini creatori
e di ogni specie di esseri viventi.
40. Mi prosterno davanti
a Te, dietro a Te e da ogni parte, o Tutto. Dalla potenza infinita, senza
limiti nell'azione, Tu penetri tutto - in verità, Tu sei la totalità e il
singolo.
Su
questa verità la Gita insiste costantemente. Essa ripete ancora e ancora che
Egli è tutto e ognuno - sarvah. È l'Essere universale infinito, ciascuno degli
esseri individuali e tutto ciò che esiste, la Forza unica e l'Essere unico in
ciascuno di noi.
41-42. Se talvolta
temerariamente Ti ho chiamato: “Krishna!” o "Figlio di Yadu![648]" oppure
"Amico mio!"; se non sono stato capace di riconoscere la Tua
grandezza per mancanza di attenzione o forse per affetto; se scherzando Ti ho
offeso, o Incrollabile, sia giocando, stando seduto, a letto o a tavola, solo o
in compagnia[649],
degnaTi di concedermi il perdono, Tu che sei senza limiti.
Quest'Essere
supremo e universale ha vissuto sulla terra, davanti ad Arjuna, con aspetto
umano in un corpo mortale - Uomo divino, Divino incarnato, Avatàr - e Arjuna
non l'ha riconosciuto. Non ne ha visto che l'aspetto esteriore e ha trattato il
Divino come una semplice creatura umana. Non è stato capace di andare oltre il
travestimento terrestre sino a percepire la Divinità di cui l'umano era il
ricettacolo e il simbolo, e prega adesso questa Divinità di perdonare la sua
cieca noncuranza e ignoranza negligente. Solo adesso ha potuto contemplare la
formidabile Realtà, infinita, incommensurabile, che si nasconde dietro le
apparenze, la Forma universale, senza limiti, che supera le forme individuali,
di cui tuttavia ogni cosa, ogni essere, sono la dimora.
43. Tu sei il padre del
mondo di ciò che si muove e di ciò che non si muove; Tu sei l'oggetto del suo
culto e il Maestro venerando[650]. Nulla Ti uguaglia,
e chi dunque potrebbe essere superiore [a Te] nei tre mondi[651], o Essere dalla
potenza incomparabile?
44. Perciò m'inchino
davanti a Te rendendoTi omaggio, Signore degno di lode, e invoco la Tua grazia.
Sii indulgente, o Signore, come il padre verso il figlio, l'amico verso
l'amico, l'amante verso l'amata.
Ciò
che simbolizza la manifestazione umana e i rapporti umani è anche una realtà,
Bisogna però vederne la trascendenza e l'aspetto cosmico, altrimenti i limiti
dell'umanità non potrebbero essere superati. Tutto dev'essere incluso in questa
unità unificatrice. Ma questa visione può creare un abisso fra lo Spirito
trascendente e l'anima, cosi limitata e legata alla Natura inferiore. La
presenza infinita, nel suo splendore senza veli, sarebbe troppo abbagliante per
l'isolata insignificanza dell'uomo naturale e individuale. Diviene necessario
un punto d'unione che permetta all'essere naturale e individuale dell'uomo di
vedere nel Divino universale un essere a lui vicino, e non solamente un Divino
onnipotente che tutto sostiene mediante un Potere universale e
incommensurabile, Ha bisogno di un Divino che prenda forma umana e, in una
relazione individuale e intima, lo sostenga e guidi sino all'unità.
Il
Divino abita l'anima e il corpo umani, riveste la forma e la mente umane.
Assume le relazioni umane nelle quali l'anima finge di sottomettersi al corpo
mortale, e queste trovano in Dio il pieno significato e l'ultima realizzazione.
Ciò che nella Gita si trova in embrione è la bhakti vishnuita, che doveva ulteriormente ricevere un'estensione
più profonda, più significativa e più estatica.
45. Da quando ho visto
ciò che nessuno ha mai visto, sono immerso nella gioia, ma il terrore turba
ancora il mio spirito[652]. Mostrami ancora
quella Tua altra forma, o Signore! Siimi benevolo, Signore degli dèi[653], rifugio del mondo[654].
46. Vorrei vederTi ancora
col diadema, la mazza e il disco[655]. Riprendi la forma
dalle quattro braccia[656], Tu che hai mille
braccia e che assumi la forma dell'universo[657].
Per
lo spirito liberato e forte, la forma dell'Essere universale e tra-scendente è
un potente stimolo che incoraggia e fortifica, una sorgente di potere, una
visione che sublima, che armonizza, che tutto giustifica; ma per l'uomo comune
è orrida, terrificante, indescrivibile. Dal lato opposto esiste la gentile
forma mediatrice del divino Nàràyana[658]*,
il Dio vicino all'uomo e nell'uomo, l'Auriga[659]**
nella battaglia e nel viaggio, con le quattro braccia di nume tutelare, simbolo
umanizzato del Divino e non più universalizzato dai milioni di braccia. È
l'aspetto mediatore che l'uomo deve avere costantemente davanti a sé per essere
sostenuto. Questa figura di Nàràyana simbolizza la verità rassicurante. Essa
rende vicina, viva, visibile e sensibile - alla vita e allo spirito interiori
dell'uomo - la vasta gioia spirituale in cui si adempiono, in un meraviglioso e
promettente slancio, e oltre un formidabile movimento ciclico di avanzamento e
di regresso, la marcia e il progresso universali.
Il Beato Signore disse:
47. Per Mia grazia, o
Arjuna, hai potuto vedere questa sublime e radiosa[660] forma, questa forma
universale, primigenia, infinita. Te l'ho rivelata mediante il Mio yoga[661] e nessuno
all'infuori di te l'ha mai contemplata.
È
un'immagine del Mio proprio Sé, del Mio Spirito, dice il Signore, è la forma
che il Supremo ha assunto nell'esistenza cosmica, e l'uomo che è in perfetta
unione con Me la vede senza tremare, senza smarrimenti o confusione di spirito,
perché discerne non solamente l'apparenza terribile e orrida di questa visione,
ma anche il suo più elevato e, rassicurante significato.
48. Non per mezzo dei
Veda, dei sacrifici e neppure attraverso i doni, i riti o le severe austerità
posso essere visto dal mondo degli uomini in questa Mia forma. Solamente a te,
o Eroe dei Kuru[662], è concesso vederMi.
49. Non angosciarti,
non turbarti per aver visto questo Mio terrificante aspetto[663]. Rifiuta la paura e
rallegra il tuo cuore; osserva di nuovo questa Mia altra forma.
Ma,
dato che la tua natura inferiore non è ancora pronta per vedere questa forma
suprema senza sgomentarsi, assumerò di nuovo per te l'aspetto di Nàràyana in cui
lo spirito umano trova, isolate e adattate alla sua umanità, la calma, l'aiuto
e la gioia di una Divinità amica.
Sanjaya disse:
50. Cosi, l'Essere
sublime[664],
avendo parlato ad Arjuna, riprese la sua forma di Vàsudeva[665] e il suo dolce viso
riconfortò l'atterrito Arjuna.
Arjuna disse:
51. Adesso che ho
rivisto la Tua bella forma umana, o Liberatore degli uomini, sono rientrato in
possesso della ragione[666] ed ho ripreso
possesso della mia [vera] natura.
Il Beato Signore disse:
52. Questa forma che
hai contemplato è difficile da essere vista; gli dèi stessi[667] ne desiderano
continuamente la visione[668].
53. Non è per mezzo dei
Veda, né per le austerità, né mediante i doni o i sacrifici che è possibile
farMi apparire come tu Mi hai visto.
54. Solo mediante la devozione
assoluta[669]
si può conoscerMi sotto questo aspetto, o Arjuna, vederMi nella Mia essenza e
penetrare in Me, o Terrore dei nemici.
L'uomo,
impiegando certi metodi, può conoscere questo o quell' aspetto dell'Esistenza
unica, le sue forme individuali o cosmiche, ma non questa suprema Unità che
concilia tuffi gli aspetti del Divino e in cui, in un solo e stesso istante, in
una sola e stessa visione, tutto è manifestato, tutto consumato. Questa visione
non può essere raggiunta che mediante l'adorazione assoluta, mediante l'amore e
l'unità intima che corona l'adempimento della via delle opere e di quella della
conoscenza. Esiste una suprema coscienza tramite cui è possibile entrare nella
gloria del Trascendente e, in Lui, contenere il sé immutabile e la totalità del
Divenire mutevole, essere uno con tutto e tuttavia sopra tutto, superare il
mondo e tuttavia abbracciare la Natura cosmica e la Natura ultracosmica del
Divino. Per l'uomo limitato, imprigionato dalla mente e dal corpo, raggiungere
questa coscienza è difficile, ma nel versetto finale il Divino mostra la via.
55. Colui che agisce in
Me[670], che Mi assume come
supremo scopo[671],
a Me devoto[672],
libero da attaccamenti e puro di ogni inimicizia verso le creature, quegli
viene a Me, o figlio di Pàndu.
In
altre parole: il dominio della natura inferiore, l'unità con tutte le creature,
l'unione col Divino cosmico e trascendente, l'identità di volontà col Divino
nelle opere, l'amore assoluto per l'Uno e per Dio in tutti, sono la via che
conduce a quest'assoluto superamento del sé spirituale, a questa inimmaginabile
trasformazione.
Arjuna disse:
1. Fra questi devoti, quali hanno la
più grande conoscenza dello yoga: coloro che Ti adorano, sempre a Te uniti[673], o coloro che
ricercano l'Immutabile non manifestato[674]?
Il
problema presentato da Arjuna verte sulla differenza fra la concezione
vedantina corrente della libertà spirituale e quella più ampia offerta dalla Gita....
Lo yoga ortodosso della conoscenza aspira all'immersione totale e definitiva
nell'infinita esistenza unica; solo questo stato è considerato come la totale
liberazione. Per lo yoga dell'adorazione, la grande liberazione consiste nel
vivere nel Divino o nell'essere a Lui vicini. Lo yoga delle opere conduce
all'unità di natura e di forza d'essere. Ma la Gita, nella sua universalità,
riunisce tutti questi yoga e li fonde in una sola libertà e perfezione divine
più grandi e più ricche.
Arjuna
ha ricevuto dapprima l'ingiunzione d'immergere la sua personalità separata
nell'impersonalità calma del Sé unico, eterno e immutabile - insegnamento che
si accordava con le nozioni da lui possedute e perciò senza sollevare obiezioni
da parte sua. Ma ecco che viene subitamente messo di fronte a questo più vasto
Divino cosmico, con l'ingiunzione di unirsi a Lui per ricercare l'unità
mediante la via della conoscenza, quella delle opere e quella
dell'adorazione.... Gli viene richiesto di unire il suo intero essere al Divino
che si mani-festa nell'universo e nelle creature, e che, grazie al suo poderoso
yoga cosmico, è seduto sul trono come Signore delle opere nel mondo e nei
nostri cuori. Ma cosa avviene allora dell'Immutabile che mai si manifesta, aksharam avyaktam, che mai riveste forma
e si mantiene staccato dietro tutte le azioni, senza rapporti né con
l'uni-verso né con nulla nell'universo, eternamente silenzioso, immobile, unico?
Secondo
tutte le nozioni, l'eterno Sé rappresenta il più alto Principio, e il Divino
manifestato un'immagine inferiore; l'eterno Spirito è il non-manifestato, non
il manifestato. Com'è quindi possibile che un'unione che ammetta la
manifestazione, ciò che è minore, possa essere la più grande conoscenza
yoghica? A questa domanda Krishna dà una risposta perentoria.
Il Beato Signore disse:
2. Coloro che in Me fissano il loro
spirito[675]
e che, posseduti da una fede suprema, Mi adorano in un'unione costante[676], quelli Io considero
i più perfetti nello yoga[677].
La
fede suprema vede Dio in tutto e, per essa, manifestazione e non-manifestazione
sono espressioni del Divino unico. L'unione perfetta è quella che riconosce a
ogni istante il Divino, in ogni azione e con tutta l'integralità della natura.
Il
Divino, a cui l'anima dell'uomo deve unirsi strettamente, è, nella sua
condizione suprema - parabrahman -,
un Impensabile trascendente troppo vasto per potersi manifestare. Ma allo
stesso tempo Egli è in tutto l'anima vivente, purushottama, il supremo Signore, il Signore delle opere e della
Natura universale, parameshvara. Egli
è il Sé di tutte le creature, paramatman,
e in tal modo dimora in esse e allo stesso tempo supera la loro anima, la loro
mente e il loro corpo. E sotto tutti questi aspetti è sempre Io stesso Divino,
eterno e unico. Il risveglio a questa conoscenza integrale e conciliatrice apre
largamente le porte alla totale liberazione dell’anima e ad una perfezione
inimmaginabile della Natura.
3-4. Coloro che adorano l'immutabile
non manifestato onnipresente, indefinibile, inconcepibile, imperturbabile le,
immobile, eterno, e che, dominando i sensi, si votano alla felicità di tutti
gli esseri[678]
e vedono tutto con equanime intelligenza, anch'essi vengono a Me.
Essi
non errano nello scopo da raggiungere, ma seguono un cammino più difficile,
meno completo, meno perfetto.... L'Immutabile non offre presa alla mente, può
essere conquistato solo mediante un'immobile e silenziosa impersonalità
spirituale. Coloro che lo cercano devono limitare le attività della mente e dei
sensi o anche sospenderle totalmente.
5. Tuttavia, è più grande la
difficoltà che incontrano coloro che fissano il loro spirito[679] sul [Brahman] non
manifestato. In verità, è arduo da raggiungere per le anime incarnate[680].
Il
Brahman non manifestato, nella sua indefinibile unità, non può essere raggiunto
che mediante una continua mortificazione e una sofferenza degli elementi
repressi, un'austera pena e un'angoscia di tutta la natura.... Neppure si deve
pensare che quanto più il procedimento sia arduo, tanto più sia efficace. La
via più facile della Gita conduce più naturalmente, più normalmente e più
rapidamente alla stessa liberazione assoluta. Colui che pratica esclusivamente
lo yoga della conoscenza s'impone una lotta dolorosa contro le molte esigenze
della sua natura; rifiuta perfino di accordarle le più alte soddisfazioni e
ripudia i più nobili impulsi dello spirito se implicano rapporti o non hanno
per scopo un assoluto di negazione. La via della Gita, piena di vita, si
afferra, al contrario, alla più intensa tendenza esaltante del nostro essere e,
la dirige verso Dio, utilizzando in tal modo, come ali poderose per il volo
verso la liberazione: conoscenza, volontà, sentimento, e istinto di perfezione.
6-7. Coloro che in Me ripongono[681] le loro opere,
assumendoMi come scopo supremo[682], che Mi adorano e
meditano su di Me in uno yoga totale[683] e il cui spirito[684] è stabilmente
fissato in Me, essi Io salvo senza indugio dall'oceano dell'esistenza mortale[685], o figlio di Prithà.
L'Uno
indefinibile accoglie tutti coloro che vanno verso di Lui, ma non offre nessun
appiglio allo scalatore, nessun gesto d'amicizia. Tutto deve essere fatto
mediante una severa austerità e uno sforzo individuale solitario e arduo.
Completamente diversa è la condizione di coloro che cercano il Purushottama
mediante la via della Gita. Quando meditano su di Lui in uno yoga che vede
Vàsudeva ovunque e di conseguenza non vedono che Lui (VII, 19), Egli si unisce
a loro a ogni passo, a ogni istante, sotto forme e aspetti innumerevoli.
Accende la fiaccola della conoscenza (X, 11) e inonda la loro esistenza con la
gioia della sua divina luce.... L'altro difficile metodo - la calma assoluta
sprovvista di rapporti - obbliga l'uomo ad astenersi da ogni azione, anche se
ciò è praticamente impossibile per una creatura incarnata. Nella via della Gita,
l'agire è rimesso al supremo Signore delle opere, e Lui, suprema Volontà, si
unisce alla volontà di sacrificio, l'alleggerisce del suo fardello e prende su
di Sé il peso delle opere di natura divina. E quando il devoto di Colui che e
l'Amante e l'Amico dell'uomo e di tutte le creature, acceso da una grande
passione, depone davanti a Lui, quale pegno d'amore, il cuore della sua
coscienza e la sete di beatitudine, allora, rapidamente, il Supremo gli va
incontro come salvatore e liberatore e, stringendo gioiosamente la sua mente,
il suo cuore e il suo corpo, lo innalza sopra le onde dell'oceano della morte -
della sua natura mortale - Per sempre in sicurezza nel seno dell'Eterno. questa
la via più rapida e più ampia - la via suprema.
8. Solo in Me fissa la tua mente[686], solo in Me la tua
intelligenza[687],
e, senza dubbio, dimorerai in Me.
9. Se tuttavia non puoi ancora
fissare su di Me il pensiero[688], allora, o
Conquistatore di tesori, mediante uno yoga perseverante[689], cerca di
raggiungerMi.
Anche
questa via presenta senza dubbio le sue difficoltà, poiché la natura inferiore
è presente con la sua forza d'attrazione verso il basso, violenta o inerte, che
resiste al movimento ascendente e lotta contro di esso, che paralizza le ali
dell'esaltazione, il rapimento dell'ascesa. Vi sono notti di lungo esilio
lontano dalla Luce; vi sono ore di dubbio e di disfatta o moti di ribellione.
Tuttavia, mediante la pratica dell' unione e la continua ripetizione
dell'esperienza, la coscienza divina cresce nell'essere e, infine, prende
possesso della natura in modo permanente.
10. Se neppure ti senti capace di uno
sforzo perseverante[690], assumi come supremo
scopo il compiere le Mie opere[691], poiché compiendo le
opere [con amore] per Me[692], raggiungerai la
perfezione[693].
Se
questo sforzo perseverante è troppo difficile a causa della forza e della
persistenza del movimento mentale attirato verso l'esterno, scegli allora la
via più semplice. Compi tutti i tuoi atti per amore del Signore delle opere, in
modo che ogni movimento della mente verso l'esterno sia associato alla verità
interiore dell'essere e, durante il periodo in cui l'azione si compie,
mantenuto verso l'eterna realtà e unito alla sua origine. Allora, la presenza
del Purushottama si diffonderà nell'uomo sino a riempirlo totalmente e sino a
unire l'anima umana alla suprema Esistenza.
11. E se anche ciò - questo ricorso
al Mio yoga - rimane sopra le tue forze, allora [almeno] rinuncia ai frutti
delle opere[694]
e agisci completamente padrone di te stesso.
La
mente limitata, nel suo oblio, si fissa sull'azione e sull'oggetto esteriore;
non pensa a volgersi verso l'intimo e a deporre ognuno dei suoi movimenti sul
divino altare dello Spirito. Quindi, la via da seguire è quella di dominare il
sé inferiore nell'atto che si compie, svolgendolo senza desiderarne i frutti.
Si deve rinunciare a ogni frutto, bisogna abbandonarlo al Potere che dirige
l'azione, senza tuttavia cessare di compiere ciò che esso impone alla nostra
natura. In questo modo l'ostacolo diminuisce di grandezza sino a sparire
completamente, la mente diviene libera di rivolgersi verso il Signore e di
stabilirsi nella libertà della coscienza divina.
12. La conoscenza[695] è, in verità,
migliore della pratica[696]; migliore della
conoscenza è la meditazione[697]; migliore della
meditazione è la rinuncia ai frutti dell'azione[698]; dalla rinuncia
viene immediatamente la pace[699].
In
questo versetto la Gita dà una scala ascendente delle efficienze; e allo yoga
delle azioni senza desiderio concede la palma dell'eccellenza.
Abhyasa, la pratica di un metodo, la
ripetizione di uno sforzo e di un'esperienza, è cosa grande e poderosa; ma
sopra la pratica sta la conoscenza, il pensiero che sì dirige luminosamente e
direttamente verso la Verità che sta dietro le cose. Questa conoscenza mentale
è superata a sua volta da una completa e silenziosa concentrazione sulla Verità,
in modo che la coscienza viva in questa Verità e sia sempre ad essa unita. Ma
ancora più possente è l'abbandono dei frutti dell'azione, perché distrugge
immediatamente ogni causa di turbamento, apportando e preservando automaticamente
la pace e la calma interiori. La coscienza è allora a suo agio e può stabilirsi
gioiosamente nel Divino ed elevarsi con calma verso la perfezione....
Quale
sarà allora la natura divina, quale sarà il più alto stato di coscienza e
d'essere del bhakta che ha seguito questa via e si è volto verso l'adorazione
dell'Eterno? Nel versetto seguente la Gita enuncia più chiaramente le varianti
dell'esigenza fondamentale ch'essa ha esposto sino da principio con tanta
insistenza: equanimità, assenza di desiderio, libertà di spirito.
13-14. Colui che non concepisce odio
verso alcun essere vivente, che non nutre inimicizia ed è compassionevole, che
manca del senso dell’’io’ e del ‘mio[700], equanime nel
piacere e nel dolore, paziente e misericordioso, lo yogi che è sempre contento
e che domina sé stesso[701], saldo nelle sue
risoluzioni e la cui mente e intelligenza Mi sono consacrate, quello, Mio
devoto[702],
Mi è caro.
15. Colui che non causa turbamento al
mondo e che dal mondo non è turbato, libero[703] dalla gioia e dal
risenti-mento, dal timore e dall'ansietà, anche quello Mi è caro.
16. Colui che nulla si aspetta, che è
puro, abile [nell' azione], distaccato da tutto[704], non agitato, che ha
rinunciato a ogni iniziativa[705], quello, Mio devoto,
Mi è caro.
Si
tratti di un atto esteriore o di un atto interiore, ha scacciato lontano da sé
ogni iniziativa egoistica, personale e mentale, colui che lascia scorrere
attraverso di sé il fiotto della divina conoscenza e della divina volontà,
senza che le proprie risoluzioni, le proprie preferenze e propri desideri possano
sviarlo. Tuttavia, e per questa stessa ragione, è rapido e abile in tutte le
opere della sua natura, perché questa unità senza macchia con la volontà
suprema, questo puro stato di strumento, è la condizione della più grande
abilità nelle opere (II, 50).
17, Colui che non si rallegra e non
odia, che non desidera e non rimpiange, che ha rinunciato al bene e al male[706], pieno di devozione[707], quello Mi è caro.
18-19. Colui la cui condotta non
varia[708]
né verso l'amico né verso il nemico, equanime nella buona e cattiva
reputazione, inalterabile nel freddo e nel caldo, nel piacere e nel dolore,
libero da ogni attaccamento, che non vede differenza fra la lode e il biasimo,
che rimane silenzioso e contento di tutto, senza fissa dimora[709], con lo spirito
saldo e pieno di devozione, Mi è caro.
20. E coloro che, pieni di fede,
seguono il dharma d'immortalità[710] qui insegnato e
fanno di Me il loro [scopo] supremo[711], quei devoti Mi sono
cari in modo particolare.
Dharma,
nel linguaggio della Gita, significa la legge innata dell'essere e delle sue
opere, e l'azione causata e determinata dalla natura interiore, svabhava (VII, 7c, 8c). Nella coscienza
inferiore d'ignoranza della mente, della vita e del corpo, vi sono numerosi
dharma, molte regole, diversi criteri e leggi, perché nella natura mentale,
vitale e fisica esistono molte determinazioni e parecchi tipi. Il dharma
immortale è uno: quello della suprema coscienza spirituale, della coscienza
divina, para prakriti, e dei suoi
poteri. Va oltre i tre guna e, per raggiungerlo, bisogna abbandonare tutti i
dharma inferiori (XVIII, 66). Questa coscienza, questo eterno potere
dell'Eterno, unificatore e liberatore, deve sostituirli e divenire l'origine
unica e infinita del nostro agire, il suo modello, la causa determinante e l'immagine
esemplare. Elevarsi sopra il nostro egoismo personale inferiore, entrare nella
calma impersonale e invariabile dell'eterno, akshara purusha, immutabile e onnipresente, e dopo aver raggiunto
questa calma, aspirare a un dono perfetto di tutta la nostra natura e di tutta
la nostra esistenza a ciò che va oltre l'Akshara, è la prima necessità di
questo yoga. Mediante la forza di questa aspirazione possiamo ascendere sino al
dharma immortale. Là, divenuti uno in essere, coscienza e felicità divina, col
supremo Purusha, uttama purusha,
divenuti uno con la Natura-forza dinamica e suprema, sva prakriti, lo spirito liberato può conoscere l'infinito, amare
senza limiti, agire senza errore nell'autentico potere di un'immortalità
suprema e dì una perfetta libertà. Il seguito della Gita ha per scopo di
gettare luce su questo dharma immortale.
Arjuna disse:
1. Prakriti e Purusha[712], il Campo e il
Conoscitore del Campo[713], la conoscenza e
l'oggetto della conoscenza[714], ecco ciò che vorrei
comprendere, o Keshava.
Per
guidare, mediante una conoscenza chiara e completa, il cammino dell'anima che
si eleva sopra la Natura inferiore per raggiungere quella divina, la Gita,
negli ultimi sei canti, espone di nuovo, sotto diverse forme, ciò che
l'Istruttore ha già rivelato ad Arjuna. Essenzialmente, è la stessa conoscenza,
ma certi particolari, certi rapporti sono messi in maggiore evidenza e ricevono
il loro intero significato; pensieri e verità che erano stati appena toccati si
sviluppano nel loro pieno valore sotto la luce di una nuova intenzione.
Il Reato Signore disse:
2. Il corpo, o figlio di Kunti, è
chiamato il Campo; colui che lo conosce è chiamato dai saggi[715] il Conoscitore del
Campo.
Per
spiegare la parola kshetra, la Gita
incomincia a dire che il corpo è chiamato il Campo dello Spirito, e che in
questo corpo esiste qualcuno che prende conoscenza del Campo, kshetrajna, il Conoscitore della natura.
Appare
evidente che, secondo le definizioni che seguono, non è il corpo in sé che
rappresenta il Campo, ma tutto quello di cui il corpo è la base: giuoco della
natura, funzionamento mentale, attività naturali, soggettive e oggettive, del
nostro essere[716]*.
3. Sappi che, in tutti i Campi, Io
sono il Conoscitore del Campo, o Bhàrata. La conoscenza che abbraccia a un
tempo il Campo e il Conoscitore del Campo è la vera conoscenza.
Ma
questo corpo, anche se si estende grandemente, è solo il campo individuale; per
il Conoscitore, esiste un corpo più grande, universale, cosmico, un Campo
cosmico. In ogni creatura incarnata risiede questo solo e unico Conoscitore....
Il
mondo esiste per noi come la nostra mente lo vede, ma anche così la coscienza
incarnata, per quanto limitata possa essere, può ampliarsi sino a contenere
tutto l'universo (IV, 35; VI, 29). Ma essa è fisicamente un microcosmo nel
macrocosmo, e questo stesso macrocosmo, il vasto mondo, è anch'esso un corpo e
un Campo abitati dallo stesso Conoscitore spirituale.
4. Ciò che il Campo rappresenta, la
sua natura, la sua origine e le sue variazioni, e ciò che è il Conoscitore del
Campo, quali sono i suoi poteri, Io ti dirò brevemente.
Dalla
descrizione che segue risulta chiaramente che la parola kshetra vuole indicare
il giuoco della Prakriti inferiore. Questa totalità è il campo d'azione dello
Spirito incarnato in noi, il Campo di cui questo spirito prende conoscenza.
5 I rishi l'hanno glorificato in
diversi modi e nei loro numerosi inni[717]; [l'hanno spiegato]
anche in maniera razionale e concludente negli aforismi del Brahma-Sùtra[718].
Per
avere una conoscenza particolareggiata di tutto questo mondo della Natura,
nella sua azione essenziale considerata dal punto di vista spirituale, la Gita
ci rimanda ai Veda, alle Upanishad e al Brahma-Sútra, accontentandosi di una
breve esposizione pratica della natura inferiore del nostro essere secondo la
terminologia dei pensatori Sànkhya.
6. Il non-manifestato[719], l'intelligenza[720], il senso dell'ego[721] i [cinque] grandi
elementi[722],
i dieci sensi[723]
l'altro [senso][724], e i cinque oggetti
dei sensi[725].
7. Coscienza[726], associazione[727], persistenza[728], desiderio e
avversione, piacere e dolore, così è descritto in breve il Campo con le sue
variazioni.
Esiste
una coscienza generale che dapprima anima l'Energia, poi illumina le sue
attività; esiste una facoltà di coscienza mediante la quale l'Energia
stabilisce e mantiene fra loro le relazioni degli oggetti; esiste infine una
continuità, una persistenza di relazioni soggettive e oggettive della nostra
coscienza con gli oggetti. Tali sono i poteri necessari al Campo; sono poteri
universali comuni alla Natura mentale, vitale e fisica.
Si
può dire che il piacere e il dolore siano le deformazioni sensorie e vitali che
l'energia inferiore fa subire all'ananda, la delizia spontanea dello Spirito,
una volta messa in contatto con le attività di questa energia. Si può dire
anche che il desiderio e l'avversione siano le deformazioni mentali
corrispondenti, inflitte dall'energia inferiore alla volontà reattiva dello
Spirito che determina la risposta ai contatti con questa energia. Questi
opposti sono i termini, positivi e negativi, mediante i quali l'anima-ego della
Natura inferiore gode dell'universo. I termini negativi, dolore, avversione,
pena, ripulsione e tutto il resto, sono le risposte pervertite o almeno
invertite, rovesciate; i termini positivi, piacere, gioia, desiderio,
attrazione, sono le risposte mal dirette o almeno insufficienti e di un
carattere inferiore, paragonate a quelle che provocano l'autentica esperienza
spirituale.
Tutte
queste cose prese nel loro insieme costituiscono il carattere essenziale dei
rapporti fondamentali che abbiamo col mondo della Natura, senza che
rappresentino l'intera descrizione del nostro essere. Rimane, al di là,
qualcosa da conoscere, jneya, che
diviene noto solo quando il Conoscitore del Campo distoglie la sua attenzione
dal Campo per conoscere qualcosa di sé stesso nell'intimo del Campo, e qualcosa
di ciò che esiste dietro le apparenze del Campo. Solamente allora incomincia la
vera conoscenza, jnana, che comprende
la conoscenza del Campo e quella del Conoscitore.... Anima e Natura, l'una e
l'altra, sono il Brahman; ma la verità della Natura non può essere scoperta che
dal saggio liberato che possiede anche la libertà dello Spirito. Il Brahman
unico, la realtà unica nel Sé e nella Natura, sono lo scopo di ogni conoscenza.
La
Gita ci spiega allora il significato della conoscenza spirituale - o piuttosto
quali sono le condizioni della conoscenza, le indicazioni, i segni con cui si
può riconoscere un uomo la cui anima è volta verso la saggezza interiore. Sono
i segni riconosciuti e tradizionali del saggio. In primo luogo devono essere
presenti una certa disposizione morale e un controllo sattvico dell'essere
inferiore.
8. L'assenza d'orgoglio e
d'arroganza, la non-violenza[729] una tollerante benevolenza,
la purezza dello spirito e del corpo, la fermezza e la rettitudine, il dominio
di sé, la venerazione verso il Maestro[730].
L'adorazione
del cuore offerta al divino Maestro che risiede nel cuore di ognuno, o al
Maestro umano in cui la divina saggezza si è incarnata, rappresenta la
venerazione offerta al guru.
Viene
poi un atteggiamento nobile e libero, fatto di equanimità e di distacco.
9-10. L'indifferenza[731] per l'oggetto dei
sensi, l'assenza di egoismo e di attaccamento alla proprietà, il distacco nei
riguardi della famiglia[732] e della casa, la
comprensione acuta del carattere doloroso e imperfetto della vita soggetta alla
nascita, alla malattia, alla vecchiaia e alla morte, un'invariabile equanimità
davanti agli avvenimenti piacevoli o spiacevoli.
L'anima
risiede in noi, inaccessibile agli urti degli avvenimenti esteriori. Viene
infine un possente orientamento interiore verso ciò che realmente importa.
11-12. Il disgusto per la folla e la
ricerca dei luoghi soli-tari, la diretta percezione[733] del vero senso dei
principi [dell'esistenza], la perseveranza nel voler conoscere ciò che concerne
l'anima[734],
la devozione senza cedimenti verso di Me, grazie a un'unione esclusiva; - ecco
ciò che si chiama conoscenza[735]; tutto ciò che
differisce è ignoranza[736].
13. Ti descriverò l'oggetto della
conoscenza, conoscendo il quale si gode l'immortalità[737]: il supremo Brahman[738]: senza principio,
che non si può chiamare né essere[739] né non-essere[740].
L'anima,
quando consente alla tirannia delle apparenze naturali, ignora sé stessa e si
lascia trascinare nel giro delle nascite e delle morti dei corpi in cui dimora.
Seguendo in tal modo con passione la successione delle sue personalità e dei
loro interessi, non riesce a riprendere possesso della sua vera esistenza,
eterna e impersonale. Quando trova la capacità di farlo, ritrova sé stessa e
ricupera il suo vero essere, quello che si riveste di personalità, ma che non
perisce quando periscono le forme. Godere dell'eternità, di cui la nascita e la
vita non sono che circostanze esteriori, rappresenta l'immortalità e la vera
trascendenza dell'anima. Questo Eterno o questa Eternità è il Brahman. Brahman
è il trascendente e l'universale, è il libero Spirito che sostiene sulla scena
il giuoco dell'anima con la Natura e assicura sullo sfondo la loro imperitura
unità; è ad un tempo il mutevole e l'immutabile, il Tutto che è l'Uno.
14. Dappertutto sono le sue mani e i
suoi piedi; dovunque i suoi occhi, le sue teste e i suoi volti, dovunque le sue
orecchie; Egli risiede nel mondo, tutto avvolgendo.
Nella
suprema condizione ultracosmica, Brahman un'Eternità trascendentale senza
origine e senza mutamenti, sopra le opposizioni fenomeniche --- esistenza e
non-esistenza, permanenza e non-permanenza --- fra le quali si muove il mondo
esteriore. Ma una volta che il mondo è stato visto alla luce e nella sostanza
di questa i Eternità, diviene diverso da ciò che appariva alla mente e ai
sensi, in quanto sparisce nell'universo il turbinio della mente, della vita e
della materia o la massa di forme determinate dall'energia e dalla sostanza.
Non si vede altro che Brahman.
15. Senza possedere sensi[741] appare in tutte le
funzioni dei sensi; senza attaccamento, pertanto tutto sostiene; senza qualità,
gode di tutte le qualità[742].
Tutti
i rapporti fra l'anima e la Natura sono circostanze nell'eternità di Brahman; i
nostri sensi e le qualità delle cose, che riflettono e costituiscono questi
rapporti, sono i mezzi mediante i quali l'Anima suprema (Brahman) presenta le
operazioni che la sua energia nelle cose libera e mette in attività ad ogni
istante. È Lui stesso di là dalle limitazioni dei sensi; senza occhi fisici
vede tutto, senza orecchie materiali tutto ode e senza la mente limitatrice,
che non può veramente conoscere, di tutto è consapevole.
16. All'esterno e nell'intimo di
tutti gli esseri, si muove senza muoversi; troppo sottile per essere
conosciuto, è lontano e vicino a un tempo.
17. Indiviso, sembra tuttavia diviso
negli esseri in cui risiede; sostiene le creature, le assorbe e di nuovo le
crea [ciclicamente].
18. Luce dei corpi luminosi, lo si
dice oltre le tenebre[743]. [A un tempo]
conoscenza e oggetto della conoscenza, Egli ha sede nel cuore di ogni cosa
creata.
La
conoscenza spirituale della Supermente, che inonda e trasfigura la mente
illuminata, è la manifestazione sotto forma di luce di questo Spirito, per
raggiungere l'anima che ha proiettato nell'azione della Natura e che si trova
offuscata dal giuoco delle forze. Questa eterna Luce ha sede nel cuore di ogni
essere; essa è il Conoscitore del Campo, kshetrajna;
essa domina sovrana nel cuore delle cose in ,questo regno e in tutti i regni
manifestati dalla sua azione e dal suo divenire.
19. Brevemente ti ha parlato del
Campo, della conoscenza e dell'oggetto della conoscenza. Quando il Mio devoto ha
compreso questo, raggiunge la Mia natura[744].
Quando
l'uomo vede in lui l'eterna e universale Divinità, quando diviene cosciente
dell'Anima in tutte le cose e scopre lo Spirito nella Natura, quando sente
l'universo come un'onda che sale verso questa Eternità, e tutto ciò che esiste
come l'unica esistenza, riveste la luce della Divinità e si eleva libero fra i
mondi della Natura. Possedere la divina conoscenza e volgersi in adorazione
verso questo Divino è il segreto della grande liberazione spirituale. La libertà,
l'amore e la conoscenza spirituale ci innalzano dalla natura mortale sino
all'essere immortale.
20. Sappi che Prakriti e Purusha sono
l'una e l'altro senza principio; sappi anche che le variazioni [del Campo] e le
qualità[745]
hanno origine in Prakriti.
L'anima
e la Natura non sono che due aspetti dell'eterno Brahman, un dualismo apparente
che serve di base alle operazioni della sua esistenza universale.... Le
operazioni dei modi o qualità della Natura e le loro forme derivate cambiano
costantemente, e sembra che anche l'anima e la Natura cambino, ma nel loro
intimo questi due poteri sono eterni e immutabili.
21. Prakriti è detta l'origine[746] della causa[747], dell'effetto[748] e del senso di agire[749]; Purusha è detto
l'origine dell'esperienza[750], del piacere e del
dolore.
La
Natura crea e agisce; l'anima gode di questa creazione e dì questa agire. Ma
nella forma inferiore della sua attività, la Natura trasforma la felicità in
immagini opache e meschine di piacere e di dolore.
22. Purusha, impegnato in Prakriti,
gode delle qualità che nascono da Prakriti. L'attaccamento[751] a queste qualità è
la causa[752]
della nascita dell'anima in matrici buone o cattive.
L'anima,
il Purusha individuale, è attirato con forza dalle attività delle qualità della
Natura, e questa attrazione trascina persistentemente l'anima verso ogni tipo
di nascita. Essa prova la varietà e le vicissitudini - il bene e il male della
nascita nella Natura – e ne gioisce.
23. Testimone [del giuoco della
Natura], Colui che è consenziente [al giuoco], che lo sostiene e ne gioisce[753], Signore onnipotente[754] e supremo Sé[755], è detto anche
l'Anima suprema[756] che risiede nel
corpo[757].
Il
versetto che precede quest'ultimo, non descrive che l'esperienza esteriore
dell'anima quando si trova impegnata nella Natura mutevole e identificata a
essa. Profonda nel corpo risiede la suprema Divinità, ad un tempo supremo Sé, parama-atman, Anima suprema, para-purusha, e supremo Signore della
Natura, che osserva l'azione di questa Natura, ne sancisce le operazioni,
sostiene ciò che essa compie, comanda alla sua infinitamente variata creazione
e gioisce di una delizia universale nel giuoco delle forme di cui lo stesso
essere del Signore si riveste.
Tale
è la conoscenza a cui si deve abituate il pensiero prima di percepire che siamo
realmente un'eterna particella dell'Eterno.
24. Colui che così conosce il Purusha
e la Prakriti con le sue qualità[758], in qualunque modo
egli viva e agisca, non rinascerà.
Una
volta assicurata questa conoscenza, poco importa il modo esteriore di
comportarsi dell'anima nei suoi rapporti con la Natura, ciò che fa o l'aspetto
della sua personalità, della forza attiva o dell'ego incarnato che sembra
rivestire; essa è libera e non più legata alla nascita perché, attraverso
l'impersonalità del Sé, è una con Io Spirito interiore non nato. Questa
impersonalità è ciò che ci unisce al Sé supremo e senza ego di tutto quello che
esiste nel cosmo.
25. Alcuni percepiscono il Sé
mediante il Sé[759] nel sé[760] grazie alla
meditazione[761];
altri mediante lo yoga del Sànkhya; altri ancora mediante lo yoga delle opere[762].
Lo
yoga del Sànkhya mira alla separazione dell'anima dalla Natura; nello yoga
delle opere, la nostra volontà personale si dissolve quando apriamo al Signore
la nostra mente, il nostro cuore, tutte le forze attive, ed Egli assume la
responsabilità delle nostre opere nella Natura.
26. Certi, invece, che ignoravano
[queste vie dello yoga], avendo sentito parlare [del Brahman] da altri, gli
votano un culto; superano anch'essi la morte grazie alla consacrazione a ciò
che hanno sentito.
27. Sappi, o Migliore dei Bharata,
che ogni essere[763], sia esso animato o
inanimato, nasce dall'unione[764] del Campo col
Conoscitore del Campo.
L'esistenza
dev'essere considerata come il Campo in cui l'anima agisce e costruisce in seno
alla Natura.
28. Senza estinguersi quando essi si
estinguono, il supremo Signore[765] dimora[766] ugualmente[767] in tutti gli esseri[768]; colui che così
vede, realmente vede!
29. Colui che vede il Signore
ugualmente presente ovunque, non distrugge il Sé mediante il sé[769], e così raggiunge il
supremo destino[770].
La
conoscenza ci mostra, molto sopra i mutevoli rapporti dell'anima con la natura
mortale, il nostro Sé superiore, Signore supremo delle opere di questa natura,
uno e uguale in tutte le cose e in tutte le creature, che non nasce quando
prende un corpo e non è soggetto alla morte quando questi corpi muoiono. Questa
è la vera visione, la visione di ciò che in noi è eterno e immortale. A misura
che diveniamo consapevoli di questo spirito in tutto invariabile, entriamo
nell'equanimità dello spirito; a misura che viviamo in quest'essere universale,
diveniamo noi stessi esseri universali; a misura che diveniamo consapevoli di
questa eternità, rivestiamo la nostra eternità e diveniamo eterni.
C'identifichiamo con l'eternità del Sé e non più con le limitazioni e
l'angoscia della nostra ignoranza mentale e fisica.
30. Colui che vede la Natura[771] sempre in azione e
il Sé[772]
che non agisce[773], egli veramente
vede.
Vediamo
allora che tutte le opere sono un'evoluzione e un'operazione della Natura, e
che il nostro vero Sé non è l'autore dell'azione, ma il libero testimone e il
Signore che, senza attaccamenti, gioisce dell' azione.
31. Quando egli scorge che il
divenire degli esseri individuali[774] riposa sull'Uno,
diviene il Brahman.
L'intero
movimento cosmico di superficie è il diversificato divenire delle creature
della Natura nell'eterno Essere unico; tutto è diffuso, manifestato, spiegato
dall'Energia universale a partire dalla essenza dell'Idea di questa energia,
profondamente immersa nell'Essere eterno. Ma lo Spirito, anche quando adotta
nel nostro corpo le attività dell'Energia e ne gode, non è toccato dal
carattere mortale di questo corpo.
32. Anche se questo supremo Sé[775], imperituro, senza
né principio né qualità, risiede nel corpo, o figlio di Kunti, non agisce e da
nulla è toccato.
È
inattivo anche quando agisce perché sostiene l'azione della Natura con una
perfetta indipendenza spirituale; egli è, in verità, il promotore di ogni
attività, senza essere in nessun modo toccato o modificato dal giuoco della
Natura.
33. Come l'etere[776], che tutto pervade,
non è toccato a causa della sua sottigliezza, nello stesso modo nulla colpisce
il Sé presente in ogni corpo.
Nello
stesso modo in cui l'etere non è né toccato né modificato dalle molteplici
forme che assume e resta sempre la stessa sostanza originale, pura e sottile,
lo spirito, dopo aver creato ed essere divenuto tutte le cose possibili, rimane
la stessa essenza infinita, para gati (XIII,
29), l'essere divino e la divina natura, mad-bhava
(XIII, 19), e chiunque pervenga alla conoscenza spirituale si innalza a
questa suprema immortalità dell'Eterno.
34. Nello stesso modo in cui il sole
illumina il mondo[777], il Signore del
Campo[778]
illumina il Campo intero, o Bhàrata.
Questo
Brahman, eterno Conoscitore spirituale del Campo del proprio divenire naturale,
questa Natura e la sua perpetua energia che si converte in questo Campo, questa
immortalità dell'anima in una natura mortale, costituiscono la realtà della
nostra esistenza. Quando ci volgiamo verso lo Spirito interiore, che illumina
con l'irradiare della sua verità l'intero campo della Natura, alla luce di
questo sole, l'occhio della conoscenza si apre in noi facendoci vivere nella
verità e non più nell'ignoranza.
35. Coloro che mediante l'occhio
della conoscenza[779] scorgono la
distinzione fra il Campo e il Conoscitore del Campo, e sanno liberarsi dalla
Natura inferiore[780], raggiungono il
Supremo[781].
Se
percepiamo che l'assoggettarsi alle limitazioni della natura umana attuale -
mentale e fisica - costituisce un errore, ci liberiamo dalla legge della
Prakriti inferiore - la legge della mente e del corpo - raggiungendo la natura
suprema dello Spirito. Questa sublime trasformazione è l'ultimo divino e
infinito divenire, Io spogliarsi della natura mortale per rivestire l'esistenza
immortale.
Il Beato Signore disse:
1. T'insegnerò adesso la conoscenza
suprema, la più alta fra tutte le conoscenze, quella il cui possesso ha condotto
i saggi[782]
da qui[783]
sino alla suprema perfezione[784].
La
distinzione fra l'anima incarnata che, quando fruisce dei guna, qualità o modi
della Natura, è sottoposta alla loro azione, e l'Anima suprema che, pur fruendo
dei guna, rimane libera dal loro influsso, perché situata su un piano più alto,
forma la base, insieme alle altre distinzioni fra Anima e Natura, abbozzate con
qualche epiteto de-terminante nel tredicesimo canto, su cui la Gita appoggia
tutta la concezione dell'essere liberato che diviene, nella legge cosciente
della sua esistenza, uno col Divino. Di questa liberazione, di questa unità e
questo accesso alla natura divina, sadharmya,
ne fa l'essenza stessa della libertà spirituale e l'intero significato dell'
immortalità.... É la conoscenza suprema, dice la Gita, perché conduce alla più
alta perfezione e porta l'anima a crescere ad immagine del Divino. La suprema
importanza accordata a sadharmya é un punto fondamentale dell'insegnamento
della Gita.
2. Profittando di questa conoscenza,
hanno acquisito una natura simile[785] alla Mia; nei giorni
della creazione[786] essi non rinascono
più e la dissoluzione finale[787] non li tocca.
Dobbiamo
ricordare che in nessuna parte la Gita accenna alla dissoluzione dell'essere
spirituale nel Brahman assoluto, non manifestato, indefinibile, come vero
significato o condizione per l'immortalità, o come vero scopo dello yoga. Al
contrario, la Gita descrive (VIII, 21; XII, 8; XV, 6) l'immortalità come il
fatto di dimorare profondamente nella natura suprema dell'Ishvara, e la
descrive qui con le parole para siddhi,
sadharmya, la suprema perfezione e
l'identificazione con la legge d'essere e con la natura del Supremo, pur
continuando a esistere, consapevole del movimento universale, ma sopra di esso,
nello stesso modo in cui esistono ancora i saggi, anche se non più legati alla
nascita nella creazione o toccati dalla dissoluzione dei cicli....
Secondo
l'antico insegnamento spirituale, l'immortalità non è mai consistita in una
semplice sopravvivenza personale dopo la morte del corpo; tutti gli esseri sono
immortali in questo senso, poiché solo le forme periscono. Le anime che non
arrivano alla liberazione vivono durante i cicli che si succedono l'uno
all'altro, e rimangono ripiegate o nascoste in Brahman nei periodi di
dissoluzione dei mondi manifestati per rinascere all'apparire di un nuovo
ciclo.
Vista
nel suo senso profondo, l'immortalità è diversa dalla sopravvivenza dopo la
morte e dal ritorno continuo alla nascita, L'immortalità è lo stato supremo in
cui lo Spirito si riconosce superiore alla morte e alla nascita, non condizionato
dalla natura della manifestazione, infinito, imperituro, eterno - immortale,
perché non nascendo non può morire. Il divino Purushottama, Signore supremo e
supremo Brahman, possiede per natura questa immortale eternità e non subisce
l'influsso né del corpo che riveste, né delle forme o poteri cosmici che assume
senza posa, perché esiste eternamente nella conoscenza di sé. La sua stessa
natura è di essere immutabilmente consapevole della propria eternità; sa di
essere senza né principio né fine. Qui, sulla terra, è l'Abitante di tutti i
corpi, ma è in ogni corpo nella condizione di `non-nato', senza che la sua
coscienza si senta limitata dalla manifestazione o identificata alla natura
fisica che assume. Sono queste le circostanze minori nel giuoco universale
della sua attività nell'esistenza.
Essere
liberato e immortale, significa vivere nell'essere, eterno e immutabilmente
cosciente, del Purushottama. Ma l'anima incarnata, per arrivare in questo mondo
all'immortalità superiore, deve cessare di vivere secondo la legge della Natura
inferiore; deve adottare la legge suprema dell'esistenza divina, che è per ogni
anima la vera legge della propria eterna essenza. Nell'evoluzione spirituale
del suo divenire, non meno che nel suo segreto essere originale, essa deve
crescere a somiglianza del Divino....
Ma
l'anima dell'uomo non potrebbe crescere sino a rassomigliare al Divino se,
nella sua essenza segreta, non fosse a Lui eterna-mente unita e parte
integrante della sua divinità; essa non potrebbe divenire immortale se fosse
soltanto una creazione della Natura mentale, vitale e fisica. Ogni esistenza è
la manifestazione dell'Esistenza divina, e ciò che risiede in noi è spirito
dell'eterno Spirito.
3. Il Vasto Brahman[788] è la mia matrice[789]; in Lui depongo il
germe[790]
da cui nascono tutti gli esseri, o Bhàrata.
4. Dei corpi che prendono nascita in
tutte le matrici, o figlio di Kunti, Brahman[791] è l'immensa matrice[792]; e Io sono il padre
che fornisce il seme[793].
II
Supremo è il Padre e la Madre dell'universo. Mahat-Brahman, la sostanza dell'Idea infinita (vijnana), è la matrice in cui getta il seme della propria
concezione. Come Anima-Superiore, getta il seme; come Madre, Anima della
Natura, Energia piena del suo Potere cosciente, lo riceve in questa infinita
sostanza dell'Essere, fecondata dall'Idea senza limiti, ma che limita sé
stessa. Egli lo riceve nell' Ampiezza della concezione di sé e sviluppa il
divino embrione (garbha) in una forma
d'esistenza mentale e fisica nata dall'atto originale di concezione creatrice.
Tutto ciò che vediamo è uscito da quest' atto di creazione; ma ciò che nasce
nel mondo non è che l'idea e la forma finita dei non-nato e dell'infinito.
Che
cos'è che ne stabilisce la differenza? Che cosa costringe l'anima a rivestire
le apparenze della nascita, della morte e della limitazione - poiché è certo
che sono solo apparenze?
5. Sattva[794], rajas[795] tamas[796] sono, o Guerriero dal
braccio possente, i guna[797] che nascono da
Prakriti e che mantengono l'anima[798] imperitura legata al
corpo.
Ciò
che trascina l'anima nelle apparenze della nascita, della morte e della
schiavitù, è un atto o uno stato di coscienza subordinato; è l'oblio di sè
stessi, l'identificazione dell'anima ai modi della Natura nel giuoco limitato
delle attività inferiori legate all'azione mentale, vitale e fisica, avvolto
dal se, limitato dall'ego. Elevarci sopra i modi della Natura, essere trigunatita, diviene una necessità se
vogliamo liberarci dai poteri ossessionanti delle attività inferiori, se
togliamo ricuperare il nastro essere pienamente cosciente e rivestire la libera
natura dello spirito e della sua immortalità. La Gita sviluppa nei versetti che
seguono la nozione del sadharmya.
6. Dei guna, sattva, mediante la
purità dalla sua natura, dà splendore e armonia; esso vincola [l'anima]
unendola alla felicità[799] e alla conoscenza[800], o Senza-peccato.
Sattva vincola, come gli altri due guna,
servendosi degli stessi veicoli, desiderio ed ego - un desiderio più nobile, un
ego più puro, - ma finché desiderio ed ego, in qualsiasi forma siano presenti,
possiedono l'essere, non vi è libertà. L'uomo di virtù e di conoscenza possiede
l'ego di uomo virtuoso, o di uomo che persegue la conoscenza per soddisfare un
ego sattvico; ed è per quest'ego che ricerca la virtù e la conoscenza. Soltanto
quando cessiamo di soddisfare l'ego, di pensare e volere sotto il suo influsso,
sotto l'influsso del piccolo sé limitato, c'è la vera libertà. In altre parole,
la libertà e il dominio di sé incominciano quando, sopra il sé naturale,
vediamo e afferriamo il supremo Sé, per il quale l'ego è un velo che ostruisce,
un'ombra impenetrabile. E ciò non può prodursi che quando il nostro essere
individuale si è unito a lui in essere e in coscienza, rimanendo nella sua
individuale natura d'azione il puro strumento della suprema Volontà - la sola
volontà realmente libera. Per ottenere ciò bisogna elevarsi oltre i guna,
divenire trigunatita.
7. Rajas, sappilo, o figlio di Kunti,
ha la natura della passione[801]; è all'origine della
cupidigia e dell'attaccamento, e lega l'anima incatenandola all'azione.
8. Sappi che tamas, nato
dall'ignoranza[802], fa smarrire tutte
le anime incarnate[803], e lega l'anima
mediante la negligenza, l'indolenza e il sonno, o Bhàrata.
9. Sattva incatena l'anima alla
felicità, rajas all'azione, tamas vela dapprima la conoscenza, o Bhàrata, per
poi incatenare [l'anima] alla negligenza.
L'anima,
vincolata al godimento dei guna e ai suoi risultati, concentra la coscienza
sulla Natura, sulle attività inferiori ed esteriori della vita, della mente e
del corpo; essa s'imprigiona nelle loro forme e, ignara del libero potere e del
libero dominio del Purusha liberatore, dimentica la sua più grande coscienza,
che si tiene dietro queste forme nello spirito. Se vogliamo liberarci e
divenire perfetti, dobbiamo abbandonare tale condizione, abbandonare i guna, e,
elevandoci sopra di essi, ritrovare il potere della libera coscienza spirituale
che domina la Natura.
Le
tre qualità della Natura sono sempre presenti e attive in ogni essere umano, e
nessuno può considerarsi interamente libero o privo dei tre guizzi.... Ma esse
non sono costanti in ogni uomo nell'azione quantitativa della loro forza o
nella combinazione dei loro elementi; esse sono variabili e nello stato di
continuo urto fra di loro, di spostamento e d'interazione.... Dal predominio di
una o dell'altra di queste qualità, si può dire che un uomo è per natura sattvico,
rajasico o tamasico, ma nessuna descrizione generale può essere assoluta o
esclusiva.
10. Talvolta è sattva che si
sovrappone, dominando rajas e tamas, o Bhàrata, oppure è rajas che domina
sattva e tamas, o tamas che domina sattva e rajas.
11. Quando da tutte le porte del
corpo irradia la luce della conoscenza, si può capire che sattva è dominante.
L'intelligenza
è sveglia e illuminata, i sensi più vivi, la mente soddisfatta e in pieno
fulgore, l'essere nervoso calmo, pieno di luce e di gioia luminosa....
Conoscenza, tranquilla armonia, piacere e felicità, sono i risultati
caratteristici di sattva.
12. La cupidigia[804], il bisogno di agire[805], l'iniziativa per
l'azione[806],
l'impazienza e il desiderio nascono quando rajas predomina, o Migliore fra i
Bharata.
La
forza di desiderio è il movente comune a tutte le iniziative per-sonali
d'azione, a qualsiasi movimento della nostra natura - agitazione, impulso,
ricerca - che ci spinge ad agire - pravritti.
Rajas è quindi la forza cinetica[807]*
dei modi della Natura. I suoi frutti sono la sete d'azione, l'afflizione, il
dolore e la sofferenza di ogni specie, perché non è nel giusto possesso di ciò
che desidera. Desiderio, infatti, implica non-possesso; ma quando il possesso
si realizza, il piacere è instabile e turbato, perché rajas non possiede una
conoscenza abbastanza chiara, perché non sa come possedere e non può trovare il
segreto dell'accordo e del vero godimento. Tutta la ricerca ignorante e
appassionata della vita appartiene al modo rajasico della natura.
13. L'oscurità[808], l'immobilismo, la
negligenza e anche la confusione[809] sono, o Gioia dei
Kuru, gli effetti di un predominio tamasico.
Sono
le tenebre di tamas che oscurano la conoscenza e causano la confusione e lo
smarrimento. Per questo tamas è l'opposto di sattva, la cui essenza è
l'illuminazione, prakasha, mentre
l'essenza di tamas è la mancanza di luce e di conoscenza, aprakasha. Ma, se tamas apporta l'incapacità e la negligenza che
causano l'errore, la disattenzione, la falsa comprensione e l'incomprensione,
produce anche l'incapacità e la negligenza nell'azione; indolenza, torpore e
sonnolenza appartengono a questo guna. Perciò tamas è anche l'opposto di rajas;
l'essenza di rajas è in effetti movimento, impulso e forza cinetica, pravritti, mentre l'essenza di tamas è
inerzia, apravritti. Tamas, doppiamente negativo, è inerzia
d'ignoranza e inerzia d'inazione.
14. Se l'anima incarnata[810] arriva alla
dissoluzione[811]
[del corpo] quando sattva predomina, passa nel mondo immacolato di coloro che
conoscono il Supremo[812].
La
nostra morte fisica è anche una pralaya:
l'anima che sostiene il corpo, dehabhrit,
arriva a una pralaya, a una
disintegrazione di questa forma di materia che, identificata all'ignoranza, si
dissolve nei suoi elementi naturali. Ma l'anima persiste e, dopo un intervallo,
riprende, in un nuovo corpo formato da questi elementi, il ciclo delle nascite
nello stesso modo in cui l'Essere universale riprende senza fine i cicli
cosmici.
15. Se arriva alla dissoluzione
quando predomina rajas, essa [ri]nasce fra coloro che sono vincolati
all'azione, e, se si dissolve quando tamas prevale, [ri]nasce in una matrice
d'incoscienza[813].
16. detto che il frutto dell'azione
giusta[814]
è puro e sattvico[815], mentre il frutto di
rajas è il dolore e quello di tamas l'ignoranza.
Ogni
azione naturale è fatta dalla Natura attraverso i suoi modi o qualità (guna).
L'anima non può agire per virtù propria, può farlo solo attraverso la Natura e
i suoi modi. E tuttavia la Gita, pur volendo che l'anima sia liberata dai guna,
afferma la necessità dell'azione. Si comprende adesso l'insistenza nel
prescrivere la rinuncia ai frutti dell'azione; essi sono la causa più forte
della schiavitù dell'anima. Abbandonando il desiderio, diviene possibile di
agire liberamente. L'ignoranza è il risultato dell'azione tamasica; il dolore,
quello delle opere rajasiche - dolore dalle molteplici forme: reazione, disappunto,
scontentezza, senso del transitorio -; ed è per questo che non si ottiene
profitto alcuno attaccandosi ai frutti di questo genere di attività, seguiti
come sono da immancabili e indesiderabili conseguenze. Ma, delle opere
giustamente compiute, il frutto è puro e sattvico e il risultato è conoscenza e
felicità. E tuttavia anche l'attaccamento a queste cause di piacere dev'essere
totalmente abbandonato - da una parte, perché sono forme limitate e limitanti,
e dall'altra, perché sattva, costantemente alla prese con tamas e rajas, che
l'assediano e possono ad ogni momento dominarlo, non possiede in questi piaceri
nessun genere di sicurezza.
Tuttavia,
anche se si è liberi dall'attaccamento ai frutti, si può rimanere vincolati
all'opera, sia per sé stessa - è l'essenza del legame rajasico -, sia per la
molle sottomissione agli impulsi della natura - è il legame tamasico -, sia
perché la cosa è corretta, giusta e attraente - causa del legame sattvico,
potente per l'uomo di virtù o l'uomo di conoscenza. Bisogna allora ricorrere a
questa ingiunzione della Gita: abbandonare l'azione nelle mani del Signore
delle opere e convertirsi nello strumento della sua volontà, equanime e senza
desideri (XIV, 19).
17. Da sattva procede la conoscenza e
da rajas la cupidigia; la negligenza e la confusione[816] procedono da tamas
allo stesso modo dell'ignoranza.
La
Gita descrive i modi della Natura, sattva, rajas e tamas, seguendo la loro
azione psicologica nell'uomo, o incidentalmente per la loro azione sulle cose -
come il cibo - secondo l'effetto psicologico o vitale che queste producono
sugli esseri umani. Se si cerca una definizione più generale, si potrà forse
intravederla nell'idea simbolica dell'Induismo che attribuisce rispettivamente
ognuno di questi modi a un membro della trinità cosmica - sattva a Vishnu, il
preservatore, rajas a Brahmà, il creatore, tamas a Rudra (Shiva), il
distruttore. Cercando dietro l'idea di questa triplice attribuzione, si
potrebbero definire i tre modi o qualità nei termini di movimento dell'Energia
universale, come tre poteri concomitanti e inseparabili della Natura:
equilibrio, movimento, inerzia.... Tuttavia questa non è che un'apparenza da
considerarsi secondo l'azione esteriore dell' Energia. Ma dato che la coscienza
è sempre presente, anche come forza apparentemente incosciente, dobbiamo
trovare in corrispondenza a ogni modo o qualità un potere psicologico che
diriga l'azione esecutiva più esterna. Sotto il loro aspetto psicologico, i tre
modi possono essere così definiti: tamas, il potere dell'ignoranza della
Natura; rajas, il potere di ricerca attiva della sua ignoranza, illuminata dal
desiderio e dall'impulso; sattva, il potere di conoscenza che possiede e
armonizza.
18. Coloro che sono stabiliti in
sattva si elevano; i rajasici[817] rimangono nelle regioni
intermedie e i tamasici[818], che subiscono l'effetto
del più basso dei guna, sprofondano.
L'anima
umana prende piacere alle abituali vicissitudini della vita naturale. Poiché ne
ha piacere, accetta il giuoco torbido della Natura inferiore; ed è per questo
che il giuoco continua in eterno, in quanto Prakriti non agisce che per il
piacere e con l'assentimento di Colui che l'ama e gioisce di essa, il Purusha.
La gioia dell'anima nelle dualità è il segreto del piacere che la mente prende
alla vita.
Richiedete
alla mente di elevarsi sopra queste vicissitudini sino alla gioia pura della
pura anima di felicità - sostegno continuo e segreto della sua forza nella
lotta, il solo che renda possibile la continuazione della sua esistenza -, e
avrà subito un indietreggiamento. La vera causa della ripugnanza mentale a
seguire questa strada consiste nel fatto che le si chiede di elevarsi sopra la
propria atmosfera e di respirare un'aria più pura e più rarefatta, i cui valori
di felicità e potere non riesce ad afferrare - appena può concepire che sono
reali - mentre la gioia della natura melmosa è per essa più familiare e
tangibile. Questa soddisfazione di ordine inferiore non è in sé completamente
nociva e senza profitto; è piuttosto la condizione evolutiva ascendente della
natura umana che si eleva oltre l'ignoranza e l'inerzia tamasica a cui il
nostro essere materiale è più attaccato. È la tappa rajasica della graduale
ascesa dell' uomo verso il potere e la felicità supremi. Ma se rimaniamo
adagiati su quel piano - le regioni intermedie della Gita - la nostra ascesa rimane
incompiuta, l'evoluzione dell'anima incompleta. L'anima che sale verso la
perfezione deve passare attraverso l'essere e la natura sattvica per
raggiungere ciò che si trova oltre i tre guna.
19. Quando il veggente[819] percepisce che sono
i guna ad agire e conosce Quello che è sopra[820] di essi, perviene
alla Mia natura[821].
20. Quando l'anima incarnata[822] si eleva sopra i tre
guna nati dall'incarnazione[823], si libera dalla
nascita e dalla morte, dalla vecchiaia e dal dolore, e gioisce allora
dell'immortalità[824].
Arjuna disse:
21. Signore[825], quali sono i segni
di colui che si eleva oltre i guna? Come si comporta? Come giunge a liberarsi
da essi?
Quali
sono i segni che rivelano un simile uomo, quali i suoi atti e come può agire un
essere situato oltre i guna? Il segno, dice Krishna, è l'equanimità di cui ti
ho spesso parlato.
Il Beato Signore disse:
22-25. Figlio di Pàndu, colui che per
l'illuminazione[826] [di sattva], per
l'impulso all'azione[827] [di rajas] e per lo
smarrimento[828]
[di tamas] non prova né avversione quando si presentano né desiderio quando se
ne vanno; colui che conosce che solo i guna agiscono e si mantiene separato
senza esserne turbato, come se fosse stabilito sopra di essi[829]; colui che, raccolto
in sé stesso[830],
immutabile davanti al piacere o davanti al dolore, considera allo stesso modo
la zolla di terra, la pietra e l'oro; che rimane impassibile e conserva il
proprio equilibrio davanti a ciò che è gradevole e a ciò che è sgradevole,
davanti alla lode e al biasimo, davanti all'onore e all'obbrobrio, davanti
all'amicizia e all'inimicizia; colui che abbandona ogni iniziativa[831] - di esso si dice
che si è elevato sopra i guna[832].
Egli
dimora nella luce cosciente di un principio diverso da quello dei tre guna, e
questa più grande coscienza rimane fermamente stabilita in lui, sopra i tre
modi, senza essere scossa dai loro movimenti non più di quanto lo sia il sole
sopra le nubi per colui che si eleva sino a quell'altezza. Da quel punto, vede
che l'azione procede dai guna e che le loro tempeste e i loro stati di calma
non sono lui stesso, ma un movimento di Prakriti; il suo Sé è al di sopra,
impassibile, e il suo spirito non partecipa all'incostante movimento delle cose
instabili. È l'impersonalità dello stato di Brahman (II, 69-72), in quanto
questo principio superiore, questa più grande, vasta ed elevata coscienza, è
l'immutabile Brahman.
Ma
anche qui esiste un doppio stato; l'essere si scinde in due opposti principi, akshara e kshara: uno spirito liberato nel Sé - nel Brahman immutabile - che
osserva l'azione di una Natura non liberata e mutevole. Non esiste una più
elevata condizione? Lo scopo dello voga non è forse di abbandonare la Natura
mutevole e i guna nati dall'incarnazione nella Natura, per scomparire
nell'impersonalità e nella pace senza fine del Brahman?
Sembra
che ci sia un'altra cosa: la Gita ne fa allusione alla fine del canto,
riservando come sempre la sua insistenza per la nota finale.
26. Colui che, senza vacillare,
consacra a Me il suo servizio in uno yoga di devozione[833], si eleva [anche]
oltre i guna; egli è pronto a divenire il Brahman.
27. Perché Io sono in verità la
dimora[834]
del Brahman immortale[835] e immutabile[836], dell'eterno dharma[837] e della felicità
perfetta[838].
Esiste
quindi uno stato più elevato della pace da cui l'akshara osserva, immutabile, il conflitto dei guna. Esiste
un'esperienza spirituale e una base di spiritualità superiore all'immutabilità
del Brahman; un eterno dharma più grande dell'impulso rajasico per le opere, pravritti; esiste una gioia assoluta,
una felicità sattvica e che non è alterata dal dolore rajasico - tutto ciò può
essere trovato, posseduto, stabilendo la dimora nell'essere e nel potere del Purushottama. Dato che tutto ciò
dev'essere acquisito mediante la bhakti,
non può essere altro che la delizia divina dell'ananda, in cui si realizza la fusione dell'amore totale e
dell'unità che possiede, il coronamento della bhakti. Salire sino a questo ananda,
a questa inesprimibile unità, è il compimento della perfezione spirituale e
quello dell' eterno dharma, che dà l'immortalità.
Il Beato Signore disse:
1. L'ashvatta[839], che ha in alto le
radici[840]
e in basso i rami[841], è detto imperituro.
Le sue foglie sono il ritmo degli inni[842] [del Veda). Colui
che lo conosce, conosce il Veda.
Si
ha dapprima una descrizione dell'esistenza cosmica secondo l'immagine vedantina
dell'albero ashvatta.
2. I suoi rami, nutriti dai guna, si
stendono in basso e in alto; l'oggetto dei sensi è il suo germogliare; le sue
radici si prolungano, legate alle azioni, nel mondo degli uomini.
I
rami di quest'albero cosmico si stendono verso il basso e verso l'alto; in
basso sul piano materiale, in alto sui piani ultrafisici. Sono nutriti dai guna
della Natura. Perciò, finché l'uomo gode del giuoco dei guna e rimane attaccato
al desiderio, rimane prigioniero di pravritti,
l'impulso verso la nascita e l'azione, ed erra continuamente fra la terra, i
piani intermedi e il cielo, incapace di raggiungere le sue infinità spirituali.
I saggi, avendo capito questa verità, per ottenere la liberazione totale hanno
seguito il sentiero di nivritti - il
rifiuto all'impulso dell'azione -, che porta alla cessazione delle nascite e al
raggiungimento di uno stato trascendente nella più alta regione dell'Eterno,
oltre il cosmo. Ma per raggiungere questo fine bisogna tagliare con la spada
del distacco le radici profondamente infisse del desiderio.
3-4. Non è qui possibile scoprire la
sua base, la sua forma, il suo principio o la sua fine. Dopo aver abbattuto con
l'inflessibile arma del distacco[843] l'ashvatta dalle robuste
radici, l'uomo deve cercare il soggiorno[844] da cui più non
ritornano indietro coloro che l'hanno raggiunto[845], dicendo: "Io
ricerco solo il Purusha primigenio[846] da cui è partito il
primo impulso all'azione[847]".
5. Coloro che, senza orgoglio o
smarrimento[848]
[nello spirito], hanno vinto l'attaccamento[849] e, liberati dal
dualismo del piacere e del dolore, hanno abbandonato il desiderio[850], essi sono
fermamente stabiliti in Me[851] e si avviano verso
l'eterno soggiorno[852].
6. Questo luogo non riceve la luce
del sole e nemmeno la luce della luna e del fuoco; esso è la Mia suprema dimora[853] e coloro che la
raggiungono più non ritornano[854].
La
quiete del distacco ascetico, sannyàsa,
sembrerebbe quindi la via più diretta per raggiungere questo scopo; e il
cammino che s'impone sarebbe quindi quello che conduce all'akshara, la totale
rinuncia alle opere e alla vita, l'inazione, la reclusione ascetica. Ma allora
dove inserire l'ingiunzione ad agire, o almeno dove ce n'è il bisogno, la
necessità? E che rapporto ha tutto questo col mantenere l'esistenza cosmica, lokasangraha (III, 20 e 21), il massacro
di Kurukshetra, le vie dello Spirito nel tempo, la visione del Signore dai
milioni di corpi e il suo ordine imperioso: "Sorgi, uccidi i tuoi nemici,
e godi di un opulento regno" (XI, 33)? Cos'è quindi l'anima nella Natura, kshara?
La
risposta della Gita è che questo spirito, kshara,
che gode della nostra mutevole esistenza, è anche il Purushottama: Lui stesso
nella sua eterna molteplicità.
7. Un eterno[855] frammento di Me
stesso[856]
diviene il jiva[857] nel mondo dei jiva[858]; attira a sé[859], dal riposo di
Prakriti, i [cinque] sensi e la mente[860].
È
un'affermazione di portata e di conseguenze immense. Ciò vuoi dire che ogni
anima, ogni essere nella sua realtà spirituale, è lo stesso Divino, per quanto piccola
possa essere l'attuale sua manifestazione nella Natura. E significa anche, se
le parole hanno un senso, che ogni spirito manifestato, ogni elemento della
molteplicità, è un individuo eterno, un eterno potere - non nato e immortale -
dell'unica Esistenza. Questo spirito manifestato viene chiamato jiva, perché appare come una creatura
vivente nel mondo dei viventi, e noi parliamo di questo spirito nell'uomo come
dell'anima umana e pensiamo a lui solo dal punto di vista umano. Ma in verità è
ben più grande della sua apparenza e non è limitato alla sua umanità - era nel
passato una manifestazione minore dell'uomo e può darsi che nell'avvenire
divenga qualcosa di più grande della creatura mentale che è l'uomo. E quando
quest'anima si eleva sopra tutte le manifestazioni dell'ignoranza, si riveste
della sua natura divina, di cui l'umanità non é che un velo temporaneo,
un'espressione parziale e incompleta. Lo spirito individuale esiste ed è sempre
esistito nell'al di là, nell'Eterno, perché è infinito, sanàtana. Evidentemente è questa concezione dell'eternità
dell'individuo che conduce la Gita a evitare qualsiasi allusione a una totale
dissoluzione, laya, e a parlare
piuttosto dello stato supremo dell'anima come di una dimora nel Purushottama
(XV, 6).
8. Quando il Signore[861] assume un corpo[862] o l'abbandona,
[egli] prende i sensi e la mente e va, simile al vento che porta via i profumi
dal luogo ove stanno.
L'individuo
eterno non è altro che il divino Purusha; in realtà non esiste la minima
diversità. Lo stesso Signore, l'Ishvara, in virtù dell'eterna molteplicità
della sua unità, esiste eternamente in noi quale anima immortale; è Lui che
riveste questo corpo, che esce da questa effimera cornice, rifiutandola e
lasciando che si dissolva negli elementi della Natura.... Ma l'identità del
Signore e dell'anima nella Natura mutevole ci è velata dalle apparenze
esteriori, e si perde nel brulicare degli inganni esteriori di questa Natura. E
coloro che si lasciano condurre dalle forme esteriori, dalla forma umana o da qualsiasi
altra forma, non vedranno mai questa identità, ma ignoreranno e disprezzeranno
il Divino che dimora nel corpo umano (IX, 11).
9. Si serve dell'orecchio,
dell'occhio, degli organi del tatto, del gusto e dell'odorato, e anche della
mente[863],
per godere gli oggetti sensibili.
10. Coloro che si sono smarriti nelle
apparenze[864]
non lo vedono quando se ne va, quando resta o quando gode[865] possedendo i guna;
ma coloro che hanno l'occhio della conoscenza[866] lo vedono.
Gli
stupidi e gl'ignoranti vedono soltanto ciò che è visibile alla mente e ai
sensi, non la più grande verità che solo può esser vista dall'occhio della
conoscenza.
11. Gli yogi che si tendono in uno
sforzo lo vedono come avente sede in loro stessi[867], ma gli ignoranti[868], il cui sé non è
ancora formato[869], per quanto si
sforzino non riescono a vederlo.
Coloro
che non intendono, non possono scorgerlo, anche se si sforzano, finché non
abbiano imparato a rifiutare le limitazioni della coscienza esteriore, a
edificare in sé stessi il loro essere spirituale, creando per esso, per così
dire, una forma nella Natura. Per conoscere sé stesso l'uomo dev'essere kritatma, aver ricevuto la forma
completa nel mondo spirituale ed essere stato illuminato dalla visione
spirituale. Gli yogi che hanno quest'occhio di conoscenza vedono nella loro
realtà senza fine, nella loro eternità di spirito, l'Essere divino che dimora
in ciascuno di noi. Illuminati, vedono in sé stessi il Signore e sono liberi
dalle grossolane limitazioni materiali, da quelle che si attaccano a una personalità
mentale e a una vita effimera; immortali, risiedono nella verità del Sé e dello
Spirito. Vedono il Signore non soltanto in loro stessi, ma nel cosmo intero.
12. La luce[870] che irradia dal sole
e illumina tutto il mondo, quella che brilla nella luna e nel fuoco, sappi che
é il Mio splendore.
13. Penetrando la terra, sostengo gli
esseri[871]
con la mia energia[872]; e, divenuto il soma[873], la cui forma è la
linfa, Io nutro le piante.
14. Divenuto fiamma di vita[874], penetro il corpo[875] degli esseri che
respirano[876]
e, unendomi al loro respiro vitale[877], digerisco le
quattro specie di alimenti[878].
In
altre parole, il Divino è l'Anima della materia, l'Anima della vita, l'Anima
della niente e anche l'Anima della luce supermentale, situata oltre la mente e
la sua intelligenza ragionante limitata[879]*.
15. Io dimoro nei cuore[880] di tutto; da Me
nascono la memoria[881] e la conoscenza[882], e anche il
ragionamento. In verità sono Io che tutti i Veda devono far conoscere; Io sono
Colui che conosce i Veda e l'autore del Vedànta.
16. Vi sono due Purusha nel mondo[883], lo kshara[884] e l'akshara[885]. Kshara è [l'insieme
di] tutti gli esseri. Ciò che si trova imperturbabile sopra è chiamato akshara.
Questi
due Purusha sono i due spiriti che vediamo nel mondo. L'uno emerge in primo
piano mediante l'azione; l'altro rimane dietro, stabile nel perpetuo silenzio
da cui l'azione scaturisce e in cui tutte le azioni hanno termine e spariscono
nell'essere fuori del tempo, nirvana.
La
difficoltà che sconcerta la nostra intelligenza è che questi due Purusha sembrano
opposti inconciliabili, senza una vera relazione fra di loro, senz'altro
passaggio dall'uno all'altro a meno di un intollerante movimento di
separazione. Lo kshara agisce
isolatamente nell'akshara, o almeno
ne motiva l'azione; l'akshara si
mantiene separato, rivolto verso sé stesso e, nella sua inattività, distinto
dallo kshara.... È forse possibile
che i due siano una sola e stessa rosa quando sembrano, non soltanto di opposta
natura, ma di difficile unione nell' esperienza? In effetti, quando viviamo
nella mobilità del divenire, possiamo essere coscienti dell'immortalità
dell'esistenza in sé, fuori del tempo; ma come potremmo vivere in essa? E
quando fissiamo l'essere fuori del tempo, il tempo, lo spazio e le circostanze
cadono e si separano da noi, incominciano ad apparire come un turbato sogno
nell'Infinito. La conclusione che sembrerebbe imporsi a prima vista, è che la
mobilità dello spirito nella Natura sia un'illusione che di-viene reale quando
viviamo in essa, ma non reale in essenza, perché quando rientriamo nel nostro
Sé, essa si separa dalla nostra incorruttibile essenza. É il modo abituale di
recidere il nodo dell'enigma brahma
satyam, jaganmithya Brahman è
vero, il mondo è illusione.
La
Gita non si rifugia in questa spiegazione, che d'altra parte comporta grandi
difficoltà, oltre al fatto di non riuscire a dar conto dell'illusione - essa si
limita a dire che tutto è la misteriosa e incomprensibile maya, e si potrebbe benissimo anche dire che tutto è una misteriosa
e incomprensibile doppia realtà, lo spirito che si sottrae allo spirito. La Gita
parla di màyà, ma soltanto come coscienza parziale, che sconcerta e smarrisce
perché perde contatto con la realtà completa, vive nel fenomeno della Natura
mobile e non vede lo Spirito di cui è il potere attivo. Andando oltre màyà il mondo non scompare, ma cambia
totalmente di significato. La visione spirituale arriva a prostrarci, ,non
tanto che tutto ciò non esiste realmente, quanto che tutto ciò è, mi in un
senso ben diverso dall'erroneo attuale modo d'interpretare: tutto è il Sé,
l'Anima e la Natura del Divino, tutto è Vàsudeva. Per la Gita il mondo è reale,
creazione del Signore, potere dell'Eterno, manifestazione del Parabrahman, e la Natura inferiore della
triplice màyà é in sé stessa un
potere derivato dalla suprema Natura divina.
Non
1possiamo neppure rifugiarci nella distinzione di una doppia realtà - una
realtà inferiore, attiva e temporanea, e una realtà superiore, calma, immobile,
eterna, oltre l'agire - e cercare la nostra liberazione passando da questa
limitata visione a questa immensità, dall'azione al silenzio. La Gita insiste
sul fatto che possiamo e dobbiamo, durante il periodo stesso in cui viviamo,
rimanere coscienti nel Sé e nel suo silenzio, e tuttavia agire con forza nel
mondo della Natura. E ci fornisce l'esempio dello stesso Divino, non legato
alla necessità di nascere, libero e superiore al cosmo, che tuttavia si
mantiene costantemente in azione (IX, 4-10). Sarà quindi rivestendo
integralmente la somiglianza con la Natura divina che l'uomo potrà possedere
interamente l'unità di questa doppia esperienza.
Ma
qual è il principio di questa doppia unità?
La
Gita lo trova nella suprema visione del Purushottama, in quanto questa visione
è, secondo la sua dottrina, il tipo dell'esperienza completa, più elevata; è Ia
conoscenza di coloro che conoscono il tutto, kritsna-vidah (III, 29).
17. Ma esiste un più alto[886] e diverso[887] Purusha, [diverso da
questi due,] chiamato il Supremo Sé[888]. Egli è il Signore
immutabile[889]
che penetra i tre mondi[890] e li sostiene.
In
questo versetto la Gita ci fornisce la chiave della conciliazione dei due
aspetti apparentemente opposti della nostra esistenza.
18. Perché Io sono oltre lo kshara e
anche oltre l'akshara e a questo superiore[891], Mi si glorifica nel
mondo[892]
e nel Veda sotto il nome di Purushottama[893].
L'akshara è supremo, para, in rapporto agli elementi e all'azione del-la Natura cosmica.
È l'immutabile Sé di tutto, e l'immutabile Sé di tutto è il Purushottama...
Tuttavia egli è più grande dell'akshara,
perché, non limitato dallo stato supremo ed eterno del suo essere, param dhama (XV, 6), va oltre questa
immutabilità. Ma, per arrivare a questo stato supremo, senza ritorno alla
nascita, la sola condizione di liberazione che ricercavano i saggi del passato,
si deve passare attraverso ciò che in noi è immutabile ed eterno. Ma quando la
liberazione è ricercata attraverso il solo akshara,
il tentativo diviene ricerca dell'Indefinibile, difficilissima per la nostra
natura, incarnati come siamo nella materia. L'Indefinibile, verso cui l'akshara, il puro e intangibile Sé in
noi, si eleva nel suo intenso bisogno di separazione, è un supremo
non-manifestato (VIII, 20, 21), e questo supremo akshara non manifestato è ancora il Purushottama. Per questo, dice
la Gita, anche coloro che ricercano l'Indefinibile vengono a Me, all'eterno
Divino (XII, 3, 4). Tuttavia il Purushottama è più del supremo akshara non manifestato, più di ogni
Assoluto negativo, neti neti, e si
deve conoscerlo anche come supremo Purusha che diffonde quest'universo nella
propria sostanza. Egli è un Tutto supremo e misterioso, un ineffabile e
positivo Assoluto di tutte le cose di questo mondo. Nello kshara è il Signore; è il Purushottama non soltanto lassù, ma anche
qui - il Signore, Ishvara - nel cuore di ogni creatura. E anche lassù, nel
supremo stato di eternità, è il supremo Signore, parameshvara, non un Indefinibile appartato e senza relazione
alcuna, ma l'origine, il padre e la madre, il fonda-mento, la base e la dimora
attuale del sé e del Cosmo, il Signore di tutte le esistenze e Colui che
accetta l'ascesi e il sacrificio. Riconoscendolo nello kshara e nell'akshara,
riconoscendolo come il non-nato che si manifesta parzialmente in ogni nascita e
discende nell'eterno Avatar, nella conoscenza della sua integralità, l'anima si
trova facilmente liberata dalle apparenze della Natura inferiore e ritorna,
mediante un'ampia e improvvisa crescita, un'incommensurabile ascesa, sino
all'Essere divino e alla Natura suprema. La verità dello kshara è anche la verità del Purushottama. Il Purushottama è nel cuore di ogni creatura e si manifesta nelle
innumerevoli vibhuti; il Purushottama
è lo spirito cosmico nel tempo e colui che dà, allo spirito umano liberato,
l'ordine di compiere l'azione divina....
Il
Divino non è né interamente lo kshara né interamente l’akshara. Va oltre il Sé
immutabile, oltre l'Anima delle cose mute-voli. Può essere l'uno e l'altro ad
un tempo perché è differente da essi, anya;
perché è il Purushottama sopra il cosmo e tuttavia diffuso nel mondo e nel Veda,
sotto l'aspetto di conoscenza di sé e di esperienza cosmica.
19. Colui che, ripresosi dallo
smarrimento[894],
Mi riconosce come il Purushottama, conosce tutto[895] e Mi adora con l'amore[896] di tutto il suo
essere[897],
o Bhàrata.
La
personalità è anche un attributo divino; essa trova nell'Infinito la sua verità
e il suo significato spirituale. Ma nell'Infinito, la Persona non è la
personalità egoistica, separativa e dimentica, che conosciamo nella Prakriti
inferiore; essa possiede qualcosa di esaltato, di universale, di trascendente,
d'immortale, di divino. Questo mistero della suprema Persona è il segreto dell'amore
e della devozione. La persona spirituale, purusha,
l'anima eterna in noi, si offre e offre tutto ciò che essa ha e tutto ciò che
essa è, all'eterno Divino, alla suprema Persona, alla suprema Divinità di cui è
un frammento, ansha. L'integralità
della conoscenza si trova in questa offerta di sé, in questa elevazione della
nostra natura personale mediante l'adorazione e l'amore del Signore ineffabile
della nostra personalità e dei nostri atti; il sacrificio delle opere riceve
allora il suo compimento e la sua perfetta sanzione.
20. Ti ho rivelato la più segreta[898] dottrina[899], o Eroe senza
macchia. Chi la conosce diviene un saggio[900] e la sua opera è
compiuta[901],
o Bhàrata.
E
dopo tutto non è forse il vero advaita[902]*
ciò che non lascia nessuna falla nell'unica eterna Esistenza? Questo integrale
ed estremo monismo vede l'unità anche nella molteplicità della Natura e sotto
tutti i suoi aspetti, tanto nella realtà del sé e del cosmo quanto nella più
grande realtà ultracosmica che, origine del Sé e verità del cosmo, non è
tuttavia legata da nessuna affermazione del divenire universale da nessuna
negazione universale e assoluta. Questo è l'advaita
della Gita. È il più segreto shastra,
dice l'istruttore di Arjuna; è il supremo insegnamento e la scienza che ci
conduce sino al centro del più alto mistero dell'esistenza.
La
Gita ha parlato dell'azione compiuta dall'uomo liberato (IX, 27 28) e ha insistito
sulla necessità di non escludere nessuna azione, sarva-karmani (III, 26 e XVIII, 56), kritsna-krit (IV, 18). Ha dichiarato anche che, in qualsiasi modo
viva e agisca il perfetto yogi, vive e agisce in Dio (VI, 31). Ma ciò è
soltanto possibile se la natura dello yogi diviene divina nella sua dinamica e
nel suo funzionamento, se essa si rivela un potere puro, intangibile,
inviolato, imperturbabile, sempre immune dalle reazioni della Prakriti
inferiore.
Come
e mediante quali stadi si compie una così difficile trasformazione? Qual è
l'ultimo segreto per la perfezione dell'anima?....
La
qualità sattvica è il primo mediatore fra la natura superiore e quella
inferiore. Senza dubbio, a un certo punto dovrà anch'essa trasformarsi,
sfuggire a sé stessa, frantumarsi e dissolversi nella sua origine. Le sue
derivazioni condizionate - una luce che cerca e un'azione attentamente
elaborata - devono divenire la luce spontanea e l'attività diretta e libera
dello spirito. Ma in attesa di questa trasformazione, un notevole aumento del
potere sattvico ci libererà grandemente dall'incapacità tamasica e rajasica, e
l'incapacità sattvica potrà essere più facilmente superata quando non saremo
troppo trattenuti da rajas e tamas. Sviluppare sattva sino a che questo guna si
riempia di calma e di felicità spirituale, è il primo stadio di questa
disciplina preparatoria della natura.
È
il tema degli ultimi canti della Gita. Ma essa fa precedere lo studio di questo
movimento verso la luce da una distinzione fra due categorie d'esseri, i deva e gli asura. Se il deva è
capace di un'alta azione sattvica trasformatrice dell'essere, l'asura ne è incapace.
Vediamo
dunque l'oggetto di queste preliminari considerazioni e la portata esatta della
distinzione. La natura di tutti gli esseri umani è la stessa: una mescolanza
dei tre guna (XIV, 4-18), e sembra quindi che tutti dovrebbero avere la
possibilità di sviluppare e di rinforzare l'elemento sattvico, dirigendolo
verso le altezze della trasformazione divina. Che la nostra tendenza abituale sia
in realtà quella di fare della nostra ragione e della nostra volontà i servi
del nostro egoismo tamasico o rajasico - i ministri del nostro desiderio
cinetico, agitato e male equilibrato, o della nostra compiacente indolenza o inerzia
statica - non può essere, si potrà pensare, che un carattere temporaneo del
nostro essere non completamente sviluppato, l'immaturità della sua imperfetta
evoluzione che finirà quando la coscienza si elevi nella scala dei valori
spirituali. Vediamo mediante l'esperienza che gli uomini - almeno quelli sopra
un certo livello - si dividono generalmente in due categorie: da un lato,
coloro la cui forza dominante è di natura sattvica, e che si orientano verso la
conoscenza, il dominio di sé, il bene, la perfezione; dall'altro, coloro la cui
forza dominante è di natura rajasica e che si orientano verso una grandezza
egoistica, la soddisfazione del desiderio, l'attività senza freno di una forte
volontà, di una forte personalità che cercano d'imporre al mondo, non per il
servizio dell'uomo o del Divino, ma per il loro personale orgoglio, la loro
gloria e il loro piacere. I primi sono i rappresentanti umani dei deva (X, 2c) e i secondi dei danava (X, 14) o asura (IX, 12); i primi degli dèi e i secondi dei titani...
Lo
spirito degli antichi, più aperto del nostro alla verità nascosta dal velo
fisico, vedeva, dietro la vita dell'uomo, grandi esseri, grandi poteri cosmici,
che rappresentavano aspetti o gradi della Shakti universale: divini, titanici,
giganteschi o demoniaci; e gli uomini che rappresentavano fortemente questi
tipi della natura erano, essi stessi, considerati come deva, asura, rakshasa, pishacha[903]*.
La Gita, peri suoi propri fini, riprende queste distinzioni ed espone la
differenza fra le due categorie di esseri. Essa ha parlato precedentemente
della natura asurica (IX, 12c) e rakshasica (XI, 36) che ostacola la
conoscenza del Divino, la liberazione e la perfezione; essa oppone a queste
nature quella devica, orientata verso
tali adempimenti.
Il Beato Signore disse:
1-3. Intrepidità, purezza di natura,
perseveranza nello yoga della conoscenza, carità, dominio di sé e sacrificio,
studio delle Scritture, austerità e rettitudine, non-violenza, veracità,
impassibilità, rinuncia, calma, benevolenza, compassione per tutti gli esseri,
assenza di cupidigia, mansuetudine, modestia, stabilità, vigore, longanimità,
persistenza, nettezza del corpo fisico, assenza di cattiveria e di amor proprio
eccessivo, sono, o Bhàrata, le caratteristiche di colui che nasce con natura
devica.
La
benevolenza, l'abnegazione e il dominio di sé della natura dei Deva, sono
liberi da ogni debolezza in quanto questa natura possiede l'energia, la solida
risolutezza, l'intrepidità dell'anima che vive secondo la verità, la
rettitudine, la giustizia e l'assenza di violenza. li temperamento e l'essere
sono integralmente puri; l'uomo ricerca la conoscenza e vi si adatta, calmo e
incrollabile.
4. L'ostentazione, l'arroganza,
l'orgoglio, la collera, la durezza e l'ignoranza sono, o figlio di Prithà, le
caratteristiche di colui che nasce con natura asurica.
5. È detto che le qualità deviche
conducono alla libertà e le qualità asuriche alla schiavitù. Non ti affliggere,
o figlio di Pàndu, tu sei nato con natura devica.
Arjuna
non deve preoccuparsi e pensare che accettando la battaglia e il massacro ceda
agli impulsi dell'asura. Quest'azione intorno a cui tutto si svolge, la
battaglia che Arjuna deve combattere -- avendo quale auriga del carro di
battaglia il Divino incarnato, e per l'ingiunzione del Maestro del mondo che ha
preso la forma dello Spirito del Tempo - è una lotta per stabilire il regno del
dharma, il regno della verità, del diritto e della giustizia. Arjuna è nato
devico, ha sviluppato l'essere sattvico ed è giunto al punto in cui è capace di
compiere la più alta trasformazione e liberarsi dai tre guna, e di conseguenza
anche dalla natura sattvica.
6. Esistono due creazioni[904] di esseri[905] in questo mondo:
quella dei deva e quella degli asura. La natura devica te l'ho descritta sino
nei suoi minimi particolari; ascolta adesso, o figlio di Prithà, che cos'è la
natura asurica.
La
distinzione fra deva e asura non è valida per l'intera umanità e non può essere
rigidamente applicata a tutti gl'individui; essa non è neppure ben definita e
precisa a tutti gli stadi della storia morale e spirituale della specie umana o
in tutte le fasi dell'evoluzione individuale. L'uomo tamasico, che forma una
cosi gran parte dell' umanità, non entra in nessuna di queste categorie, anche
se possono trovarsi in lui, in piccola dose, gli altri due elementi che serve
senza calore. L'uomo normale è comunemente una mescolanza; ma l'una o l'altra
tendenza predomina e tende a renderlo un'associazione di rajas e tamas o di
sattva e tamas, preparandolo per la chiara supremazia del divino o per la
turbolenza del titano. Si tratta quindi di una certa supremazia nell'evoluzione
della natura qualitativa, come il testo dimostra chiaramente. Può esserci da
una parte una sublimazione della qualità sattvica con l'esaltazione o la
manifestazione del deva non nato; dall'altra una sublimazione della tendenza
rajasica dell'anima nella Natura, la nascita completa dell'asura. L'una conduce
al movimento di liberazione su cui la Gita si prepara a insistere, rendendo
possibile l'esaltazione della qualità sattvica che va oltre sé stessa, e una
trasformazione a somiglianza dell'essere Divino. L'altra allontana da questa
universale possibilità e precipita l'asservimento all'ego. Tale è il punto
essenziale della distinzione.
7. Gli esseri asurici non hanno né la
[vera] conoscenza della via dell'azione[906] né quella
dell'astensione dall'agire[907]; in essi non si
trova verità, purezza o fedele osservanza.
8. "L'universo[908], essi dicono, è
senza Dio[909],
senza verità, senza base; si compone di fenomeni che si spingono l'uno contro
l'altro[910],
la sua causa è il desiderio[911] e null' altro."
9. Immersi in queste convinzioni,
questi esseri poco intelligenti, anime perdute[912], commettono azioni
crudeli[913]
e si ergono quali nemici del mondo per distruggerlo.
10. Abbandonati ai loro desideri insaziabili,
propensi all'ostentazione, all'orgoglio, all'arroganza, il loro smarrimento[914] li conduce a idee
perverse e ispira loro risoluzioni impure.
11. Essi fanno della soddisfazione
del desiderio[915]
il loro [scopo] supremo e, persuasi che rappresenti tutto quanto è possibile
fare e avere, divengono preda di affanni innumerevoli che hanno fine solo con
la morte.
12. Incatenati da centinaia di vane
speranze, abbandonati al desiderio e alla collera[916], si sforzano,
attraverso la via dell'ingiustizia e per soddisfare i loro desideri[917], di accumulare
tesori e ricchezze.
13-15. "Ecco, essi dicono, ciò
che ho guadagnato oggi; potrò soddisfare quel desiderio. Questa ricchezza è mia
e anche quest'altro bene sarà mio. Ho ucciso quel nemico e altri ne ucciderò.
Io sono il Signore[918]! A me il godimento[919]? A me il successo,
il potere e la felicità! Sono ricco e di nobile stirpe. Chi può a me
paragonarsi? Offrirò sacrifici, farò doni e godrò." Così parlano, sviati
dall'ignoranza[920].
16. Agitati da numerosi progetti[921] e presi nelle reti
dell'illusione[922], appagano i loro
desideri[923]
e cadono in un sordido inferno[924].
17. Infatuati di sé stessi, ostinati,
pieni dell'orgoglio e dell'arroganza della ricchezza, offrono sacrifici che lo
sono soltanto di nome, con ostentazione e senza tener conto delle regole.
18. Abbandonandosi al loro egoismo,
alla loro violenza, alla loro insolenza, alla loro lussuria e alla loro
collera, disprezzano e odiano Me, che risiedo nei loro corpi come in quello
degli altri.
19. Questi [uomini] crudeli che non sanno
che odiare, i peggiori fra gli esseri umani, li getto senza interruzione nelle
matrici asuriche del mondo della nascita e della morte[925].
20. Caduti in matrici asuriche,
smarriti[926]
di nascita in nascita, essi non vengono a Me, o figlio di Kunti, ma affondano
nella più bassa condizione[927].
Se
vogliamo dare a questa impressionante descrizione il pieno valore della
distinzione che essa implica, non si deve andare oltre a ciò che realmente
significa. Quando si dice che nel mondo materiale esistono due creazioni dì
esseri, i deva e gli asura[928]*,
non vuol dire che anime umane siano così state create da Dio sino dai primordi,
ciascuna con la propria ineluttabile carriera nella Natura; non vuoi dire che
esista una rigida predestinazione spirituale e che le anime rifiutate dal
Divino vengano private del discernimento per essere precipitate nell'inferno
impuro, condannate all'eterna perdizione. Tutte le anime sono eterni frammenti
del Divino (XV, 7-10), tanto le asuriche quanto
le deviche, e tutte possono
raggiungere la salvezza; anche il più gran peccatore può volgersi verso il
Divino. Ma l'evoluzione dell'anima nella Natura è un'avventura in cui lo svabhàva, il divenire stesso dell'anima
(VII, 7c), e il karma governato dallo svabhàva,
sono le eterne forze che dominano; e se un eccesso nella manifestazione dello svabhàva o un disordine del suo giuoco
inclina la legge dal lato perverso, se le qualità rajasiche coltivate a detrimento di quelle sattviche prendono il sopravvento, allora la tendenza del karma e i
suoi risultati finiranno necessariamente, non al livello sattvico capace di un
movimento di liberazione, ma verso le più grandi perversità della natura
inferiore. Se l'uomo non abbandona questa via dell'errore, vedrà nascere in lui
un (vero) asura; e una volta separato a tal punto dalla luce e dalla verità, la
stessa immensità della forza divina male impiegata gli impedirà di rovesciare
la direzione della sua corsa fatale, sino a che non abbia sondato le profondità
dell'abisso in cui è caduto e visto dove la sua condotta l'ha portato - il
potere dissipato, esaurito, lui stesso sprofondato nello stato più basso in cui
un'anima possa cadere: l'inferno. Soltanto quando capisce il suo errore e si
volge verso la luce, interviene quest'altra verità della Gita: il più gran peccatore,
il più impuro, il più violento e abbietto criminale è salvo nello stesso
istante in cui si volge verso il Divino che è in lui, per adorarlo e seguirlo.
Quindi, grazie a questo semplice cambiamento di rotta, entra rapidamente nella
via sattvica che conduce alla perfezione e alla libertà.
21. L'inferno[929] ha tre porte
attraverso le quali l'anima si perde: la voluttà[930], la collera[931], la cupidigia[932]. Che l'uomo vi
rinunci dunque?
22. L'uomo che ha saputo sfuggire a
queste tre porte delle tenebre[933], o figlio di Kunti,
agisce per il bene della propria anima[934] e si dirige verso il
supremo destino[935].
23. Ma l'uomo che si sottrae ai
precetti delle Sacre Scritture[936], per seguire gli
impulsi del desiderio[937], non raggiunge la
perfezione[938],
la felicità[939]
o lo stato supremo[940].
24. Che le Scritture siano dunque per
te l'autorità che decide ciò che dev'essere o non dev'esser fatto! Consapevole
di ciò che le Scritture prescrivono, compi la tua opera qui sulla terra.
La
vera regola della nostra natura non è di seguire la legge del desiderio; esiste
un più alto e più giusto criterio per i nostri atti. Ma dove è stato formulato,
dove trovarlo?
La
specie umana è sempre stata alla ricerca di questa legge più alta e più giusta
e tutto ciò che ha scoperto (nel passato), lo ha incorporato nel proprio shàstra (le Scritture sacre, la Legge
scritta) - legge di conoscenza e di scienza, legge morale, religiosa, di migliore
vita sociale, di migliori relazioni fra l'individuo e gli altri uomini, la
Natura e Dio. Lo shàstra non è una
massa di abitudini buone o cattive, seguite inintelligentemente dallo spirito
abitudinario dell'uomo tamasico. Lo shàstra
è la conoscenza e l'insegnamento apportati e trasmessi tramite
l'intuizione, l'esperienza e la saggezza; è la scienza, l'arte e l'etica della
vita, in breve, i migliori criteri di cui dispone la specie.
L'uomo,
semi-sveglio, che abbandona l'osservanza. di questa regola per lasciarsi
trasportare dai suoi istinti e desideri, può trovare il piacere, ma non la
felicità - la felicità interiore non può venire che da una vita bene
indirizzata -, non può avvicinarsi alla perfezione, non può raggiungere il
supremo stato spirituale. La legge dell'istinto e del desiderio sembra dominare
il mondo animale, ma ciò che nell'uomo è specificamente umano progredisce
mediante la ricerca della verità, della religione, della conoscenza e della
vita bene indirizzata. Lo shàstra, il
Diritto riconosciuto, a cui l'uomo assegna il compito di governare i suoi
clementi inferiori mediante la ragione e la volontà intelligente, dev'essere
osservato, accettato come l'autorità direttrice della sua condotta e delle sue
opere, che prescrive ciò che deve o non deve esser fatto, sino a che la natura
di desiderio sia moderata, ridotta, disciplinata dall'abitudine del dominio di
sé, e che l'uomo divenga pronto, dapprima a condurre sé stesso con intelligenza
più lucida, e poi a seguire la più alta legge - la legge e la libertà suprema
della Natura spirituale....
Lo
shàstra si appoggia su di un certo
numero di condizioni basilari, di dharma; è un mezzo, non un fine. Lo scopo
supremo è la libertà dello spirito che l'anima scopre quando, abbandonati tutti
i dharma, si volge verso Dio per trovare in Lui la sola legge d'azione, e
agisce mossa direttamente dalla volontà divina per vivere nella libertà della
Natura divina, non secondo la legge,e ma secondo lo spirito. È la parte
dell'insegnamento che prepara la prossima do-manda di Arjuna.
Arjuna disse:
1. Da dove viene, o Krishna, la
consacrazione[941]
di coloro che offrono il sacrificio secondo la pienezza della loro fede[942] ma rifiutano i
precetti delle Sacre Scritture[943]? Da sattva, rajas o
tamas?
La
Gita distingue fra l'azione svolta secondo l'impulso del desiderio personale e
quella secondo lo shastra....
L'azione diretta dallo shàstra è il
frutto della cultura intellettuale, etica, estetica, sociale e religiosa
(dell'epoca); essa rappresenta un tentativo di vita giusta, armoniosa e
ordinata, e manifesta uno sforzo, più o meno riuscito secondo le circostanze,
dell'elemento sattvico che nell'uomo tende a moderare, dominare o guidare il
suo egoismo rajasico e tamasico, quando non sia possibile escluderlo....
Vediamo che esiste nell'uomo un'altra tendenza più libera, diversa dalla
soggezione ai suoi desideri, diversa dalla sua volontà di accettare la legge,
l'idea rigidamente stabilita, la sicura regola dello shàstra. Vediamo l'individuo e la comunità - il primo assai
frequentemente, e l'altra in un momento qualsiasi nel corso della propria vita
- abbandonare lo shàstra, non più
tollerarla, perdere questa forma di volontà e di fede, e mettersi alla ricerca
di un'altra legge che l'individuo e la comunità siano meglio disposti ad
accettare come vera legge della vita, a considerare come una verità più elevata
o più importante dell'esistenza. Ciò può avvenire quando lo shàstra abbia perduto vigore, quando
degeneri o s'irrigidisca in una massa dì abitudini o di convenzionalismi,
oppure si riveli imperfetto o non più utile al progresso che si deve compiere.
Allora una nuova verità, una legge di vita più perfetta, diviene imperativa.
Questo
movimento incomincia quando l'individuo, non più soddisfatto di una legge che
non corrisponde più all'idea e all'esperienza più vasta e più intensa che ha di
sé e dell'esistenza, non riesce a trovare in sé stesso la volontà di crederla e
di seguirla. Questo movimento prende spesso la forma di una ribellione della
natura egoistica e rajasica, che cerca di togliersi il giogo di qualcosa che la
priva della libertà che ha scoperto e del libero adempimento di sé. Sino a un
certo punto questa ribellione è legittima, perché si appoggia su una libertà e
possiede una ragione valida per giustificarla....
Quale
dev'essere allora la base sicura di un'azione che si sottragga alla direzione
del desiderio e alle norme dello shastra?
La
regola del desiderio possiede in sé un'autorità che non è per noi sicura e
soddisfacente come lo è per l'animale o come forse lo fu per un'umanità
primitiva, e che tuttavia, e sino a un certo punto, è fondata su una parte
assai viva della nostra natura e rafforzata dalle salde indicazioni che ne
riceviamo. La legge, lo shastra, ha
dietro di sé tutta l'autorità e le sanzioni di una regola da lungo tempo
stabilita, e l'efficacia di una sicura esperienza passata. Il nuovo movimento
ha invece il carattere di un'affascinante avventura in zone inesplorate, di un
audace sviluppo e di una nuova conquista. Quale sarà il filo conduttore, con
quale luce rischiareremo il nostro cammino, su quale base ci appoggeremo?
La
risposta è che il filo conduttore e il sostegno devono essere trovati nella
fede dell'uomo, shraddha, nella sua
volontà di credere e vivere ciò che vede e pensa essere la verità del suo
essere e dell’esistenza. In altri termini, questo nuovo movimento è il richiamo
che l'uomo indirizza a sé stesso o a qualcosa di potente e d'imperioso in lui o
nell'esistenza universale, con Io scopo di scoprire la sua verità, la sua legge
di vita, la sua via verso la pienezza e la perfezione. Tutto dipende dalla
natura della sua Fede - in lui o nell'anima universale di cui è una parte o una
manifestazione - e dall'oggetto verso cui la sua fede si dirige; tutto dipende
dalla misura in cui essa lo avvicina al suo vero Sé e al Sé o vero Essere
dell'universo.
Il Beato Signore disse:
2. La fede[944] negli uomini
incarnati[945]
è di tre specie. Secondo la natura di ciascuno[946] può essere sattvica,
rajasica o tamasica. Ascolta bene ciò che sto per dire!
3. Per ciascuno, o Bhàrata, la fede è
formata secondo l'essere profondo. L'anima[947] dell'uomo è fatta di
fede[948]. Tale è la fede e
tale l'uomo.
Se
si osserva un po' più da vicino quest'idea feconda, si scopre che la seconda
metà del versetto di cui sopra, contiene, in qualche parola piena di forza,
quasi tutta la teoria della moderna prammatica. Se l'uomo, o l'anima dell'uomo,
consiste nella fede che è in lui - intesa nel senso profondo -, ne consegue che
la verità che vede e che vuol vivere è, per lui, la verità del suo essere,
verità che ha creato o che sia creando; per lui non può esistere altra verità.
Essa rientra nel possesso interiore ed esteriore delle sue azioni, appartiene
al suo divenire, al dinamismo della sua anima e non a ciò che in lui è
immutabile. L'uomo è oggi quello che è a causa della passata volontà della sua
natura, sostenuta e continuata dalla volontà presente di conoscere, dì crescere
e d'essere, nella sua intelligenza e nella sua forza vitale; e l'orientamento
che prenderanno questa fede e volontà attive segnerà il suo divenire. Creiamo
la nostra verità d'esistenza mediante l'azione nella mente e nella vita, il che
significa creare il nostro essere foggiandolo con le nostre proprie mani.
Ma
tutto ciò non è che un aspetto della verità.
4. Gli uomini sattvici offrono il
sacrificio agli dèi[949]; i rajasici agli
yaksha[950]
e ai ràkshasa[951],
e i tamasici agli spiriti della natura[952] e agli spettri[953].
L'uomo
tamasico non offre il sacrificio agli dèi, ma ai poteri elementali inferiori o
agli spiriti rozzi che, dietro il velo, si nutrono delle sue opere e dominano
con le loro tenebre la sua vita. L'uomo rajasico offre il sacrificio alle
divinità inferiori o ai poteri perversi degli yaksha, guardiani delle ricchezze, o alle forze asuriche e
rakshasiche.... Il vero sacrificio è offerto, senza riserva alcuna, agli dèi,
ed è interamente accettato dai Poteri divini mediante cui - sono essi le sue
maschere e le sue personalità - il Signore dell'esistenza governa l'universo.
5-6. Coloro che s'impongono severe
austerità[954],
non prescritte dalle Scritture, sono vanitosi e troppo attaccati al loro ego[955], pieni di desiderio,
di passione e di violenza, e, nella loro insensatezza, maltrattano l'insieme
degli elementi che formano il corpo, e Me stesso che abito nell'intimo il corpo
[sottile][956].
Sappi che questi uomini sono asurici nelle loro determinazioni.
Anche
se l'azione possiede apparentemente un aspetto nobile e profondo, anche se la
fede e la volontà sono di più elevata natura, sarà tuttavia una tapasya senza saggezza, una tapasyà
asurica, rajasica o rajasica-tamasica, se un'ambizione personale o un possente
desiderio si mescola all'ascesi e suscita qualche azione violenta, terribile e
senza freni, contraria allo shàstra,
opposta alla giusta legge della vita e delle opere e dannosa per sé stessi e
gli altri; lo sarà ancora di più, se l'azione ha il carattere di una tortura
verso sé stessi e ferisce elementi vitali, mentali e fisici, o fa violenza al
Divino che risiede nel corpo sottile profondo.
7. Il cibo che ognuno preferisce è di
tre specie, e così anche il sacrificio[957], l'ascesi[958] e il dono[959]. Ascolta bene la
loro distinzione!
Nelle
sue parti essenziali, ogni azione dinamica può ridursi a questi tre elementi.
Ogni dinamismo, ogni movimento della natura presuppone un'ascesi, tapasya o tapas, volontaria o involontaria, un'attività dell'energia, una
concentrazione delle nostre forze e delle nostre facoltà che ci aiuta a
compiere, ad acquisire o a divenire qual-cosa. Ogni azione comporta un dono, dana, di ciò che siamo, di ciò che
abbiamo, un onere che è il prezzo di questo adempimento, di questa acquisizione
o di questo divenire. Ogni azione implica infine un sacrificio, yajna, a poteri elementali o universali,
o al supremo Signore delle nostre opere. Il problema consiste nel sapere se
facciamo le cose inconsciamente, passivamente, o al massimo con una volontà
semicosciente, ignorante e inintelligente, oppure con un'energia cosciente
senza saggezza o con una volontà cosciente e saggia, radicata nella conoscenza
- in altre parole, se il nostro sacrificio, il nostro dono, Ia nostra ascesi
sono di natura tamasica, rajasica o sattvica,
8. Gli alimenti saporiti, nutrienti,
unti, gradevoli, che aumentano la vitalità, la purezza, la forza, la salute, il
benessere e la gioia, piacciono agli uomini sattvici.
9. Gli uomini rajasici amano i cibi
amari, acidi, salati, molto caldi, piccanti, aspri, che bruciano; tutti
alimenti che producono dolore, pene e malattie.
10. Ciò che è corrotto, insipido,
putrido, fermentato, fatto con rifiuti e impuro, è il cibo che piace agli
uomini tamasici.
11. Il sacrificio offerto secondo la
regola[960],
da colui che non si aspetta frutto alcuno e pensa solo a ciò che deve compiere,
è un sacrificio sattvico.
Il
sacrificio sattvico è vicino all'ideale e conduce direttamente al tipo di
azione voluta dalla Gita; ma non è ancora il più elevato, non è l'azione
dell'uomo divenuto perfetto, che vive nella Natura divina. Questo sacrificio è
compiuto come un dharma fisso, immutabile, ed è offerto agli déi, (ossia) a
qualche potere a aspetto parziale del Divino manifestato in noi e
nell'universo. L'opera svolta con disinteressata fede religiosa, o senza
egoismo e per l'umanità, oppure impersonalmente e per devozione al diritto o
alla verità, è di natura sattvica: una simile azione è necessaria alla nostra
perfezione, in quanto puri-fica il nostro pensiero, la nostra volontà e la
sostanza stessa della nostra natura. L'azione sattvica a cui dobbiamo giungere
è di una portata più vasta e ancora più libera; è il più alto e l'ultimo
sacrificio che possiamo offrire all'essere integrale del Signore supremo, con
la ricerca del Purushottama o con la visione di Vàsudeva in tutto ciò che
esiste; è l'azione compiuta impersonalmente, universalmente, per il bene del
mondo e per il compimento della volontà divina nell' universo. Questa
esaltazione porta l'azione sattvica a superare sé stessa e conduce al dharma
immortale. Nasce allora una libertà in cui non esiste nessuna azione personale,
nessuna regola sattvica del dharma, nessuna limitazione dovuta allo shàstra; la ragione e la volontà
inferiori vengono superate e non sono più esse a guidare e a dettare l'azione o
ad assegnare l'oggetto: è una più alta saggezza. Non si tratta di frutto
personale, poiché non è la nostra volontà che agisce, ma una volontà suprema di
cui la nostra anima è lo strumento. Non esiste né considerazione per il sé, né
oblio del sé; il jiva, eterno
frammento del Divino, è unito al più alto Sé dell'esistenza, lui e tutti sono
uniti in questo Sé e in questo Spirito. Non c'è azione personale, in quanto
tutte le azioni sono offerte al Signore delle nostre opere ed è Lui che compie
l'azione attraverso la Prakriti divinizzata. Non esiste allora sacrificio - a
meno che non diciamo che il Signore del sacrificio offre a sé stesso, alla sua
forma cosmica, le opere della propria energia nel jiva. Tale è lo stato supremo del superamento di sé che si ottiene
mediante l'azione offerta in sacrificio; è la perfezione dell'anima pervenuta
alla piena coscienza della sua natura divina.
12. Ma il sacrificio offerto con mira
al frutto o per ostentazione, sappi, o Migliore dei Bharata, che è un
sacrificio rajasico.
13. Il sacrificio offerto fuori della
norma[961],
senza distribuzione di cibo, senza invocazione[962], senza offerta[963] [per il sacerdote],
senza fede, è chiamato sacrificio tamasico.
Il
sacrificio viene offerto senza la distribuzione di cibo che, nel rito indù,
simbolizza l'elemento di carità inerente a ogni vero sacrificio -
l'indispensabile dono ad altri, l'aiuto fecondo al prossimo, al mondo, senza il
quale il nostro agire diviene totalmente egoistico e viola la vera legge universale
di solidarietà e di scambio. Questo sacrificio viene offerto senza dakshina - il necessario dono (o dono di
sé), fatto a colui che ha ordinato il sacrificio, sia questi la guida esteriore
che ci aiuta negli atti da compiere o il Divino velato o manifestato in noi.
Esso viene offerto senza il mantra - il pensiero o la parola di consacrazione
che rappresenta il sacro corpo della volontà e della conoscenza, elevate dal
nostro sacrificio sino alle divinità che serviamo....
La
Gita descrive adesso tre forme di azione sattvica.
14. L'omaggio rituale[964] agli dèi[965], ai due volte nati[966], al guru[967] e ai saggi[968], la purezza, la
rettitudine, la castità[969], la non-violenza[970], costituiscono ciò
che l'uomo chiama ascesi[971] del corpo.
i
15- Un linguaggio che non causi eccitazione,
che sia veridico, piacevole e salutare, costituisce, con lo studio e la
recitazione regolare delle Sacre Scritture, ciò che viene chiamato l'ascesi[972] della parola.
16. La serenità[973] e il silenzio
mentale, l'affabilità, il dominio di sé, la completa purezza della natura
interiore[974],
costituiscono ciò che viene chiamato l'ascesi[975] della mente.
17. Questa triplice ascesi, praticata
con fede suprema[976] da uomini in unione
[con il Sé][977],
che non si aspettano nessun frutto, viene dichiarata sattvica.
È
stato qui descritto tutto ciò che calma e disciplina la nostra natura rajasica
ed egoistica, tutto ciò che la sostituisce mediante il principio felice e
tranquillo del bene e della virtù. l l'ascesi del dharma sattvica, in così alta
considerazione presso l'antica cultura indiana. Il suo culmine è
necessariamente una grande purezza nella ragione e nella volontà, un'anima
equa, una pace e una calma profonde, un'ampia simpatia che prepara l'unione, un
riflesso della gioia divina dell'anima interiore nella mente, nella vita e nel
corpo. A questo punto di elevazione, il tipo e il carattere etici si fondono
nelle loro controparti spirituali. Questa esaltazione può essere portata a
superarsi, sino a raggiungere una più alta e libera luce, e fondersi nella
divina e invariabile energia della Natura suprema. Ciò che allora rimarrà, sarà
il tapas[978]* immacolato
dello spirito, una volontà suprema e una forza luminosa di tutti gli elementi
dell'essere che agiscono in una vasta e inalterabile calma, in una gioia
profonda, in una pura felicità spirituale, ananda.
Allora non c'è più bisogno di ascesi, non c'è più tapasyà, perché tutto è naturalmente e, semplicemente divino, tutto
è tapas. Non ci sarà più bisogno di
lavoro separato di ordine inferiore, perché l'energia di Prakriti avrà trovato
nella volontà trascendente del Purushottama la sua sorgente e la sua vera base.
A causa della loro alta origine, gli atti di [aie energia procederanno
naturalmente e spontaneamente anche sui piani inferiori, spinti da una volontà
innata e perfetta sotto una perfetta direzione inerente. Non saranno limitati
da alcun dharma del momento, in quanto sarà un'azione libera e molto sopra la
natura rajasica e tamasica e i limiti troppo accurati e troppo r i 'retti della
regola sattvica di azione.
18. L'ascesi, fatta con ostentazione
per ottenere rispetto, onore e venerazione[979], è chiamata
rajasica; in questo mondo è sempre mutevole e incostante.
19. Dell'ascesi che, nata da una
risoluzione errata[980], viene praticata
torturando sé stessi o con lo scopo di nuocere ad altri, si dice che è
tamasica.
20. Il dono[981] fatto a tempo e
luogo, a colui che ne è ?degno, con il sentimento che lo si deve fare e non per
disobbligarsi, è ritenuto sattvico.
Come
la tapasya, il dono può avere sia un
carattere tamasico di ignoranza, sia un carattere rajasico di ostentazione, sia
un carattere sattvico, illuminato e disinteressato....
Il
culmine della via sattvica del dono sarà indicato dall'introduzione progressiva
nell'azione dell'ampio dono di sé ad altri, al mondo e al Divino, atma-dàna, atma-samarpana, che è la
consacrazione delle opere ordinata dalla Gita. La trascendenza sarà una perfetta
pienezza, in seno alla Natura divina, dell'offerta di sé fondata sul
significato più vasto dell'esistenza. L'intero universo è creato e mantenuto
dal dono costante che Dio fa di Sé stesso e dei suoi poteri, mediante il
riversarsi generoso del suo Sé e del suo Spirito in tutte le esistenze -"l'Essere universale, dice il Veda, è il sacrificio del Purusha." Nello
stesso modo, l'azione dell'anima divenuta perfetta sarà pure un costante dono
divino di sé stessa e dei suoi poteri, di tutto ciò che possiede nel Divino -
conoscenza, luce, forza, amore, gioia, energia - e che diffonde, per influsso e
comunicazione del Divino, su tutti gli esseri che la circondano, sul mondo
intero e sulle sue creature. Tale sarà il risultato del dono totale dell'anima
al Signore della nostra esistenza.
21. Il dono offerto controvoglia, per
disobbligarsi o con la speranza di riceverne in cambio uno più vantaggioso, è detto
di natura rajasica.
22. Il dono fatto agli indegni, in
tempo e luogo inopportuni, oppure in modo offensivo e con disprezzo, è
dichiarato tamasico.
23. AUM TAT SAT[982] è considerato come
la triplice rappresentazione[983] del Brahman. Questa
formula ha creato anticamente i Bràhmana[984], i Veda e i
sacrifici.
TAT,
“Quello”, indica l'Assoluto. SAT indica il principio dell'esistenza universale
e suprema. AUM è il simbolo del triplice Brahman: il Purusha volto verso
l'esterno, il Purusha sottile volto verso l'interno, e il Purusha
sovracosciente o causale[985]*.
Ognuna delle lettere, A, U, M, indica uno di questi tre principi nell'ordine
ascendente, e la sillaba intera esprime il quarto stato, turiya, che si eleva sino all' Assoluto.
24. Per questa ragione coloro che
dichiarano di essersi rivolti verso il Brahman[986] pronunciano [la
sillaba] AUM quando incominciano gli atti di sacrificio, di carità o d'ascesi
prescritti dalle regole.
Questo
è per ricordarci che dobbiamo rendere la nostra opera l'espressione del
triplice Divino nel nostro intimo, volgendola verso di Lui nell'idea e nel
movente.
25. Pronunciando [la sillaba] TAT,
senza aver mira su frutto alcuno, coloro che cercano la liberazione compiono i
diversi atti di sacrificio, di carità o di ascesi.
26. Si usa la sillaba SAT nel senso
di realtà[987]
e di bontà[988];
e ugualmente, o figlio di Prithà, è usata nel senso di un' azione degna di
elogio.
27. Riceve il nome di SAT anche la
perseveranza nel sacrificio, nell'ascesi e nella carità, e gli atti che hanno
tali fini sono ugualmente qualificati col nome di SAT.
28. Ma tutto ciò che è compiuto senza
fede[989] - sacrificio,
ascesi, carità o qualsiasi altra azione - viene chiamato ASAT[990], o figlio di Prithà,
e nulla rappresenta in questo mondo e nell'altro.
Poiché
la fede, shraddha, è il principio
della nostra esistenza, ognuna di queste azioni, fatta senza fede, è falsa e
priva di vero significato, di vera sostanza, su questa terra e nell'al di là;
non ha realtà o potere di creare, né in questa vita né, dopo la vita mortale, nelle
più vaste regioni del nostro spirito cosciente. La fede dell'anima - e non si
tratta soltanto di una credenza intellettuale, ma della fede accompagnata dalla
volontà concomitante di conoscere, di vedere, di credere, di agire e d'essere,
secondo la sua visione e conoscenza - è citi che determina, mediante il proprio
potere, la misura delle nostre possibilità di divenire. Questa fede, questa
volontà rivolta - in tutto il nostro essere interiore e in quello esteriore, in
tutta la nostra natura e il nostro agire - verso tutto ciò che esiste di più
elevato, di più divino, di più eterno e vero, ci darà la capacità di
raggiungere la suprema perfezione.
Arjuna disse:
1. Vorrei conoscere, o Guerriero dal
braccio possente, il principio[991] della rinuncia[992] e del distacco[993], e in che cosa si
differenziano, o Hrishikesha, Distruttore di Keshi[994].
Con
questa domanda Arjuna chiede in che modo si può distinguere la rinuncia
esteriore da quella interiore, sannyàsa e
tyaga. L'insistenza della Gita su
questa distinzione capitale è stata ampia-mente giustificata dallo svolgersi
ulteriore della storia dello spirito indiano, particolarmente per la sua grande
confusione fra queste due nozioni assolutamente diverse l'una dall'altra e per
la sua tendenza a svalutare il genere di attività che propone la Gita --
facendone al massimo un semplice preliminare alla suprema inazione del sannyàsa. Infatti, quando oggi si parla
di tyàga, ci si riferisce alla
rinuncia materiale alla vita neI mondo. La Gita, al contrario, fissa le sue
posizioni su concetti assolutamente opposti. Per essa la vera tyàga ha come base d'azione la vita nel
mondo e non la fuga in un monastero, in una caverna o sulla vetta di una
montagna. Il vero tyaga è l'azione
accompagnata dalla rinuncia al desiderio - e cosi è anche il vero sannyàsa.
Il Beato Signore disse:
2. I veggenti hanno chiamato rinuncia[995] l'abbandono degli atti
compiuti sotto la spinta del desiderio[996]; e i saggi hanno
chiamato distacco[997] l'abbandono dei
frutti delle opere.
In
base a questa definizione, tyaga, e
non sannyàsa, è la via migliore, in
quanto non gli atti macchiati dal desiderio si devono rifiutare, ma il
desiderio che li macchia. Può darsi che si ottenga il frutto delle proprie
opere quale dono del Signore, ma il nostro egoismo non deve né esigerlo quale
ricompensa, né farne la condizione del lavoro. Il frutto può anche non
giungere, tuttavia l'opera va compiuta in quanto è un atto da compiersi, kartavyam karma, l'azione voluta dal Maestro
interiore. Il successo e il fallimento sono fra le sue mani ed Egli li
distribuirà secondo la sua volontà onnisciente e i suoi imperscrutabili
disegni. L'agire dev'essere veramente abbandonato - non fisicamente per
astensione, immobilità, inerzia, ma spiritualmente, ossia offerto al Maestro
del nostro essere, il cui potere ci permette di compiere le opere. Si deve
rinunciare all'idea falsa che noi siamo gli autori delle azioni, poiché in
realtà è la Shakti universale che
agisce attraverso la nostra personalità e il nostro ego. Il trasferimento
spirituale di tutte le nostre opere al Signore e alla Shakti è, secondo la Gita, il vero sannyàsa.
3. "Si deve abbandonare l'agire
perché porta con sé il male," dicono certi uomini istruiti[998]. "Non si devono
abbandonare gli atti di sacrificio, di carità e di ascesi[999]," dicono altri.
4. Ascolta dunque, o Migliore dei
Bharata, ciò che ho da dire sul distacco[1000], di cui è detto, o
Valoroso fra gli uomini[1001], che se ne devono
distinguere tre categorie.
Certuni
vorrebbero bandire dalla nostra vita ogni genere di azione - come se ciò fosse
possibile! Ma non è possibile finché siamo in un corpo vivente. La salvezza non
consiste nel ridurre, mediante l'estasi, il nostro essere attivo all'immobilità
della zolla di terra o della pietra. Il silenzio del samadhi non sopprime la
difficoltà poiché, non appena si rientra nello stato normale, siamo di nuovo
nell'azione, e ci accorgiamo di essere soltanto stati gettati, dalle altezze di
salvezza che ricerchiamo, nell'assopimento spirituale. La vera salvezza, la
liberazione ottenuta mediante la rinuncia interiore all'ego e l'unione col
Purushottama, rimane stabile in ogni condizione, persiste in questo rnondo e
fuori di esso, o in un qualsiasi altro mondo o fuori di ogni mondo; esiste in
sé e non dipende dall'azione o dall'inazione. Quali sono dunque gli atti da
compiere?
5. Non si deve rinunciare agli atti
di sacrificio, di carità e di ascesi[1002]; essi devono essere
compiuti, poiché sacrificio, carità e ascesi purificano l'uomo ponderato[1003].
6. Ma, anche questi atti devono
essere compiuti abbandonando ogni attaccamento all'azione e ai frutti. Tale è,
o figlio di Prithà, la Mia ultima e sicura conclusione.
La
risposta interamente ascetica, che non è quella della Gita - non era
probabilmente molto in uso in quell'epoca - potrebbe essere di non permettere,
fra le azioni volontarie, che quelle di mendicare, mangiare e meditare, e fra
le altre, quelle necessarie al corpo. Continuare le tre attività più sattviche
- sacrifici, doni e ascesi - è una soluzione più liberale e più ampia. Questi
atti vanno certamente compiuti poiché purificano il saggio.
7. In verità non si deve abbandonare
l'azione prescritta[1004]. Un simile
distacco, che nasce dallo smarrimento[1005], è detto tamasico.
In
maniera più generale, includendo nel senso più ampio i sacrifici, i doni e
l'ascesi, è l'azione prescritta, niyatam
karma, che dev'essere compiuta - l'azione prescritta dallo shàstra, scienza e arte della retta
conoscenza, del retto agire e del retto vivere; oppure prescritta dalla nostra
natura essenziale, svabhàvanyatam karma;
o infine, ed è la migliore, l'azione prescritta dalla volontà divina in noi e
sopra di noi. Quest'ultima è la vera, la sola azione dell'uomo liberato, muktasya karma.
8. Colui che abbandona l'azione
difficile per timore della sofferenza del corpo, dimostra distacco rajasico
egli non raccoglie i frutti di questo abbandono.
9. Ma colui che compie, perché
dev'essere fatto[1006], l'atto prescritto[1007], senza attaccamento
all'azione e ai suoi frutti, dimostra, o Arjuna, un distacco sattvico.
Il
principio sattvico della rinuncia non è l'astenersi dall'azione, ma
dall'esigenza personale che rappresenta il fattore egoistico dietro di essa....
Si deve rinunciare completamente a ogni desiderio, ad o scelta e impulso
egoistici, in cui l'ego si mette in primo piano, e infine anche all'egoismo più
sottile della volontà che dice: "L'opera
è mia, io ne sono l'autore", oppure: "L'opera è di Dio, ma io ne sono l'autore”.
10. L'uomo saggio e distaccato[1008], che ha dissipato
il dubbio e gode di natura sattvica, non ha né ripulsione per l'atto spiacevole
né attaccamento per quello piacevole.
Non
si deve essere attaccati all'opera gradevole, desiderabile, lucrativa o
coronata di successo, che non dev'essere fatta a ragione di :questa sua natura;
ma bisogna farla con abnegazione e con l'assenso dello spirito - quando è
l'azione voluta dall'alto e dall'intimo, artavyam
karma. Non si deve avere avversione per l'opera o per l'azione sgradevole,
poco desiderabile o poco profittevole, o per quella che si accompagna o può
essere accompagnata dalla sofferenza, dal pericolo, da condizioni penose o da
conseguenze funeste; anche questa dev'essere accettata - totalmente, con
abnegazione, con la comprensione profonda della sua necessità e del suo
significato quando è l'opera che dev'esser fatta, kartavyam karma.
11. È impossibile per un essere
incarnato[1009]
rinunciare interamente all'azione. Di colui che rinuncia ai frutti dell'azione
si dice che ha raggiunto il distacco[1010].
12. Gradevole, sgradevole o mescolato,
triplice è più tardi[1011] il frutto
dell'azione per coloro che non hanno raggiunto il distacco[1012]; non vi è frutto
per coloro che hanno raggiunto la [vera] rinuncia[1013].
Il
lavoratore liberato che, mediante la rinuncia interiore, ha rimesso le opere a
un Potere più grande di lui, è liberato dal karma (VIII, 6c). Compirà l'azione
in quanto fa parte della legge divina della vita quale attività dinamica dello
Spirito. L'essenza della rinuncia, il vero
tyaga, il vero sannyasa, non è
una regola empirica d'inazione; consiste nell'avere un'anima disinteressata e
una mente senza egoismo, nella transizione dall'ego alla libertà della natura
impersonale e spirituale.
13. Ti dirò adesso, o Guerriero dal
braccio possente, quali sono - secondo il Sànkhya, che [mediante la conoscenza]
mette fine all'azione[1014] - i cinque fattori[1015] che intervengono
nel compimento[1016] di ogni azione.
14. Essi sono: la sede[1017] [dell'azione],
l'agente[1018],
i diversi strumenti[1019], le diverse forme
dello sforzo[1020] e, al quinto posto,
il destino[1021].
15. Tutte le azioni, giuste o
ingiuste, che l'uomo intra-prende col corpo, la parola o il pensiero, procedono
da queste cinque cause[1022].
16. In tal modo, l'uomo
dall'intelligenza rozza e dallo spirito perverso, che si considera come l'unico
autore [dei suoi atti], non scorge la verità.
17. Ma, anche se uccide questi uomini[1023], colui che è libero
dal senso dell'io che agisce[1024] e la cui ragione
non è offuscata, non uccide e non rimane sottoposto alle conseguenze del suo
atto.
Generalmente
supponiamo che l'autore dei nostri atti sia l'ego per-sonale e superficiale; ma
è l'idea falsa di una comprensione che non ha raggiunto la conoscenza. L'ego è
l'autore apparente, ma l'ego e la sua volontà sono creazioni e strumenti della
Natura, con cui l'ignorante modo d'intendere identifica a torto il nostro vero
sé. Ego e volontà non sono d'altra parte i soli a determinare l'azione umana;
ancora meno la dirigono e ne causano le conseguenze.
Quando
ci liberiamo dall'ego, il nostro vero Sé, impersonale e universale, passa in
primo piano e, nella visione che ha della sua unità con lo Spirito universale,
vede che la Natura universale è l'au-tore dell'azione, e nella divina Volontà
nascosta vede il Maestro della Natura universale. Finché non abbiamo questa
conoscenza siamo legati al carattere dell'ego; pensiamo che l'ego con la sua
volontà sia l'autore dell'azione, che siamo noi gli autori del bene e del male
e noi a raccogliere le soddisfazioni della nostra natura tamasica, rajasica e
sattvica. Ma non appena incominciamo a vivere secondo questa più grande
conoscenza, il carattere e le conseguenze dell'azione si rivelano senza
importanza per la libertà dello spirito. Esteriormente l'opera può essere
un'azione terribile, come la grande battaglia e il massacro di Kurukshetra; ma
anche se l'uomo liberato prende parte alla lotta, anche se uccide "tutti
questi uomini", non uccide nessuno e non è legato dal suo agire, perché
l'opera è quella del Maestro dei Mondi, ed è Lui, con tutta la sua poderosa
Volontà, che ha ucciso questi eserciti. Il lavoro di distruzione era necessario
affinché l'umanità potesse muoversi più speditamente verso una nuova creazione
e un nuovo fine, per poterla sbarazzare del suo passato, karma, d'iniquità e
farla avanzare verso il regno del dharma.
L'uomo
liberato compie l'opera che gli è stata assegnata quale strumento vivente dello
Spirito universale, uno in lui. Sapendo che tutto ciò deve avvenire, andando
oltre le apparenze esteriori, non agisce per sé stesso, ma per il Divino e per
l'uomo, per l'ordine umano e l'ordine cosmico[1025]*;
infatti non è lui che agisce, ma è consapevole della presenza e del potere
della Forza divina nei suoi atti e risultati. Egli sa che la Shakti suprema, sola autrice, adempie in
lui - nel suo corpo mentale, vitale e fisico, adhishthana - l'azione assegnata da un Destino che in verità non è
il Destino, dispensatore meccanico, ma la saggia Volontà che tutto vede,
all'opera dietro il karma umano. Questa "azione terribile" intorno
alla quale gira tutto l'insegnamento della Gita, è l'esempio estremo di
un'azione in apparenza funesta, ma che dietro a queste apparenze nasconde
tuttavia un gran bene. L'uomo chiamato ad adempiere questa funzione deve
compierla impersonalmente per mantenere la coesione del mondo, loka-sangraha-artham, senza scopo o
desiderio personale, ma perché è la missione assegnatagli.
18. La conoscenza, l'oggetto della
conoscenza e colui che conosce[1026], formano
l'incitamento[1027] all'azione;
l'agente, l'atto e lo strumento[1028] le danno la
coesione[1029].
19. Si distinguono tre specie di
conoscenza, di atti e di agenti secondo il guna {che domina]. È ciò che insegna
la scienza dei guna[1030]; ascolta di che si
tratta esattamente.
Secondo
quello che precede risulta chiaro che l'opera non è la sola; cosa che importi:
la conoscenza secondo la quale la compiamo costituisce, dal punto di vista
spirituale, l'immensa differenza.... Nella conoscenza intervengono i guna, ed è
l'elemento sottomesso ai guna che introduce la differenza nella nostra visione
della cosa conosciuta e nello spirito con cui realizziamo l'opera.
20. La conoscenza mediante la quale
si vede in tutti gli esseri[1031] l'Esistenza[1032] unica, imperitura,
indivisibile in seno alla divisione, sappi che è di natura sattvica.
21. La conoscenza che vede come
separate le diverse nature[1033] degli esseri, a
motivo di questa distinzione, sappi che è rajasica.
22. Ma quella limitata, che si
attacca a un effetto[1034] particolare come se
fosse un tutto[1035], incapace di
vederne la causa e di afferrarne il significato essenziale[1036], devi considerarla
tamasica.
La
mente tamasica non ricerca la causa o l'effetto reali, ma si assorbe in un solo
movimento, in una sola abitudine, e vi si attacca ostinata-mente; davanti ai
suoi occhi non può esserci che una piccola zona di attività personale. In
verità non sa quello che fa, ma lascia al cieco impulso naturale produrre,
attraverso la sua azione, risultati che non ha né concepito né previsto né
intelligentemente compreso.
La
conoscenza rajasica è incapace di scoprire un vero principio di unità dietro la
molteplicità delle cose e la varietà delle operazioni naturali; essa non riesce
a coordinare correttamente la sua volontà e la sua azione, ma segue la
dipendenza dell'ego e del desiderio, l'attività dalle molteplici vie della vira
egoistica e i vari e complessi moventi che rispondono alle sollecitazioni degli
impulsi e delle forze tanto interne quanto esterne.
La
conoscenza sattvica, al contrario, vede, sotto tutte le divisioni, l'esistenza
come un tutto indivisibile, come un essere imperituro in lutti i divenire; essa
domina il principio del suo agire e il rapporto fra l'azione particolare e lo
scopo totale dell'esistenza; essa mette al giusto posto ogni stadio dell'intero
processo. Nella vetta più elevata della conoscenza, questa visione diviene la
conoscenza dello Spirito unico nel mondo, unico nelle innumerevoli creature,
l'unica conoscenza del Signore di tutte le opere, quella della forza del cosmo
quale espressione divina, quella dell'opera stessa quale giuoco della volontà e
della saggezza suprema nell'uomo, e nella natura essenziale e nella vita
dell'uomo.
23. L'azione prescritta[1037], compiuta senza
attaccamento[1038], senza attrazione o
ripulsione[1039],
da chi non ne desidera i frutti, si dice che è sattvica.
L'azione
sattvica è quella che l'uomo intraprende con calma, alla chiara luce della
ragione e della conoscenza, con un senso impersonale del diritto e del dovere,
o spinto dall'esigenza di un ideale, come la cosa che dev'esser fatta,
qualunque ne possa essere il risultato per lui in questo mondo o in un altro.
Al culmine di sattva, essa si trasforma e diviene una suprema azione,
impersonale, dettata dallo spirito in noi e non più dall'intelligenza, qualcosa
di determinato dalla più alta legge della natura, liberata dall'ego inferiore e
dal suo fardello pesante o leggero che sia, liberata da tutte le limitazioni,
anche da quelle che creano le migliori opinioni, i più nobili desideri, la più
pura volontà personale o il più elevato ideale della mente. Non vi sono più
ostacoli dì questo genere; al loro posto opera una chiara conoscenza di sé e
un'illuminazione spirituale, un senso intimo e imperioso di un'infallibile
potere che agisce e dell'opera che deve compiersi per il mondo e per il Maestro
del mondo.
24. Ma l'azione che si compie per
soddisfare i propri desideri, spinti dall'egoismo del sé, oppure con grande
sforzo, è detta rajasica.
25. L'azione intrapresa
nell'accecamento[1040], senza pensare alle
conseguenze, alle perdite e al male inflitto ad altri, senza tener conto delle
proprie capacità, è detta tamasica.
26. Dell'uomo che non dice una parola
che si riferisca a lui personalmente[1041], liberato
dall'attaccamento, risoluto, entusiasta, indifferente al successo e al
fallimento, si dice che agisce[1042] in sattva.
L'uomo
che agisce sattvicamente non si inebria per il successo e non resta depresso
per l'insuccesso; è mosso da una calma risoluzione, zelo impersonale, un
entusiasmo puro e disinteressato per l'azione che deve compiere. Quando sattva
è al suo apogeo, questa risoluzione, questo zelo, questo entusiasmo divengono
l'espressione .spontanea del tapas spirituale, ed infine la suprema forza
d'anima, il diretto potere del Divino, il movimento ampio e potente
dell'energia divina attraverso lo strumento umano, l'avanzare sicuro della
volontà del veggente, l'intelligenza gnostica e, con ciò, la vasta felicità
dello spirito libero nelle opere della natura liberata.
27. Dell'uomo appassionato, avido dei
frutti della -propria azione, pronto alla violenza, cupido, impuro, sensibile
al piacere e al dolore, si dice che agisce in rajas.
28. Dell'uomo sempre in continua
dispersione[1043], volgare, ostinato,
disonesto, malevolo, pigro, che si scoraggia facilmente e tutto rimanda a più
tardi, si dice che agisce in tamas.
29. Ascolta adesso, o Conquistatore
di tesori, il triplice modo di definire il carattere dell'intelligenza[1044] e della volontà[1045] secondo il guna
[che domina]; te lo dirò senza nulla trascurare.
Nella
natura dell'uomo, la facoltà di comprensione, buddhi, sceglie l'opera per lui;
più spesso non fa che approvare e sancire l'una o :sa della numerose
suggestioni provenienti dai suoi istinti, impulsi, e desideri. Buddhi determina
per l'uomo ciò che è bene e ciò e male, ciò che si deve o che non si deve fare,
dharma o a-darma, volontà, dhriti,
è la forza continua e persistente della natura mentale che sostiene l'azione,
che le dà coerenza e continuità. Anche qui i guna intervengono.
30. É sattvica, o figlio di Prithà,
l'intelligenza che conosce ciò che incita all'azione[1046] o che rifiuta
l'azione[1047],
ciò che si deve o non si deve fare, ciò che si deve o non si deve temere, ciò
che lega[1048]
l'anima e ciò che la rende libera[1049].
Si
arriva alla vetta dell'intelligenza sattvica mediante un'aspirazione elevata e
persistente di buddhi, quando questa si fissa su ciò che va oltre la ragione
comune e la volontà, si dirige verso le sommità e si applica a una solide
padronanza dei sensi e della vita, sempre in yoga col Sé supremo dell'uomo, il
Divino universale, lo Spirito trascendente. Una volta raggiunto questo punto,
si può quindi andare oltre i guna, oltre le limitazioni della mente, della
volontà e dell' intelligenza mentali, e lo stesso sattva può scomparire in
Colui che è di là dai guna e dalla natura strumentale. Lì, situata sopra un
altare di luce, l'anima riceve la consacrazione dell'unione invariabile col Sé,
lo Spirito, il Divino. Colui che è pervenuto a questa vetta può lasciare il
Supremo guidare la sua natura in tutti gli elementi del suo essere e nella
libera spontaneità di un'azione divina. Li, non esiste azione falsa o confusa,
non più elementi erronei o impotenti per offuscare o deformare la perfezione e
il potere luminosi dello Spirito. Tutte le condizioni inferiori - leggi, dharma
- non hanno più presa su di noi. L'Infinito agisce nell'uomo liberato, e non
esiste altra legge che la verità e il diritto dello spirito libero - non più
karma, non più schiavitù.
31. È rajasica l'intelligenza che
comprende incorrettamente il bene[1050] e il male[1051], e ciò che si deve
o non si deve fare, o figlio di Prithà.
32. L'intelligenza avvolta nelle
tenebre[1052],
che prende il male[1053] per il bene[1054] e perverte tutti i
valori, è tamasica, o figlio di Prithà.
33. È sattvica, o figlio di Prithà,
la volontà[1055]
perseverante, mediante la quale, con lo yoga, si dirigono le attività della
mente, del soffio vitale e dei sensi.
34. Ma è rajasica, Arjuna, la volontà
desiderosa dei frutti [dell'azione], e che tiene fermamente al proprio dovere[1056], desiderio[1057] o interesse[1058], secondo le
occasioni.
La
volontà rajasica fissa la propria attenzione sulla soddisfazione dei desideri e
degli attaccamenti appassionati, sulla ricerca dei propri interessi e piaceri,
sviluppandosi in ciò che essa crede - o desidera credere - essere il diritto e
la giustizia, dharma. È sempre capace di costruire su questi elementi ciò che
potrà meglio soddisfare e giustificare i suoi desideri, incline anche a
ritenere giusti e legittimi i mezzi che l'aiuteranno a ottenere i frutti del
proprio lavoro e del proprio sforzo. È la causa dei tre quarti degli errori e
dei danni prodotti dalla ragione e dalla volontà umane. Rajas, col suo veemente
dominio sull'ego vitale, è il gran peccatore e seduttore.
35. La volontà inintelligente che impedisce
di disfarsi del sonno[1059], della paura, della
pena, dello scoraggiamento e dell'arroganza, è tamasica, o figlio di Prithà.
36-37. Adesso, o Migliore dei
Bharata, impara da Me le tre specie di felicità[1060]. La felicità
dell'uomo che raggiunge la gioia mediante la disciplina del sé[1061] e mette fine al
dolore[1062]
assomiglia al principio a un veleno e alla fine a un nettare[1063]; questa felicità,
chiamata sattvica, nasce dalla chiara serenità[1064] dell'intelligenza
rivolta verso di Me.
38. La felicità che nasce dall'unione
dei sensi[1065]
con gli oggetti, che al principio è dolce come il nettare[1066] e alla fine amara
come il veleno, è detta rajasica.
39. II piacere che nasce dal sonno[1067], dalla pigrizia e
dalla negligenza, che smarrisce l'anima dall'inizio alla fine[1068], è detto tamasico.
In
verità la felicità è l'unico oggetto della ricerca universale, diretta o
indiretta, della natura umana - la felicità o ciò che la evoca o la imita:
piacere, godimento, soddisfazione mentale, della volontà, delle passioni, del
corpo. Il dolore è un'esperienza che la natura deve accettare quando si
presenta, senza averlo voluto, come una necessità, un incidente inevitabile nel
giuoco della Natura universale; possiamo anche accettarlo volontariamente, come
mezzo per raggiungere uno scopo, ma non come oggetto di per sé desiderato -
eccezione fatta quando talvolta la sofferenza è ricercata dalla perversione con
un ardente entusiasmo, dovuto al tocco del piacere crudele che essa apporta o
alla forza intensa che genera. Esistono però diversi tipi di felicità e di
piacere, a seconda che la natura sia dominata da un guna o dall'altro. Allo
stesso modo la mente tamasica può restare soddisfatta nella sua indolenza e
inerzia, nel suo torpore e sonno, nel suo accecamento e errore.... Esiste una
felicità tamasica fondata sull' inerzia e sull'ignoranza. La mente dell'uomo
rajasico beve a una coppa più infiammata e più inebriante; il piacere dei sensi
e del corpo, vivo, acuto, incostante, la volontà e l'intelligenza febbrilmente
attive, rappresentano per lui tutta la gioia della vita e il senso stesso
dell'esistenza. La natura sattvica ricerca invece la soddisfazione della mente
superiore e dello spirito; da questo vasto scopo, una volta raggiunto, possono
nascere una chiara e pura felicità dell'anima, uno stato di pienezza, di
distensione e di pace durevoli. Questa felicità non dipende dalle cose
esteriori, dipende solo da noi, dall' affiorare di quanto abbiamo di meglio,
del più intimo in noi. Ma non è da principio in nostro normale possesso;
dobbiamo conquistarla mediante una disciplina personale, il lavoro dell'anima,
lo sforzo eroico e arduo. All'inizio, rappresenta molti piaceri perduti, molte
lotte e sofferenze, un veleno nato dall'abbrutimento della nostra natura, un
doloroso conflitto di forze, una rivolta e una resistenza al cambiamento,
dovute alla cattiva volontà delle parti dell'essere o all' ostinazione degli
elementi vitali. Man mano che ci eleviamo verso la natura spirituale, il
nettare d'immortalità finisce per sostituire questa amarezza; raggiungiamo la
fine del dolore, l'eutanasia delle afflizioni e della pena. Tale è la felicità
senza pari che scende su di noi nel momento in cui si raggiunge la vetta della
disciplina sattvica.
Il
superamento della natura di sattva sì produce allorché andiamo oltre il piacere
sattvico - nobile senza dubbio, ma tuttavia inferiore -, oltre i piaceri della
conoscenza mentale, della virtù e della pace, e che raggiungiamo l'eterna calma
del Sé e l'estasi spirituale della divina Unità. Questa gioia spirituale non è
più la felicità sattvica, sukha, ma l'ananda assoluto. L'ànanda è la gioia
segreta, la felicità da cui tutto nasce, mediante cui tutto è mantenuto
nell'esistenza e a cui tutto può elevarsi in una culminazione spirituale. Ma
questa condizione può essere posseduta solo dall'uomo liberato, liberato
dall'ego e dal desiderio, e che infine vive unito al supremo Sé, uno con tutti
gli esseri e uno con Dio nell'assoluta beatitudine dello Spirito.
40. Non esiste essere[1069] sulla terra o in
cielo fra gli dèi[1070], che sia libero dai
tre guna nati da Prakriti.
41. Le attività[1071] dei bramini, degli
kshatriya, dei vaishya e degli shùdra[1072] vengono distinte, o
Terrore dei nemici, secondo il guna proprio alla loro natura essenziale[1073].
42. La serenità, la padronanza di sé,
l'austerità, la purezza, la longanimità, la rettitudine, la conoscenza
integrale[1074],
la pietà, sono gli attributi[1075] del bramino[1076], che emergono dalla
sua stessa natura[1077].
43 L'eroismo, l'energia, la fermezza,
l'abilità, l'intrepidità nel combattimento, la generosità e la dignità del capo[1078], sono gli attributi
dello kshatriya[1079], che emergono dalla
sua stessa natura[1080].
44. L'agricoltura, l'allevamento, il
commercio, sono gli attributi del vaishya[1081], che emergono dalla
sua stessa natura. [lnfine,] l'azione che ha il carattere del servizio è
propria dello shùdra[1082], nata anche dalla
sua natura.
Questi
versetti, insieme a qualcuno dei precedenti, hanno servito ad alimentare le
controversie attuali sulla questione delle caste. Alcuni li hanno interpretati
come la giustificazione al sistema attuale, altri ne hanno visto un argomento
contro l'ereditarietà delle caste. In realtà, i versetti della Gita non si
riferiscono al sistema attuale di caste[1083]*,
che differisce di molto dall'antico ideale sociale del chaturvarna, i quattro ordini chiaramente definiti dalla comunità
ariana. Secondo questa classificazione, l'agricoltura, l'allevamento del
bestiame e il commercio, sotto qualsiasi forma, sono considerati dalla Gita
come compito del vaishya, mentre, nel
sistema che si è sviluppato più tardi, la maggioranza di coloro che si occupano
del commercio e dell'allevamento, i piccoli artigiani, ecc., vengono
classificati come shudra - quando non
vengono respinti fra i fuori casta. Salvo qual-che eccezione, solo i mercanti -
e neppure in tutta l'India - vengo-no classificati come vaishya. Gli agricoltori, i funzionari del governo e coloro che si
dedicano al servizio degli altri, appartengono oggi a tutte le caste, dai
bramini agli shùdra. E dato che la
suddivisione delle funzioni economiche ha provocato una confusione ormai
impossibile da frenare, la legge dei guna - delle qualità - fa ancora meno
parte del sistema attuale. Tutto oggi è rigido, senza rapporti con i bisogni
della natura individuale.
Se,
inoltre, esaminiamo l'aspetto religioso degli argomenti di coloro che
parteggiano per il sistema attuale, non possiamo certamente dare alle parole
della Gita il senso assurdo che avrebbe per l'uomo la legge della nascita,
senza prendere in considerazione le sue tendenze e le sue capacità personali,
la professione, la famiglia o i suoi antenati vicini o lontani - i figli del
lattaio rimarrebbero lattai, quelli di un medico, medici, i discendenti di un
calzolaio, calzolai sino alla fine dei tempi. Ancora meno possiamo pensare che
agendo in tal modo - mediante la ripetizione meccanica e inintelligente della
legge naturale di un uomo, senza considerazioni per la sua vocazione
individuale e le qualità che lo distinguono - una per-sona potrebbe avanzare
verso la perfezione e raggiungere la libertà spirituale.
Le
parole della Gita si riferiscono all'antico sistema del chaturvarna, come esisteva o si suppone fosse esistito nella sua
ideale purezza ciò si presta alla questione controversa di sapere se fosse
stato qualcosa d'altro che un ideale, una norma generale più o meno seguita
nella pratica -, ed è cosi che deve essere considerato.
45. L'uomo che si consacra al proprio
compito[1084],
qualunque esso sia, raggiunge la perfezione[1085]. Ascolta in che
modo può raggiungerla.
46. L'uomo[1086] trova la perfezione
dedicandosi al suo compito in adorazione di Colui che ha creato questo universo[1087] e da cui tutti gli
esseri procedono.
Secondo
la filosofia della Gita, tutto procede dalla divina Esistenza, dallo Spirito
trascendente e universale; tutto è la manifestazione velata della Divinità.
Svelare l'Immortale in noi e nel mondo, vivere uniti all'Anima dell'universo,
elevarsi sino all'unità col Supremo, coscientemente, in piena conoscenza, con
volontà, con amore, in piena felicità spirituale, vivere nella più alta Natura
dello spirito, - l'essere individuale naturale, liberato dalle sue limitazioni,
diviene, per le opere della Shakti divina, uno strumento cosciente -, tale è la
condizione d'immortalità e di libertà, e anche la perfezione di cui l'umanità è
capace. Ma come è possibile tutto ciò quando siamo avvolti nella naturale
ignoranza, con l'anima rinchiusa nella prigione dell'ego, tormentata, colpita e
limitata dall' ambiente in cui viviamo, quando siamo trascinati dal meccanismo
della natura, tagliati fuori da ogni possibilità di presa sulla realtà della
nostra segreta forza spirituale? La risposta è questa, che l'azione naturale,
attualmente avvolta in un'attività velata e contraria, contiene tuttavia il
principio della propria evoluzione verso la libertà e la perfezione. Il Divino
risiede nel cuore di ognuno, il Divino, Signore dell'azione misteriosa della
natura. Ed anche se Io Spirito dell'universo, l'Uno che è il tutto, sembra
farci girare sulla ruota del mondo rappresentata dalla forza della sua màyà, come se fossimo seduti su di una
macchina (XVIII, 6t), e mediante un qualche principio meccanico, ci foggia
nella nostra ignoranza come un vaso nelle mani di un vasaio o la stoffa in
quelle del tessitore, lo Spirito è sempre il nostro supremo Sé. Secondo l'idea
reale, la verità del nostro essere, secondo ciò che in noi si sviluppa e trova
sempre nuove e più adeguate forme per esprimersi, nascita dopo nascita, nella
nostra vita animale, umana e per ultimo divina - in ciò che eravamo, siamo e saremo
-, in accordo con questa intima verità dell'anima, questo Spirito in noi ci
forma progressivamente seguendo la sua onnipotente saggezza, come scopriranno i
nostri occhi, una volta aperti. Il meccanismo dell'ego, la complessità confusa
dei guna e di tutto il resto: mente, corpo, vita, emozioni, desideri, lotte,
pensieri, aspirazioni, sforzi, azione reciproca che agisce in un circolo
chiuso, dolore e piacere, peccato e virtù, sforzo, successo e fallimento, anima
e ambiente, sé stessi e gli altri, tutto ciò non è che la forma esteriore e
imperfetta, assunta nell'uomo dalla più alta Forza spirituale, che cerca di
esprimere progressivamente, attraverso le vicissitudini, Ia realtà e la grandezza
divine, che egli è segretamente in spirito, e che si manifesteranno nella sua
natura. Una simile azione contiene in sé il principio del proprio coronamento:
il doppio principio dello svabhava e
dello svadharma (vedere versetto
seguente).
47. E meglio seguire la propria legge[1088] anche se mediocre[1089], che quella degli
altri anche se migliore[1090]. Colui che compie
il lavoro prescritto dalla propria natura essenziale[1091] non commette
peccato.
Il
jiva è una parte della manifestazione
del Purushottama. Rappresenta nella Natura il potere dello Spirito supremo e,
nella sua personalità, è questo stesso Potere; egli manifesta in un essere
individuale la potenzialità dell'Anima dell'universo. Il jiva stesso è spirito, non l'ego formato dalla Natura; lo spirito -
e non l'ego - è la nostra realtà e il principio interiore della nostra anima. È
da questo alto Potere spirituale che procede la vera forza di ciò che siamo e
possiamo essere. La maya meccanica dei tre guna non è la verità profonda e
fondamentale dei movimenti di questo Potere, non è altro che l'energia
esecutiva in atto --- un comodo meccanismo per le attività inferiori, una
sistemazione per l'esercizio esteriore e la pratica. La Natura spirituale, para prakriti, che nell'universo è
divenuta la personalità molteplice (VII, 5, 7), è la sostanza fondamentale
della nostra esistenza; tutto il resto non è che una formazione inferiore ed
esteriore, derivata da questa più alta attività nascosta dello Spirito. In
questa Natura, ciascuno di noi possiede un principio, una volontà che dirige il
suo divenire; ogni anima è una forza di coscienza che esprime l'idea che il
Divino ha collocato in essa, che guida i suoi atti e la sua evoluzione, la
progressiva rivelazione di sé, l'espressione di sé in costante evoluzione, la
sua crescita apparentemente incerta ma segretamente ineluttabile, sino alla
pienezza. È questa la nostra vera natura individuale - il nostro svabhava (VII, 7c, 8c), la verità del
nostro essere che non riesce a trovare attualmente in questo mondo che
un'espressione sempre parziale nei nostri diversi divenire. La legge d'azione
determinata da questo svabhàva è il
nostro svadharma, la vera e giusta
legge della nostra formazione, della nostra funzione e del nostro
funzionamento.
48. Non si deve rinunciare al compito
che ci è stato assegnato[1092] anche se imperfetto[1093], o figlio di Kunti,
in quanto tutto ciò che l'uomo compie[1094] è avvolto
dall'imperfezione[1095] come il fuoco dal
fumo.
Nei
tempi andati, l'eredità divenne la base pratica dell'ordine sociale. Certamente,
all'origine, le funzioni e la situazione sociali di un uomo erano determinate
dall'ambiente, dal caso, dalla nascita e dalla particolare inclinazione, come
lo sono ancora nelle comunità più libere, strettamente ordinate. Ma quando le
funzioni e la situazione si fissarono seguendo una stratificazione più rigida,
il rango venne determinato soprattutto o soltanto dalla nascita. Nel sistema di
caste che si sviluppò più tardi, la nascita divenne la sola legge della
condizione sociale. Il figlio del bramino non poteva essere che di condizione
bramina, anche se non possedeva nulla del carattere e delle qualità proprie al
suo stato - formazione intellettuale, esperienza spirituale, valore e
conoscenza religiosa -, anche se nulla lo legava alla vera funzione di questa
casta, alla sua attività e alla sua natura. Fu un'evoluzione inevitabile,
perché in un ordine sociale che diveniva ad ogni istante più meccanico, più
complesso e più convenzionale, la condizione fissata in base alla nascita era
comoda e facilmente determinabile. Durante un certo tempo, la disparità tra il carattere
ereditario fittizio e il vero carattere e l'attitudine innata dell'individuo,
fu compensata o attenuata dall'educazione e dalla formazione. Ma questo sforzo
si mitigò e la convenzione dell'ereditarietà regnò assoluta. Gli antichi
legislatori, pur riconoscendo la consuetudine dell'eredità, hanno insistito sul
fatto che la qualità, il carattere, l'attitudine erano le vere e solide basi, e
che senza di esse la condizione ereditaria era una menzogna contraria allo spirito
perché perdeva il suo vero senso. La Gita, come sempre, fonda anche il suo
pensiero sul significato interiore. È vero che nel versetto precedente parla
del lavoro nato con l'uomo, sahaja karma;
ma ciò non implica una base ereditaria. Secondo la teoria indiana della
reincarnazione, che la Gita accetta, la natura innata nell'uomo e il corso
della sua vita sono essenzialmente determinati dalle vite passate; egli
rappresenta il grado di sviluppo raggiunto grazie agli atti passati, a tutta la
sua evoluzione mentale e spirituale, e non possono dipendere unicamente dal
fattore materiale - ascendenza, Parentela, nascita fisica - che può rivestire
solo un'importanza subordinata, segno effettivo forse, ma non principio
dominante. La parola sahaja significa
ciò che nasce con l'essere, tutto ciò che è naturale, innato; in tutti gli
altri passaggi ha per equivalente svabhavaja.
Il compito e la funzione di un uomo sono determinati dalle sue qualità: il
karma è determinato dai guna; è l'attività nata dal suo svabhava-svabhavajam karma (XVIII, 42s) -, prescritta e regolata da
esso - svabhava-niyatam karma (XVIII,
47). Questa insistenza su una qualità e uno spirito interiori che trovano la
loro espressione nel compito, nella funzione e nell'azione, dà tutto il senso
possibile alla nozione di karma contenuta nella Gita. Dall'insistenza sulla
verità interiore e non sulla forma esteriore, derivano il significato e il
potere spirituali che la Gita assegna all'osservanza dello svadharma. È il senso realmente importante del passaggio.
È
assolutamente vero che nella vita, nella gran maggioranza, gli uomini
appartengono all'uno o all'altro dei quattro tipi: uomini di conoscenza, di
potere, di azione produttrice vitale, uomini dal rude lavoro e servitori. Non
sono certamente distinzioni fondamentali, ma tappe dello sviluppo umano in
noi.... Esiste sempre nella natura umana un elemento di ciascuna di queste
quattro personalità, sviluppato o no, ampio o limitato, represso o visibile in
superficie. Ma nella maggioranza degli uomini, l'una o l'altra tende a
predominare e sembra talvolta occupare tutto il campo d'azione della natura. E
in ogni società i quattro tipi devono necessariamente esistere. Se per esempio
si viene a creare una società puramente produttrice e commerciale, come si
tenta di fare nei tempi moderni, oppure una società shùdra di lavoratori, di
proletari, come quella che attira lo spirito moderno più recente e che si tenta
di edificare in una parte dell'Europa[1096]*,
mentre la si annuncia in altre parti, anche in questi casi vi saranno pensatori
alla ricerca della legge, della verità e della regola direttrice dell'intero
movimento; vi saranno capi e capitani d'industria che faranno di tutta questa
attività produttrice una scusa per soddisfare il loro bisogno di avventura, di
lotta, d'autorità e di dominio; vi saranno molti uomini del tipo puramente
produttivo e dati al guadagno; vi saranno infine gli operai medi, soddisfatti
loro modesto lavoro e del salario che viene loro corrisposto. Ma s cose
assolutamente esteriori e, se non ci fosse altro, questa economia di tipi umani
non avrebbe senso spirituale. Potrebbe significare, al massimo, come talvolta
si sostiene in India, che dobbiamo attraversare queste tappe di sviluppo nel
corso delle nascite successive; che dobbiamo inevitabilmente e progressivamente
passare attraverso la natura tamasica, quella rajasica-tamasica, rajasica o
rajasica-sattvica, per arrivare alla natura sattvica; che dobbiamo ascendere e
stabilirci in uno stato brahmico interiore
e, partendo da questa base, cercare la liberazione. Ma sarebbe logico allora
affermare, con la Gita, che anche lo shùdra
o il fuori casta può, consacrandosi al Divino, andare direttamente verso la
libertà e la perfezione spirituali.
Il
fatto è che la verità fondamentale non è la cosa esteriore che c'immaginiamo,
ma una forza attiva del nostro essere interiore: verità del quadruplice potere
in movimento della natura spirituale. Ogni jiva
possiede nella sua natura spirituale questi quattro aspetti; è a un tempo
anima di conoscenza, anima di forza e potere, anima di scambi mutui, di lavoro
e di servizio. Ma l'uno o l'altro di questi aspetti predomina nell'azione e
nello spirito dell'espressione, e colora in tal modo le relazioni dell'anima
con la sua natura incarnata; e quest'aspetto, questo potere dirige gli altri,
li marca col suo segno e li incorpora nella sua principale linea d'azione, di
tendenza e di esperienza. Lo svabhava segue
allora la legge di questa tendenza - non nel modo rigido e rozzo che osserviamo
nelle demarcazioni sociali, ma con flessibilità e con sottigliezza - e,
sviluppando questa legge, si sviluppano contemporaneamente gli altri tre
poteri. In tal modo, seguendo l'impulso al lavoro e al servizio, si sviluppa la
conoscenza, si accresce il potere, si acquisisce l'intimità e l'equilibrio
negli scambi, nell'ordine e nel metodo delle relazioni. Ogni quadruplice
aspetto del Divino progredisce verso la perfezione totale mediante l'ampliarsi
di un principio dominante della propria natura e l'arricchirsi dei tre altri. Questo
sviluppo è sottoposto alla legge dei tre guna. In tal modo esiste la
possibilità di seguire, mediante un cammino tamasico o rajasico, il dharma
dell'anima della conoscenza, e anche quella di seguire, mediante un cammino
brutalmente tamasico o altamente sattvico, il dharma del potere; ne esiste
ancora un'altra che è quella di seguire, mediante un vigoroso cammino rajasico
o una bella e nobile via sattvica, il dharma delle opere e del servizio.
Giungere alla forma sattvica dello svadharma
individuale interiore, e delle opere verso le quali questo svadharma ci dirige sul cammino della
vita, è la condizione preliminare alla perfezione. Si può infine notare che lo svadharma interiore non è legato ad
alcuna forma esteriore d'azione, sociale o altra, di impiego e di funzione.
L'anima di lavoro, o l'elemento che in noi le corrisponde e si accontenta di
servire, può, per esempio, fare di una vita di lotta e di potere o di una vita
di aiuto reciproco, di produzione o di scambio, un mezzo per soddisfare
l'impulso divino per il lavoro e il servizio.
La
Gita ci ingiunge di adorare il Divino mediante l'esecuzione dei compiti
assegnatici, il nostro lavoro, sva-karma;
ciò sta a significare che quello che facciamo deve accordarsi con la verità in
noi; è qual-cosa che non può risultare da un compromesso con le esigenze
esteriori e artificiali; dev'essere l'espressione viva e sincera dell'anima e
dei suoi poteri innati.... Possiamo quindi fare dell'azione retta dal nostro
un'adorazione della Divinità interiore, dello Spirito universale, del
Purushottama trascendente, e abbandonare in definitiva tutta l'azione fra le
sue mani, mayi sannyasya karmàni (XVIII,
57).... Adorare l'Altissimo mediante tutte le nostre attività interiori ed
esteriori, fare della nostra vita il sacrificio delle opere a Lui offerte,
significa prepararci a divenire con tutta la nostra volontà, la nostra
sostanza, la nostra natura, uno con Lui. Seguire in tal modo, nella nostra
presente natura, la verità vivente e intima dell'anima, ci aiuterà infine a raggiungere
la verità immortale della stessa anima in ciò che è attualmente Natura suprema
e sovracosciente.... Allora, andando oltre le limitazioni dei tre guna, andremo
anche oltre la divisione dell'ordine quadruplice e oltre le limitazioni di ogni
dharma specifico, sarva-dharmàn
parityajya (XVIII, 66).... In questa suprema Natura, potremo vivere in
unità con Dio, col nostro vero Sé, con tutti gli esseri e, divenuti perfetti,
diventare lo strumento senza errori dell'azione divina nella libertà del dharma
immortale.
L'Istruttore
ha dato praticamente tutto il suo insegnamento; ha esposto tutti i principi
centrali del suo messaggio, presentato tutte le suggestioni e le implicazioni
fondamentali, chiarito i principali dubbi e i quesiti di maggiore importanza
che potevano sorgere; gli rimane ora da esprimere in parole decisive,
penetranti, l'essenza stessa del suo messaggio, del suo vangelo. Vedremo che
quest'ultima parola, questo coronamento, non è soltanto l'essenza di tutto ciò
che è stato detto, non soltanto una descrizione condensata della disciplina
necessaria - la sadhana - e della
grande coscienza spirituale che rappresenterà il risultato di tutti i nostri
sforzi e della nostra ascesi. La sua ultima parola raggiunge orizzonti molto
più lontani e spazza via, per cosi dire, distrugge o rovescia ogni limite e
ogni regola, ogni canone e ogni formula, aprendoci a una vasta verità
spirituale, illimitata, con significati pieni d'infinite possibilità. È il
segno della profondità della Gita, della vasta portata e dell'elevazione
spirituale del suo insegnamento....
La
Gita riprende dapprima il suo messaggio, ne riassume le grandi linee e
l'essenza nel corto spazio di quindici versetti, brevi e concentrati
nell'espressione e nel senso, che non omettono nulla di ciò che è fondamentale
e lo presentano in formule di precisione e chiarezza perfettamente limpide.
Questi versetti devono essere letti con
cura, sondandone il senso profondo alla luce di tutto ciò che li precede,
perché evidentemente sono destinati a far scaturire ciò che la Gita stessa
considera come il significato centrale del suo insegnamento.
L'esposizione
incomincia dal punto di partenza originale del pensiero del libro: l'enigma
dell'azione umana, la difficoltà appa-rentemente insormontabile di vivere nel
Sé e nello Spirito supremi pur continuando a vivere nel mondo. La più facile
soluzione è di Considerare il problema insolubile, di abbandonare la vita e
l'azione considerandole un'illusione e un movimento inferiore dell'esistenza,
che devono essere lasciati non appena possibile, svincolandoci dall'errore del
mondo per elevarci alla verità dell'essere spirituale. È la soluzione ascetica
- se tuttavia può essere chiamata una soluzione. Non si può negare che non sia
un mezzo decisivo ed efficace per sfuggire all'enigma, un mezzo a cui il più
alto e meditativo pensiero indiano dei tempi passati aveva accordato una
preferenza sempre più grande, non appena aveva incominciato a scivolare lungo
la ripida china che l'allontanava dalla prima ampia e libera sintesi. La Gita, come
il Tantra, e come, in un certo modo, le ulteriori religioni indiane, tenta di
preservare l'antico equilibrio, mantenendo la sostanza e il fondamento della
sintesi originale, ma rinnovandone la forma alla luce di un'esperienza
spirituale in continuo sviluppo. Il suo insegnamento non evita il difficile
problema di conciliare la vita pienamente attiva dell'uomo con la sua vita
interiore nel Sé e nello Spirito supremo, e propone ciò che essa crede essere
la vera soluzione. Non nega l'efficacia della rinuncia ascetica alla vita in
favore dello scopo particolare che persegue, ma vede che tale soluzione taglia
il nodo anziché scioglierlo; ed è per questo che la considera un metodo
inferiore e dà la preferenza al proprio. Le due vie ci conducono fuori
dall'abituale natura ignorante per portarci alla pura coscienza spirituale e,
fino a quel punto, dobbiamo considerarle tutte e due valide e nella loro
essenza come una sola; ma, mentre una si arresta e ritorna sui propri passi, l'altra
avanza con ferma sottigliezza e gran coraggio, aprendoci una porta su orizzonti
inesplorati; essa perfeziona l'uomo in Dio, unisce e riconcilia nello Spirito
l'anima e la Natura.
Per
questo, nei primi cinque versetti che seguono, la Gita si esprime in formule
che possono essere applicate alle due vie - quella della rinuncia interiore e
quella della rinuncia esteriore -, esprimendosi tuttavia in modo tale che basta
assegnare, a qualcuna delle espressioni in comune, un senso più profondo per
raggiungere il pensiero e il significato del metodo che la Gita preferisce.
49. Colui che ha separato' da tutto
la propria intelligenza, che ha conquistato il sé' e abbandonato il desiderio,
raggiunge, mediante la rinuncia", la suprema perfezione4 del non-agire'.
asakta-buddhi.
jita-àtma (VI, 7).
sannyasa.
siddhi.
naishkarmya, lo stato del non-agire (III, 4).
L'ideale
della rinuncia, di una calma acquisita mediante il dominio di sé, di una
passività spirituale e del rifiuto del desiderio, si ritrova in tutta l'antica
saggezza. La Gita ne dà la base psicologica con una chiarezza e un'integralità
mai superate. L'esperienza, comune a tutti coloro che cercano di conoscere sé
stessi, c'insegna che esistono in noi due nature diverse e, se si può dire, due
“sé”. Il sé inferiore dell'oscura Natura mentale, vitale e fisica, legata
all'ignoranza e all'inerzia nella sostanza stessa della sua coscienza, e
particolarmente nella base materiale, che la forza di vita rende cinetica e
vitale, ma che manca del potere di dominarsi e di conoscersi nell'azione;
questa Natura raggiunge certamente qualche conoscenza e qualche armonia
mentale, ma a prezzo di sforzi difficili e mediante una lotta continua contro
le proprie insufficienze. Vi sono, inoltre, la Natura e il Sé superiori del nostro
essere spirituale, che loro stessi si possiedono e si illuminano, ma che sono
inaccessibili all'esperienza della nostra comune mentalità. Ci giungono a volte
lampi di questa “Cosa” più grande che è in noi, ma di cui non siamo coscienti
perché non viviamo nella sua luce, nella sua calma, nel suo splendore senza
limiti. La prima di queste due Nature, ben distinte, è ciò che la Gita chiama
la Natura dei tre guna. La sua visione è concentrata nel senso dell'ego, il suo
principio d'azione è il desiderio nato dall'ego, e il nodo dell'ego è
l'attaccamento agli scopi della mente, dei sensi e del desiderio vitale. Da
tutto ciò deriva un risultato costante e inevitabile: la schiavitù, la
soggezione permanente a un dominio inferiore, l'assenza della padronanza di sé
stessi, della conoscenza di sé. L'altra - il grande potere, la grande presenza
- è Natura e puro Essere-Spirito, che non dipende dall'ego - ciò che la
filosofia indiana chiama il Sé e il Brahman impersonale. Il suo principio è
un'esistenza infinita e impersonale, immobile e immutabile perché è senza ego,
senza qualità che la condizioni, senza desiderio, senza necessità o impulsi; eternamente
uguale, osserva e sostiene l'azione dell'universo senza parteciparvi, senza
esserne la causa. L'anima, quando si precipita nell'attività della Natura
(inferiore), è lo kshara della Gita,
il Purusha mobile e mutevole; la stessa anima, raccolta e ritirata nel Sé puro
e silenzioso, nello Spirito essenziale, è l'akshara,
il Purusha immobile e immutabile.
La
rinuncia è la via della suprema perfezione, e l'uomo che ha rinunciato
interiormente a tutto è descritto dalla Gita come il vero sannyasi. Ma dato che questa parola implica abitualmente anche la
rinuncia esteriore e talvolta solo quella, il Maestro impiega un'altra parola, tyaga, per indicare in modo specifico la
rinuncia interiore, e dice che tyàga è
preferibile a sannyasa. L'asceta ama
la rinuncia per quello che rappresenta in sé stessa e insiste sull'abbandono
esteriore della vita e dell'azione per raggiungere la quiete completa dell'
anima e della natura. Questa rinuncia, risponde la Gita, non è interamente
possibile finché viviamo in un corpo. Nei limiti delle possibilità, è lecita,
ma una così rigorosa diminuzione delle opere non è indispensabile e,
normalmente, neppure consigliabile. La sola cosa necessaria è una completa
quiete interiore, ed è questa la totalità del senso che la Gita attribuisce
alla parola naishkarmya.
Ma
perché cedere all'impulso dinamico, quando il nostro scopo è quello di divenire
il puro Sé c che questo puro Sé è presentato come inattivo, akarta? La risposta è che questa
inattività, questo divorzio del Sé dalla Natura, non costituisce tutta la
verità della liberazione spirituale. Il Sé e la Natura sono, a conti fatti, una
sola cosa; una spiritualità totale e perfetta unifica il Sé e la Natura nel
Divino. Entrare nel Sé di eterno silenzio, divenire il Brahman, brahma-bhúya (XVIII, 53), non è il
nostro solo punto di arrivo; non è che l'immensa base necessaria per un
divenire più grande e più meravigliosamente divino, mad-bhava (XIII, 19). E per
raggiungere questa più grande perfezione spirituale, dobbiamo divenire, in
tutte le parti del nostro essere, immobili nel Sé silenzioso, ma continuare ad
agire secondo il potere dello Spirito - Shakti, Prakriti -, secondo Ia sua alta
e vera forza. E se ci domandiamo come è possibile la simultaneità di ciò che
sembra essere in opposizione, la risposta è che questa è appunto la natura di
un essere spirituale completo, egli contiene in sé il doppio equilibrio dell'infinito....
Una
volta ammesso che l'assoluta quiete interiore è il mezzo necessario per
riuscire a vivere nel puro Sé impersonale, un nuovo quesito si presenta: in che
modo questo mezzo conduce, in pratica, a tale risultato?
50. In che modo, dopo aver ottenuto
questa perfezione[1097], egli raggiunge il
Brahman, imparalo brevemente da Me, o figlio di Kunti. È la suprema
consacrazione[1098] della conoscenza[1099].
La
conoscenza di cui qui si parla è quella dello yoga dei sankhyani - lo yoga della pura conoscenza, jnanayogena sankhyanam (III, 3), che la Gita accetta nella misura
in cui è uno col proprio voga e che comprende anche la via delle opere degli
yogi, karma-yogena yoginam. Per il
momento non si tratta delle opere, in quanto per Brahman s'intende qui il
Silenzioso, l'Impersonale, l'Immutabile. Veramente, per la Gita, come per le
Upanishad, il Brahman non è soltanto un Infinito impersonale, un assoluto
impensabile e incomunicabile, achintyam
avyavaharyam; è tutto ciò che possiede essere, vita e movimento.
"Tutto ciò è Brahman," dice ''Upanishad; "Tutto è
Vàsudeva," dice la Gita. Il supremo Brahman è tutto ciò che si muove e
tutto ciò che è immobile; le sue mani, i suoi piedi, i suoi occhi, le sue teste
sono intorno a noi. Tuttavia, questo Tutto ha due aspetti: un Sé immutabile,
eterno, che sostiene l'esistenza, e un Sé di potere attivo che si muove ovunque
nel movimento del mondo. Soltanto quando perdiamo la limi-tata personalità del
nostro ego nell'impersonalità del Sé, otteniamo l'unità calma e libera,
mediante la quale si rende possibile l'unità vera con il potere universale del
Divino nel suo movimento cosmico.
L'impersonalità
nega ogni limitazione, ogni divisione, e il culto dell' impersonalità è lo
stato naturale dell'esistenza vera, l'indispensabile preludio alla conoscenza
vera e la condizione preliminare dell'azione vera. Risulta chiaro che non è
insistendo sulla personalità del nostro ego che possiamo divenire uno col tutto
o con lo Spirito universale e con la sua vasta conoscenza di sé, con la sua
complessa volontà e il suo ampio disegno cosmico, in quanto questa personalità
limitata ci separa dal resto e fa di ciascuno di noi un essere in catene,
concentrato su sé stesso nella sua visione e nella sua volontà d'azione.
Imprigionati nella personalità, non possiamo avere che una limitata unione con
gli altri, mediante la simpatia oppure adattandoci relativamente al loro punto
di vista, ai loro sentimenti e volontà. Per essere uno con tutti, e col Divino
e la sua volontà nel cosmo, dobbiamo dapprima divenire impersonali e liberarci
dall'ego, dalle sue esigenze e dal suo modo di vedere - di vederci e di vedere
il mondo e gli altri. E non potremo giungervi se nel nostro essere non esiste
qual-cosa d'altro che la personalità e l'ego: un Sé impersonale uno con tutte le
creature. È la ragione per cui, perdere l'ego ed essere questo Sé impersonale,
divenire il Brahman impersonale, è il primo movimento di questo yoga.
51-53. Unificando l'intelligenza
purificata[1100]
[con la pura sostanza spirituale in lui], dominando l'intero essere[1101] con ferma e stabile
volontà, ritirandosi dagli affetti e dall' avversione[1102], distaccato dal
suono[1103]
e dagli oggetti dei sensi, vivendo nella solitudine e nella sobrietà, padrone
del suo pensiero[1104], della sua parola e
del suo corpo, sempre impegnato nello yoga della meditazione[1105], rifiutando il
desiderio, l'attaccamento[1106], e in tal modo
libero dal senso dell'ego[1107], dalla violenza,
dall'arroganza, dal desiderio, dalla collera[1108], senza nulla
possedere e senza egoismo[1109], in pace[1110], un tale uomo è
pronto a divenire il Brahman[1111].
Il
continuo ricorso alla meditazione è un mezzo sperimentato, attraverso il quale
l'anima può realizzare il suo Sé di potere e il suo Sé di silenzio. Tuttavia
l'uomo non deve abbandonare la vita attiva per un cammino di pura meditazione;
egli deve agire sempre, compiendo l'azione quale offerta, in sacrificio allo
Spirito supremo. Il ritirarsi del sannyasi
prepara l'annullamento dell'individuo nell'Eterno, e la rinuncia all'azione
e alla vita nel mondo è una tappa indispensabile del procedimento. Ma nella via
del tyaga, indicata dalla Gita, vi è
piuttosto una preparazione alla trasformazione dell'intera vita e di tutti gli
atti in un'unione integrale con l'essere, con la coscienza e con la volontà del
Divino; precede lo svincolarsi dell'anima dalla soggezione all'ego inferiore e
le permette l'ascesa completa e definitiva verso la perfezione. inesprimibile
della suprema Natura spirituale, parti prakriti.
Questa
svolta decisiva nel pensiero della Gita è indicata nei due versetti che
seguono; l'ordine delle idee che vengono espresse nel primo di questi, è di
grande importanza.
54. Chi è divenuto il Brahman[1112] e che, nella
serenità del suo sé[1113], né si affligge né
desidera, uguale[1114] verso tutti gli
esseri, ottiene l'amore e la devozione supremi[1115] per Me.
Nella
stretta via della conoscenza, la devozione per la Divinità personale, bhakti, non può essere che un movimento
inferiore e preliminare; il punto finale, il risultato, è dato dalla scomparsa
della personalità in un'ineffabile unità col Brahman impersonale, unità in cui
la bhakti non può aver posto, perché
non vi è più né adoratore né adorato tutto il resto si perde nell'identità
silenziosa e immobile del jiva e
dell'atman. Qui (nello yoga della Gita) ci viene offerto qualcosa di più alto
dell'Impersonale: vi troviamo il supremo Sé che è anche il supremo Ishvara; vi
troviamo l'Anima suprema e la suprema Natura; vi troviamo il Purushottama che è
situato oltre il Personale e l'Impersonale e che tutto armonizza sulle sue
eterne sommità. La personalità dell'ego scompare ancora nel silenzio
dell'Impersonale, ma allo stesso tempo, con il silenzio come fondo, sussiste
l'azione di un supremo Sé, più grande dell'Impersonale. L'azione inferiore,
cieca e zoppicante dell'ego e dei tre guna, non esiste più; al suo posto si
svolge il vasto movimento che risulta dall'autodeterminazione di una forza
spirituale infinita, di una Shakti libera
e fuori da tutte le dimensioni umane. L'intera natura diviene il Potere del
Divino unico; ogni azione diviene la sua azione e si compie con l'individuo
quale canale e strumento. Al posto dell'ego, il vero individuo spirituale passa
in primo piano, cosciente e manifesto, con la libertà della sua vera natura,
con il potere del suo stato supremo, con la maestà e lo splendore della sua
eterna identità di natura col Divino, particella imperitura della Divinità
suprema, potere indistruttibile della suprema Prakriti.
55. Mediante la devozione[1116] egli conosce la Mia
unica realtà[1117], la Mia
molteplicità[1118] e i Miei principi[1119]; conoscendoMi nei Miei
principi, entra immediatamente in Me[1120].
L'Uno
che diviene eternamente il Molteplice, il quale, apparente-mente diviso, rimane
eternamente uno, l'Altissimo che svolge in noi questo segreto, questo mistero
dell'esistenza, che non è né disperso dalla sua molteplicità né limitato dalla
sua unità, è l'esperienza conciliatrice, la conoscenza integrale che rende
l'uomo capace di un' azione libera, muktasya
karma (VI, 16-23).
Questa
conoscenza ci viene, dice la Gita, dalla bhakti
suprema. La otteniamo quando la mente supera sé stessa in una visione
super-mentale, in un'alta visione spirituale delle cose, e quando anche il
cuore si eleva simultaneamente oltre le nostre forme mentali, che ignorano
l'amore c la devozione, sino all'amore calmo, profondo e luminoso di una vasta
conoscenza, sino alla felicità suprema in Dio, all'adorazione che nulla può
limitare, all'estasi che nulla può turbare - l'ananda spirituale. Quando
l'anima, spogliata dalla personalità separatrice, è divenuta Brahman, allora,
ma allora soltanto, può vivere nella vera Persona, può raggiungere le supreme
rivelazioni della bhakti dirette
verso il Purushottama, può giungere a conoscerLo perfettamente mediante il
potere di questa devozione, di quest'amore profondo e, di questa conoscenza del
cuore....
L'anima
dell'uomo liberato entra in tal modo nel Purushottama grazie alla conoscenza
riconciliatrice; penetra in Lui mediante la perfetta felicità simultanea del
Divino trascendente, del Divino nell' individuo e del Divino nell'universo, mam vishate tad-anantaram. L'uomo
diviene uno con Lui nell'esperienza e nella conoscenza che ha di sé stesso, uno
con Lui nel suo essere, nella sua coscienza, nella sua volontà, nella sua
conoscenza del mondo e dell'impulso del mondo in lui, uno con Lui nell'universo
e nell'unità con tutte le creature dell'universo, e uno con Lui oltre
l'universo e l'individuo nella trascendenza dell'eterno Infinito, shashvatam padam avyayam (XVIII, 56). È
il vertice della bhakti suprema, il
cuore stesso della suprema conoscenza.
Vediamo
adesso chiaramente in che modo il continuare l'azione ogni specie di azione -,
senza diminuire o abbandonare alcuna attività della vita, può non soltanto
essere perfettamente compatibile con l'esperienza spirituale suprema, ma
divenire anche un mezzo, un mezzo tanto potente, per raggiungere il supremo
stato spirituale, quanto lo sono l'amore e la devozione. Non può farsi
affermazione più categorica di quanto lo faccia qui la Gita.
56. Continuando ad agire[1121], dimorando in Me[1122], la Mia grazia gli
farà raggiungere l'indistruttibile eterna dimora[1123].
Quest'azione
liberatrice possiede il carattere delle opere fatte nella profonda unione della
volontà e di tutte le parti dinamiche della nostra natura con il Divino in noi
e con il Divino nel cosmo. Dapprima è compiuta come un sacrificio, con l'idea
che il sé ne sia l'autore. Poi viene compiuta senza questa idea, con la
percezione di Prakriti quale solo autore. Viene compiuta infine con la
conoscenza che Prakriti è il supremo Potere del Divino e con la rinuncia e l'abbandono
al Divino di tutte le azioni, l'individuo essendo solo un canale e uno
strumento. Le nostre opere procedono allora diretta-mente dal Sé e dal Divino
in noi; esse fanno parte dell'indivisibile azione universale, vengono
affrontate e compiute non da noi, ma dalla Shakti trascendente e senza limiti.
Allora, tutto ciò che facciamo è fatto per amore del Signore che risiede nel
cuore di tutti, per il Divino nell'individuo e per il compiersi della sua
volontà in noi, per l'amore del Divino nel mondo, per il bene di tutti gli
esseri, per il compimento dell'azione e dell'intenzione cosmiche, in una
parola, per l'amore del supremo Purusha. il Purushottama, Colui che realmente
opera attraverso la sua Shakti universale. Queste opere divine non sono un
legame, qualunque possa essere la forma o il carattere esteriore; sono
piuttosto un potente mezzo di elevazione oltre la Prakriti inferiore dei tre
guna sino alla perfezione della Natura suprema, divina e spirituale. Svincolati
dai dharma confusi e limitati, ci rifugiamo nel dharma immortale, che si rivela
a noi quando diveniamo uno col Purushottama, in tutta la nostra coscienza e in
tutte le nostre azioni. Questa unità, realizzata qui sulla terra, ci dà il
potere di elevarci lassù, nell'immortalità oltre il tempo. Là, esisteremo
nell'eterna trascendenza.
L'essenza
dell'insegnamento e dello yoga è in tal modo rivelata da Krishna al discepolo
sul campo di battaglia - il campo della sua battaglia, del compito che gli è
stato assegnato - e il divino Istruttore la sta applicando alla sua azione in
modo da renderla valevole per tutte le azioni. Le parole che pronuncia, perché
legate a un esempio fatidico, perché dette al protagonista della grande
battaglia di Kurukshetra, hanno una portata molto più vasta e un significato
molto più universale; esse divengono una regola di condotta per tutti coloro
che sono pronti a elevarsi sopra la comune mentalità, per vivere e agire nella
più alta coscienza spirituale.
57. AssumendoMi quale supremo scopo[1124], abbandona
coscientemente[1125] a Me[1126] tutti i tuoi atti
e, ricorrendo allo yoga della volontà e dell'intelligenza[1127], mantieni il tuo
cuore e la tua coscienza[1128] stabilmente fissi
in Me.
Questi
versi racchiudono l'essenza stessa dello yoga della Gita e conducono all'esperienza
che ne è il coronamento; dobbiamo comprenderli nel loro spirito più profondo e
in tutta l'immensità della loro alta vetta di esperienza. Le parole esprimono
il più completo rapporto, il più intimo, il più vivo che possa esistere fra Dio
e l'uomo; sono animate dalla forza concentrata del sentimento religioso che
scaturisce dall'essere umano in adorazione assoluta, dal perfetto dono di sé,
senza riserve, fatto al Divino universale e trascendente da cui l'uomo procede
e in cui vive. L'insistenza di cui questo senti-mento è l'oggetto si accorda
interamente con l'importante posto che la Gita assegna alla bhakti, l'amore per
Dio, l'adorazione dell' Altissimo, quale spirito e movente interiore
dell'azione suprema, quale coronamento e cuore stesso della suprema conoscenza.
Le formule impiegate, tutte vibranti di emozione spirituale, sembrano accordare
la più grande importanza, la più alta preminenza alla verità e alla presenza
personale della Divinità. Non è l'Assoluto astratto dei filosofi, non la Presenza
impersonale e indifferente e neppure un ineffabile Silenzio che non tollera
relazione alcuna, ai quali possiamo abbandonare completamente le nostre opere e
con cui l'intima, stretta unione, in tutte le parti della nostra esistenza
cosciente, possa essere imposta quale condizione e legge della nostra
perfezione, o di cui l'intervento, la protezione e la liberazione divini siano
la promessa. Solo il Maestro delle nostre opere, l'Amico, l'Amante della nostra
anima, lo Spirito intimo della nostra vita, il Signore che dimora in noi e
sopra la nostra natura e il nostro sé personale e impersonale, può pronunciare
per noi questo messaggio vicino e commovente.
58. Se ad ogni istante il tuo cuore e
la tua coscienza sono fermamente stabiliti in Me[1129], la Mia Grazia[1130] ti farà superare
tutti i passaggi difficili e pericolosi; ma se a causa del tuo ego[1131] rifiuti di
ascoltare, cadrai nella perdizione.
Mediante
una stretta e perpetua intimità di tutta la nostra coscienza - coscienza del
cuore, mentale e totale - con l'Eterno, otterremo la più vasta, la più profonda
e integrale esperienza dell'unione con Lui. Una stretta unità in tutto l'essere
- sempre profondamente individuale nella sua passione divina, anche in seno
all'universalità, anche nelle più elevate sommità della trascendenza - è il
mezzo proposto all'anima umana per raggiungere l'Altissimo e possedere la
perfezione e la coscienza divine a cui la propria natura la chiama come
spirito. L'intelligenza e la volontà devono volgere la loro intera esistenza
verso l'ishvara, verso il Sé divino, il divino Maestro di tutte le esistenze. I
sensi spiritualizzati devono vederlo, ascoltarlo e sentirlo ovunque; la vita
non dev'essere che la sua vita nel jiva; tutte le azioni devono procedere dalla
sua sola iniziativa, dal suo solo potere nella volontà, nella conoscenza, negli
organi di azione, nei sensi, nelle parti vitali dell'essere e nel corpo. Questa
via è profonda-mente impersonale perché il separatismo dell'ego è abolito e
l'anima universalizzata ricupera la sua trascendenza. E tuttavia è una via
intimamente personale perché si eleva a una passione e a un potere trascendenti
d'interiorità e di unità. Un'estinzione che non lasci tracce è forse ciò che la
logica mentale esige nel perseguire l'annulla-mento del sé, ma non è l'ultima
parola del supremo mistero, rahasyam
uttamam.
Non
è mediante il nirvana, inteso come esclusione ed estinzione negativa di tutto
ciò che siamo quaggiù, che quest'ultima perfezione, questa liberazione nello
spirito, può venire; ma è mediante il nirvana, inteso come esclusione ed
estinzione dell'ignoranza e dell'ego,
e
mediante tutto ciò che ne risulta: con la pienezza ineffabile della nostra
conoscenza, della nostra volontà e dell'aspirazione del nostro cuore, elevate e
vissute senza limiti nel Divino, con una trasfigurazione, un trasferimento di
tutta la nostra coscienza a un più alto stato interiore.
Il
nodo del problema spirituale - il carattere di questa transizione di cui la
mente comune può così difficilmente afferrare il vero senso - riposa interamente
sulla distinzione capitale fra la vita ignorante dell'ego nella natura
inferiore e l'esistenza vasta e luminosa del jiva nella sua vera natura
spirituale. La rinuncia alla prima dev'essere completa, il passaggio alla
seconda assoluto. Su questa distinzione la Gita si appoggia con tutta
l'insistenza possibile. Da una parte, la povera condizione di una coscienza
egoistica, trepidante e pretenziosa, la limitazione paralizzante di una piccola
personalità separativa, impotente, che abitualmente c'impone i nostri modi di
pensare e di agire, di sentire e di reagire nei contatti con l'esistenza;
dall'altra, le vaste distese spirituali in cui regnano la pienezza, la felicità
e la conoscenza immortali, e dove siamo ammessi all'unione con l'Essere divino,
che da quel momento esprimiamo e manifestiamo nella luce eterna, invece di
travestirlo mediante l'oscurità della nostra natura egoistica.
59. Ti nascondi dietro il tuo egoismo[1132] e dici: "Non
combatterò." La tua risoluzione è vana, la tua natura ti costringerà.
60. Ciò che, nella tua confusione[1133], non vuoi fare, o
figlio di Kunti, lo farai tuo malgrado, trascinato dagli stessi atti nati dalla
tua natura essenziale[1134].
Il
rifiuto di Arjuna, di perseverare nel compito che il Divino gli ha assegnato,
proviene dal suo ego, ahankàra.
Dietro questo rifiuto agisce una mescolanza, una confusione e un aggrovigliarsi
d'idee e d'impulsi dell'ego sattvico, rajasico e tamasico - la natura vitale
che teme il peccato e le conseguenze personali, il cuore che cede davanti alla
sofferenza e all'afflizione individuali, la ragione offuscata che ricopre gli
impulsi egoistici mediante argomenti speciosi e illusori sul diritto e la
virtù, la natura ignorante che rifiuta le vie del Signore perché le sembrano
diverse da quelle degli uomini e perché impongono al suo essere emotivo e
nervoso e alla sua intelligenza azioni terribili e penose. Adesso che una
verità più alta, uno spirito più grande nell'azione gli sono stati rivelati,
se, persistendo ancora nel suo egoismo, Arjuna mantenesse un impossibile e vano
rifiuto, le conseguenze spirituali sarebbero per lui infinitamente più gravi di
prima. Questo rifiuto è una vana risoluzione, un futile indietreggiamento, in
quanto proviene da un abbandono momentaneo della propria forza, da
un'aberrazione passeggera, anche se poderosa, del principio di energia del suo
profondo carattere, che non risponde alla vera volontà, al vero indirizzo della
sua natura. Se in quel momento getta le armi, sarà ugualmente costretto dalla
sua natura a riprenderle quando vedrà la battaglia e il massacro continuare
senza di lui e la sua rinuncia causare la disfatta di tutto ciò per cui ha
vissuto sino a quel momento, e la causa che è venuto a servire su questa terra
indebolirsi e vacillare per colpa della sua inattività per l'assalto cinico e
senza scrupoli dei campioni dell'ingiustizia e della slealtà egoistica. E nel
suo voltafaccia non vi sarà nessuna virtù spirituale. È la confusione d'idee e
di sentimenti che proviene dalla mente egoistica che lo spinge verso il rifiuto;
ciò che lo condurrebbe ad annullare questo rifiuto sarebbe ancora il
ristabilirsi delle idee e dei sentimenti caratteristici di questa stessa mente
egoistica. Qualunque sia la decisione, la persistenza dell'assoggettamento
all'ego significherebbe un rifiuto spirituale peggiore ed ancor più funesto -
la perdizione; in quanto sarebbe cadere definitivamente da una verità più
elevata di quella sino ad ora seguita, nell'ignoranza della sua natura
inferiore. È stato ammesso a partecipare a una coscienza più alta, a una nuova
realizzazione; gli è stata mostrata la possibilità di un'azione divina al posto
di una egoistica; gli sono state aperte le porte di una vita spirituale e
divina, affinché abbandoni la vita soltanto intellettuale, emotiva, sensuale c
vitale. È chiamato ad essere non più uno strumento cieco, ma un'anima cosciente
e un potere illuminato - un veicolo della Divinità.
61. Il Signore[1135], o Arjuna, risiede
nel cuore di tutti gli esseri; mediante la sua màyà[1136] li fa muovere in
circolo come se fossero seduti su di una macchina[1137].
Quando
penetriamo nel più profondo Sé della nostra esistenza, scopriamo che in noi e
in tutto risiede lo Spirito unico, la Divinità che tutta la Natura serve e
manifesta; che noi stessi siamo anima di quest'Anima, spirito di questo
Spirito; che il nostro corpo è l'immagine che ci ha affidato di Lui stesso, la
nostra vita un movimento del suo ritmo di vita, la nostra mente un involucro
della sua coscienza, i nostri sensi í suoi strumenti, le nostre sensazioni e le
nostre emozioni la ricerca della sua gioia d'essere, le nostre azioni un mezzo
per adempiere i suoi disegni, la nostra libertà soltanto un'ombra,
un'impressione, un lampo, finché viviamo nell'ignoranza, ma quando Lo
conosciamo e conosciamo noi stessi, un prolungamento, un canale effettivo della
sua libertà immortale. Il dominio che abbiamo di noi stessi è il riflesso del
suo potere all'opera; la nostra più chiara conoscenza, una parte della sua luce
di conoscenza; la più poderosa e più alta volontà del nostro spirito, una proiezione,
una delegazione della volontà del suo Spirito in tutto, Signore e Anima
dell'universo. Il Signore che risiede nel cuore di ogni creatura, per tutta la
durata della nostra ignoranza, in ogni atto interiore ed esteriore, ci ha fatto
muovere come se fossimo montati su di una macchina, sulla ruota della màyà
della Natura inferiore. E per Lui in noi, e per Lui nel mondo esistiamo,
oscuramente nell'ignoranza o luminosamente nella conoscenza. Vivere
consciamente e integralmente in questa conoscenza e in questa verità significa
liberarsi dall'ego e sfuggire alla màyà. Gli altri dharma, anche i più elevati,
non sono che una preparazione per questo fine, ogni yoga non è che il mezzo per
permetterci di raggiungere un abbozzo di unione per poi, alla fine, se abbiamo
la piena luce, condurci all' unione integrale col Signore, con l'Anima e col Sé
supremi della nostra esistenza.
62. Rifugia[1138] tutto il tuo essere[1139] in Lui, o Bhàrata.
La sua grazia ti condurrà alla pace suprema[1140] e all'eterna dimora[1141].
Raggiungere
le alte sommità dello yoga significa rifugiarsi lontano dalle perplessità e
dalle difficoltà della nostra natura, nel Signore che dimora nell'intimo della
Natura, rivolgersi a Lui con tutto il nostro essere - vita, corpo, sensi,
mente, cuore e intendimento - e dedicare a Lui la nostra conoscenza, la nostra
volontà e tutto il nostro agire, in tutte le vie del nostro sé cosciente e
dello strumento che è la nostra natura. E quando vi possiamo accedere ad ogni
istante e totalmente, la Luce, l'Amore e il Potere divini prendono possesso di
noi, riempiono il sé e i suoi strumenti e ci fanno attraversare senza danno i
dubbi, le difficoltà, le perplessità, i pericoli che assediano la nostra anima
é la nostra vita, per condurci alla pace suprema e alla libertà spirituale del
nostro stato immortale ed eterno.
63. Ti ho così rivelato la conoscenza[1142] più segreta di
tutti i segreti[1143]. Considerala senza
nulla omettere e agisci secondo la tua scelta.
64. Ascolta ancora la Mia parola
suprema[1144],
la più segreta di tutte. Tu sei profondamente[1145] il mio amato[1146], e per questo
parlerò per il tuo bene.
Dopo
aver dato tutte le leggi, tutti i dharma del suo yoga e averne esposto la più
profonda essenza, dopo avere affermato che, oltre tutti i segreti rivelati alla
mente dalla luce trasformatrice della conoscenza spirituale, esiste una verità
più profonda e più segreta ancora, la Gita dichiara improvvisamente che rimane
tuttavia da rivelare la parola suprema, un'altra verità, la più segreta di
tutte. Questo segreto dei segreti, l'Istruttore lo rivelerà ad Arjuna come il
dono più grande che possa concedergli, perché egli è l'anima prescelta e
l'amato. Come l'ha detto l'Upanishad[1147]*,
solo il raro essere a cui lo Spirito decide di svelarsi integralmente, sino
nella sua forma fisica, tanum svàm, può
essere ammesso a questo mistero[1148]**,
perché lui solo è nel suo cuore, nella sua mente e nella sua vita, così vicino
al Divino da poter rispondere interamente al mistero che gli viene svelato e
vivere in esso. L'ultima parola della Gita, l'ultima e sublime parola che
contiene il più alto mistero, è data in due brevi versetti, semplici e diretti,
lasciati senza né sviluppo né commento, affinché possano penetrare nella mente
e rivelare la pienezza del loro significato attraverso l'esperienza dell'anima.
Solo l'esperienza interiore in continuo sviluppo può rendere manifesta l'eterna
ricchezza del senso e delle parole in apparenza così leggere e semplici. Una
volta pronunciate, sentiamo che era per farle capire che il Maestro aveva
preparata, tutto quel tempo, l'anima del discepolo, mentre il resto non era che
disciplina e dottrina, per aiutarla e illuminarla.
Ecco
il mistero dei misteri, il più alto e il più diretto messaggio dell'Ishvara:
65. Col tuo pensiero[1149] costantemente
rivolto a Me, sii il Mio devoto[1150]; offriMi i tuoi
sacrifici[1151]
e prostèrnati davanti Me[1152]. In tal modo tu
verrai a Me; la Mia promessa è solenne, perché Mi sei caro.
66. Abbandona tutti i dharma[1153] e rifúgiati[1154] in Me solo. Ti
libererò da ogni peccato[1155], non ti crucciare.
La
Gita si dilunga con insistenza su di una disciplina ampia e ben costruita dello
yoga, su di un sistema filosofico, comprensivo e chiaramente tracciato, sullo svabhava e svadharma, su di una regola di vita sattvica che superi sé stessa,
che esalti e raggiunga il libero dharma di una vasta coscienza immortale e si
diffonda nello spazio oltre i limiti di sattva, il più alto dei guna - su molte
regole, mezzi, ingiunzioni e condizioni di perfezione. Improvvisamente, sembra
sfuggire alla propria strutturazione, quando dice all'anima umana:
"Abbandona tutti i dharma, datti al Divino solo, alla suprema Divinità che
sta in alto, intorno e dentro di te; è ciò di cui hai bisogno, la via più vera,
la più grande, la reale liberazione." Il Signore dei mondi, sotto la forma
del divino Auriga e Maestro di Kurukshetra, ha rivelato all'uomo le magnifiche
qualità di Dio, del Sé e dello Spirito, la complessità della natura nel mondo e
il vero rapporto fra lo Spirito e la mente, la vita, il cuore e i sensi
dell'uomo, e i mezzi mediante i quali la disciplina e lo sforzo spirituali
possono permettergli di elevarsi vittoriosamente dalla condizione mortale
all'immortalità, di superare la propria mente limitata per entrare
nell'esistenza spirituale e infinita. E adesso, Spirito e Divinità nell'uomo e
in tutto, gli dice: "Alla fine
potrai fare a meno di tutto questo sforzo personale e di questa disciplina;
potrai smettere di osservare e di limitarti a qualsiasi regola e dharma,
rifiutandoli come un fardello e un ingombro, a condizione che tu riesca ad
abbandonarti interamente a Me, a dipendere soltanto dallo Spirito, dalla
Divinità in te e in tutto e ad aver fiducia in Essa come sola guida. Volgi la
tua mente verso di Me e occupala soltanto col Mio pensiero e con la Mia
presenza. Volgi il tuo cuore verso di Me, famMi il sacrificio e l'offerta di
tutti i tuoi atti, quali che siano. Ciò fatto, abbandona alla Mia volontà la
tua vita, la tua anima e la tua azione; non affliggerti, non preoccuparti del
modo in cui tratto la tua mente, il tuo cuore, la tua vita e le tue opere, e
non turbarti se ti sembra che ciò non segua le regole e i dharma che l'uomo
s'impone per guidare la sua volontà e intelligenza limitate. Le mie vie sono le
vie di una saggezza, di un potere e di un amore perfetti che tutto conoscono e
che combinano tutti i loro movimenti in vista di un perfetto risultato a venire
- in quanto affinano e tessono i numerosi fili di una perfezione integrale.
Sono qui vicino a te sul carro di battaglia. Mi sono rivelato Maestro della tua
esistenza e di tutte le esistenze, e torno a darti l'assicurazione formale,
l'infallibile promessa di condurti a Me attraverso e oltre ogni dolore e ogni
male. Quali che siano le difficoltà e le perplessità che sorgeranno, stai certo
che ti condurrò verso una completa vita divina nello Spirito universale e ad
un'esistenza immortale nello Spirito trascendente."
Ma
affinché tutto ciò possa realizzarsi pienamente, c'è bisogno, specifica la Gita,
di un abbandono senza riserve. Il nostro yoga, la nostra vita, il nostro stato
interiore devono essere liberamente determinati da questo Infinito vivente, e
non predeterminati dall'insistenza mentale su tale o talaltro dharma, o anche
dall'idea che sia necessario seguire un dharma. Allora il divino Maestro dello
yoga, yogeshvara krishna (XVIII, 75),
prenderà lui stesso la responsabilità del nostro yoga e ci eleverà alla più
alta perfezione di cui siamo capaci, non alla perfezione di un modello
esteriore, di una norma mentale o di una regola limitata, ma ad una perfezione
vasta e totale, inaccessibile alla mente. Sarà la perfezione sviluppata da una
Saggezza che abbraccia tutto secondo una completa verità, perfezione del nostro
svabhàva umano dapprima, e subito
dopo perfezione di una cosa più grande sulla quale essa si aprirà: spirito e
potere senza limiti, liberi, che tutto trasmutano, luce e splendore di
un'infinita natura divina.
Ecco
dunque la parola suprema, la più segreta di tutte: lo Spirito, il Divino è un
Infinito libero da tutti i dharma, e benché conduca il mondo secondo leggi
fisse, e l'uomo mediante i dharma umani dell'ignoranza e della conoscenza, dei
vizi e delle virtù, della giustizia e dell'ingiustizia, dell'attrazione, della
ripulsione e dell'indifferenza, del piacere e del dolore, della gioia e della
sofferenza, e anche tramite i] rifiuto di tutte queste opposizioni, mediante le
regole, le forme, le norme fisiche e vitali, intellettuali ed emotive, morali e
spirituali, tuttavia Io Spirito, il Divino trascende tutto ciò; e se noi pure
riusciamo a rifiutare la dipendenza da un qualsiasi dharma, ad abbandonarci a
questo Spirito eternamente libero, e se, attenti soltanto a mantenerci aperti
esclusivamente a Lui, giungiamo a fidarci della luce, del potere e della gioia
del Divino in noi e, senza timore né rimpianto, ad accettare la sua sola
direzione, allora per noi è la vera, la grande liberazione, e la perfezione
assoluta del nostro sé e della nostra natura seguirà inevitabilmente. Tale è la
via offerta agli eletti dello Spirito, a coloro in cui Egli trova la più grande
gioia, perché molto vicini a Lui e capaci di unirsi e di essere simili a Lui
(IX, 11c) - di dare il loro accordo e il loro concorsa alla natura nel suo
movimento e nel suo potere più elevati, di essere universali nella loro
coscienza d'anima, trascendenti nel loro spirito.
67. Mai devi ripetere queste parole a
chi conduce una vita senza austerità[1156] o senza devozione[1157], a chi non si
consacra a servire; e neppure a chi Mi disprezza o Mi abbassa [Io che dimoro
nel corpo umano].
68. Colui che, con la più grande
devozione per Me, diffonderà fra i Miei devoti[1158] questo supremo
segreto[1159],
senza dubbio alcuno verrà a Me.
69. In quanto nessuno può fare più di
lui ciò che Mi è grato, e nessuno sulla terra Mi sarà più caro[1160].
70. Chi studierà questa sacra[1161] conversazione Mi
offrirà [ciò mediante] il sacrificio della conoscenza[1162].
71. Colui che pieno di fede[1163] l'ascolterà senza
vana critica[1164], raggiungerà,
liberato[1165],
il mondo radioso[1166] dei giusti[1167].
72. Figlio di Prithà, hai tu
ascoltato le Mie parole con attenzione concentrata[1168]? La confusione [del
tuo spirito], nata dall'ignoranza[1169], si è dissipata, o
Conquistatore di Tesori?
Arjuna disse:
73. La confusione[1170] è sparita, o
Incrollabile, e, mediante la Tua grazia[1171], ho ricuperato la
memoria[1172].
Eccomi qui, deciso, l'incertezza mi ha abbandonato, agirò secondo la Tua
parola.
L'intero
yoga è stato rivelato, l'ultima parola dell'insegnamento pronunciata. Arjuna,
l'anima umana eletta, si è di nuovo rivolto verso l'azione divina, non più
questa volta con la sua mente egoistica, ma con la più grande conoscenza di sé
che ha potuto acquisire. Potere del Divino, vibhuti, egli è pronto a vivere una
vita divina in seno alla vita umana; spirito cosciente, è pronto a eseguire
l'opera dell'anima liberata, muktasya karma. L'illusione che turbava la sua
mente si è dissipata; l'anima ha ricuperato la memoria del suo Sé e della sua verità,
da tanto tempo velati dalle apparenze e dalle forme ingannevoli della vita
umana, assimilandoli alla sua coscienza normale; liberata dai dubbi e dalle
perplessità, essa può dedicarsi all'esecuzione dell'ordine ricevuto e compiere
fedelmente, per Dio e per il mondo, ogni opera che le assegnerà e prescriverà
il Maestro del suo essere - lo Spirito, il Divino che realizza Sé stesso
nell'universo e nel tempo.
Sanjaya disse:
74. In tal modo, mentre Vàsudeva[1173] e Pàrtha[1174], il magnanimo[1175], parlavano,
ascoltavo la sublime conversazione rabbrividendo d'emozione[1176].
75. Grazie a Vyàsa[1177], ho sentito la
rivelazione del supremo segreto[1178] dello yoga,
direttamente da Krishna, il divino Maestro dello yoga[1179]. Lui stesso l'ha
proclamato.
76. O Re, ricordandomi, ricordandomi
senza posa questo sublime, sacro[1180] dialogo fra Arjuna
e il Dio dai lunghi capelli[1181], la mia gioia
cresce e cresce ancora.
77. Ricordandomi, ricordandomi anche
di quella prodigiosa forma[1182] di Hari[1183], grande, o Re, è la
mia meraviglia, e la mia gioia cresce e cresce ancora.
78. Là dov'è Krishna, il Maestro
dello yoga, là dov'è Pàrtha, l'arciere, immancabili sono la gloria, la vittoria
e la prosperità e anche l'immutabile legge della giustizia.
Il
segreto dell'azione - cosi si potrebbe riassumere il messaggio della Gita - è
identico al segreto della vita e dell'esistenza. L'esistenza non è un semplice
meccanismo della Natura, un ingranaggio di leggi in cui l'anima si trova presa
per un attimo o per intere epoche - è la continua manifestazione dello Spirito.
La vita non esiste per solo amore della vita, ma per Dio, e l'anima vivente
dell'uomo è un eterno frammento della Divinità. L'azione non esiste soltanto
per i suoi frutti apparenti, esteriori, nel presente e nell'avvenire; essa ha
un senso che è la scoperta di sé, il compimento di sé, la realizzazione di sé.
Le cose hanno un significato e una legge interiori che riposano sulla natura
suprema del Sé e sulla sua natura manifestata; la vera verità delle opere si
trova precisamente lì, e le forme apparenti ed esteriori della mente e
dell'azione non possono rappresentarla che incidentalmente, imperfettamente e
con le deviazioni proprie dell' ignoranza. La suprema legge d'azione, la più
vasta delle leggi, senza difetto, non è quindi quella di seguire una norma, un
dharma esteriore, ma di scoprire la più alta e la più profonda verità della
nostra stessa esistenza e di vivere in essa. Fino a quel momento,
necessariamente, tutta la vita, tutta l'azione è difficoltà, lotta, problema.
Solo quando avrete scoperto il vostro vero Sé e vivrete secondo la sua vera
verità, la sua reale realtà, potrete risolvere il problema, superare la
difficoltà e la lotta, e fare della vostra azione, resa perfetta nella sicurezza
del Sé e dello Spirito così scoperti, un' autentica azione divina.
"Conoscete quindi il vostro Sé,
sappiate che il vostro vero Sé è Dio e uno con il Sé di tutti; sappiate che la
vostra anima è una particella di Dio. Vivete allora ciò che conoscete, vivete
nel Sé, vivete nella vostra suprema natura spirituale, siate uno con Dio e
simili a Dio. Dapprima, offrite tutte le vostre azioni in sacrificio al Supremo
e all'Uno in voi, al Supremo e all'Uno nel mondo; subito dopo rimettete fra le
sue mani tutto ciò che siete e che fate, affinché lo Spirito supremo compia
attraverso di voi la sua volontà e le sue opere nel mondo. Tale è la soluzione
che vi propongo, e vedrete che, in definitiva, non ve ne sono altre."
QUI
FINISCE LA BHAGAVAD GÌTA.
GLORIA
A SRI KRISHNA! CHE TUTTI SIANO FELICI!
[1] Bankim Chandra Chatterji (1838-1894). Scrittore bengalese, autore di romanzi storici e del Banda Mataram, l'inno rivoluzionario indiano. Ha esercitato una grande influenza per il risveglio nazionale del popolo indiano.
[2] (Lokmanya) Bel Gangadhar Tilak (1856-1920). Patriota marathi, ardente capo rivoluzionario degli estremisti; si è trovato al fianco dì Sri Aurobindo nei moti per l'indipendenza indiana del primo decennio del secolo. Ha scritto, tra l'altro un ampio commento alla Bhagavad Gita.
[3] Il potere mantrico della Gita.
[4] Romain Rolland.
[5] Pron.: Ghita.
[6] Albin Michel - Paris.
[7] Le Yoga de la Bhagavad Gita, Tchou - Paris, 1969.
[8] Fra il 1966 e il febbraio del 1973 era uscito a puntate sulla pubblicazione trimestrale domani, Sri Aurobindo Ashram - Pondicherry.
[9] Una leggenda narra (Bhishma-parva, cap. I) che Vyasa, il presunto autore del `Mahàbharata', incontrandosi col re cieco Dhritaràshtra poco prima dello scoppio delle ostilità, gli chiese se volesse riavere la vista, Per vedere coi propri occhi l'andamento della battaglia. Dhritaràshtra rifiutò perché non si sentiva capace di assistere a una simile carneficina. Pregò Vyasa di fare in modo che gli avvenimenti gli fossero fedelmente riportati. Vyasa accettò e conferì assaggiai a un potere di visione superiore al normale, ordinandogli di riferire al vecchio re tutti i particolari del combattimento. Rivolgendosi poi via di trascinar tra gli disse: "O Re, Sanjaya ti dirà tutto ciò che concerne questa guerra. Egli saprà tutto, tutto ciò che è visibile e ciò che è segreto, ciò che avviene di notte e ciò che avviene di giorno; saprà anche leggere i pensieri nella mente; le armi non lo feriranno e la fatica non l'offuscherà".
[10] ' Bisogna rammentarsi che tutta la tradizione dei Purana attinge dal Tantra la ricchezza del suo contenuto.
[11] 2 Si dice che Chaitanya, l'avatàr di Nadiyà, sia cosi
stato posseduto, in modo parziale e saltuario, dalla coscienza e forza divine.
[12] 2 Gli asura sono i titani della mitologia indiana,
coloro che lottano contro gli dèi (sura). La loro caratteristica è il potere,
un potere violento e diretto verso fini egoistici.
[13] Disciplina spirituale.
[14] Significa, letteralmente, ciò cui ci si può afferrare e che mantiene le cose unite; la legge, la norma, la regola naturale di vita, la regola di condotta e di vita.
[15] Yoga.
[16] La coscienza di Brahman, la coscienza che racchiude in sé la cono¬scenza per identità della Realtà suprema.
[17] Il dharma dello yuga (età, ciclo) attuale.
[18] kshara, che è mutevole, soggetto a cambiamento.
[19] akshara, immutabile, immobile, che è sopra ogni
cambiamento.
[20] Oltre i guna.
[21] Rudra, il Violento, il Terribile, in opposizione all'aspetto benevolente di Shiva (N. d. T.).
[22] ahimsa, non-violenza.
[23] Si tratta qui della Trinità: Brahma, Vishnu, Shiva
(Maheshvara), Creatore, Preservatore, Distruttore (N. d. T.).
[24] Scritto alla fine del conflitto mondiale 1914-1918 (N. d. T.)
[25] Ahimsa.
[26] Guna.
[27] Sankhya, Yoga, Vedanta sono i nomi di tre sistemi filosofici classici dell'India. Tuttavia, nell'epoca in cui la Gità fu redatta, questi sistemi esi¬stevano come idee e tendenze, piuttosto che come teorie definite e scuole filosofiche organizzare. Tale precisazione intellettuale si verificò soltanto in epoche posteriori.
[28] Le altre due sono, da una parte, le Upanishad, dall'altra, il Brahma-Sutra.
[29] È forse interessante notare che la scienza moderna distingue cinque
stati della materia: solide, liquida, gassoso, ionizzato (plasma), energia
radiante (onde e corpuscoli) (N. d. T.).
[30] Nella
Mundaka Upanishad, II, cap. I, II:
"Anche se l'akshara è supremo, vi è un Purusha divino che gli è
superiore."
[31] Lett., "un frammento di me stesso", XV, 7.
[32] Il vecchio e cieco re dei Kaurava chiede al suo auriga, Sanjaya, di narrargli cosa avviene sul campo di battaglia.
[33] Il campo dei Kuru.
[34] Il dharma è la legge profonda che determina le azioni e i rapporti fra gli individui e i popoli; dharmakshetra, il campo del dharma, può esser preso nel senso proprio — il campo dove i Kuru celebravano i loro riti religiosi — e dharma significa in tal caso la legge religiosa e sociale; ma l'espressione può ricevere un senso più profondo e profetico, ed essere allora interpretata come la grande battaglia che sta per scatenarsi, da cui dipende l'avvenire dell'India. Sri Aurobindo insiste su questo senso.
[35] I Kaurava, i cento figli di Dhritarashtra e i loro alleati.
[36] I cinque figli di Pandu, Arjuna e i suoi quattro fratelli.
[37] Figlio di Dhritarashtra e usurpatore del trono.
[38] Drona, che aveva insegnato l'arte della guerra ai principi dell'uno e l'altro campo.
[39] Maestro.
[40] Drupada è il re di Panchala, suo figlio è Dhrishtadyumna e la figlia Draupadi, la sposa in comune dei cinque Pandava.
[41] Fratello di Arjuna.
[42] L'attuale Benares.
[43] La moglie di Arjuna; il figlio è Abhimanyu.
[44] In tal modo vengono chiamati gli appartenenti alle tre più alte caste: bramini, kshatriya, vaishya. Sono stati iniziati alla vita dello Spirito.
[45] Il vecchio guerriero pieno di saggezza che istruì Dhritaràshtra Pàndu, suoi nipoti.
[46] Fratellastro di Arjuna.
[47] Cognato di Drona.
[48] Figlio di Drona.
[49] Bhishma.
[50] Strumento ricavato da una grossa conchiglia, dal suono grave e potente, ancora in uso nei templi dell'India.
[51] Sposo di Lakshmi, uno dei nomi di Vishnu, applicato qui a Krishna, il suo Avatàr.
[52] Figlio di Pàndu, Arjuna.
[53] Che domina i sensi, Krishna.
[54] La Potentissima; lett., che risuonò nei cinque mondi (o stati d'essere); gli antichi davano volentieri un nome alle loro armi (la spada Durandal di Orlando) ed anche ad altri oggetti del loro equipaggiamento guerresco.
[55] Conquistatore di tesori, Arjuna.
[56] Ventre di lupo, soprannome dato a Bhima (allusione al suo appetito); Yudhishthira, Bhima, Nakula e Sahadeva, sono i quattro fratelli di Arjuna.
[57] Hanumàn.
[58] Incrollabile, uno dei nomi di Vishnu; dato a Krishna.
[59] Duryodhana.
[60] Che domina il sonno, Arjuna.
[61] Discendente di Bharata, Dhritaràshtra. Bharata è un avo in comune dei Kaurava e dei Pàndava, che ha dato il nome all'India, Bhàrata.
[62] Prithà è uno dei nomi di Kunti, la madre di Arjuna.
[63] L'arco di Arjuna.
[64] Dai lunghi capelli, Krishna.
[65] Possessore di vacche o Che possiede la luce, Che dà l'illuminazione, Krishna; secondo il doppio senso della parola vedica, in cui go significa vacca e luce.
[66] Uccisore di :Madhu; si ritiene che Krishna abbia vinto e ucciso l'asura Madhu.
[67] Terra, mondo intermedio, cielo.
[68] Liberatore di uomini, Krishna.
[69] kula-dharma, il dharma della famiglia o del clan. La parola dharma significa in questo caso: dovere, regola di vita, di condotta, legge morale, sociale o religiosa. È il senso più esteriore.
[70] a-dharma, l'assenza di doveri, di regola di vita, la licenziosità, il disordine. Arjuna, nella sua ignoranza, considera assolute ed eterne le leggi, i costumi e le convenzioni sociali, morali o religiose del suo tempo. In realtà esse sono contingenti e temporali, e non possono essere una guida sicura nelle grandi crisi dell'anima.
[71] I Vrishni erano un clan dell'epoca; Krishna.
[72] Il sanscrito varna viene generalmente tradotto con casta; ma in India il sistema attuale delle caste è una degenerescenza dell'antico chaturvarna, il quadruplice ordine della comunità ariana che assegnava ad ogni casta — almeno in teoria — un compito conforme alla profonda natura individuale. Le donne avevano il compito di conservare le abi¬tudini e le tradizioni familiari. Dalla loro integrità dipendeva la stabi¬lità dell'ordine sociale.
[73] L'inferno indù, naraka, non è eterno.
[74] Le offerte rituali di riso e d'acqua, come gli stessi riti funebri, hanno come scopo di aiutare gli antenati defunti (pitri) nell'ascesa verso il loro nuovo soggiorno (pitriloka). Secondo un punto di vista più generale, le offerte e i sacrifici sono il simbolo dell'unione fra le diverse genera¬zioni, dell'interdipendenza di tutti gli esseri, vivi o morti, dei, uomini o animali.
[75] Il dharma della razza, jàti-dharma.
[76] Dono degli dèi per il fatidico avvenimento.
[77] Forza ostile del mondo mentale.
[78] Terrore dei nemici. Nome dato ad Arjuna. Lett., colui che consuma i nemici.
[79] Distruttore dei nemici. Nome dato a Krishna.
[80] guru.
[81] il senso del bene e del male, dharma.
[82] sura.
[83] Krishna (I- 15 e 32).
[84] Krishna
[85] Arjuna (I-24)).
[86] Sanjaya si rivolge sempre a Dhritaràshtra.
[87] Parole che sembrano sagge, ma a cui manca il senso profondo della saggezza.
[88] dehi: lett., che ha o che possiede un corpo, l'abitante del corpo, l'anima incarnata.
[89] Arjuna
[90] Discendente di Bharata, In questo caso, Arjuna.
[91] Arjuna,
[92] tat, `Quello', designa iI Brahman immutabile, in opposizione a idam, 'questo', l'universo manifestato.
[93] Figlio di Pritha, Arjuna.
[94] L'anima incarnata (II, 13).
[95] Lo si dice: nella Scrittura rivelata, shruti; i Veda e le Upanishad.
[96] a-vyakta, non-manifestato, inespresso.
[97] Segno di potere, epiteto assegnato ad Arjuna.
[98] bhutani, pl. di bhúta, etimologicamnte, `divenire'; designa gli esseri, le creature.
[99] dharma, conforme al dharma, giusto, legittimo.
[100] svadharma, la legge d'azione propria di ciascuno.
[101] Conforme al dharma.
[102] svadharma.
[103] buddhi (f.): intelligenza, intendimento, conoscenza razionale; principale facoltà dell'uomo normale; in questo senso ha due funzioni: conoscenza e volontà; Sri Aurobindo la chiama talvolta la volontà intelligente (si veda Gloss.).
[104] Sànkhya e Yoga: all'epoca della Gita rappresentavano piuttosto correnti di pensiero filosofico che sistemi bene stabiliti (si veda Gloss.).
[105] karma: l'azione (con tutte le sue conseguenze), le opere.
[106] La pratica di questo yoga, anche se solo in parte.
[107] Arjuna.
[108] I partigiani del vedavada, della stretta osservanza alle prescrizioni vediche.
[109] Lett., nella nascita.
[110] buddhi.
[111] samadhi, concentrazione della volontà e del pensiero, spinta fino all'identificazione assoluta con il Sé.
[112] I tre guna, modi o qualità della natura: tamas, rajas, sama (si veda Gloss. sotto la parola guna).
[113] Le coppie: piacere e dolore, perdita e guadagno, eccetera.
[114] Lett., "sii il possessore del Sé - àtmavan".
[115] Brahmana, nome della più alta delle quattro caste, quella dei sacerdoti e degli insegnanti.
[116] L'unione col sé superiore, il Brahman.
[117] buddhi-yukta; può anche essere tradotto come "colui che mediante l'intelligenza ha raggiunto l'unità (unendosi al Sé)".
[118] moha; particolarmente la credenza che un certo numero di formule o di regole, date una volta per sempre, possano contenere a racchiudere l'eterna verità (il dharma immortale).
[119] Chiara allusione alle Scritture rivelate, shruti, lett., "quello che si è udito".
[120] La perfetta contemplazione (II, 44).
[121] sthitaprajna; prajna, saggezza, comprensione luminosa.
[122] manas, la mente sensoria, che fa la Sintesi delle sensazioni e le trasforma in percezioni; diversa da buddhi, l'intelligenza.
[123] atman.
[124] L'abitante del corpo, l'anima incarnata.
[125] rasa, sapore, gusto o disgusto.
[126] panini drishtvà , quando il Supremo è visto.
[127] O, Mi sia interamente consacrato. Il lettore dovrà distinguere d'ora in poi i due sensi che vengono dati alla parola sé: il sé inferiore, o ego, formazione passeggera della Natura; il Sé (generalmente con l'articolo), Sé superiore o vero Sé, eterno, unico, immutabile, impersonale, illimitato, atman; quando Krishna dice, lo, Me, Mi (con maiuscola), significa il Divino, il Supremo che parla attraverso la bocca dell' Avatar.
[128] yukta.
[129] Lett., "che desidera il desiderio".
[130] brahmi sthiti, lo stato, la condizione brahmica, lo stato di stabilità in Brahman.
[131] buddhi, l'intelligenza (II, 39).
[132] Arjuna.
[133] naishkarmya; non è l'inazione, ma uno stato in cui non si subiscono le conseguenze dell'azione che si è compiuta.
[134] sannyàsa, generalmente interpretata (secondo il sànkhya) come la rinuncia alla vita del mondo e delle opere.
[135] siddhi:, perfezione, realizzazione dell'unione divina, scopo delle yoga.
[136] Prakriti.
[137] * Vedi Gloss, alla parola Tuona; gli shakta sono gli adoratori di Shakti.
[138] Accanto ai cinque sensi, organi di conoscenza, la fisiologia indiana mette cinque organi d'azione, le cui funzioni sono: l'afferrare, la locomozione, l'assimilazione, l'escrezione, la procreazione.
[139] karma-yoga.
[140] niyatam karma, l'azione prescritta. Sri Aurobindo non accetta l'interpretazione corrente, seconda la quale si tratta dell'azione prescritta dallo sinistra (Scritture sacre), e in modo specifico del regolare compi-mento dei sacrifici, delle cerimonie e dei doveri familiari e sociali della vita vedica; per lui il senso di questo versetto si ricollega ai versetti precedenti. L'espressione niyatam karma viene ripresa al capitolo XVIII, che ne chiarisce completamente il significato.
[141] sharira yàtrà; la frase significa che anche per mantenere la vita fisica si esige l'azione.
[142] Brahmà.
[143] Prajapati, il Creatore, mitica vacca di Indra da cui si può mungere tutto ció che si desidera.
[144] bhavaya, tradotto di solito con nutrire, possiede anche il senso di voler bene, aiutare, proteggere ed anche quello di mantenere, accrescere e nutrire.
[145]deva.
[146] Sotto l'aspetto di kshara, ossia come creatore e promotore delle opere della Natura.
[147] akshara, il Brahman immutabile, immobile, silenzioso 'samam ara amai' .
[148] karya karma, fatto per il bene del mondo, come viene chiaramente indicato nel versetto seguente.
[149] Re di Mithilà (città o regno nella valle del Gange); padre di Sità, la sposa di Rama. Egli governò con grande saggezza, libero dalla condizione in cui l'agire è un fatto personale.
[150] loka-sangraha significa il mantenimento dei popoli in un tutto coerente, allo scopo di evitare che, cedendo alla confusione e alla discordia, giungano alla distruzione. Loka vuol dire popolo(i) o mondo(i).
[151] Fisico, vitale e mentale, compresi i più alti mondi mentali.
[152] * Il Signore, il supremo Brahman, il supremo Sé, che possiede a un tempo l'immutabile unitá e la mutevole molteplicità.
[153] vidvan, colui che ha la conoscenza.
[154] loka-sangraha (III, 20).
[155] Lett., che non in conoscono il tutto.
[156] adhyatma.
[157] “A Me, Krishna, il Supremo”.
[158] svadharma.
[159] Varslmeya, uno dei soprannomi di Krishna (l, 41).
[160] Kama.
[161] krodha.
[162] L'attività, la passione, uno dei tre guna.
[163] papma, che spinge verso il peccato.
[164] jnana.
[165] kàma-rupa
[166] manas, la mente sensoria.
[167] Buddhi.
[168] L'abitante del corpo.
[169] Bharata (al plurale), il popolo discendente da Bharata, i Bharata.
[170] jnana-vijnàna.
[171] Il sé naturale inferiore, l'ego.
[172] Il vero Sé, l'àtman, Purusha; la distinzione dei due sé è data III, 29c.
[173] Il Dio-Sole.
[174] Il Padre e legislatore degli uomini.
[175] Capo della dinastia solare.
[176] rajarshii, rishi (saggi o veggenti) della casta degli kshatriya.
[177] bbakta, adoratore, devoto; colui che segue la via della devozione.
[178] uttama rahasya.
[179] Ishvara.
[180] Prakriti.
[181] maya, potere di manifestazione e di creazione delle forme; si tratta qui di un'azione cosciente (vidyà-mayd) del Divino nella manifestazione fenomenica.
[182] dharma, legge, ordine, giustizia.
[183] adharma, anarchia, disordine, ingiustizia.
[184] bhava, stato d'essere, coscienza o natura interiori.
[185] * Nella tradizione buddista, il nome della madre del Buddha – Màyà - rende chiaro il simbolismo; nella tradizione cristiana, il simbolo sembra essersi attaccato, attraverso un procedimento comune nella creazione dei miti, alla madre umana di Gesù di Nazaret.
[186] bhajami; il verbo bhaj implica la presenza di un forte elemento emotivo: amore, fervore, gioia.
[187] Questa universalità verrà espressa ancora più esplicitamente (IX, 23-29).
[188] siddhi, riuscita, compimento, perfezione.
[189] I deva o devata sono forme e personalità dell'unica Divinità.
[190] karma, nel senso di attività, compito, funzione, dovere.
[191] kartà, colui che fa, che agisce. a-karta.
[192] vedi la spiegazione di naishkarmya, III, 4.
[193] moksha.
[194] karma.
[195] a-karma.
[196] Fatta male, fuori luogo.
[197] yukta.
[198] buddha, risvegliato, cosciente, saggio.
[199] yata-chitta-atma; china, la sostanza del pensiero, la coscienza mentale; atman, il sé (inferiore), l'anima (di desiderio), il cuore.
[200] chetas, più specialmente la coscienza mentale.
[201] La cosa offerta.
[202] In colui che offre il sacrificio.
[203] Il fuoco del sacrificio, agni.
[204] samadhi, una concentrazione spinta sino all'identificazione.
[205] I deva, forme e aspetti dell'Unico, come Indra e altre divinità vediche; il sacrificio è fatto in questo caso per rendere propizi gli dèi.
[206] Il fuoco del sacrificio; l'antico rito è allora compiuto con diverso motivo, come offerta all'unico Divino.
[207] samyama, padronanza di se, disciplina interiore.
[208] Prana
[209] tapas, la concentrazione delle energie dell'anima su di uno scopo spirituale.
[210] Come il pranayama, il dominio del respiro e dell'energia vitale.
[211] pranayama.
[212] prana.
[213] apana.
[214] prana, corrente d'energia vitale, suddivisione e ramificazione del soffio vitale.
[215] amrita (v. III, 13c).
[216] Il sacrificio, secondo la concezione della Gita, sia quello della conoscenza o qualsiasi altro, non è rinuncia, non riduzione, ma compimento. Offrendo al Divino l'opera che si compie strettamente uniti a Lui, permettiamo alla coscienza e all'energia divine di darle il pieno senso e il posto che le compete nell'opera cosmica.
[217] Non una conoscenza inferiore, ma la conoscenza del Sé, del Brahman.
[218] la conoscenza.
[219] La sottomissione al guru, i servizi che gli si rendono a casa sua e le domande che gli si sottopongono, sono le tre occupazioni principali del discepolo.
[220] tattva, principio, essenza.
[221] moha, illusione, confusione.
[222] Atman
[223] Cioè in Krishna, l'incarnazione del Supremo
[224] bhuta, esseri, creature, esistenze; etimologicamente, i divenire.
[225] tat-para.
[226] diman; in questo caso, anima inferiore, anima di desiderio.
[227] karma-sannyàsa.
[228] karma yoga.
[229] Colui che ha fatto voto di rinuncia sannyasa), monaco asceta errante.
[230] yoga yukta = yogena yukta.
[231] Gli organi di percezione e gli organi d'azione.
[232] Lett., per la purificazione del sé (inferiore).
[233] vukta.
[234] dehi, [abitante del corpo II, 13)
[235] Cioè interiormente e non esteriormente.
[236] Il corpo, che ha sette aperture nella testa e due nella parte inferiore; si i spesso alla parola purusha l'etimologia di: colui che risiede nella città.
[237] Prabhu, il Brahman in quanto Signore di tutto.
[238] sva-bhava, la natura individuale, propria di ciascuno.
[239] Vibhu, il Brahman personale, che pervade tutto l'essere.
[240] Vedi commento al versetto seguente.
[241] atma jnana.
[242] tat-para.
[243] Tat, `Quello', il Brahman impersonale e senza attributi (II, 17).
[244] Il fuoricasta, l'intoccabile, il paria.
[245] In questa vita.
[246] samam, uguale, identico (in tutto e verso tutto).
[247] sukha, gioia, felicità.
[248] sukha, gioia, felicità.
[249] budha, l'uomo dall'intelligenza sveglia.
[250] brahma-bhuta.
[251] brahma-nirvana (II, 72c).
[252] rishi, colui che vede la verità, il veggente, il saggio.
[253] yati, coloro che praticano il dominio di sé tramite lo voga e l'austerità.
[254] chetas, coscienza mentale.
[255] Lett., è tutt'attorno.
[256] pràna e apana (IV, 29, 30).
[257] moksha, liberazione dall'ignoranza e da tutte le sue conseguenze, in particolare, dal ciclo delle rinascite.
[258] mukta.
[259] Maheshvara, grande signore.
[260] tapasya o tapas
[261] L'interpretazione tradizionale di sannyasa è la rinuncia alla società alle opere; il sannyasi, che ha fatto voto di sannyàsa, e quindi esente dal dovere di compiere il sacrificio e di seguire i riti.
[262] karyam-karma, il lavoro da svolgere.
[263] sankalpa, facoltà di decisione, risoluzione.
[264] karana.
[265] shama, la calma serena.
[266] sankalpa (VI, 2n).
[267] Nel testo originale, i due sé dell'uomo - il sé inferiore o ego, e il se superiore o Sé (III, 29c) - vengono designati con lo stesso termine sanscrito, atman, ciò che dà a questo versetto e a quello che segue l'apparenza di un enigma.
[268] Il sé è nemico del sé se seguiamo l'impulso del desiderio e mettiamo in avanti la nostra volontà egoistica; egli diviene invece amico se cerchiamo di dominarlo e di unirci al Divino.
[269] parama-atma.
[270] In samadhi.
[271] jnana-vijnana (III, 41).
[272] yukta, che ha raggiunto l'unione col Divino.
[273] sama (V, 18-20).
[274] chitta, la sostanza mentale, la sostanza del pensiero.
[275] kusha, erba utilizzata in diversi riti vedici.
[276] chitta.
[277] Lett., per la purificazione del sé (inferiore)
[278] Fissare lo sguardo sulla punta del naso provoca una autoipnosi che facilita la concentrazione e la meditazione.
[279] o brahmacharya, così definito: assenza di relazioni sessuali nel pensiero, nella parola e nell'azione. In tutte le discipline spirituali la castità è indispensabile in quanto l'energia sessuale è una specializzazione, rivolta verso il basso, dell'energia universale (Shakti) per il fine della procreazione materiale. Quando viene diretta verso l'alto, diviene nello yoga una corrente attiva e conduce alta liberazione spirituale.
[280] yukta.
[281] Lett., assumendoMi come supremo scopo.
[282] In Me, in Krishna, il Supremo.
[283] yukta, unificato, unito, equilibrato.
[284] chitta, la sostanza mentale, la coscienza mentale.
[285] yukta, unito al Sé.
[286] yoga.
[287] La cessazione dell'attività mentale, il silenzio mentale.
[288] ukham atyantikam, la felicità innata descritta nel IV, 20c.
[289] buddhi.
[290] tattva.
[291] sankalpa (VI, 2n).
[292] Brahma-bhúta (V, 24).
[293] yoga-yukta-atma (V, 6-8, 21).
[294] V, 18-20.
[295] Qui, Mi, Me, si riferiscono a Krishna, l'Avatar, il Supremo (II, 61n).
[296] bhajati; il verbo bhaj implica un movimento d'intensa devozione e di amore (IV, 11).
[297] parama.
[298] Arjuna.
[299] abhyasa, esercizio regolare.
[300] vairagya, distacco, rifiuto delle passioni, indifferenza verso la vita e il mondo.
[301] yoga-samsiddhi, la perfezione totale nello yoga
[302] In questo caso, Krishna.
[303] Lett., decaduto dalle due parti; in altre parole: non ha forse perduto la vita mentale e quella dell'attività umana, che ha abbandonato per perseguire la coscienza brahmica a cui aspirava e che non ha potuto raggiungere?
[304] buddhi-samyoga (II, 50).
[305] shabda-brahman, la Rivelazione, specialmente i Veda; l'impulso interiore è cosi forte che lo yogi non ha più bisogno dell'aiuto della parola scritta.
[306] tapasvi. , colui che pratica austerità.
[307] jnani, colui che possiede la conoscenza.
[308] karmi.
[309] bhajati (VI, 31n).
[310] shraddha.
[311] yutra.
[312] jnana-vijnana
[313] I cinque elementi, condizioni o stati della materia.
[314] manas, la mente sensoria.
[315] buddhi (II, 39).
[316] ahankàra, il senso dell'ego.
[317] (III, 42C).
[318] apara (prakriti).
[319] parà prakriti.
[320] jiva-bhutà, che diviene il jiva; jiva, jivàtman, la vera anima individuale, il Sé individuale.
[321] bhuta, divenire, esseri, creature.
[322] prabhava, manifestazione, nascita.
[323] pralaya, riassorbimento, dissoluzione.
[324] Ciascuno dei cinque sensi corrisponde a uno dei cinque elementi.
[325] pranava, la sillaba sacra, simbolo del Brahman (XVII, 23).
[326] bhuta.
[327] Rapasvi
[328] tapas.
[329] bija, germe, semenza.
[330] tejas.
[331] bhàva, tradotto qui per `divenire', designa la natura individuale di un essere, specialmente la sua natura soggettiva, il suo temperamento; bhàva designa anche i moti passeggeri di coscienza, gli stati d'animo o di spirito, le reazioni dell'intelligenza, del senso morale, del sentimento, degli stessi sensi - in breve, ogni divenire soggettivo di un mondo in perpetuo divenire; i bhàva vengono generati dalla mutua azione dei tre guna, modi o qualità della natura - e possono essere classificati secondo il guna che in essi predomina.
[332] mohita, sperduto, disorientato, illuso.
[333] bhava (vedi nota al versetto precedente).
[334] Potere di creazione, forza d'illusione (vedi commento al versetto precedente).
[335] Illusione (VII, 13 e 14).
[336] asuram bhavam; gli usura sono esseri del mondo invisibile, ostili agli dei e al progresso spirituale dell'uomo.
[337] sukriti, virtuosi, morali.
[338] bhajante (VI, 31).
[339] jnani, il saggio.
[340] jnani, colui che ha la conoscenze.
[341] jnani.
[342] jnanavan
[343] mahatma mahà-atma.
[344] Vasudevah sarvam, Vàsudeva è tutto (l'universo). Vàsudeva si applica a Krishna c significa figlio di Vasudeva; Vasudeva, il padre storico di Krishna, era un piccolo sovrano, capo di clan. Vàsudeva è quindi un altro nome del Divino incarnato,
[345] I devata o deva, forme o aspetti del Divino ;IV, 25).
[346] tanu, vedi nota al versetto precedente e IV, 32.
[347] bhakta, chi ha la devozione, adoratore, devoto (IV, 3).
[348] avyakta.
[349] Lett., sono arrivato (entrato) nella manifestazione (vyakti).
[350] para bhava
[351] yoga-maya, la forza creatrice dello yoga (cfr. con IV, 6 et VII. 14).
[352] dvandva, le coppie piacere c dolore, gioia c affanno, ecc. (VII, 15c).
[353] punya-karmanam.
[354] papa.
[355] dvandva-moha.
[356] tad-brahman.
[357] adhyatma.
[358] karma.
[359] adhibhuta.
[360] adhidaiva.
[361] adhiyajna.
[362] chetas.
[363] Per la prima volta Arjuna chiama Krishna col nome di Purushottama = purusha-uttama, Purusha supremo.
[364] Lett., uccisore di Madhu.
[365] aksharam brahman paramam
[366] adhyatma
[367] svabhava (VII, 7c).
[368] visarga.
[369] bhutra-bhàva, la Prakriti inferiore (aparà) (VII, 12-14).
[370] * Riferirsi all'impiego di tat, 'Quello', per designare il Brahman immutabile, in opposizione a 'questo', l'universo manifestato (II, 17). (N.d.T.)
[371] ksharo bhavah.
[372] adhibhúta.
[373] adhidaiva.
[374] adhiyajna.
[375] Arjuna.
[376] mad-bhava; bhava, divenire soggettivo, stato d'essere, natura profonda.
[377] cheta.
[378] kavi (senso originale); sensi derivati: veggente, saggio, poeta.
[379] purana, antico.
[380] prana.
[381] pada, passo, posto ove poggiare il piede, scalino, condizione.
[382] akshara.
[383] yati (V, 26).
[384] brahmacharya, che osserva la castità.
[385] prana.
[386] dharana.
[387] Lett., il Brahman
[388] gati, sentiero, via, scopo
[389] chetas.
[390] Mahatma
[391] Samsiddhi
[392] Il Dio creatore che fa parte della trinità Brahma, Vishnu e Shiva non va confuso con Brahman, la Realtà suprema e unica.
[393] Vedi nota al versetto precedente.
[394] yuga; un giorno di Brahmà, o kalpa, vale mille yuga.
[395] Di Brahmà.
[396] vyakti.
[397] avyakta.
[398] Di Brahmà.
[399] bhuta-grama: lett., quest'insieme di divenire.
[400] avyakta.
[401] bhava.
[402] sanàtana.
[403] avyakto'ksharah = avyaktah aksharah.
[404] gati (VIII, 13n).
[405] dhàma.
[406] para.
[407] bhuta, i divenire oggettivi.
[408] sarvam idam tatam (II, 17).
[409] Brahma-vid.
[410] È detto che gli antenati vivono nel mondo lunare restandovi fino al loro ritorno sulla terra. I versetti dal 23 al 27 s'ispirano alla Chandogya Upanishad (V, 10).
[411] gati (VIII, 13n); queste due vie vengono chiamate dalle Upanishad la via degli déi e la zia degli antenati.
[412] yoga-yukta yogena yukta, unito (al Divino) mediante lo yoga.
[413] Che possiede tutta la conoscenza esposta nei precedenti versetti.
[414] param sthanam adyam; sthana, luogo, località, paese.
[415] jnana, conoscenza essenziale, e vijnana, la conoscenza comprensiva (VII, 2).
[416] pratyaksha, la conoscenza intuitiva, l'esperienza spirituale diretta.
[417] dharmya: lett., conforme al dharma, alla legge.
[418] Purusha.
[419] dharma.
[420] samsara, il mondo delle apparenze cangianti, sottoposto alla nascita e alla morte.
[421] avyakta-murti.
[422] bhuta.
[423] mat-sthani, risiedono in Me.
[424] Si deve leggere: ma Io non dimoro ( interamente) in loro.
[425] Na mat-sthani (vedi nota del versetto precedente), Bisogna interpretare: gli esseri non dimorano che in una parte di Me, non nella Mia totalità (X, 16 e 42).
[426] mama atma,
[427] Leggere: non dimora (interamente) in essi, non è da essi contenuto.
[428] akasha, l'etere, lo spazio, il più sottile dei cinque elementi.
[429] kalpa: il calcolo degli astronomi dell'antica India conduceva ad attribuire al kalpa (o giorno di Brahma) la durata di 4 miliardi e 320 milioni di anni (VIII, 17).
[430] Prakriti.
[431] Lett., premendo, appoggiando sulla Mia Natura (confrontare con VII, 5-6.)
[432] bhúta-grama.
[433] Lett., senza forza sotto la forza della Natura (inferiore).
[434] udàsinavat asina.
[435] manushim tanum ashritam.
[436] Para bhava.
[437] bhuta-maheshvara.
[438] mohini prakriti.
[439] Gli asura sono esseri ostili del mondo mentale, e i ràkshasa del mondo vitale.
[440] mahatma.
[441] daini prakriti, la natura divina in opposizione alla natura ingannevole, mohini prakriti, del versetto precedente.
[442] nitya yukta.
[443] jnana-yajna; sul senso di questa espressione, vedi IV, 33.
[444] vishvatomukha: lett., dalla faccia rivolta da ogni Iato (X, 33)
[445] mantra.
[446] Offerto nel fuoco del sacrificio.o
[447] Vedi VII, 8c.
[448] Gli antichi testi sacri indiani non parlano che di tre Veda; il quarto, l'Atharva Veda, è stato aggiunto molto più tardi.
[449] amrita.
[450] sat e asat.
[451] IX, 17n.
[452] Bevanda che faceva parte del rito vedico.
[453] Il re degli dèi vedici.
[454] Lett., essendosi avvizziti i loro meriti.
[455] dharma.
[456] kàma-kamah: lett., desiderano il desiderio.
[457] ata-àgata: lett., andata e venuta.
[458] yoga-kshema: lett., acquisizione e conservazione (dei beni materiali e spirituali). Colui che si è interamente consacrato al Divino e rimette a Lui la sua vita materiale e spirituale viene spontaneamente preso sotto la responsabilità dello stesso Divino e riceve da Lui tutto ciò di cui ha bisogno per le sue necessità materiali e per il suo avanzamento spirituale.
[459] Lett., i devoti di altri dèi.
[460] avidhi-purvakam: ossia, anche se in modo indiretto.
[461] Lett., che gioisce di tutti i sacrifici.
[462] Prabhu (V, 14).
[463] Deva
[464] pitri
[465] bhuta, elementali - gli spiriti dei cinque elementi.
[466] sannyasa-yoga.
[467] sama, equanime, invariabile in tutto e verso tutto (V, 19).
[468] bhajanti (VI, 31).
[469] ananya-bhak: lett., con una devozione senza altro scopo.
[470] sadhu, buono, giusto.
[471] dharma-àtma.
[472] me bhaktah, colui che Mi ama, che ha per Me amore e devozione.
[473] Lett., da un ventre peccatore.
[474] Membri della terza casta: mercanti, agricoltori, artigiani.
[475] Membri della quarta casta: quella degli operai e dei servi.
[476] I rishi regali appartengono alla casta degli kshatriya (guerrieri), a cui appartiene Arjuna.
[477] bhajasva mam (VI, 31).
[478] bhakta (IX, 31).
[479] prabhava (VII, 6).
[480] sura, altro nome degli dèi.
[481] maharshi, veggenti e saggi dei tempi vedici (V, 25).
[482] àdi, principio.
[483] loka-maheshvara.
[484] bhavah (pl. di bhava), divenire soggettivi, stati e movimenti psicologici (VII, 112-14).
[485] bhutani, gli esseri creati che sono anche dei divenire.
[486] bhavanti matta eva.
[487] maharshi (X, 2n).
[488] I padri spirituali dell'umanità.
[489] bhàva.
[490] manas, ha qui il senso d'intelletto divino.
[491] praja: lett., progenitura, esseri animati.
[492] * Corrisponde ai sette mondi della manifestazione cosmica. I tre mondi inferiori vengono nominati nel mantra vedico, "OM bhur bhuvar svar", e sono rispettivamente il mondo fisico, il mondo vitale o intermedio, il mondo mentale, la cui più elevata sommità è rappresentata dal mondo celeste degli dèi. I Veda parlano anche di un quarto, brihat o ritam brihat, e di tre mondi supremi che non nominano. A questi ultimi i Puràna attribuiscono ulteriormente i nomi: jnana, tapas e sa:ya. Il Vedànta fa corrispondere a questi sette mondi, sette forme d'esistenza, sette principi psicologici: anna, prana, manas, vijnana, ananda, chit e sat (cfr. Sri Aurobindo, Il Segreto dei Veda). (N. d. T.)
[493] ** Nei suoi attributi di saggezza e di conoscenza, di potere e d'energia, d'armonia e di bellezza, di abilità e perfezione, che corrispondono ai quattro grandi aspetti o personalità della Madre divina: Maheshvari, Mahakali, Mahàlakshmi e Mahasarasvati (cfr. Sri Aurobindo, La Madre, Cap. VI). (N. d. T.)
[494] tattva.
[495] vibhúti, potenza e sovranità divine manifestate nel mondo.
[496] prabhava (VII, 6).
[497] budha, sveglio, cosciente.
[498] bhajante.
[499] bhàva-samanvita, in un movimento intenso e concentrato della natura emotiva.
[500] chitta, la sostanza mentale, sede del pensiero.
[501] prana, soffio, forza vitale.
[502] bhajatam: priti-púrvakam.
[503] buddhi yoga (II, 49).
[504] atma-bhava-stha, mantenendoMi nella natura (soggettiva) di costoro.
[505] a-jnana.
[506] janana-dipa.
[507] adi-deva, il primo degli dèi.
[508] vibhu, il Divino immanente che tutto penetra.
[509] devarshi Nàrada, uno dei rishi divini, messaggero degli dèi.
[510] Il presunto autore del Mahabharata.
[511] Dai lunghi capelli.
[512] deva.
[513] danava, titani della mitologia indù, una categoria di asura.
[514] vyakti.
[515] Purusha supremo, Essere supremo.
[516] bhuta-bhavana.
[517] Le potenze direttrici del divino manifestarsi in tutti gli esseri, coloro in cui i divini poteri (forza, bellezza, conoscenza, amore, ecc.) si manifestano con maggiore evidenza: una specie di protòtipo o modello. Sono manifestazioni parzialmente consapevoli della loro origine divina, mentre l'avatar è una manifestazione completa, pienamente cosciente del Supremo. Vibhuti (f.) viene tradotto generalmente come forza, potere, manifestazione, gloria.
[518] Vuol dire che il Divino non è per intero in questa sua manifestazione (IX, 4-61).
[519] bhava (VII, 12).
[520] IX, 5c.
[521] vibhuti.
[522] Liberatore degli uomini; lett., che mette fine alle nascite.
[523] amrita, la bevanda degli dèi, simbolo dell'Ananda, felicità e gioia divine.
[524] Vibhuti.
[525] Nome di un clan di cui un re ne aveva portato il nome.
[526] atman.
[527] bhuta.
[528] Colui che ha dominato il sonno.
[529] bhuta.
[530] Una categoria di dei vedici.
[531] Divinità del vento.
[532] menzionato a causa della sua bellezza musicale.
[533] Uno dei nomi di Indra.
[534] manas, la mente sensoria che compie Ia sintesi delle sensazioni e le trasforma in percezioni; chiamata anche seno interiore.
[535] bhuta, divenire oggettivo.
[536] chetana.
[537] Dèi vedici.
[538] Shiva.
[539] Esseri del mondo vitale (IX, 12); Vittesha o Kubera è il Signore delle ricchezze.
[540] Dèi vedici.
[541] Il purificatore, ossia Agni, il fuoco,
[542] La montagna mitica che segna il centro del mondo.
[543] Dio della guerra, figIio di Shiva e Pàrvati.
[544] La sillaba sacra (VII, 8c).
[545] Ripetizione continua di un nome sacro o di un mantra.
[546] Albero sacro (ficus religiosa) che ha un posto in molte delle leggende indiane. È sotto un ashvattha che Buddha ricevette l'illuminazione.
[547] X, 13.
[548] Musici celesti.
[549] siddha, colui che ha raggiunto la siddhi, la perfezione.
[550] muni, saggio; Kapila è il fondatore della filosofia Sànkhya.
[551] Nel momento della creazione del mondo, i cura e gli usura sbatterono l'oceano per ottenere la bevanda d'immortalità (amrita), altri tesori ne uscirono, fra questi il cavallo Uchchaihshrava, l'elefante bianco Airàvata e la vacca dell'abbondanza (vedi versetto seguente).
[552] Vacca dell'abbondanza (III, 10).
[553] Dio dell'amore.
[554] Cobra leggendari.
[555] Cobra mitico dalle mille teste che veglia su Vishnu nel suo riposo cosmico.
[556] Dio vedico delle acque.
[557] I pitri, defunti, antenati.
[558] Dio vedico, Signore del Sacrificio.
[559] Signore della morte, guardiano del dharma.
[560] I daitya (X, 14n).
[561] Principio della numerazione (vedi versetto 33).
[562] Lett., il signore delle bestie.
[563] Garuda, l'uccello, veicolo di Vishnu.
[564] Incarnazione dì Vishnu e eroe del Ramayana.
[565] Coccodrillo dell'India.
[566] vidya
[567] adhyatma-vidva (VII, 30; VIII, 1).
[568] dvandva, una delle regole per la formazione delle parole composte in sanscrito.
[569] kala.
[570] vishvatmukha (IX, 15).
[571] Uno dei grandi inni del Sàma Veda.
[572] Il mantra sacro, la cui conoscenza è data al bramino nel momento della sua iniziazione (upanayana).
[573] Corrispondente ai mesi di novembre-dicembre.
[574] Lett., il giuoco dei dadi.
[575] sattva.
[576] sattvavat.
[577] I Vrishni sono un clan, di cui Krishna (Vàsudeva) è membro (I, 41).
[578] I Pàndava sono i cinque figli di Pandu, e Arjuna (Dhananjaya) è uno di essi.
[579] Un rishi, il presunto autore della Bhagavad Gita.
[580] Precettore degli asura, rinomato per la sua saggezza.
[581] sarva-bhutani, tutti i divenire.
[582] Le vibhuti.
[583] Distruttore di nemici; lett., consumatore di nemici.
[584] vibhúti.
[585] vibhuti.
[586] tejas.
[587] X, 16n.
[588] paraman guhyam.
[589] adlayànna (VIII, 3c).
[590] moha, smarrimento (VII, 27; a8).
[591] Krishna.
[592] parameshvara = parama-ishvara.
[593] rúpam aishvaram.
[594] Prabhu (V, 14).
[595] yogesvara = yoga-Ishvara.
[596] atman.
[597] Nomi di dèi vedici (X, 21, 23).
[598] ekastha, mantenendosi uno.
[599] Lett., l'occhio divino.
[600] IX, 5.
[601] Uno dei nomi di Vishnu, di cui Krishna è l'Avatàr.
[602] Sanjaya si rivolge sempre, nella sua descrizione, al re Dhritaràshtra.
[603] vishvatomukha (X, 33c).
[604] mahàtmà, grande anima.
[605] ekastha (XI, 7).
[606] deva-deva.
[607] Lett., con i peli irti di gioia (I, 28).
[608] Il Dio creatore (VIII, 16n).
[609] Isha.
[610] Esseri mitici della cosmogonia indiana con testa umana e corpo di serpente (X, 29).
[611] ananta-rupa.
[612] vishveshvara = vishva-Ishvara.
[613] vishva-rupa.
[614] Il diadema è un attributo di Vishnu, la mazza e il disco sono le sue armi.
[615] tejas, luce, energia, splendore.
[616] dyuti, splendore, gloria, fulgore.
[617] akshara
[618] nidhana.
[619] dharma.
[620] sanàtana purusha.
[621] ananta-virya.
[622] sva-tejas
[623] mahatma.
[624] La terra, il ciclo e il mando intermedia (X, 6c).
[625] sura.
[626] siddha, coloro che hanno raggiunta la perfezione nello voga.
[627] maharshi.
[628] Dicendo: "svasti su-asti", benedizione, augurio di pace e di felicità. Lett., che egli stia bene.
[629] Gli Ushmapa sono i mani o gli antenati defunti, gli altri sono divinitá Vediche (X. 21, 23)
[630] Musici celesti.
[631] Entità del mondo vitale.
[632] IX, 12
[633] I perfetti (XI, 21n)
[634] deva-vara.
[635] pravritti.
[636] Lett., che ti servi (anche) della mano sinistra, Arjuna.
[637] Dai lunghi capelli, Krishna (I, 30).
[638] Ornato del diadema, Arjuna.
[639] Colui che domina i sensi, Krishna.
[640] mahatma
[641] devesha = deva-isha.
[642] sat-asat
[643] tat-param yat.
[644] adi-deva.
[645] purusha-purana.
[646] ananta-rupa.
[647] Vayu, Agni e Varuna sono gli dèi vedici dell'aria, del fuoco e delle acque. Yama è il Signore della morte, guardiano del Dharma; Shashànka è la luna e Brahma Prajàpati è il Creatore, Padre di tutte le creature.
[648] Yadava: gli Yadu erano un clan di cui Krishna era il capo.
[649] Un'altra versione dice: in Tua presenza.
[650] guru.
[651] XI, 20.
[652] manas.
[653] devesha - deva-isha.
[654] jagat-nivasa.
[655] Attributi di Vishnu
[656] La forma abituale di Vishnu, di cui Krishna è l'incarnazione, che Arjuna chiede di rivedere.
[657] vishva-murti.
[658] * Un aspetto di Vishnu.
[659] ** Krishna, incarnazione di Vishnu.
[660] tejo-maya, fatta di luce, d'energia.
[661] atma-yogat (IX, 5c).
[662] kuru-pravira, Arjuna.
[663] rupam-ghoram.
[664] mahatma.
[665] Krishna, l'avatàr, figlio di Vasudeva.
[666] chetas.
[667] deva.
[668] Gli stessi dèi non hanno accesso a questa visione.
[669] bhaktyà ananyaya (IX, 30).
[670] mat-karma-krit, che compie le mie azioni. Il mezzo per giungere a questa identità di volontà nell'azione è compiere tutti gli atti offrendoli al Supremo (IX, 27, 28 e 34).
[671] mat-parama.
[672] mad-bhakta.
[673] satata-yukta, sempre uniti (al Sé).
[674] aksharam: avyaktam (VIII, 20 e 21).
[675] manas.
[676] nitya-yukta.
[677] yuktatama, i più perfettamente uniti.
[678] V, 25; cfr, con III, 20 e 21.
[679] chetas, coscienza.
[680] deha-van, che possiede un corpo; cfr. con dehi (II, 13, 22s).
[681] mayi sannyasya, che tutto rinuncia in Me.
[682] mat-para.
[683] ananya yoga, cfr. IX, 30.
[684] chetas, coscienza.
[685] mrityu-samsara.
[686] manas.
[687] buddhi.
[688] chitta, la sostanza mentale.
[689] abhyasa-yogena, mediante lo yoga pratico.
[690] abhyàsa, la pratica regolare.
[691] mat-karma-paramo bhava: lett., sii colui per cui le Mie opere rappresentano il supremo (scopo) (XI. 55).
[692] mad-artham.
[693] siddhi (III, 4).
[694] sarva-karma-phala-tyaga.
[695] jnàna.
[696] abhyàsa, la pratica costante.
[697] dhyana.
[698] karma-phala-tyaga.
[699] shanti.
[700] II, 71, 72c.
[701] yata-atma.
[702] mad-bhakta.
[703] mukta.
[704] udasina, stabilito sopra, staccato.
[705] sarva-arambha-parityagi.
[706] shubha-ashubha-parityagi (II, 50; VII, 15c).
[707] bhakti-man.
[708] sama (V, 19).
[709] a-niketa.
[710] dharmya-amritam, il nettare d'immortalità in conformità col dharma (IV, 31n).
[711] mat-parama.
[712] La Natura e l'Anima (III, 29c).
[713] kshetra e kshetra-jna.
[714] jnana jneya.
[715] tad-vidah, coloro che conoscono Quello (il Brahman).
[716] * Le Upanishad parlano di un quintuplice corpo, di un corpo dai cinque involucri - fisico, vitale, mentale, ideale e divino - che può essere considerato come la totalità del Campo, kshetra. (Nota di Sri Aurobindo.)
[717] chhanda, inni o canti ritmati dei Veda.
[718] Uno dei testi fondamentali del Vedànta.
[719] avyakta vuoi dire in questo caso la Prakriti non manifestata, mula-prakriti, il primo dei tattva.
[720] buddhi.
[721] ahankara.
[722] maha-bhuta, terra, acqua, aria, fuoco, etere (spazio) (VII, 4).
[723] Cinque sensi di percezione e cinque di azione (III, 6n).
[724] manas, la mente sensoria, chiamata talvolta il senso interiore.
[725] Lett., i pascoli dei sensi.
[726] chetana.
[727] sanghata. associazione, legame, unione.
[728] dhriti.
[729] ahimsa.
[730] acharya
[731] vairagya.
[732] Lett., del figlio e della sposa.
[733] darshana, vista, percezione diretta.
[734] adhyatma (VIII, 1-4).
[735] ananya-yoga (XII, 6-7).
[736] a-jnana.
[737] amrita.
[738] para-brahman.
[739] sat.
[740] a-sat.
[741] Gli organi percezione e di azione.
[742] guna, qualità o modi della Natura.
[743] Le tenebre (tamas) della nostra ignoranza.
[744] mad-bhava: bhava, condizione, stato d'essere, natura soggettiva.
[745] guna.
[746] hetu, causa, ragione d'essere, origine.
[747] karuna, causa.
[748] karya.
[749] kartritva, lo stato di ciò (o di colui) che agisce.
[750] bhoktritva, lo stato di ciò (e di colui) che gioisce.
[751] sanga.
[752] karana.
[753] upadrasha, anumanta, bharta, bhokta.
[754] maheshvara (maha-ishvara).
[755] parama-atman.
[756] para-purusha.
[757] deha.
[758] guna.
[759] È il Conoscitore che conosce sé stesso (XIII, 7c; cfr, con VI, 20).
[760] Cioè in sé stesso, nel piccolo sé personale.
[761] dhyana.
[762] karma-yoga.
[763] sattva.
[764] Sam-yoga.
[765] Parameshvara = parama-Ishvara.
[766] Il verbo stha, che ricorre con tanta frequenza, viene anche tradotto diversamente con: risiedere, abitare, stare.
[767] sama
[768] bhuta
[769] Il Sé è indistruttibile, ma può essere ignorato, dimenticato, nascosto dall'ego (III, 29c; VI, 5-7).
[770] parà gati (VIII, 13n).
[771] prakriti.
[772] atman.
[773] a-karta (IV, 13).
[774] bhuta-prithak-bhavam: bhava, divenire nel senso di esistenza (VII, 2n); prithak, separato, diverso.
[775] parama-atman.
[776] akasha, l'etere, lo spazio.
[777] loka.
[778] kshetri, possessore, abitante del Campo.
[779] jnana-chaksnu.
[780] bhúta-prakriti-moksha: bhuta-prakriti, la prakriti dei divenire, La Natura inferiore.
[781] para.
[782] muni.
[783] A partire dai legami dell'ignoranza.
[784] para siddhi.
[785] sadharmya, il fatta di avere una stessa natura, una stessa legge d'essere (dharma ).
[786] sorga, creazione, mondo creato; al principio di un nuovo ciclo di manifestazione.
[787] pralaya.
[788] Mahat-Brahman, il Grande, il Vasto Brahman; le Upanishad [Gli oggetti dei sensi sono superiori ai sensi, manas (la mente sensoria) superiore agli oggetti, buddhi (l'intelligenza) superiore a manas, mahat o mahat-atman (l'anima cosmica) superiore a buddhi, avyakta (il non-manifestato'' superiore a mahat, e purusha o atman superiore al non-manifestato (secondo la Katha Upanishad, III, 10-11)] parlano di un principio cosmico, mahat (il Vasto) o mahat-atman (l'Anima cosmica), che corrisponde al quarto mondo; brihat (il Vasto) dei Veda (vedi X, 6, nota del commento) ha la sua corrispondenza nel principio di vijnana, la coscienza di verità, l'Idea reale (Sri Aurobindo, The Secret of the Veda).
[789] yoni.
[790] garbha, seme, germe, embrione.
[791] Vedi nota precedente.
[792] yoni.
[793] bija.
[794] Equilibrio o ritmo, armonia.
[795] Attività, passione.
[796] Inerzia, torpore, oscurità.
[797] Qualità o modi della Natura prakriti
[798] dehi, che abita il corpo, l'anima incarnata.
[799] sukha.
[800] jnana.
[801] raga
[802] ajnana
[803] dehi; vedi II, 13, 22s, in cui l'anima è rappresentata senza né nascita né decadenza, immutabile, stabile, senza cambiamenti. lo che modo può essere quindi legata o incatenata a qualcosa che faccia parte della Prakriti dei tre guna? La soluzione di questa antinomia è chiaramente esposta da Sri Aurobindo (III, 29c): nello stesso modo in cui ci sono due sè, il vero Sé e il sé-ego apparente, esistono due anime, l'anima vera o Purusha, eternamente libera e non limitata da Prakriti e dai guna, e l'anima apparente o anima di desiderio, riflesso del Purusha nelle opere di Prakriti, interamente costituita e determinata dai guna.
[804] lobha.
[805] pravritti, l'impulso all'azione.
[806] àrambhah karmanam (XII, 16).
[807] * La forza quale causa del movimento, del cambiamento. (N. d. T.)
[808] a-prakasha, l'assenza di luce, di splendore.
[809] moha, illusione, aberrazione.
[810] dehabhrit, ciò che ha rivestito un corpo e che lo sostiene.
[811] pralaya, dissoluzione (generalmente dissoluzione cosmica).
[812] uttama-vid.
[813] mudha, smarrito, incosciente o semi-cosciente.
[814] sukrita, azione ben fatta, corretta, giusta.
[815] Che ha il carattere di sana o deriva da sattva.
[816] moha (XIV, 13n).
[817] rajasah.
[818] tamasah.
[819] drashtà, colui dalla visione interiore risvegliata.
[820] para.
[821] mad-bhàva (XIII, 19n).
[822] dehi.
[823] Sri Aurobindo lo spiega con: nati dall'incarnazione nella Natura (XIV, 25c).
[824] amrita (XIII, 13).
[825] Prabhu (V, 14, 16c).
[826] prakàsha, luce, splendore.
[827] pravritti (XIV, 12).
[828] moha.
[829] udasinavat, come seduto sopra.
[830] sva-stha, stabilito in sé stesso.
[831] sarva-arambha-parityagi (XII, 16).
[832] guna-atita.
[833] Bakti-yoga.
[834] base, fondamento, dimora.
[835] amrita.
[836] avyava.
[837] shashvata dharma (XII, 20)
[838] aikantika sukha.
[839] L'albero chiamato in hindi pipal (ficus religiosa ); sotto un ashvatta ricevette l'illuminazione il Buddha.
[840] Il Supremo.
[841] Il mondo manifestato.
[842] chhanda (XIII, 5).
[843] a-sanga.
[844] pada, luogo, stazione, posizione.
[845] Cioè, non rinascono più sulla terra.
[846] adya.
[847] pravritti purani; pravritti ha qui il senso di potere di espansione, impulso cosmico all'azione; é il karma (visarga) di VIII, 5.
[848] Moha
[849] sanga.
[850]
kama
[851] adhyatma VIII. 1-4.
[852] pada.
[853] dhama paramam mama.
[854] Cioè: non rinascono più sulla terra.
[855] sanatana.
[856] mamaivansha = mama-eva-ansha.
[857] jiva-bhùta; jiva ha il senso corrente di creatura vivente; più filosoficamente, soprattutto sotto la forma di jivatman, significa l'anima individuale, l'individuo spirituale.
[858] jiva-loka.
[859] Nel momento di formare la personalità psichica.
[860] Manas, la mente sensoria.
[861] Ishvara.
[862] sharira.
[863] manas.
[864] vimudha
[865] bhunjana: lett., che prende piacere o interesse.
[866] jnana-chakshu.
[867] atmani avasthitam.
[868] a-chetas, ignorante, non intelligente.
[869] a-kritatma.
[870] rajas, energia, luce, splendore (XI, 17, 19).
[871] bhuta.
[872] ojas.
[873] Bevanda fatta con il succo di una pianta; simbolizza in questo caso l'energia della vita vegetale.
[874] vaishvanara: lett., il fuoco della vita.
[875] deham ashritam, cfr. cori IX,
11.
[876] praninam, di coloro che sono dotati di respiro.
[877] pràna e apana (IV, 29, 30),
[878] Quello che si mastica, quello che si succhia, quello che si lecca e quello che si beve.
[879] *Si può vedere nei versetti dal l2 al 15 un'allusione all'evoluzione della coscienza.
[880] hrid.
[881] smriti.
[882] jnana.
[883] loka.
[884] Mutevole, soggetto a cambiamento.
[885] Immobile, immutabile, sopra ogni cambiamento.
[886] uttama.
[887] anya.
[888] paramatman
[889] aryaya ishvara; aryaya: imperituro, indistruttibile.
[890] X, 6c.
[891] uttama, più alto, superiore, supremo.
[892] loka.
[893] purusha-uttama, il supremo Purusha. XIV, 26, 27.
[894] Smarrimento creato dall'illusione (moha).
[895] sarva-vid.
[896] bhajati.
[897] sarva-bhavena: lett., con tutti i moti della sua natura interiore (VII, 12-14).
[898] guhyatama.
[899] shàstra.
[900] buddhi-man: lett., che possiede l'intelligenza.
[901] krit-kritya: lett., che ha fatto quello che doveva fare.
[902] * Non-dualismo, principale scuola del Vedànta.
[903] * In questo canto, consacrato a certe categorie di esseri umani, conserveremo i termini sanscriti sopra indicati e gli aggettivi che ne derivano: devico, asurico, ecc., piuttosto che tradurli come dèi, diavoli o démoni, divi-no o demoniaco, che evocano altre associazioni. (N. d. T.)
[904] esarga.
[905] bhuta.
[906] Pravritti, l'impulso all'azione (XV, 2c, 4).
[907] nivritti, il rifiuto all'impulso ad agire (XV, 2c).
[908] jagat.
[909] an-ishvaram, senza Signore, senza Dio personale.
[910] Senza né ordine né ragione; a caso.
[911] kama.
[912] nashta-àtmanah.
[913] ugra, crudele, terribile.
[914] moha.
[915] kama-upabhoga.
[916] kama-krodha.
[917] kama-bhoga-artham: lett., avente come scopo il godimento del desiderio.
[918] Ishvara.
[919] Lett., io sono il gaudente (bhogi).
[920] ajnana-ivimohitan.
[921] chitta.
[922] moha.
[923] kama-bhoga.
[924] naraka.
[925] samsara.
[926] múdha.
[927] gati.
[928] * La distinzione fra i due tipi di creature ha piena conferma sui piani ultrafisici, in cui la legge dell'evoluzione spirituale non ha valore. Vi sono mondi di deva e mondi di asura, e, in questi mondi situati dietro il nostra, esistono tipi permanenti di esseri che sostengono il completo giuoco divino indispensabile all'avanzamento dell'universo, e che esercitano Ia loro influenza sulla terra, sulla vita e la natura dell'uomo. (Nota di Sri Aurobindo.)
[929] naraka.
[930] kàma, desiderio, specialmente concupiscenza.
[931] kradhao.
[932] lobha, brama, cupidigia.
[933] tamas.
[934] atman.
[935] para gati.
[936] shàstra, le Scritture sacre, la Legge scritta.
[937] kafma-kara.
[938] siddhi.
[939] sukha.
[940] para gati.
[941] nishtha, fede, consacrazione, volontà concentrata di devozione.
[942] shraddha.
[943] shàstra (XVI, 23,24).
[944] shraddha.
[945] dehi.
[946] svabhava (VII, 7C).
[947] purusha.
[948] shraddhà-maya.
[949] deva.
[950] Entità del mondo vitale (X, 23).
[951] Entità del mondo vitale (X, 23).
[952] bhúta, spiriti dei cinque elementi.
[953] preta, spettri o fantasmi; clementi vitali dei morti in via di disgregazione: un uomo tamasico o rajasico può pensare che sacrifica a un dio, ma in realtà il suo sacrificio e la sua preghiera, per la loro stessa qualità, non vanno oltre le entità inferiori dei mondi invisibili.
[954] tapas.
[955] Lett., uniti alla vanità e al senso dell'ego.
[956] antah-sharira-sthram.
[957] yajna.
[958] rapar, concentrazione della volontà spirituale, ascesi.
[959] dana, dono, carità.
[960] Delle Scritture sacre.
[961] Dello shàstra.
[962] mantra.
[963] dakshina, offerta, in denaro o in natura, che si fa al guru quando si va a rendergli omaggio o a consultarlo e al sacerdote in occasione di una cerimonia.
[964] púja.
[965] deva.
[966] dvi-ja; con questa parola s'intendono le tre caste superiori: bramini, kshatriya e vaishya.
[967] Maestro spirituale.
[968] prajna.
[969] brahmacharya (VI, 13 e 14).
[970] ahimsa.
[971] tapas.
[972] Tapas
[973] prasada, una gioia chiara e calma
[974] bhava-samshuddhi
[975] tapas.
[976] para-shraddhà
[977] vukta (VI, 17).
[978] * Sri Aurobindo distingue tapas da tapasya, applicando al primo l'idea di una concentrazione della volontà spirituale per uno scopo determinato, e alla seconda quella di una disciplina austera e rigorosa. Nella pratica le due parole sono spesso considerate come sinomini. (N. d. 'F.)
[979] pujà, omaggio rituale, culto.
[980] mudha-graha.
[981] dana, carità, dono.
[982] Frase, formula o mantra dei Veda (sulla sillaba AUM, cfr. VII, 8c).
[983] nirdesha, definizione, rappresentazione o simbolo.
[984] Testi sacri complementari dei Veda; questa parola può anche designare i bramini, i preti.
[985] * Questi tre Purusha concordano con i tre stati di coscienza enumerati dalla psicologia indiana: lo stato di veglia, jagrat, quello di sonno con sogni, svapna, lo stato di sonno profondo senza sogni, sushupti. (N. d. T.)
[986] brahma-vadi.
[987] sat-bhava.
[988] sadhu-bhava.
[989] a-shraddha.
[990] a-sat, falso, senza realtà.
[991] tattva, principio, essenza, verità essenziale.
[992] sannyasa, rinuncia esteriore alla vita e al mondo.
[993] tyaga, rinuncia interiore, distacco, abbandono.
[994] Keshinishudana: che ha ucciso Keshi (un asura).
[995] sannyasa.
[996] kamya karma; in questo abbandono devono esser compresi anche i sacrifici imposti dagli shàstra e che abbiano scopi egoistici.
[997] tyaga.
[998] manishi, uomo istruito, che sa riflettere.
[999] XVII, 7s, 25-28.
[1000] tyaga.
[1001] Lett., tigre fra gli uomini - Arjuna.
[1002] XVII, 7s, 25-28.
[1003] manishi.
[1004] niyatam karma.
[1005] moha.
[1006] karya.
[1007] niyatam karma.
[1008] tyagi.
[1009] deha-bhrit (XIV, 14).
[1010] che è tyagi
[1011] pretya: lett., essendo partito; è presa comunemente nel senso di "avendo abbandonato questo mondo, dopo la morte". Sri Aurobindo interpreta in senso più ampio: "in questa vita o in un'altra, in questo mondo o in un altro".
[1012] Gli a-tyagi.
[1013] I sannyàsi.
[1014] kritanta; è detto che tutte le opere trovano il loro scopo ultimo nella conoscenza (IV 33).
[1015] karana, causa.
[1016] siddhi, perfezione, successo, realizzazione.
[1017] adhishthana, base o sostegno dell'anima nella natura, che comprende il corpo fisico, la vita e la mente.
[1018] kartà, quello o colui che agisce; si trova su questo punto grande divergenza fra i commentatori: seconda Shankara, il Purusha è un testimone inattivo, l'agente e il sé fenomenico che si crede l'autore dell'azione; secondo Ràmànuja, il Purusha (jivàtman) sancisce le attività di Prakriti, e dev'essere incluso fra le cause determinanti; secondo Madhva, l'agente è Vishnu, il Signore (vedremo nel XVIII, 17c, in che modo Sri Aurobindo concilia questi diversi punti di vista).
[1019] karana, gli organi di sensazione e d'azione (III, 6n).
[1020] cheshta, la messa in giuoco delle energie fisiche e sottili.
[1021] daiva, il fattore extra-umano che interviene nello sforzo degli uomini, lo dirige e ne dispone i frutti secondo l'ordine degli atti e delle loro conseguenze.
[1022] hetu.
[1023] lokan, questi popoli, ossia i guerrieri riuniti sul campo di battaglia di Kurukshetra.
[1024] ahamkrita bhava,
[1025] Si tratta qui dell'ordine cosmico, perché il trionfo dell'asura nell'umanità significa, sino a un certo limite, il trionfo dell'asura nell'equilibrio delle forze del mondo. (Nota di Sri Aurobimdo.)
[1026] jnana, jneya e parijnata.
[1027] chodana, impulso, indirizzo.
[1028] karta, karma e karana.
[1029] sangraha.
[1030] guna-sankhyanam; esiste a questo proposito l'opera del saggio Kapila; si attribuisce a questo trattato l'origine del Sankhya.
[1031] bhuta, divenire (oggettivo), creatura.
[1032] bhava, divenire (soggettivo), stato d'essere.
[1033] bhava.
[1034] karya.
[1035] kritsnavat.
[1036] tattva.
[1037] niyata.
[1038] sanga.
[1039] raga-dvesha.
[1040] mohàt, sotto il dominio dell'illusione.
[1041] anahamvadi: lett., che non dice mai `io'.
[1042] karta, ciò (o colui) che agisce.
[1043] avrukta.
[1044] buddhi, intelligenza, comprensione.
[1045] dhriti, risoluzione, volontà calma e persistente.
[1046] pravritti e nivritti (XV, 2C).
[1047] pravritti e nivritti (XV, 2C).
[1048] bandha, il servaggio.
[1049] moksha, la liberazione.
[1050] dharma, dovere, bene, giustizia.
[1051] adharma, male, ingiustizia.
[1052] tamas,
[1053] adharma.
[1054] dharma.
[1055] dhriti.
[1056] dharma.
[1057] kama.
[1058] artha; questi tre, associati a moksha, la liberazione, comprendono, secondo la tradizione, tutti i motivi dell'azione umana.
[1059] svapua.
[1060] sukha, piacere, felicità.
[1061] abhyasa, pratica regolare.
[1062] duhkha.
[1063] amrita (IV, 31n).
[1064] prasada.
[1065] indriyàni, i dieci sensi: cinque organi di percezione e cinque di azione (III, 6n).
[1066] amrita (IV, 31n).
[1067] nidrà.
[1068] Lett., nelle sue conseguenze.
[1069] sattva, essere, entità.
[1070] deva.
[1071] karma, azione, lavoro, attività; prende qui il senso di compito da svolgere.
[1072] Le quattro caste.
[1073] svabhava-prabhavaih: lett., prodotte dal loro svabhava (VII, 7c, 8c).
[1074] jnana-vijnana, la conoscenza essenziale e la conoscenza comprensiva {VII, 2).
[1075] karma.
[1076] La casta dei preti e degli insegnanti.
[1077] svabhava-ja.
[1078] ishvara-bhava.
[1079] La casta dei guerrieri e dei capi.
[1080] svabhava-ja.
[1081] La casta dei commercianti, artigiani e agricoltori.
[1082] La casta dei servitori.
[1083] Parole di Sri Aurobindo, anteriori alla Costituzione dell'India indipendente. che nel 1947 abolì ufficialmente il sistema delle caste. (N. d. T.)
[1084] sva-karma.
[1085] samshiddi.
[1086] manava, discendente di Manu - l'uomo nella sua qualità di essere mentale.
[1087] sarvam idam tatam (VIII, 22).
[1088] svadharma.
[1089] vi-guna, senza merito.
[1090] Questa prima metà del versetto è una ripetizione del III, 35.
[1091] svabhava-niyatam karma (XVIII, 7c).
[1092] saha-ja, nato con sé, naturale, innato; interpretato spesso come ereditario.
[1093] sa-dosha.
[1094] arambha, impresa, iniziativa.
[1095] Dosha, difetto, imperfezione.
[1096] * Scritto fra il 1916 e il 1920. (N. d. T.)
[1097] siddhi.
[1098] nishta (XVII, 1).
[1099] jnana.
[1100] buddhya vishuddhaya yukta.
[1101] atmanam niyamya.
[1102] raga-dvesha, attrazione e ripulsione (III, 34).
[1103] shabda, il suono, preso come tipo degli oggetti (dei sensi), vishaya.
[1104] manas.
[1105] dhyana-yoga-para.
[1106] vairagya
[1107] ahankara.
[1108] kama krodha.
[1109] nirmama.
[1110] shanta.
[1111] brahma-bhuyaya.
[1112] brahma-bhúta.
[1113] prasanna-atma.
[1114] sama.
[1115] mad-bhaktirn param.
[1116] bhakti.
[1117] yashchàsmi. lett., chi io sono.
[1118] yavan: lett., quanto io seme.
[1119] tattvatah
[1120] tad-anantaram, subito dopo,
[1121] sarva-karmani.
[1122] mad-vyapashraya.
[1123] shashvatam padam avyayam.
[1124] mat-para.
[1125] chetas.
[1126] mayi sannyasya.
[1127] buddhi-yoga.
[1128] chitta.
[1129] mat-chitta.
[1130] asat-prasadàt.
[1131] ahankàra.
[1132] ahankàra.
[1133] moha.
[1134] svabhàva-ja (XVIII, 42s).
[1135] Ishvara.
[1136] Il potere di manifestazione e, in un certo senso, d'illusione (IV, 6, 14C).
[1137] yantra.
[1138] sharanam.
[1139] sarva-bhavena (XV, 19).
[1140] param shantim
[1141] sthanam shashvatam.
[1142] jnana.
[1143] guhyat guhyataram.
[1144] paramam vachah.
[1145] dridham iti, fortemente.
[1146] ishta.
[1147] * Katha Upanishad, I. cap. 11, 23.
[1148] ** Esiste nel linguaggio esoterico una distinzione fra segreto e mistero: si tratta di segreto quando si nasconde qualcosa d'accessibile alla percezione e alla comprensione di colui a cui viene nascosto; il mistero è invece una conoscenza che si trova sopra il livello di comprensione di colui che vuole afferrarla e che esige da lui uno sforzo orientato verso il proprio sviluppo spirituale per raggiungere un adeguato livello di coscienza. (N. d. T.)
[1149] man-mana.
[1150] mad-bhakta.
[1151] mad-yaji.
[1152] mam namas-kuru.
[1153] sarva-dharman-parityajya.
[1154] sharanam.
[1155] papa.
[1156] a-tapaskaya.
[1157] a-bhakta.
[1158] bhakta.
[1159] paramam ,guhyam.
[1160] priya.
[1161] dharmya: lett., conforme al dharma.
[1162] jnana-yajna (IV, 33).
[1163] shraddhavan.
[1164] anasùya.
[1165] ukta.
[1166] shubhan lokan.
[1167] punyakarmanam: lett., di quelli le cui azioni sono meritorie.
[1168] ekagrena chetasa: lett., con il pensiero stabilito in un solo punto.
[1169] ajnana-sammoha.
[1170] moha.
[1171] tvat-prasadat.
[1172] smriti, in questo caso, la memoria della mia vera natura e del mio dharma (II, 7).
[1173] Krishna (VII, 19n).
[1174] Il figlio di Prithà, Arjuna.
[1175] mahatma.
[1176] XI, 14.
[1177] Sanjaya aveva ricevuto dal grande saggio Vyàsa il potere occulto di vedere e sentire a distanza tutto ciò che avveniva sul campo di battaglia di Kurukshetra, per riferirlo a Dhritaràshtra, il re cieco. È il motivo iniziale della Gita e l'autore ne fa una nuova allusione.
[1178] guhyam param.
[1179] yogeshvara Krishna.
[1180] punyaa.
[1181] Krishna.
[1182] rupam atyabdhutam, la Forma universale, vishva-rúpa, di cui il capitolo XI descrive la visione.
[1183] Uno dei nomi di Vishnu (XI, 9).