Retro Di Copertina

 

Dopo un'intensa attività politica come uno dei capi piú ascoltati del moto nazionalista indiano dei primi anni del secolo, SRI AUROBINDO si ritira a Pondicherry, dove fissa le basi dello Yoga Integrale e crea l'Ashram. La prima formazione in mezzo a un mondo in lotta doveva segnare il suo destino. Egli infatti non dissocia mai la vita spirituale da quella quotidiana e dagli incalzanti problemi politici e sociali. Sri Aurobindo annuncia la certezza della prossima apparizione di un nuovo potere di coscienza che egli chiama semplicemente « Supermente ». Séguito logico della vita e della mente, la cui emersione fuori dalla materia si è compiuta nel corso di una lunga evoluzione terrestre, la Supermente segnerà una nuova tappa di questa evoluzione.

 

 

LO VOGA DELLA BHAGAVAD GITA

 

 

Questo libro è forse il piú bello che sia mai stato scritto da mano umana. Mai era stato enunciato con piú forza il principio di Unità degli esseri e delle cose, essenza e punto culminante della filosofia indiana. Negli « Essays on the Gita » Sri Aurobindo compie uno degli studi più profondi e completi su questa importante Scrittura, illuminandoci sulla complessità del pensiero filosofico-religioso indú. Il nostro testo consiste nella traduzione dei versetti originali della Gita, seguiti dal commento, costituito dai passaggi relativi tolti dai Saggi sulla Gita. Ne risulta un'opera conseguente e profonda, che tocca i piú svariati aspetti dell'esistenza, mantenendo sempre vivo l'interesse del lettore. In tal modo una delle maggiori opere della spiritualità indiana viene riproposta a un pubblico moderno, con un nuovo impulso innovatore e dinamico.

 

Dall'epoca della sua apparizione, la Bhagavad Gita ha avuto un'immensa azione spirituale; con la nuova interpretazione data da Sri Aurobindo, il suo influsso è notevolmente aumentato  ed è divenuto decisivo .. (Mère).

 


 

 

 

SRI AUROBINDO

 

 

 

 

LO YOGA
DELLA
BHAGAVAD GITA

 

 

 

Traduzione di Nata

 

 

 

 

 

 

EDIZIONI MEDITERRANEE

ROMA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ristampa 1999

Finito di stampare

nel mese di Agosto 1999

presso la Tipografia S,T.A.R.

Via Luigi Arati, 12 - 00151 Roma

ISBN 88-272-0543-8

Titolo originale dell'opera: LE YOGA DE LA BHAGAVAD GITA

Copyright 1969 Sri Aurobindo Ashram - Pondicherry 2 : Copyright x977 Edizioni Mediterranee - Roma, Via Flaminia, 158 T Printed in India - Sri Aurobindo Ashram Press, Pondicherry 605002.

 

LA BHAGAVAD GITA  PREFAZIONE di Nolini Kanta. 6

NOTA INTRODUTTIVA. 8

STORIA DELLA GITA. 10

INTRODUZIONE Capitoli estratti dai “Saggi sulla Gita” di Sri Aurobindo. 12

1. QUELLO CHE LA GITA PUÒ DARCI. 12

2. IL DIVINO MAESTRO.. 18

3. IL DISCEPOLO UMANO.. 23

4. IL CENTRO DELL' INSEGNAMENTO.. 29

5. KURUKSHETRA.. 36

6. L'UOMO E LA BATTAGLIA DELLA VITA.. 41

7 SANKHYA E YOGA.. 46

CANTO I   LO SGOMENTO DI ARJUNA. 52

Arjuna, l'uomo rappresentativo della sua epoca, è vinto dallo scoraggiamento e dal dolore nel momento più critico della sua esistenza, sul campo di battaglia di Kurukshetra, e in questa occasione egli solleva il problema intero della vita e dell'azione umana; l'esposizione della Gità parte da questo primo quesito di Arjuna e vi ritorna dopo aver abbracciato tutto il problema.

CANTO II
La risposta del Maestro procede secondo due vie diverse:

[a] LA FEDE DEL GUERRIERO ARIANO. 60

Dapprima, una breve risposta fondata sulle concezioni filosofiche e morali del Vedànta e sulla nozione sociale di dovere e d'onore che formava la base etica della società ariana,

[b] LO YOGA DELLA VOLONTÀ INTELLIGENTE. 68

Poi un'altra risposta fondata su una conoscenza più intima che si apre su verità più profonde del nostro essere, e che è il vero punto di partenza dell'insegnamento della Gità La Gità pone come prima base un'acuta sintesi del Sànkhya, dello Yoga e del Vedànta.

CANTO III  [a] LE OPERE E IL SACRIFICIO. 77

Arjuna, l'uomo pragmatico, immerso nella perplessità a causa del pensiero metafisico, chiede una semplice regola di azione. La Gità comincia a sviluppare più chiaramente la sua dottrina positiva ed imperativa delle opere - delle opere fatte come sacrificio al Divino.

[b] IL DETERMINISMO DELLA NATURA. 85

Si intima ad Arjuna di agire sempre secondo la legge della propria natura. "Tutte le esistenze obbediscono alla loro natura; a che serve forzarla?"

CANTO IV  [a] NATURA E FUNZIONI DELL'AVATAR. 91

Il divino Istruttore, l'Avatàr, dà il proprio esempio, il proprio modello ad Arjuna. In India, la credenza nell' Avatàr - discesa della Divinità in una forma umana, rivelazione del Divino nell'umanità - è cresciuta ed ha persistito come risultato logico della concezione vedantina della vita, radicandosi fortemente nella coscienza della razza.

[b] IL DIVINO OPERAIO. 97

Equanimità, impersonalità, pace, gioia e libertà, tali sono i segni che distinguono il divino operaio; essi sono profondamente soggettivi ed indipendenti dai fenomeni assolutamente esteriori dell'azione e della non-azione.

[c] IL SIGNIFICATO DEL SACRIFICIO. 101

La Gità espone il significato interiore del sacrificio vedico, interpretando il simbolismo segreto degli antichi mistici vedici.

CANTO V  LA RINUNCIA E LO YOGA DELLE OPERE. 106

Dopo aver parlato dell'equanimità perfetta di colui che, conoscendo il Brahman, si è elevato nella coscienza brahmica, la Gità sviluppa nei nove ultimi versetti di questo canto, la sua concezione del brahma yoga e del nirvàna nel Brahman.

CANTO VI  IL NIRVANA E LE OPERE NEL MONDO. 114

Questo canto è uno sviluppo completo degli ultimi versetti del canto precedente - fatto che dimostra l'importanza che vi attribuisce la Gità.

CANTO VII
Dal VII al XII Canto, la Gità fa una vasta esposizione metafisica sulla natura dell'Essere divino; essa allaccia strettamente a questa base, sintetizzandole, la conoscenza e la devozione-così come, nella prima parte, dando la base fondamentale del suo insegnamento, aveva legato e sintetizzato le opere e la conoscenza.

[a] LE DUE NATURE. 123

La Gità distingue le due nature, quella fenomenica e quella dello spirito. É la prima nuova idea metafisica del-la Gità, che le permette, a partire da nozioni della filosofia sankhiana, di superarle, dando ai loro termini un significato vedantino.

[b] LA SINTESI DELLA DEVOZIONE E DELLA CONOSCENZA. 129

La Gità non è un trattato di filosofia metafisica. Essa cerca la verità suprema per la più alta utilità pratica. Perciò fa della verità filosofica data all'inizio di questo canto il primo punto di partenza verso la sintesi delle opere, della conoscenza e della devozione.

CANTO VIII  IL SUPREMO DIVINO. 135

È la prima descrizione del Purusha supremo - il Divino che è sempre più grande dell'Immutabile, e al quale la Gità dà in seguito (come nel XV Canto) il nome di Purushottama. La terminologia è presa, qui, interamente dalle Upanishad

CANTO IX  L'AZIONE, LA DEVOZIONE E LA CONOSCENZA. 142

Ciò che sta per dire ora la Gità, è quanto c'è di più segreto. È la conoscenza completa del Divino che il Signore del suo essere ha promesso ad Arjuna (VII-1). Dirigere verso Dio tutto il sé in un'unione completa è il mezzo per elevarsi fuori da un'esistenza mondana' in un'esistenza divina.

CANTO X   [a] LA SUPREMA PAROLA DELLA GITA. 153

Il divino Avatàr, riassumendo brevemente la conclusione di tutto ciò che ha detto, dichiara che questa, e nessun'altra, è la sua parola suprema.

[b] IL DIVINO POTERE DI TRASFORMAZIONE. 158

Questi versetti enumerano degli esempi di Vibhuti o forme nelle quali il Divino manifesta il suo potere nel mondo. Nel canto seguente, essi portano alla visione del Purusha cosmico.

CANTO XI LA VISIONE DELLO SPIRITO UNIVERSALE 
È la rivelazione dell'aspetto del Divino come Tempo, che, attraverso i suoi milioni di bocche, dà alla Vibhúti liberata l'ordine di compiere l'azione che le è assegnata. Questa visione del Purusha universale è uno dei passaggi più altamente poetici della Gità.

[a] IL TEMPO, DISTRUTTORE DEI MONDI. 165

[b] IL DOPPIO ASPETTO. 172

CANTO XII  LO YOGA DELLA DEVOZIONE. 178

Nel Canto XI, il primo obiettivo dell'insegnamento della Gità è stato raggiunto e realizzato fino ad un certo punto. Ciò che rimane da dire è la differenza tra la liberazione spirituale nella sua concezione vedantina corrente, e la libertà più vasta, totale, che l'insegnamento della Gità apre allo spirito. Il Canto XII conduce a questa conoscenza che rimane da esporre; i sei canti che seguono la sviluppano fino alla maestosa conclusione finale.

CANTO XIII  IL CAMPO E IL CONOSCITORE DEL CAMPO. 184

Le distinzioni tra Purusha e Prakriti, Anima e Natura, rapidamente abbozzate in questo canto nei termini della filosofia sankhiana, sono la base sulla quale la Gità poggia tutta la sua concezione dell'essere liberato, divenuto uno con il Divino nella legge cosciente della propria esistenza.

CANTO XIV  OLTRE I GUNA. 193

La Gità espone la sua concezione dell'azione dei guna, dell'azione fuori dai guna e del culminare, nella conoscenza, delle opere senza desiderio, là dove la conoscenza si fonde nella bhakti - la conoscenza, le opere e l'amore diventati uno -; e da lì sale verso la propria grandiosa conclusione, il segreto supremo del dono di sé al Signore dell'esistenza.

CANTO XV  l TRE PURUSHA. 202

In tutte le sue tendenze e con tutta la sua plasticità nel concatenamento delle idee, l'intera dottrina della Gità converge verso un'idea centrale unica - l'idea di una coscienza triplice, e tuttavia una, presente a tutti i livelli dell'esistenza. È quanto essa espone qui, condensato in un nucleo di visione sintetica. Questo canto si apre con una descrizione dell'esistenza cosmica secondo l'immagine vedantina dell'albero ashvattha.

CANTO XVI  DEVA E ASURA. 210

La Gità darà ora la disciplina psicologica con cui la nostra natura umana e terrestre può essere trasformata. Ma prima di considerare questo movimento verso la luce, essa distingue due categorie di esseri, i deva e gli asura.

CANTO XVII  I GUNA, LA FEDE, LE OPERE. 216

La Gità analizza l'azione alla luce di un'idea fondamentale: nozione dei tre guna e passaggio di là da essi mediante il culminare della più alta disciplina sattvica che supera sé stessa. In questo canto, insiste particolarmente sulla fede, shraddha, con la volontà di credere, di essere, di conoscere, di vivere e di rappresentare la verità, come fattore principale.

CANTO XVIII  [a] I GUNA, LA MENTE E LE OPERE. 224

La Gità fa un'analisi psicologica sommaria dei poteri mentali prima di avviarsi verso la sua grande conclusione, il più alto segreto-il superamento spirituale di tutti i dharma.

[b] SVABHAVA E SVADHARMA. 234

La Gità tratta, incidentalmente, un problema di grande importanza - l'antica concezione sociale del chaturvarna, molto diversa dall'attuale sistema delle caste.

[c] VERSO IL SUPREMO SEGRETO. 239

La Gità riassume l'essenziale del proprio messaggio.

[d] IL SEGRETO SUPREMO. 247

Così l'essenza dell'insegnamento e dello yoga è stata data al discepolo e il divino Istruttore la applica ora all'azione di questo. Unite ad un esempio memorabile, dette al protagonista di Kurukshetra, le sue parole assumono un significato molto più vasto, sono una regola universale per tutti coloro che sono pronti ad elevarsi oltre la mentalità ordinaria, a vivere e ad agire nella coscienza spirituale suprema.

 

“La Gità non è un'arma di battaglie dialettiche, è una porta che si apre sull'intero mondo di Verità e di esperienza spirituale, e la visione che offre comprende tutti i domini del piano supremo. Essa traccia il cammino, ma non taglia fuori e non innalza mura o barriere per confinare la nostra visione”. (Sri Aurobindo)

 


 

LA BHAGAVAD GITA
PREFAZIONE di Nolini Kanta

 

 

Il Supremo segreto della Gita, rahashyam uttamam, si è rivelato a menti diverse sotto forme diverse. Si può dire, però, che tutte queste forme possono, grosso modo, essere comprese sotto due larghi gruppi, di cui uno può essere definito la scuola ortodossa e l'altro la scuola moderna. La Scuola Ortodossa, rappresentata, ad esempio, da Shankara o Sridhara, considerava la Gita alla luce della disciplina spirituale più o meno corrente in quei tempi, quando lo scopo dell' esistenza era considerato quello di emanciparsi dalla vita, sia attraverso il lavoro, la conoscenza o la devozione senza desideri, sia mediante una combinazione dei tre. La Scuola Moderna, dall'altro canto, rappresentata da Bankim[1] in Bengala e più profondamente sviluppata e sistematizzata in tempi recenti da Tilak[2], è ispirata dallo Spirito del proprio Tempo e trova nella Gita un vangelo de] compimento dell'esistenza. La più antica ispirazione insisteva maggiormente su una disciplina spirituale e religiosa, che, in fondo, significava una disciplina di distacco dal mondo; la moderna interpretazione cerca di rendere dinamica la più o meno quietistica spiritualità che si era affermata nell'India delle epoche ulteriori, di stabilire una ricompensa per l'azione, per il dovere da compiersi nella nostra vita di ogni giorno, anche se motivati da uno scopo e un movente spirituali.

Questa neo-spiritualità che può rivendicare la propria sanzione e autorità dalla reale disciplina indiana dei tempi passati -diciamo di un janaka e di un Yajnàvalkya - , si fa strada, tuttavia, a fatica proprio sotto l'influsso dell'attivismo e dell'etica europei. Fu questo che servi come immediato incentivo al nostro risveglio e alle nostra rivalutazione spirituali, e l'impronta che hanno lasciato non è stata completamente cancellata nemmeno nei nostri migliori esponenti.

L'influsso dell'impulso vitale e dell'imperativo morale è abbastanza apparente nel concetto modernista di una spiritualità dinamica. Fondamentalmente il dinamismo viene fatto risiedere nell’elan dell'uomo etico - l'elemento spirituale, come una coscienza dell'unità suprema nell'Assoluto (Brahman) o di amore e di felicità in Dio, servirebbe solo come un'atmosfera per l'attività mortale.

Sri Aurobindo ha innalzato l'azione completamente oltre il piano mentale e morale e le ha dato un'assoluta vita spirituale. L'azione, venendo ricondotta alla sua fonte ed origine, è stata spiritualizzata, poiché è l'espressione nella vita della Coscienza-Energia (Cit-Shakti) del Divino.

Lo Spirito supremo, Purushottama, che contiene in sé la duplice realtà di Brahman e del mondo, è il maestro dell'azione, che agisce si, ma nel non-agire, il Signore in cui e tramite cui gli universi e le loro creature vivono e si muovono ed hanno il loro essere. Il karmayoga è unione nella mente, nell'anima e nel corpo con il Signore dell'azione nell'esecuzione del suo scopo cosmico. Quest'unione è ottenuta attraverso una trasformazione della natura umana, attraverso la rivelazione della divina Prakriti e la sua discesa sul veicolo umano inferiore e il suo possesso.

Se a questo punto ci volgiamo indietro, possiamo osservare un cambiamento su tutta la prospettiva. Il karma ed anche il karmayoga, che fin qui sembravano essere il cardine dell'insegnamento della Gita, si ritraggono, in un certo qual modo, in un secondo piano, presentando una dimensione e un valore ridotti. Il centro di gravità si è spostato sui concetto della Natura divina, sulla condizione stessa del Signore, sulla coscienza oltre i tre guna, sull'assoluta consacrazione di ogni membro dell'umanità dell'uomo al Supremo Purusha, per la sua discesa, la sua incarnazione e il suo gioco nel mondo e sul mondo umano.

Il più alto segreto della Gita si trova in effetti negli ultimi capitoli, i primi capitoli sono una preparazione e un passaggio verso quello o un'applicazione parziale e pratica. Ciò deve esser detto, visto che c'è un'idea diffusa che cerca di limitare l'insegnamento reale della Gita alla prima parte, trascurando od anche tralasciando ultima parte.

Lo stile e il carattere dell'interpretazione di Sri Aurobindo sono pure in sommo grado caratteristici: essa non è una semplice dissertazione metafisica - benché sia rivestita dall'inizio alla fine di una profonda filosofia; in essa palpita la vita luminosa del messaggio di un profeta, è impregnata di qualcosa del mantrashakti[3] stesso della Gita.


 

NOTA INTRODUTTIVA

 

 

Questo libro è probabilmente il più bello che sia uscito dalla mano degli uomini. Mai era stato enunciato con più forza il principio d'Unità degli esseri e delle cose, essenza e punto culminante della filosofia indiana. Sri Aurobindo, "il più grande pensatore dell'India d'oggi[4], ci ha fornito, grazie alle sue esperienze nel campo spirituale della Supermente, una ricca messe di pensiero, ampiamente mietuta dai suoi diretti discepoli e lettori. Oltre alle grandi opere, frutto delle sue personali esperienze, ha commentato alcune delle principali scritture sacre indiane. Dopo The Secret of the Veda, dopo l'Isha Upanishad, ha pubblicato Essays on the Gita, che tutti gli Indù considerano lo studio più profondo e più completo che sia mai stato scritto sulla Bhagavad Gita.

Sfortunatamente per gli Occidentali, quest'opera fu scritta soprattutto per gli Indiani, a cui sono familiari gli episodi, i termini, le associazioni d'idee della Gita[5]. La sua lettura è quindi difficile per coloro che - come la maggior parte degli Occidentali - non hanno una conoscenza approfondita né dei testi sacri, né dello spirito religioso dell'India. Uno dei più vecchi discepoli di Sri Aurobindo, Anilbaran Roy, che ha passato la maggior parte della sua vita a studiare e meditare la Gita, ebbe l'idea di pubblicare, estraendo il materiale da Essays on the Gita, un'edizione metodica, alla portata degli Occidentali (The Message of the Gita as interpreted by Sri Aurobindo, edited by Anilbaran Roy - London, Allen & Unwin, 1938). Anilbaran Roy ha estratto dall'immensa opera di Sri Aurobindo la traduzione della maggior parte dei versetti. Ne ha completato il testo sotto la costante guida del Maestro ed ha collocato sotto ogni versetto i passaggi degli Essays on the Gita cui si riferivano direttamente. All'edizione di cui sopra è seguita la traduzione in lingua francese a opera di Carnille Rao e Jean Herbert[6], e infine il più importante lavoro fatto da Philippe B. de Saint-Hilaire (Pavitra), apparso sotto il titolo Le Yoga de la Bhagavad Gita[7], di cui il presente volume ne è la traduzione diretta, salvo qualche variazione che abbiamo apportato, scegliendo diversi brani dal testo di Anilbaran Roy, che ci sembravano più esplicativi per il lettore occidentale. È questo il lavoro che presentiamo per la prima volta in lingua italiana, raccolto in volume[8]. Si è curato in modo particolare la fedeltà dell'insegnamento - tanto sottile e sfumato quanto profondo - del Maestro, imponendoci il rispetto più assoluto alla forma e al fondo, tanto dei commenti quanto dei versetti, dove Sri Aurobindo dà piuttosto che una traduzione letterale, un' interpretazione commentata, una vera ricreazione. Il lettore non dovrà quindi meravigliarsi delle differenze profonde e numerose fra questo testo della Gita e le traduzioni anteriori. Queste ultime sono state quasi esclusivamente opera di eruditi e grammatici, più interessati al segreto etimologico, alla sintesi e alla poetica che a tra-smettere il grande messaggio spirituale.

È questa invece l'opera di un grande Maestro spirituale.

Il nostro scopo, studiando la Gita, non sarà quindi tanto quel-lo di scrutarne il pensiero dal punto di vista accademico, di situare la sua filosofia nella storia della speculazione metafisica, e neppure la avvicineremo alla maniera del dialettico, acceso da spirito analitico. Chiederemo alla Gita di aiutarci e d'illuminarci; il nostro scopo sarà quello di percepire il suo messaggio essenziale e vivente, che è di rivelarci ciò che l'umanità deve afferrare per dirigersi verso la sua perfezione e verso la suprema meta spirituale.

 


 

STORIA DELLA GITA

 

 

IL Mahabharata, di cui la Bhagavad Gita è un episodio, ha assunto l'attuale forma fra il quinto e il primo secolo prima di Cristo. La Gita è parte del canto intitolato Bhishma Parva.

Mahabharata significa letteralmente 'La Grande India', ed è la narrazione epica degli Indù di altri tempi che ebbero la visione di un'India grande, dall'Imalaia a Capo Comorin, unificata nella sua cultura e nella sua vita politica.

Kuru è il nome di un importante kula o clan di quei tempi, e Kurukshetra quello di una vasta distesa di terreno prossima alla capitale, Hastinàpur (l'attuale Nuova Delhi), dove i Kuru avevano l'abitudine di celebrare i loro sacrifici religiosi.

Quando Dhritaràshtra, il re cieco dei Kuru, divenne vecchio, decise di cedere il trono, non a suo figlio Duryodhana, ma a Yudhishthira, il figlio maggiore di Pàndu, suo fratello minore. Duryodhana, uomo di cattive inclinazioni, non era degno di governare un dharmarajya (regno dove vigono i principi di diritto e giustizia, ideale dell'antica India), come invece lo era Yudhishthira, in cui s'incarnavano la virtù e la purezza. Ma Duryodhana, mediante la scaltrezza e il tradimento, s'impadronì del trono, cercando con tutti i mezzi di annientare Yudhishthira e i suoi quattro fratelli.

Krishna, Dio incarnato, capo del clan Yadava, amico e parente dei Kuru, tentò di riconciliare le due parti. In nome dei cinque fratelli Pàndava (figli di Pàndu), reclamò solamente cinque villaggi: Duryodhana rifiutò brutalmente; senza battaglia, disse, non avrebbe dato terra, nemmeno quella che sarebbe potuta stare sulla punta di uno spillo. Divenne in tal modo inevitabile battersi in nome della giustizia e del diritto. Tutti i principi dell'india si unirono all'una o all'altra delle due fazioni. Krishna, amico imparziale, offrì una scelta alle due parti: Duryodhana scelse per sé il potente esercito di Krishna, e Krishna, personalmente, entrò nel campo opposto - non come combattente, ma come auriga del carro di combattimento di Arjuna (uno dei cinque fratelli Pàndava).

Drona, che aveva istruito nell'arte militare i figli di Dhritaràshtra e di Pàndu (i Kaurava e i Pàndava), scelse il partito di Duryodhana, perché il suo vecchio nemico Drupada aveva scelto l'altro campo. Bhishma, parente dei Kaurava e dei Pàndava, l'uomo che aveva osservato la castità durante tutta la vita, il più forte del suo tempo anche in età così avanzata, era a capo del gruppo che aveva tentato la riconciliazione. Quando però i tentativi di pace fallirono e la guerra divenne inevitabile, decise, dopo scrupoloso esame dei suoi doveri e dei suoi obblighi, di appoggiare il partito di Duryodhana. Sapeva che Duryodhana aveva torto, e se la battaglia si fosse limitata ai due rami della famiglia sarebbe rimasto neutrale, ma quando vide che, approfittando di una lite familiare, i vecchi nemici del clan dei Kuru si erano schierati dal lato dei Pàndava, decise di combattere a fianco di Duryodhana per dieci giorni, e di ritirarsi poi in una morte volontaria (ottenuta con mezzi non fisici). Sotto l'esclusivo punto di vista militare, il partito di Duryodhana era nettamente superiore a quello del suo avversario. Ma questa superiorità era più che compensata dalla presenza di Krishna nell'altro campo.

Sanjaya, l'auriga del carro del vecchio re Dhritaràshtra, svolge di fronte a lui la cronaca degli avvenimenti che si succedono sul campo di Kurukshetra, dove i due eserciti si sono riuniti per una lotta senza quartiere, mai superata in importanza nella storia dell'antica India[9]. È qui che incomincia la Bhagavad Gita, letteralmente “Il Canto del Beato”, così chiamato perché ripete le parole di Krishna, il Divino incarnato, e perché insegna all'uomo ad elevarsi sopra la coscienza umana fino a una superiore coscienza divina, realizzando così, sulla terra e in un corpo umano, il Regno dei Cieli.

dei cinque fratelli Pandava, il maggiore, Yudhishthira, era il più puro e il più virtuoso, "sattvico", il minore Bhima, il più forte, "rajasico", mentre Arjuna, il terzo dei fratelli, era un equilibrio di purezza e di forza, di sattva e rajas;  per questo fu scelto dal Divino per essere il Suo principale strumento della grande guerra che doveva determinare, nel mondo, un ciclo, yugantara, e per essere il discepolo a cui dare il divino messaggio per condurre l'umanità alla sua meta: l'immortalità sulla terra.


INTRODUZIONE
Capitoli estratti dai “Saggi sulla Gita” di Sri Aurobindo

 

 

 

 

1. QUELLO CHE LA GITA PUÒ DARCI

 

Il mondo è ricco di scritti sacri e profani, di rivelazioni e semirivelazioni, di religioni, filosofie, sette, scuole, sistemi, cui si attaccano con intolleranza e passione i molti spiriti dotati di conoscenza incompleta o nulla. Essi pretendono che soltanto questo o quel libro sia l'unico Verbo eterno di Dio, che tutti gli altri siano imposture o, tutt'al più, frutti di imperfetta ispirazione; esigono che questa o quella filosofia sia l'espressione definitiva dell'intelligenza e della ragione, che tutti gli altri sistemi siano errati o validi solamente per alcune verità parziali che li ricollegano al solo culto filosofico vero. Persino le scoperte delle scienze fisiche sono state erette ad articoli di fede e, nel nome di quelle scienze, la religione e la spiritualità sono state bandite in quanto opere dell'ignoranza e della superstizione, e la filosofia come vecchio ciarpame e fantasticheria. A tali esclusioni settarie e dispute inutili si sono spesso prestati addirittura i saggi, i quali si lasciarono sviare da uno spirito oscurantista che, insinuandosi nella loro luce, la velò con qualche nube di egoismo intellettuale o di orgoglio spirituale. Sembra comunque che l'umanità sia ora disposta a una maggior modestia e saggezza. Non condanniamo più a morte i nostri simili nel nome della verità rivelata o perché il loro spirito è educato e costituito in modo differente dal nostro; siamo meno pronti a maledire o ad insultare il nostro prossimo quando è tanto perverso o tanto presuntuoso da nutrire opinioni diverse dalle nostre; siamo persino disposti ad ammettere che la verità è dovunque e non può essere monopolio nostro esclusivo; cominciamo a considerare altre religioni ed altre filosofie per la verità e l'aiuto che contengono, e non soltanto per condannarle come false o per criticarne ciò che noi riteniamo erroneo. Siamo però sempre inclini a proclamare che la nostra verità ci dà quella suprema conoscenza che le altre religioni o filosofie non hanno saputo cogliere o hanno compreso soltanto in maniera imperfetta, e che per questo motivo esse trattano unicamente aspetti sussidiari e inferiori della verità delle cose, o che possono tutt'al più preparare spiriti meno evoluti alle altezze che noi abbiamo raggiunto. E siamo anche propensi a far pesare, sugli altri come su noi stessi, tutto il sacro peso del libro e del vangelo che ammiriamo, insistendo affinché tutto venga accettato come verità eternamente valida, e che ad ogni sillaba, ad ogni accento, ad ogni dieresi sia riconosciuta la sua parte dell'ispirazione plenaria.

Ecco perché può essere utile, quando ci si accosta ad antiche Scritture, quali i Veda, le Upanishad o la Gita, indicare con precisione con quale spirito le si affrontano e ciò che esattamente si pensa di poter ricavarne di valido per l'umanità presente e futura. Affermiamo anzitutto l'esistenza certa della verità, unica ed eterna, che noi cerchiamo; da essa deriva ogni altra verità, e alla sua luce ogni altra verità si situa, si spiega e si inserisce nel piano generale della conoscenza. Ma proprio per questa ragione, tale verità non può essere racchiusa in una sola formula esclusiva ed è improbabile che la si trovi, nella sua totalità, e con tutto ciò che essa implica, in una sola filosofia o in un solo libro sacro, e che sia espressa tutta intera e per sempre da un qualsiasi maestro, pensatore, profeta, avatar. Non abbiamo neppure colto interamente tale verità se la comprensione che ne abbiamo implica l'intollerante esclusione della verità che è alla base di altri sistemi; rifiutiamo infatti con passione solo quello che non siamo in grado di apprezzare e di spiegare. Inoltre, tale verità, benché una ed eterna, si esprime nel tempo e attraverso lo spirito dell'uomo. Ogni Scrittura deve quindi comprendere due elementi: uno temporaneo e contingente, in rapporto con le idee dell'epoca e del paese in cui ha avuto origine, l'altro eterno immortale e valido in ogni epoca e in ogni luogo. Per di più, nell'esposizione della verità, è inevitabile che la forma propria che le e stata data, il sistema, l'ordine, l'impostazione metafisica e intellettuale e l'espressione precisa che si è impiegata, siano in gran parte soggetti alle modificazioni causate dal tempo e perdano la loro forza. Infatti lo spirito umano si modifica senza sosta; nel suo continuo dividere e riunificare, deve continuamente variare le sue divisioni e ricomporre le sue sintesi; esso abbandona continuamente vecchie espressioni e simboli consunti per assumerne di nuovi, oppure, se continua ad usare quelli precedenti, ne cambia il significato o almeno il contenuto esatto e le associazioni, in modo tale da non farci mai essere sicuri di capire un antico libro nel preciso senso e spirito che aveva per i suoi contemporanei. Conserva un valore del tutto permanente soltanto ciò che, pur restando universale, è stato sperimentato, vissuto e visto da una facoltà più alta dell'intelletto.

Ecco perché ritengo poco importante estrarre dalla Gita l'esatto significato metafisica ch'essa ebbe per gli uomini del suo tempo, ammesso che lo si possa fare con precisione. Che ciò non sia possibile è provato dalla divergenza dei commenti originali, che ne sono stati fatti, e dei commenti che ancora si fanno ai giorni nostri, il cui unico punto d'accordo è il disaccordo di ciascuno con tutti gli altri; ognuno trova nella Gita il proprio sistema metafisico e la tendenza del proprio pensiero religioso. Persino l'erudizione più meticolosa e più disinteressata, persino le teorie più luminose sullo sviluppo storico del pensiero indù non sarebbero in grado di salvarci dall'errore inevitabile. Ciò che invece possiamo fare con profitto è cercare nella Gita le realtà vive ch'essa contiene, indipendentemente dalla formula metafisica; dobbiamo estrarre da questo libro ciò che può aiutare, noi o il mondo in generale, e tradurlo nella forma e nell'espressione più naturali e più vive, che siano adatte alle condizioni di spirito dell'umanità moderna e appropriate alle sue esigenze spirituali, Indubbiamente, in questo tentativo è possibile un gran numero di errori, derivati dalla nostra individualità o dalle idee che costituiscono il nostro clima intellettuale, come è successo a personalità più grandi della nostra; ma se ci immergiamo nello spirito di questo grande libro, e soprattutto se cerchiamo di vivere secondo questo spirito, possiamo essere sicuri di trovarvi tanta reale verità quanta siamo capaci di riceverne, come pure l'influsso spirituale e l'aiuto efficace che personalmente siamo destinati ad attingervi. E, tutto sommato, è a questo che le Scritture sono destinate; il resto è soltanto disputa accademica o dogma teologico. Continuano ad avere un'importanza vitale per l'uomo solamente quei libri, quelle religioni, quelle filosofie elle si prestano ad essere rinnovate, rivissute, e la cui sostanza di verità permanente può essere costantemente riveduta e sviluppata nel pensiero più profondo e nell'esperienza spirituale dell'umanità in continuo sviluppo. Gli altri libri si limitano a figurare quali monumenti del passato; non hanno più una forza reale o un vitale impulso per l'avvenire.

Nella Gita ben poche cose sono puramente locali o temporanee; il suo spirito è così profondo, così vasto e universale che anche quel poco può essere facilmente universalizzato, senza che il senso dell' insegnamento ne sia sminuito o violato; piuttosto ne guadagna in profondità, in verità e forza, assumendo una portata più vasta di quella che avrebbe se lo si limitasse a un solo paese e a una sola epoca. Del resto il testo stesso suggerisce frequentemente la più ampia portata che si può dare a un'idea, in sé stessa locale e temporanea. La Gita, ad esempio, parla dell'antica idea e dell'antico sistema indiani del sacrificio come interscambio tra dèi e uomini, sistema e idea che sono di fatto caduti in disuso persino nell'India e che non offrono più alcuna realtà allo spirito umano in generale. Noi troviamo però in quest'opera, attribuito alla parola “sacrificio', un senso così sottile, così figurato e simbolico, e la concezione degli dèi così poco locale e mitologica, da mettere in rilievo l'intonazione cosmica e filosofica fino al punto da farci accettare facilmente questi termini come l'espressione di un fatto psicologico reale, come una legge generale della natura, per applicarli quindi alle concezioni moderne di scambio vitale, di sacrificio etico e di dono di sé, in modo da ampliare e approfondire questi termini e dare loro un aspetto più spirituale e una luce di verità più profonda e più estesa. Analogamente l'idea dell'azione in accordo con lo shastra, l'istituzione delle quattro caste sociali, l'allusione ai rapporti reciproci tra le caste o all'inferiorità spirituale relativa degli shudra e delle femmine, sembrano a prima vista concezioni puramente locali e temporanee e, se considerate in un senso troppo letterale, talmente ristrette da privare la lezione della Gita della sua universalità e della sua profondità spirituale, limitandone il valore per l'umanità in generale. Se, però, spingendo lo sguardo oltre al nome locale e all'istituzione passeggera, cerchiamo di coglierne il senso e lo spirito, possiamo vedere che anche in questo caso il senso è profondo e vero, e lo spirito filosofico spirituale e universale. Ci accorgiamo che per shastra la Gita intende la legge che l'umanità si è imposta per sostituire l'azione puramente egoistica dell'uomo naturale non rigenerato, per frenare la sua tendenza a vedere nella soddisfazione dei desideri il valore e il fine della sua vita. Vediamo anche che questa quadruplice organizzazione della società (le quattro caste) non è altro che la forma concreta di una visione spirituale indipendente da tale forma; essa si fonda sulla concezione del giusto lavoro, inteso come l'espressione giusta e ordinata della natura dell' essere individuale da cui il lavoro viene svolto; la stessa natura infatti gli assegna la linea direttiva e il campo d'azione in conformità alle sue qualità congenite e alle sue possibilità d'espressione. Siccome tale è lo spirito con cui la Gita espone i suoi esempi più particolari e più locali, possiamo a buon diritto applicare sempre lo stesso principio e ricercare, in ogni caso, la verità generale piú profonda che, siamone pur certi, sta alla base di ciò che sembra, a prima vista, appartenere semplicemente a un luogo o a un tempo. Infatti, scopriremo sempre che una verità e un principio più profondi sono implicati nella trama del pensiero, anche se non vengono enunciati in termini chiari.

Tratteremo sempre nel medesimo spirito gli elementi del dogma filosofico o della fede religiosa, sia ch'essi facciano parte integrante della Gita, sia che derivino dall'uso dei termini filosofici e dei simboli religiosi ricorrenti nel suo tempo. Quando la Gita parla di Sankhya e di Yoga, ci manterremo nei limiti indispensabili ai nostro trattato e non discuteremo a lungo dei rapporti tra il Sànkhya che ci presenta la Gita, caratterizzato dall'unico Purusha e dalla sua espressione così chiaramente vedantina e il Sankhya non-teistico o ateistico, che è giunto fino a noi col suo sistema di Purusha molteplici e di Prakriti unica. Non ci soffermeremo molto neppure sui rapporti dello Yoga della Gita, cosi diverso, sottile, ricco ed elastico, con la dottrina teistica e il sistema fisso, scientifico, rigorosamente definito e classificato dello Yoga di Patanjali. Nella Gita è evidente che Sànkhya e Yoga sono due parti convergenti della stessa verità vedantina o piuttosto due vie parallele che conducono alla sua realizzazione, l'una filosofica, intellettuale e analitica, l'altra intuitiva, devozionale, pratica, etica e sintetica, che giunge alla conoscenza attraverso l'esperienza. La Gita non ammette vera differenza tra i loro insegnamenti. Ancor meno dobbiamo discutere le teorie che considerano la Gita come il frutto di una tradizione o di un sistema religioso particolare. Il suo insegnamento è universale, qualunque abbia potuto esserne l'origine.

Il sistema filosofico della Gita, la sua concezione della verità, non costituisce la parte più viva, più profonda del suo insegnamento, quella destinata a durare in eterno; tuttavia la maggior parte degli elementi da cui il sistema è composto, le principali idee suggestive e penetranti che s'intrecciano nella sua complessa armonia, hanno valore ed efficacia eterni; si tratta, infatti, non soltanto di idee luminose o di brillanti speculazioni di un'intelligenza filosofica, ma piuttosto di perenni verità d'esperienza spirituale, di fatti verificabili delle nostre più alte possibilità psicologiche, che nessuno di coloro che cercano di penetrare i più profondi misteri dell'esistenza può pretendere d'ignorare. Di qualsiasi genere possa essere questo sistema, non è stato composto, come i suoi commentatori si sforzano di presentarcelo, con l'intenzione di servire da supporto esclusivamente e tale scuola di pensiero filosofico per mettere in evidenza i titoli di tale altra forma di yoga. Infatti il linguaggio della Gita, la struttura del suo pensiero, la composizione e l'equilibrio delle idee non appartengono né al temperamento di un maestro settario né allo spirito di una dialettica rigorosamente analitica che isoli un frammento della verità escludendo tutto il resto; vi appare piuttosto un movimento di idee, ampio, fluente, comprensivo, che rivela un vasto spirito e una ricca esperienza sintetica. Si tratta di una di quelle grandi sintesi di cui fu ricca la spiritualità dell'India, che abbonda pure nella creazione di movimenti intensi ed esclusivi di conoscenza e di realizzazione religiosa, volti a seguire, in assoluta concentrazione, un filo direttivo, una via, fino alla sua ultima conseguenza. Quest'opera non tende a separare e ad opporre, ma a conciliare e ad unificare.

Il pensiero della Gita non è puro monismo, benché essa veda nel Sé unico, immutabile, puro ed eterno, il fondamento di tutta l'esistenza cosmica; non è neppure mayavada, benché essa parli di maya, nelle tre qualità fondamentali di Prakriti; non si tratta neanche di un monismo qualificato, benché essa ponga nell'Uno la sua eterna e suprema Prakriti, manifestata sotto la forma di jiva, e che, a suo giudizio, la suprema condizione di coscienza spirituale consista piuttosto nella vita in Dio che nella dissoluzione in Lui. Il suo pensiero non è neppure Sànkhya, benché spieghi il mondo creato col doppio principio di Purusha e di Prakriti; non è neanche un teismo vishnuita, benché ci presenti Krishna, che è, secondo i Purana, l'Avatàr di Vishnu, come la divinità suprema, e non riconosca al Brahman, senza relazione col mondo, inafferrabile e trascendente, nessuna superiorità reale, dovuta a una differenza essenziale con questo Signore degli esseri che è il Maestro dell'universo e l'Amico di ogni creatura. Proprio come la prima sintesi spirituale delle Upanishad, questa sintesi posteriore, spirituale e intellettuale nello stesso tempo, evita naturalmente ogni rigida determinazione che limiterebbe la sua universale comprensibilità. Il suo scopo è esattamente l'opposto di quello dei suoi polemici commentatori i quali, trovando che questo libro brillava come una delle tre più alte autorità vedantina, cercarono di farne uno strumento di difesa e di offesa contro altre scuole o sistemi diversi dal loro. La Gita non è fatta per essere usata come un'arma nel corso di una disputa dialettica; essa è una porta aperta su tutto il mondo della verità e dell'esperienza spirituale; la sua prospettiva abbraccia tutti i campi di quel mondo supremo; essa ne traccia la carta, ma non la ritaglia in pezzetti e non costruisce muri e barriere per limitarci la visione.

Ci furono altre sintesi nella lunga storia del pensiero indù. La prima fu la sintesi vedica che collegò con l'esistenza cosmica degli dèi, l'essere psicologico dell'uomo nei suoi più alti slanci e nelle sue più vaste conquiste di divina conoscenza, di potere, di gioia, di vita e di gloria; sintesi raggiunta oltre i simboli dell'universo materiale sui piani superiori che sono nascosti ai sensi fisici e alla mentalità materiale. Il coronamento di quella sintesi fu, secondo l'esperienza dei Rishi vedici, qualcosa di divino, di trascendente e di beatifico, nella cui unità l'anima umana in crescita e l'eterna pienezza degli dèi cosmici s'incontrarono in maniera perfetta e trovarono il loro pieno adempimento. Le Upanishad s'ispirarono alla capitale ed eccelsa esperienza dei primi veggenti e ne trassero lo spunto per un'alta e profonda sintesi di conoscenza spirituale: riunirono in una grande armonia tutto ciò che era stato visto e sperimentato durante un ricco e fertile periodo di ricerche spirituali da parte di coloro che, ispirati e liberati, conobbero l'Eterno. La Gita prende lo spunto da questa sintesi vedantina e, sulla base delle sue idee essenziali, costruisce una nuova armonia che riunisce i tre grandi metodi e poteri: amore, conoscenza e azione, attraverso i quali l'anima umana può direttamente giungere all'Eterno, e fondersi in Lui. e n'è ancora un'altra, la tantrica[10], che, benché meno sottile e spiritualmente meno profonda, è ancor più ardita e più possente della sintesi della Gita; essa infatti, assumendo persino gli ostacoli che si oppongono alla vita spirituale, li costringe a divenire gli strumenti di una conquista spirituale ancor più ricca; essa ci offre la possibilità di abbracciare nel nostro orizzonte divino Ia totalità della vita come divina lila (Il giuoco cosmico). In un certo senso, è più immediatamente ricca e feconda, poiché fa passare in primo piano, non soltanto la conoscenza divina, le opere divine e una devozione arricchita d'amor divino, ma anche i segreti dello Hatha-yoga e del Raja-yoga, cioé l'impiego del corpo e dell'ascesi mentale per la rivelazione della vita divina su tutti i piani, metodi cui la Gita presta attenzione soltanto incidentalmente e di sfuggita. Inoltre, questa sintesi tantrica cerca di far sua la nozione della divina perfettibilità dell'uomo, che possedevano i Rishi vedici, ma che le età intermedie avevano ricacciato nell'ombra, nozione destinata ad avere una così grande importanza in ogni futura sintesi del pensiero, dell'esperienza delle aspirazioni umane.

Noi che apparteniamo al giorno che sorge, ci troviamo all'inizio dello sviluppo di una nuova era che deve condurre a una nuova e più vasta sintesi. Noi non siamo obbligati ad essere vedantini ortodossi di una delle tre scuole, né tantrici, né a aderire ad una delle religioni teistiche del passato, né a barricarci dietro i quattro muri dell'insegnamento della Gita. Ciò equivarrebbe a limitare noi stessi, a cercar di costruire Ia nostra vita spirituale mediante l'essere, la conoscenza e la natura di altri uomini, di uomini del passato, invece di costruirla mediante il nostro essere e le nostre possibilità. Noi non apparteniamo alle aurore del passato, ma ai meriggi del domani.

Una massa di nuovi elementi si riversa in noi; dobbiamo no solo assimilare gli influssi delle grandi religioni teistiche dell'India del mondo - come pure un senso ritrovato di quanto rappresenta il Buddismo - ma anche tener pienamente conto delle possenti rivelazioni, sia pure limitate, della scienza e della ricerca moderne; inoltre, un lontano passato immemore, che sembrava morto, ritorna a noi con tutto il fulgore di numerosi segreti luminosi, da molto tempo perduti per Ia coscienza dell'umanità, e che adesso si affacciano di nuovo dietro il velo. Tutto ciò indica una nuova sintesi, vastissima e molto ricca. La creazione di una nuova armonia, dall'ampio orizzonte, di tutto ciò che é stato finora acquisito, é una necessità per l'avvenire, intellettuale e spirituale allo stesso tempo. Ma, proprio come le sintesi del passato hanno preso per punto di partenza quelle che le avevano precedute, così pure quella dell'avvenire, per poggiare su un terreno solido, deve procedere da ciò che hanno lasciato, nel passato, le grandi opere di realizzazione spirituale del pensiero e dell' esperienza. Tra queste, la Gita occupa una delle posizioni più importanti.

Quindi il nostro oggetto nello studiare la Gita, non sarà né un esame scolastico o accademico del suo pensiero, né una ricerca della posizione che occupa la sua filosofia nella storia della speculazione metafisica, e neppure ne discuteremo alla maniera del dialettico analitico. Ci accosteremo ad essa per trovarvi aiuto e luce, proponendoci di estrarne il messaggio essenziale e vivo, quello che l'umanità deve cogliere per il suo più alto perfezionamento e per la sua più alta prosperità spirituale.


 

2. IL DIVINO MAESTRO

 

La Gita si distingue dagli altri grandi libri religiosi del mondo, in quanto non è un'opera isolata, autosufficiente, frutto della vita spirituale di una personalità creatrice quale il Cristo, Maometto o il Buddha, o di un'epoca di pura ricerca spirituale, come lo sono i Veda e le Upanishad. Essa ci viene tramandata come un episodio della storia epica delle nazioni e degli uomini, delle loro guerre e delle loro imprese, e prende spunto dalla crisi momentanea dell' anima di uno dei suoi personaggi principali di fronte all'azione suprema della sua vita, azione terribile, violenta e sanguinaria, nel momento in cui egli sta per abbandonare l'impresa o per intraprenderla e condurla inesorabilmente sino alle ultime conseguenze. Poco importa se la Gita è o meno, come suppone la critica moderna, un'opera posteriore inserita dal suo autore nel corpo del Mahàbhàrata, al fine di dare al suo insegnamento l'autorità e la popolarità di quella grande epopea nazionale. Mi sembra che ci siano forti ragioni contro tale ipotesi, e che le prove in suo favore, sia intrinseche sia estrinseche, siano comunque deboli e, in ultima analisi, insufficienti. Quando anche fossero valide, è pur sempre innegabile che l'autore non soltanto si è preso la briga d'intrecciare inestricabilmente la sua opera nel tessuto del grande poema, ma inoltre si preoccupa a più riprese di ricordarci la situazione di fatto da cui il suo insegnamento è scaturito: vi ritorna con insistenza non soltanto alla fine ma anche nel bel mezzo delle sue profonde dissertazioni filosofiche. Dobbiamo arrenderci all'insistenza dell'autore e riconoscere l'importanza di questa preoccupazione del maestro e del discepolo. Ecco perché l'insegnamento della Gita dev'essere considerato non soltanto alla luce di una filosofia spiritualistica o di una dottrina etica, in generale, ma in rapporto a una reale crisi nell'applicazione dell'etica e della spiritualità alla vita umana. Ciò che questa crisi rappresenta, il significato della battaglia di Kurukshetra e il suo effetto sull'essere interiore di Arjuna, ecco quello che dobbiamo anzitutto stabilire se vogliamo cogliere l'intento centrale delle idee della Gita.

È ovvio che un grande sviluppo del più profondo insegnamento non può essere costruito attorno a un comune avvenimento che non nasconda, dietro il suo aspetto esteriore e superficiale, un abisso di profonde suggestioni e di pericolose difficoltà, per cui basterebbe semplicemente l'applicazione delle regole comuni e correnti del pensiero e dell'azione. Ci sono infatti tre punti della Gita che hanno un significato spirituale quasi simbolico e tipico dei rapporti e dei problemi più profondi della vita spirituale e dell'esistenza umana nei suoi principi. Essi sono: la divina personalità del maestro, le sue relazioni caratteristiche con l'allievo e l'occasione del suo insegnamento. Il maestro è Dio stesso fatto uomo; il discepolo è, per usare il linguaggio moderno, l'uomo più rappresentativo del suo tempo, amico intimo dell'Avatàr e suo strumento prescelto, suo protagonista in un'opera e in un combattimento imponenti, il cui segreto disegno, ignorato dagli attori, è conosciuto soltanto dal Dio incarnato che dirige ogni cosa restando dietro il velo della sua insondabile saggezza; l'occasione è la crisi violenta di quell'opera e di quella lotta, nel momento in cui l'angoscia, la difficoltà morale e la cieca violenza dei loro movimenti apparenti s'impongono, scuotendolo con l'evidenza della rivelazione, allo spirito del loro uomo rappresentativo, e suscitano l'intero problema del significato di Dio nel mondo, e quello dello scopo, del fine e del senso della vita umana e della condotta dell'uomo.

Dall'antichità, l'India ha conservato fortemente radicata la fede nella realtà dell'Avatàr, discesa nella forma, rivelazione della Divinità nell'uomo. In Occidente questa fede non ha mai segnato un' impronta veramente profonda nello spirito, poiché gli è stata presentata dal Cristianesimo essoterico come un dogma teologico senza fondamento nella ragione, nella coscienza generale e nell'atteggiamento adottato nei riguardi della vita. In India, invece, essa si è sviluppata, si è affermata come risultato logico delle convinzioni vedantine sulla vita, e si è radicata in modo definitivo nella coscienza della razza. Ogni esistenza è una manifestazione di Dio poiché egli è la sola esistenza, e nulla esiste che non sia una figura reale o un'immagine di quest'unica realtà. Ecco perché ogni essere cosciente è, in parte o in un certo modo, una discesa dell'Infinito nel finito apparente del nome e della forma. Si tratta però di una manifestazione velata e intercorrono molti gradi tra l'essere supremo del Divino e, nel finito, la coscienza oscurata parzialmente o totalmente dall'ignoranza del sé. L'anima cosciente incarnata è una scintilla del fuoco divino, e quest'anima si apre nell'uomo alla conoscenza di sé stessa, nella misura in cui, uscendo dall'ignoranza di sé, si sviluppa in un essere cosciente. Analogamente il Divino, che si diffonde nelle forme dell'esistenza cosmica, si rivela comunemente nel fiorire delle sue Forze, nell'energia e nella grandezza della sua conoscenza, del suo amore, della sua gioia, della forza d'essere ch'egli sviluppa, nei gradi e negli aspetti della sua divinità. Ma quando il Divino, nella sua coscienza e nel suo potere, assume forma umana col modo d'agire umano, e non si limita a possedere questa forma soltanto con la sua potenza e grandezza, con alcuni gradi e con alcuni aspetti di sé stesso, ma con l'eterna conoscenza di sé, quando 'Quello che non nasce' si conosce e agisce secondo la struttura dell'essere mentale e sotto l'apparenza della nascita e vita terrena, allora è raggiunto il culmine della manifestazione condizionata, ed è la piena e cosciente discesa della Divinità: è l'Avatàr.

La forma vishnuita del Vedantismo, quella che ha messo il più forte accento su questa nozione, esprime la relazione fra Dio nell' uomo e l'uomo in Dio attraverso la doppia immagine di Nara-Nàràyana, che è storicamente associata all'origine di una scuola religiosa assai simile nelle sue dottrine all'insegnamento della Gita. Nara è l'anima umana che, eterna compagna del Divino, non trova sé stessa che quando si sveglia a tale rapporto e quando comincia, come direbbe la Gita, a vivere in Dio. Nàràyana è l'anima divina sempre presente nella nostra umanità, la guida, l'amico e il sostegno segreto dell'essere umano, il 'Signore che abita nel cuore delle creature', della Gita. Quando in noi il velo di quel santuario intimo si apre e l'uomo parla a Dio senza intermediari, direttamente, quando sente la voce divina, riceve la luce divina, agisce con la potenza divina, allora è possibile l'ascesa suprema dell'essere cosciente umano incarnato, fuori della nascita e della vita terrena, nell'Eterno. Egli diventa capace di vivere in Dio e di abbandonare totalmente in lui la propria coscienza - ciò che la Gita proclama essere il migliore e il più profondo segreto delle cose. Quando quest'eterna coscienza divina, sempre presente in ogni essere umano, questo Dio nell'uomo, prende parzialmente[11] o totalmente possesso della coscienza umana e diviene, sotto forma umana visibile, la guida, il maestro e il condottiero del mondo, non però come nel caso di coloro che, pur vivendo assai umanamente, percepiscono tuttavia qualcosa del potere, della luce e dell'amore della divina Gnosi che li anima e li conduce, ma quando essa agisce dal seno stesso di questa divina Gnosi, direttamente dalla sua forza e pienezza centrali, siamo allora evidentemente in presenza dell'avatar. La divinità interiore è l'eterno Avatàr nell' uomo; la manifestazione umana ne è il segno e lo sviluppo nel mondo esterno.

Quando comprendiamo in tal modo il concetto di Avatàr, ci rendiamo conto di come l'apparenza delle cose abbia una ben secondaria importanza per quanto concerne sia l'insegnamento della Gita, oggetto di questi saggi, sia la vita spirituale in genere. Una controversia del tipo di quella che ha appassionato gli spiriti in Europa, sulla storicità del Cristo, parrebbe del tutto oziosa a un Indù di tendenza spirituale; egli accorderebbe a tale questione un'importanza storica considerevole, ma appena la minima importanza religiosa: che importa infatti, tutto sommato, che un certo Gesù, figlio del falegname Giuseppe, sia realmente nato a Nazaret o a Betlemme, che abbia vissuto, insegnato e sia stato messo a morte sotto un'accusa, fondata o inventata, di sedizione, dal momento che noi possiamo conoscere attraverso l'esperienza spirituale il Cristo interiore, vivere illuminati dalla luce del suo insegnamento e sfuggire al giogo della legge naturale attraverso la riconciliazione dell'uomo con Dio che la crocifissione simbolizza! Se il Cristo, Dio fatto uomo, vive nel nostro essere spirituale, sembra poco importante che un figlio di Maria sia vissuto fisicamente, abbia sofferto e sia morto in Giudea. Analogamente, il Krishna che ci interessa è l'eterna incarnazione del Divino e non l'uomo storico che istruì e condusse gli uomini.

 

Siccome noi cerchiamo il nocciolo del pensiero della Gita, non dobbiamo occuparci che del significato spirituale di Krishna, l'uomo.. dio del Mahàbhàrata, il quale ci è presentato come il maestro di Arjuna sul campo di battaglia di Kurukshetra. Il Krishna storico, senza alcun dubbio, è esistito. Incontriamo il suo nome per la prima volta nella Chandogya Upanishad. Tutto ciò che possiamo precisare a suo proposito è che egli era assai noto nella tradizione spirituale come uno di coloro che conoscevano il Brahman; era addirittura così celebre nella sua personalità e nelle circostanze della sua vita che bastava menzionare Krishna, figlio di Devaki, sua madre, perché chiunque sapesse di chi si parlava. Nella medesima Upanishad vien fatta menzione del re Dhritaràshtra, figlio di Vichitravirya, e poiché la tradizione associava tanto strettamente quei due nomi da farne due dei principali personaggi del Mahàbhàrata, possiamo trarne la conclusione, ben giustificata, ch'essi furono realmente contemporanei e che l'epopea tratta, in gran parte, di personaggi storici e anche di un avvenimento storico, la guerra di Kurukshetra, profondamente impresso nella memoria della razza. Sappiamo anche che Krishna e Arjuna furono l'oggetto di un culto religioso nei secoli precristiani, e non mancano ragioni per supporre ch'essi furono in rapporto con una tradizione religiosa e filosofica, da cui la Gita avrebbe potuto trarre parte dei suoi argomenti e in cui avrebbe potuto persino trovare il principio della sua sintesi di conoscenza, devozione e azione; e forse il Krishna umano fu il fondatore, il rinnovatore, o almeno uno dei primi maestri di questa scuola. La Gita può ben rappresentare, malgrado la redazione più tardiva, la continuazione dell'insegnamento di Krishna nel pensiero indù, ed è ben possibile che il legame di questo insegnamento col Krishna storico, con Arjuna e con la guerra di Kurukshetra sia qualcosa di più che una finzione letteraria. Nel Mahàbhàrata Krishna è rappresentato contemporaneamente come personaggio storico e come Avatàr; il culto che gli si attribuiva e la sua natura di Avatàr dovevano quindi essere solidamente affermati fin dall'epoca in cui l'antico poema storico, la tradizione epica dei Bhàrata, prese la sua forma attuale, cioè, a quanto ci risulta, tra il quinto e il primo secolo a. C. Nel poema si trova anche un'allusione alla storia e alla leggenda della giovinezza dell' Avatàr a Vrindàvan, storia o leggenda che fu sviluppata dai Puràna in un intenso e possente simbolo spirituale, e che sotto tale forma esercitò una profondissima influenza sul pensiero religioso dell'India. Possediamo anche nelle Harivansha un racconto della vita di Krishna, evidentemente assai leggendario, e che forse è stato all'origine dei racconti dei Puràna.

Ma tutto ciò, benché abbia una grande importanza storica, non ne ha affatto per il nostro scopo attuale. Noi non ci occupiamo che della figura del Maestro divino, tale quale ce la propone la Gita, e del potere ch'egli rappresenta nell'illuminazione spirituale dell' essere umano.

La Gita accetta la nozione dell'Avatàr umano; il Signore, infatti, afferma la manifestazione ripetuta, addirittura costante del Divino nell'umanità, ogni volta che Egli, l'Eterno senza nascita, attraverso le vie della sua maya, col potere della sua coscienza infinita di rivestire forme finite, assume le condizioni del divenire che noi chiamiamo nascita. Non è tuttavia su quest'incarnazione che la Gita insiste, ma sul Divino trascendente, cosmico e interiore, sul Principio di tutte le cose, il Signore dell'universo, e sulla Divinità segreta nell'uomo. Proprio a questa Divinità intima si riferisce la Gita quando dice, di coloro che nel corso della loro ascesi si dedicano ad eccessive austerità asuriche[12], ch'essi offendono il Dio interiore, o quando menziona il peccato di coloro che disprezzano il Divino abitatore del corpo umano, o ancora quando afferma che questa Divinità distrugge la nostra ignoranza con la lampada fiammeggiante della conoscenza. È dunque l'eterno Avatàr, il Dio nell'uomo, la divina coscienza sempre presente nell'essere umano, manifestata in forma visibile, che nella Gita parla all'anima umana, illumina il significato della vita e il segreto dell'azione divina e dà all'anima, nell'ora in cui questa è messa di fronte al doloroso mistero del mondo, la luce della conoscenza e della direzione divine, contemporaneamente alla parola rassicurante o fortificante del Signore dell'esistenza. E proprio ciò che la coscienza religiosa indiana cerca di rendere intimo, sotto qualunque forma, sia con un'immagine umana simbolica, elevata sugli altari dei suoi templi, sia col culto dei suoi Avatàr, sia ancora con la devozione rivolta al guru umano, attraverso il quale si fa sentire la voce dell'unico Maestro universale. Con tutti questi culti, la tradizione spirituale indù cerca di svelare quella forma del Senza-forma, di destare le coscienze a quella voce interiore, e di metterle di fronte al Divino manifesto nel suo potere, nel suo amore e nella sua conoscenza.

In secondo luogo, noi troviamo nella Gita il significato tipico, quasi simbolico del Krishna-uomo che dirige la grande azione del Mahàbhàrata, non nella parte dell'eroe, ma quale centro segreto e guida nascosta. All'azione di questo dramma partecipa tutto un mondo d'uomini e di nazioni; alcuni sono venuti per unirsi ad un' impresa il cui successo non sarà loro personalmente di alcun profitto, e per essi è un capo; altri sono venuti per opporsi, e per questi è un avversario, colui che ne sventa i piani e li combatte sino alla morte: a qualcuno di essi egli sembra addirittura l'istigatore di tutti i mali, il distruttore dell'ordine antico, del loro mondo familiare, dei valori riconosciuti e scontati di virtù e bene morale; altri ancora sono rappresentativi di ciò che dev'essere compiuto, e per questi egli è il consigliere, l'aiuto, l'amico. Quando l'azione segue il suo corso naturale, quando gli artefici dell'opera devono soffrire per mano dei loro nemici o sopportare le prove che li preparano alla vittoria, l'Avatàr è invisibile o non appare che occasionalmente per dare aiuto o conforto; in ogni momento critico la sua mano si fa tuttavia sentire, in modo tale che ciascuno immagina d'essere il protagonista, e che lo stesso Arjuna, il suo migliore amico, il suo strumento principale, non si rende conto di essere soltanto uno strumento, e confessa infine che sino a quel momento non aveva realmente conosciuto il suo divino amico. Aveva ricevuto il consiglio dalla sua saggezza e l'aiuto dalla sua forza, l'aveva amato e ne era stato amato, l'aveva persino adorato, senza comprenderne la natura divina: egli era stato diretto come gli altri attraverso lo schermo del proprio egoismo, e consigli, aiuto e direzione gli furono dati neI linguaggio dell'ignoranza e furono da lui ricevuti con i pensieri dell'ignoranza. Sino al momento in cui tutto fu spinto fino all'esito terribile che fu la battaglia sul campo di Kurukshetra, e che l'Avatàr assunse la parte, non del combattente, ma dell'auriga che conduce il carro di guerra che regge il destino della lotta, egli non si era ancora rivelato neppure a coloro che aveva prescelto.

La figura di Krishna diviene quindi, per così dire, il simbolo del modo in cui il Divino agisce con l'umanità. Attraverso il nostro egoismo e la nostra ignoranza siamo spinti e diretti, sempre mantenendo l'illusione di essere noi stessi gli autori della nostra opera, e vantandoci di rappresentare la vera causa del risultato ottenuto. Ciò che ci spinge e dirige, ci limitiamo ad intravederlo accidentalmente come una sorgente vaga e talvolta umana e terrestre di conoscenza, di aspirazione, di forza, come qualche principio di luce e di potere, che noi riconosciamo e adoriamo senza sapere ciò che è, fino al momento in cui nasce l'occasione che ci obbliga a fermarci davanti al velo. E l'azione in cui si muove la figura divina è tutta la vasta azione dell'uomo nella vita, non soltanto nella vita interiore, ma in tutto l'oscuro corso del mondo, che possiamo giudicare soltanto con la penombra della ragione umana, la quale proietta la sua luce confusa davanti all'incertezza dei nostri passi. La nota caratteristica della Gita è che sia proprio il punto culminante di tale azione a creare l'occasione dell'insegnamento e a conferire tanta importanza e un così ardito rilievo al vangelo dell'azione, ch'essa annuncia con un'insistenza e una forza che non si trovano nelle altre scritture indù. Non soltanto nella Gita, ma anche in altri passaggi del Mahàbhàrata, Krishna insiste sulla necessità dell'azione; ma proprio in quest'opera egli ne svela il segreto e rivela la divinità che dirige le nostre opere.

Il legame simbolico dell'amicizia che unisce Arjuna a Krishna, l'anima umana all'anima divina, è espresso anche altrove nel pensiero indù: col viaggio al cielo di Indra e Kutsa, seduti sul medesimo cocchio, con l'immagine dei due uccelli sullo stesso albero nelle Upanishad, con le figure gemelle di Nara e Nàràyana, i veggenti che praticano insieme la tapasyà[13] per giungere alla conoscenza. Quelle tre parabole hanno però lo scopo di rendere chiara l'idea che soltanto nella coscienza divina ogni azione raggiunge il suo vertice, mentre invece in quest'opera è l'azione a condurre a tale conoscenza, ed è proprio nel corso dell'azione che Dio si presenta come colui che sa. Arjuna e Krishna, l'umano e il divino, si trovano assieme, ma non come due veggenti a meditare in un cremo tranquillo, bensì sul cocchio di guerra, l'uno come combattente, l'altro come auriga, in mezzo al clamore della battaglia e al fragore delle armi. Ecco perché il Signore della Gita non è soltanto il Dio incarnato che si rivela mediante le parole della saggezza, ma anche il Dio incarnato che muove tutto il nostro mondo d'azione, mediante il quale e per il quale tutta la nostra umanità esiste, lotta e lavora, e verso cui cammina e progredisce tutta l'umana vita. Egli è il Signore segreto delle opere e del sacrificio; è l'Amico del genere umano.


 

3. IL DISCEPOLO UMANO

 

Tale è dunque il divino Maestro della Gita, l'eterno Avatàr, il Divino disceso nella coscienza umana, il Signore che si trova nel cuore di tutti gli esseri, Colui che guida, nascosto dietro il velo, tutti i nostri pensieri, le nostre azioni e le aspirazioni del nostro cuore, e che ugualmente dirige, dietro il velo delle forme, delle forze e delle tendenze visibili o sensibili, Ia grande azione universale del mondo che egli ha manifestato nel suo proprio essere. Tutto lo sforzo delle nostre ricerche e dei nostri tentativi di ascesa trova il suo coronamento e si placa, appagato dalla perfezione raggiunta, quando possiamo squarciare il velo e penetrare di là dal nostro io apparente fino a quel “Sé” autentico, quando possiamo integrare tutto il nostro essere in quel vero Signore del nostro essere, quando possiamo rinunciare alla nostra personalità per l'unica e reale Persona, immergere nella sua piena luce le nostre attività mentali sempre disperse e sempre convergenti, offrire la nostra volontà aberrante, sempre in lotta, alla sua volontà vasta, luminosa e indivisa, e abbandonare, appagandoli, i nostri desideri ed emozioni centrifughi e dissipati alla pienezza della sua beatitudine che esiste di per sé stessa. Tale il Maestro del mondo, Colui la cui eterna conoscenza si riflette in modo vario e parziale in tutti gli insegnamenti piú elevati; tale è la voce cui si deve destare l'udito della nostra anima.

Arjuna, il discepolo che riceve l'iniziazione sul campo di battaglia, è la controparte di questa concezione del Maestro. È il tipo dell'anima umana che lotta e non ha ancora la conoscenza, ma che è diventata capace di riceverla attraverso la sua azione nel mondo, compiuta in una crescente amicizia e intimità col “Sé” superiore e divino nell'umanità. Secondo un'interpretazione che si usa dare alla Gita, non soltanto quest'episodio, ma l'intero Mahàbhàrata si ridurrebbe a un'allegoria della vita interiore, e non avrebbe nulla che vedere con la vita e l'azione umana esteriori; le battaglie narrate sarebbero quelle che l'anima sferra alle forze che lottano in noi per possederci. È un'interpretazione che il carattere generale dell'epopea e il tipo di linguaggio in essa usato non giustificano, e che, se osservata un po' piú attentamente, ridurrebbe il linguaggio della Gita, filosofico ma senza ripieghi, ad una mistificazione continua, forzata e un po' puerile. Certo il linguaggio dei Veda e di almeno una parte dei Puràna è decisamente simbolico, pieno d'immagini e di rappresentazioni concrete delle cose nascoste dietro il velo; la Gita redige invece in termini assai semplici, pretende di risolvere i grandi problemi etici e spirituali che pone la vita umana, e non si può andare oltre il suo linguaggio e il suo pensiero, cosi semplici, per travestirli ad arbitrio della propria fantasia. Quest'interpretazione ha comunque una parte di verità, cioé, che l'esposizione della dottrina è, se non simbolica, almeno tipica, come deve necessariamente essere l'esposizione di un discorso quale quello della Gita, se deve avere una qualsiasi relazione col contesto in cui s'inserisce. Come abbiamo visto, Arjuna è l'uomo rappresentativa di una grande lotta mondiale e di un movimento, diretto da mano divina, di uomini e di popoli; nella Gita egli rappresenta il tipo dell'anima umana d'azione, nel momento della sua piú profonda e più violenta crisi, posta da quest'azione di fronte al problema della vita umana e della sua apparente incompatibilità con lo stato spirituale o persino con un ideale morale di perfezione.

Arjuna il combattente, e al suo fianco nel carro sta, come auriga, il divino Krishna. Nei Veda troviamo questa stessa immagine dell'anima umana e del Divino che attraversano nello stesso carro il campo di una grande battaglia per raggiungere lo scopo offerto da un tentativo lungimirante. Si tratta però di pura figurazione e di simbolo. In quel caso il divino Indra, signore del mondo di luce e d'immortalità, potere della divina coscienza che scende ad aiutare l'uomo che cerca la verità e che combatte contro i figli della menzogna, dell'oscurità, delle limitazioni e della morte; la battaglia è la lotta contro i nemici spirituali che sbarrano la strada verso il mondo superiore del nostro essere; il fine è il piano della vasta esistenza, risplendente della luce della verità suprema, elevato sino alla cosciente immortalità dell'anima divenuta perfetta, piano di cui Indra è il signore. L'anima umana è Kutsa, colui che, come il suo nome indica, cerca con costanza la saggezza del veggente, ed è il figlio di Arjuna, “il Bianco', o di Arjuni, “la Bianca', prole di Shvitrà, “la Bianca Madre'. È l'anima sattvica, purificata e piena di luce, aperta alla gloria ininterrotta della conoscenza divina. E quando il carro giunge alla fine del viaggio, che è proprio la dimora di Indra, l'umano Kutsa è arrivato ad assomigliare al suo divino compagno in modo così completo che soltanto Shachi, la sposa di Indra, può distinguere l'uno dall'altro, poiché essa è "cosciente della verità". Si tratta evidentemente di una parabola che riguarda la vita interiore dell'uomo; è un'immagine dell'umano che cresce a somiglianza dell'eterno divino attraverso la sempre più grande illuminazione della conoscenza. La Gita invece parte dall'azione; e Arjuna è l'uomo d'azione e non di pensiero, è il guerriero, e mai il veggente e il filosofo.

Il caratteristico temperamento del discepolo è chiaramente indicato fin dall'inizio del libro ed è conservato sino alla fine. Lo possiamo osservare dapprima nel modo in cui Arjuna intuisce il significato di ciò che sta per fare, il senso del grande massacro di cui egli è destinato ad essere il principale strumento; lo notiamo nei pensieri che immediatamente sorgono in lui, nel punto di vista e nei motivi psicologici che lo fanno indietreggiare davanti la terribile catastrofe. Non sono certo i pensieri, i criteri, le ragioni di uno spirito filosofico e neppure di uno spirito assai riflessivo o di natura spirituale, di fronte allo stesso problema o ad un problema analogo. Sono quelli, potremmo dire, dell'uomo pratico o dell'uomo d'azione, dell'essere umano emotivo e sensitivo, morale e intelligente, non però abituato alla riflessione profonda e originale, o a sondare le profondità; quelli piuttosto di un uomo avvezzo a principi nobili, ma fissi, del pensiero e dell'azione, abituato a muoversi fiduciosamente attraverso le vicissitudini e le difficoltà della vita, e che scopre improvvisamente che tutti i suoi principi gli vengono meno e che egli è privato, d'un sol tratto, di tutto il fondamento della fiducia in sé e nella vita. Tale è la natura della crisi che Arjuna subisce.

Arjuna è, nel linguaggio della Gita, un uomo sottomesso all' azione dei tre guna (le tre qualità fondamentali, i modi della natura-forza) e abituato a vivere in questa condizione, come la maggioranza degli uomini, senza porsi problemi. Il suo nome è giustificato soltanto dal fatto che egli è abbastanza puro e sattvico da essere governato esclusivamente da nobili principi e da impulsi sereni, in quanto dirige la sua natura inferiore secondo la legge morale più nobile che conosca. Non ha un carattere violento, asurico, non è schiavo delle passioni; ha raggiunto una calma superiore e il controllo di sé; è un uomo abituato a compiere i propri doveri con fermezza, e ad obbedire scrupolosamente ai migliori principi vigenti del tempo e della società in cui vive, ai principi della religione e della morale in cui è stato educato. È egoista come tutti gli altri, ma di quell'egoismo purificato e sattvico che tiene conto della legge morale, della società e dei diritti degli altri, e non esclusivamente o soprattutto dei propri interessi, dei propri desideri e delle proprie passioni. Egli è vissuto regolandosi secondo lo Shàstra, il codice morale e sociale. L'idea che lo domina, la norma cui obbedisce è il dharma[14], la concezione collettiva indù della legge che regola la condotta religiosa, sociale e morale, e particolarmente quella dello stato e della carica cui appartiene Arjuna, lo kshatriya dall'anima nobile, padrone di sé stesso, il principe cavalleresco, guerriero e capo di uomini ariani. Egli che è vissuto finora seguendo questa legge, mettendone in pratica le nozioni di virtù e di diritto, scopre improvvisamente ch'esse l'hanno condotto a diventare il protagonista di un massacro terrificante e inaudito, di una mostruosa guerra civile che incendia tutte le nazioni ariane civili, prepara la completa distruzione della loro fiorente potenza e la strage dei loro più valorosi eroi, e minaccia caos e rovina a tutta la loro civiltà.

È anche tipico dell'uomo d'azione ch'egli intuisca il significato dei suoi atti attraverso le sue sensazioni. Arjuna ha chiesto all'amico, che sta alla guida del carro, di condurlo tra i due eserciti, senza essere spinto a ciò da idee profonde, ma dal fiero proposito di vedere e di guardare in faccia i mille campioni dell'ingiustizia, ch'egli deve incontrare, vincere e distruggere in quella "festa di combattimento", affinché la giustizia possa trionfare. Mentre li sta osservando è colpito dalla rivelazione di ciò che significa una guerra civile e fratricida, guerra nelle cui opposte fazioni combattono non soltanto gli uomini della stessa razza, della stessa nazione, del medesimo clan, ma i membri di una stessa famiglia e di uno stesso focolare. Tutti coloro che l'uomo nei rapporti sociali considera particolarmente cari e sacri, egli deve affrontarli da nemici e ucciderli, senza badare se si tratti del maestro e precettore venerato, del vecchio amico e compagno d'armi, oppure dei suoi parenti, sia di sangue che di casato, zio, padre, figlio o nipote; tutti questi legami sociali devono essere troncati dalla spada. Non che egli ignorasse queste cose in precedenza, ma non si era mai raffigurato ciò che potevano significare. Non le aveva né meditate profondamente, né sentite in sé stesso, nel suo cuore, al centro del proprio essere, talmente era assillato dall'idea dei propri diritti e dei torti subiti, dai principi della sua vita, la lotta per il diritto, il dovere di uno kshatriya di proteggere la giustizia e la legge e di combattere a morte la violenza e l'ingiustizia. E ora che questa visione gli viene svelata dal divino auriga, offrendosi alla sua vista in modo cosi sensazionale, essa penetra in lui come una pugnalata, diretta proprio al centro del suo essere vitale, emotivo e sensitivo.

La prima conseguenza che ne deriva è una violenta crisi dell' anima e del corpo che provoca il disgusto per l'azione e per i suoi incentivi materiali, e per la vita stessa. Arjuna respinge lo scopo della vita cui aspira l'umanità egoista: la felicità e il piacere; respinge anche lo scopo della vita dello kshatriya: la vittoria, l'autorità, la potenza e il governo degli uomini. Che cos'è in definitiva la lotta per la giustizia, quando è ridotta al suo aspetto pratico, se non semplicemente la lotta per i propri interessi, per quelli della propria famiglia e del proprio partito, oppure per il possesso, per il piacere, per il potere? Ma il possesso di questi beni non vale un prezzo così alto. Essi infatti non hanno alcun valore in sé stessi; valgono soltanto come mezzi per sostenere il giusto equilibrio della vita sociale e nazionale, ed è proprio questa ch'egli sta per demolire, distruggendo la sua famiglia e la sua razza. Viene quindi il grido dell'emozione, la voce del cuore. Ecco coloro che ci fanno desiderare la vita e la felicità, il nostro prossimo! Chi mai potrebbe accettare di dar loro la morte, fosse anche per la terra intera, o addirittura per il regno dei tre mondi? Quale piacere può dare la vita, quale felicità, quale soddisfazione possiamo trovare in noi stessi dopo una tale azione? Tutta l'impresa non è altro che un orribile peccato - infatti, a questo punto il senso morale si sveglia a giustificare la rivolta dei sensi e del cuore. Si tratta di un peccato; non c'è né diritto né giustizia nello sterminio reciproco, soprattutto quando coloro che si devono massacrare sono gli oggetti naturali del rispetto e dell'amore, quando la vita senza di essi non è più degna d'essere vissuta; violare questi sentimenti sacri non può essere virtù, ma delitto odioso. È chiaro che l'offesa, l'aggressione, l'inizio delle ostilità, i crimini di avidità e di passione egoistica che hanno spinto le cose a tal punto, vennero da parte degli avversari; tuttavia la resistenza contro il male sarebbe anch'essa, in tali circostanze, un peccato e un crimine peggiore del loro, poiché essi sono accecati dalla passione e incoscienti della loro colpa, mentre da parte nostra il peccato sarebbe commesso con un chiaro sentimento di colpevolezza. E per quale scopo? Per il mantenimento della morale familiare, della legge sociale, della legge della nazione? Evidentemente no, poiché proprio quei valori sarebbero distrutti dalla guerra civile; poiché la famiglia stessa sarebbe annientata, poiché si provocherebbe la corruzione della morale e l'impurità della razza, poiché sarebbero distrutte le leggi eterne della razza e la legge morale della famiglia. La rovina della razza e il crollo delle sue antiche tradizioni, l'avvilimento morale e l'inferno per gli autori di un simile delitto; ecco i soli risultati pratici possibili di questa mostruosa guerra civile. "Perciò," esclama Arjuna, gettando lontano da sé l'arco divino e la faretra inesauribile, che gli erano stati dati dagli dèi in previsione di quest'ora tremenda, "è meglio ch'io mi lasci massacrare, disarmato e senza opporre resistenza, dai figli armati di Dhritaràshtra. Non combatterò."

Il carattere proprio di questa crisi interiore non è quindi affatto il dubbio del pensatore. Non è un ritrarsi davanti alle apparenze della vita o uno sguardo rivolto verso l'intimo alla ricerca della verità delle cose, del significato dell'esistenza, di una soluzione o di una via d'uscita all'oscuro enigma del mondo. É la rivolta morale, emotiva e sensitiva di un uomo che si è finora accontentato dell' azione e dei suoi principi riconosciuti nell'uso corrente, e che è gettato da quegli stessi principi in un orribile caos in cui sono tutti in conflitto tra di loro; egli ne è sopraffatto e non può trovare nessun punto d'appoggio, nessuna regola di condotta, nessun dharma. Per l'anima di un uomo d'azione, questa situazione è la crisi peggiore, il fallimento, la sconfitta. La rivolta è in sé stessa quanto mai semplice ed elementare; nell'ambito della sensazione è l'immediato sentimento d'orrore, di pietà, di disgusto; nell'ambito vitale, la Perdita di ogni attrattiva per i motivi d'azione riconosciuti e comuni, Per gli scopi della vita e la scomparsa totale della fede in essi; nell'ambito dell'emozione, la rinuncia dell'uomo sociale, colpito nei suoi sentimenti abituali: affetto, rispetto, desiderio di felicità e di benessere per tutti, rinuncia davanti ad un duro dovere che offenderebbe tutti questi sentimenti; moralmente, il senso primordiale del peccato e dell'inferno, la ripugnanza per i piaceri macchiati di sangue; nella pratica, l'impressione che i principi d'azione abbiano provocato un risultato che priva l'azione di ogni reale finalità. La conclusione complessiva, però, è quel generale crollo interiore che Arjuna esprime quando dice che tutto il suo essere è completamente smarrito, non soltanto il suo pensiero, ma anche il suo cuore, i suoi impulsi vitali e tutto ciò che é parte di lui, e che non riesce più a trovare nessuna regola d'azione, nessun dharma che gli sembri valido. Questa è la sola ragione per cui egli, in quanto suo discepolo, cerca rifugio presso Krishna - "Dammi," gli chiede infatti, "ciò che ho perso, una legge autentica, una chiara regola d'azione; indicami una strada su cui io possa nuovamente marciare con fiducia." Non domanda il segreto della vita o del mondo, il significato e lo scopo di ogni cosa, ma un dharma.

Tuttavia il suo divino Maestro si propone di guidarlo proprio verso quel segreto ch'egli non chiede di conoscere, o comunque ad una conoscenza di quel segreto, sufficiente a condurlo a una vita superiore; infatti ciò che il Maestro vuole è ch'egli rinunci a tutti i dharma, tranne a quello, unico e vasto, che consiste nel vivere coscientemente nel Divino e nell'agire secondo questa coscienza. Perciò, dopo aver voluto provare quanto fosse completa la sua rivolta contro le comuni norme di condotta, si mette a trasmettergli una serie d'insegnamenti concernenti lo stato dell'anima, ma senza alcun riferimento a qualche regola esteriore d'azione: bisogna conservare una perfetta equanimità, abbandonare completamente il desiderio del frutto della propria opera, elevarsi sopra le nozioni intellettuali di vizio e virtù, vivere ed agire in unione[15] con il Divino, lo spirito in samadhi, cioè fermamente stabilito solo nel Divino. Arjuna non è soddisfatto: desidera sapere come un tale cambiamento di stato d'animo influirà sull'azione esteriore dell'uomo, quale effetto avrà sul linguaggio, sui movimenti, sulla natura, quali modificazioni arrecherà alla vita e all'attività del suo essere. Per tutta risposta, Krishna si limita a riprendere l'idea precedentemente esposta e a svilupparla: ciò che importa è lo stato d'animo che accompagna l'azione e non l'azione stessa. La sola cosa necessaria è che lo spirito sia fermamente ancorato a uno stato d'equanimità senza desideri. Non è questa una regola di condotta di quelle che si aspettava Arjuna, ma piuttosto, a quanto gli sembra, la negazione di qualsiasi azione, ed egli esclama spazientito: "Se tu consideri l'intelligenza superiore all'azione, perché mi assegni quest'azione così tremenda? Turbi il mio intelletto con un discorso equivoco. Dimmi la parola unica e decisiva che mi permetta di ottenere la soluzione migliore." Poiché abbiamo sempre di fronte l'uomo d'azione che ha poca stima per il pensiero metafisico o per la vita interiore, tranne quando questi possono rispondere alla sua sola domanda, dargli un dharma, una legge per vivere nel mondo o, se necessario, per abbandonare il mondo - poiché anche ciò è un'azione decisiva ch'egli può comprendere. Ma dover vivere e agire in questo mondo, tenendosi contemporaneamente al di sopra di esso, sono per lui parole “equivoche' e 'inquietanti', di cui non ha la pazienza di approfondire il senso.

Le altre domande e gli altri ragionamenti di Arjuna provengono dallo stesso temperamento e dallo stesso carattere. Egli è turbato quando viene a sapere che, una volta raggiunta la perfetta equanimità, essa non si manifesta necessariamente con un cambiamento appariscente dell'azione, poiché l'uomo deve sempre agire secondo la legge della sua natura, anche se l'atto stesso può sembrargli imperfetto o difettoso, paragonato a quello che dipende da una legge diversa dalla sua. La natura! Ma che pensare di quel sentimento di peccato che lo assilla così profondamente? Non è forse proprio la natura a spingere gli uomini quasi per forza, e persino contro la loro buona volontà, nel peccato e nella colpa? La sua intelligenza positiva è sconcertata quando Krishna gli dichiara di aver rivelato egli stesso, nel lontano passato, a Vivasvàn quel medesimo yoga, da allora dimenticato, che ora nuovamente rivela a lui, Arjuna; e con Ia sua richiesta di spiegazione, provoca la dichiarazione famosa e sovente citata sulla natura dell'avatar e sul suo piano d'azione terrestre. Ancora una volta egli cade nella perplessità alle parole con cui Krishna prosegue la riconciliazione tra l'azione e la rinuncia all'azione; ancora una volta gli domanda, invece di parole 'equivoche', una definizione risolutiva di ciò che sia migliore e più nobile. Quando comprende in modo reale e completo la natura dello yoga, che egli è invitato ad intraprendere, la sua natura interamente pratica, abituata ad agire secondo la volontà, le preferenze e i desideri della mente, è atterrita dalla difficoltà, ed egli vuole conoscere la sorte dell'anima che tenta una simile impresa e fallisce. Non perde forse nello stesso tempo questa vita umana d'attività, di pensiero e di emozione ch'essa ha abbandonato, e quella coscienza di Brahman cui aspira e, perdendole entrambe, non soccombe, simile ad una nube che si dissolve?

Quando i suoi dubbi e le sue perplessità sono scomparse, quando sa che il Divino dev'essere d'ora innanzi la sua legge, egli continua sempre a cercar di raggiungere una conoscenza chiara e incontestabile che possa praticamente guidarlo verso l'origine e la regola della sua azione futura. Come distinguere il Divino fra tanti stati d'essere che costituiscono la nostra esperienza ordinaria? Quali sono le grandi manifestazioni nel mondo dell'energia propria del Divino, sotto cui egli possa riconoscerlo e raggiungerlo attraverso la meditazione? Non gli è possibile vedere sin d'ora la forma divina e cosmica di Ciò che realmente gli parla attraverso il velo del corpo e dello spirito umano? E le sue ultime domande esigono una chiara distinzione tra la rinuncia alle opere e quella più sottile rinuncia che gli si richiede di adottare: tra Purusha e Prakriti, tra il Campo e Colui che conosce il Campo, distinzione indispensabile alla pratica dell'azione eseguita senza desiderio, ma sotto il solo impulso della volontà divina; egli domanda infine una definizione chiara delle operazioni e dei risultati pratici dei tre modi di Prakriti che lo si incita a superare.

Ecco a quale discepolo il Maestro della Gita impartisce il suo divino insegnamento. Egli prende questo discepolo in un momento del suo sviluppo psicologico, mosso dall'azione egoistica, in cui tutti i valori mentali, morali ed emotivi della vita ordinaria, sociale ed egoistica, si sono sfasciati in un crollo improvviso, ed egli deve tirarlo fuori da quella vita inferiore verso uno stato superiore di coscienza, fuori da un ignorante attaccamento all'azione verso Ciò che oltrepassa l'azione, e tuttavia dà origine e comanda l'azione, fuori dall' ego verso il Sé, fuori dalla vita, limitata in un orizzonte mentale, vitale e corporeo, verso quella Natura superiore di là dalla mente, che è la condizione del Divino.

Contemporaneamente deve dare al suo discepolo ciò che egli richiede e che la sua guida interiore l'incita a cercare: una nuova legge di vita e d'azione che superi di molto l'insufficiente regola dell'esistenza umana ordinaria, fatta di conflitti e di opposizioni senza fine, di dubbi e di illusorie certezze, una legge più alta che liberi l'anima da tutti i legami dell'azione senza tuttavia impedirle di agire e di conquistare con forza, nell'immensa libertà del suo essere divino.

L'azione infatti dev'esser fatta, il mondo deve compiere i suoi cicli e l'anima dell'uomo non deve per ignoranza distogliersi dall'opera ch'essa ha da eseguire sulla terra. Tutto lo svolgersi dell'insegnamento della Gita è determinato e diretto, anche nelle sue più ampie digressioni, dall'intento di raggiungere quel triplice scopo.


 

4. IL CENTRO DELL' INSEGNAMENTO

 

Conosciamo il Maestro divino, abbiamo osservato il discepolo umano; dobbiamo ancora acquisire un'idea chiara della dottrina. Una concezione chiara, che si ricolleghi all'idea essenziale, al nucleo centrale dell'insegnamento, è particolarmente necessaria in questo caso, poiché la Gita, per via della complessità del suo pensiero, ricco di molteplici aspetti, della sua sintetica comprensione delle differenti forme della vita spirituale e della scioltezza agile e fluida della sua argomentazione, si presta, ancor più facilmente di un'altra Scrittura, essere travisata, con spirito di parte, in un senso o nell'altro. La logica indù considera come una delle più grandi fonti d'errore la falsificazione incosciente o semi cosciente dei fatti, dei termini e delle idee al fine di adattarli a nozioni preconcette, a dottrine o a principi che rispondano alla propria preferenza. Forse è l'ostacolo più difficile da evitare, anche per il pensatore più onesto. Infatti la regione umana è, a questo proposito, incapace di svolgere la funzione di investigatore nei suoi propri riguardi; anzi, è proprio della sua natura impadronirsi di una conclusione parziale, di un'idea, di un principio, proclamarsene il difensore e farne la chiave di tutta la verità; e possiede anche un'infinita capacità di fare il doppio gioco, pur d'evitare di scoprire quel punto debole così indispensabile e gelosamente custodito. La Gita si presta facilmente a questo genere d’errore, poiché è semplice fare di essa il campione delle proprie dottrine e dei propri dogmi, insistendo particolarmente su uno degli aspetti del libro o persino su un passaggio saliente e importante, lasciando nell'ombra il resto dei suoi diciotto canti o presentandoli come parti subordinate e ausiliarie dell'insegnamento.

Così, alcuni pretendono che la Gita non insegni affatto la via delle opere, ma una disciplina che porta alla rinuncia alla vita e alle opere. L'indifferenza nel compiere le azioni prescritte o tutti i compiti che si presentano diviene il mezzo, la disciplina; il solo scopo vero è la rinuncia finale alla vita e alle opere. È assai facile giustificare questo punto di vista citando alcuni passi dell'opera e mettendo opportunamente in rilievo una tra le molte parti dell'argomentazione, soprattutto se si trascura il senso particolare in cui son presi certi termini, quali ad esempio sannyàsa, rinuncia; ma è assolutamente impossibile persistere in questa interpretazione, dopo una lettura imparziale, davanti alla continua affermazione, ripetuta lungo tutto il libro, che l'azione deve essere preferita all'inazione. La superiorità dell'azione svolta con coscienza yoghica sull'inazione del sannyàsa consiste nella vera rinuncia al desiderio, rinuncia interiore, effettuata mantenendo l'anima distaccata e imparziale e offrendo le opere al supremo Purusha.

Altri parlano della Gita come se tutto il suo insegnamento consistesse nella dottrina della devozione; essi mettono in secondo piano gli elementi della sua dottrina monista e l'importanza ch'essa accorda all'immersione pacificatrice dell'anima nel Sé unico di tutte le cose. Indubbiamente il rilievo che dà alla devozione, la sua insistenza sull'aspetto del Divino in quanto Signore e Purusha, come la sua dottrina del Purushottama, l'Essere supremo, allo stesso tempo superiore all'Essere mutevole e all'Essere immutabile, e che, nella sua relazione col mondo, conosciamo come Dio, sono i più mirabili tra gli elementi essenziali della Gita. Però quel Purusha è il Sé cui tende tutta la conoscenza, il Signore del sacrificio cui conduce ogni a/ione, ed anche il Signore dell'amore nel cui essere s'immerge il cuore colmo di devozione. La Gita mantiene un equilibrio perfetto e insiste ora sulla conoscenza, ora sull'azione, ora sulla devozione, obbedendo in ciò alle esigenze immediate dello svolgersi del proprio pensiero, e non per dare la preferenza a una via a danno delle altre due. Tutte e tre si incontrano e si uniscono in Colui che è l'Essere supremo, il Purushottama.

Ma attualmente, cioè da quando lo spirito moderno si è messo ad apprezzare la Gita, ad occuparsene, si tende piuttosto, approfittando del continuo insistere sull'azione, a subordinare a quest'ultima gli elementi di conoscenza e di devozione del libro, e a considerarlo come un trattato di karma-voga, un vangelo delle opere. La Gita, è, senza alcun dubbio, un vangelo delle opere, ma delle opere mirano alla conoscenza, cioè alla realizzazione spirituale e alla quiete dell'anima, delle opere ispirate alla devozione, cioè all'abbandono cosciente e totale di sé, dapprima nelle mani del Supremo, poi nel suo stesso essere; quindi non si tratta affatto delle opere come lo intende lo spirito moderno, cioè di un'azione dettata da motivi, principi o ideali, siano essi egoistici o altruistici, personali, sociali o umanitari. E tuttavia l'interpretazione moderna si sforza di vedere 'nella Gita proprio questo. Voci autorevoli ci ripetono continuamente che la Gita, opponendosi in ciò alla consueta tendenza ascetica quietistica del pensiero e della spiritualità indù, predica, senza possibilità d'equivoco, il vangelo dell'azione umana, l'ideale dell' adempimento disinteressato dei doveri sociali e persino, a quanto sembra, l'ideale del tutto moderno del servizio sociale. A tutto ciò posso soltanto rispondere che, anche ad un'analisi superficiale risulta sin troppo evidente che la Gita non insegna nulla di questo, e che si tratta di un'interpretazione arbitraria che fraintende il senso di un libro antico studiandolo con la mentalità moderna e pretendendo di spiegare con l'intelletto occidentale o occidentalizzato del nostro tempo un insegnamento assolutamente antico, profondamente orientale e indiano. La Gita insegna l'azione divina, non l'umana; non l'adempimento dei doveri sociali, ma l'abbandono di ogni principio di condotta o di dovere a favore di un adempimento non egoistico della volontà divina operante nel mondo mediante la nostra natura; non un servizio sociale, ma l'azione dei migliori, di coloro che sono posseduti da Dio, degli uomini padroni di sé stessi - azione compiuta impersonalmente per l'amore del mondo e in sacrificio a Colui che sta dietro all'uomo e alla Natura.

In altri termini, la Gita non è una guida di morale pratica, ma di vita spirituale. Lo spirito moderno è attualmente lo spirito occidentale, quale è diventato dopo aver abbandonato non soltanto l’idealismo filosofico della più alta cultura greco-romana da cui è derivato, ma anche la devozione cristiana del medioevo, sostituendo a questi principi un idealismo pratico e un'abnegazione sociale, patriottica e filantropica. Si è sbarazzato di Dio, o si è limitato a conservarlo per uso domenicale e, al suo posto, ha eretto l'uomo a divinità e la società a idolo visibile. Nei suoi momenti migliori, lo spirito moderno è attivo, pratico, morale, sociale, altruistico e umanitario. Certo, tutte queste tendenze sono buone, sono necessarie, soprattutto nell'ora attuale; s'accordano con la volontà divina, senza di che non sarebbero certo diventate così dominanti nell'umanità. Non v'è d'altronde alcun motivo per cui l'uomo divino, l'uomo che vive nella coscienza brahmica[16], nell'Essere divino, non presenti nella sua azione tutte queste caratteristiche; egli anzi ne dovrà possedere, se esse costituiscono il più alto ideale del suo tempo, lo yugadharma[17], e se non c'è un ideale ancor più grande da stabilire, un cambiamento più grande ancora da effettuare. Infatti l'uomo divino è, come il Maestro suggerisce al suo discepolo, il migliore, colui che dev'essere il modello per gli altri; effettivamente Arjuna ha per missione di vivere secondo i più alti ideali della sua epoca e secondo la cultura allora regnante, ma pienamente cosciente, consapevole delle verità nascoste dietro l'apparenza delle cose, e non come l'uomo ordinario, che segue semplicemente le regole e le usanze vigenti.

Tuttavia il punto importante in questo caso è che lo spirito moderno ha escluso dalla sua forza motrice pratica i due principi essenziali: Dio (o l'Eterno) e la spiritualità (o la condizione divina), che sono le due concezioni principali della Gita. L'uomo moderno vive soltanto nella condizione umana e la Gita vorrebbe invece che vivessimo in Dio - "sebbene nel mondo, tuttavia in Dio" -; egli non vive che nella sua carne, nel suo cuore e nel suo intelletto, e invece la Gita vorrebbe che vivessimo nello Spirito; egli vive nell'Essere mutevole[18] che è “tutte le creature”, ma Ia Gita vorrebbe che vivessimo anche nell'Immutabile e Supremo[19]; egli vive nel mutevole corso del tempo mentre la Gita esige che si viva nell'Eterno. Seppure l'uomo moderno comincia, in maniera vaga, a riconoscere questi più alti valori, intende però subordinarli a sé e alla società; tuttavia Dio e la spiritualità esistono per proprio conto e per propria iniziativa e non in modo accessorio. E nella pratica, ciò che vi è di inferiore in noi deve imparare a esistere per il superiore, affinché il superiore possa coscientemente esistere per l'inferiore e cosi elevarlo alla propria altezza.

Sarebbe quindi un errore voler interpretare la Gita dal punto di vista della mentalità attuale e pretendere che insegni ad ogni costo l'adempimento disinteressato del dovere come la legge più alta, valida in tutto e per tutto. Basta soffermarsi un momento e considerare la situazione di cui tratta la Gita per accorgersi che tale non può essere la sua intenzione. Infatti, tutto il contenuto dell'insegnamento, ciò che ne fornisce lo spunto e che obbliga il discepolo a cercare il maestro, è proprio il conflitto senza via d'uscita delle differenti concezioni del dovere, conflitto che si risolve nel crollo di tutto l'edificio utilitaristico, intellettuale e morale, eretto dalla mente umana. Nella vita umana sorge con una certa frequenza qualche conflitto, come ad esempio quello tra i doveri familiari e il richiamo della patria e il bene dell'umanità o qualche più vasto principio morale o religioso. Può anche crearsi una situazione interiore del genere di quella che si presentò al Buddha, in cui tutti i doveri dovettero essere abbandonati, calpestati e gettati via per seguire il richiamo interiore di Dio. Non credo proprio che la Gita avrebbe risolto un simile problema interiore rimandando Buddha a sua moglie, al padre e al governo dello Stato degli Shàkya, o ordinato a Ràmakrishna di diventare un pandit nella scuola del suo paese natio per insegnarvi, in maniera disinteressata, le lezioni ai ragazzini, o imposto a Vivekànanda di essere il sostegno della famiglia e, a tal fine, di esercitare, senza desiderio né passione, il diritto o la medicina, oppure di darsi al giornalismo. La Gita non insegna l'adempimento disinteressato dei propri doveri, ma insegna a seguire la vita divina, ad abbandonare tutti i dharma, sarvadharman, per cercare rifugio unicamente nel Supremo; l'attività esclusivamente divina di uomini quali il Buddha, Ràmakrishna, Vivekànanda è perfettamente conforme a tale insegnamento. Per di più, sebbene la Gita preferisca l'azione all'inazione, non esclude la rinuncia alle opere, ma l'ammette come una delle vie che portano a Dio. Se non si può raggiungere Dio che attraverso Ia rinuncia alle opere, alla vita attiva e a tutti i doveri, e se il richiamo interiore è possente, si getti allora tutto nel braciere in cui arde il fuoco divino; nessuno può impedirlo. Il richiamo di Dio è imperativo e non vi si può frapporre nessun'altra considerazione.

In questo caso però la difficoltà aumenta poiché l'atto che Arjuna deve commettere è di quelli davanti ai quali il suo senso morale si rivolta. Gli si dice che è suo dovere combattere? Ma ora questo dovere è diventato ai suoi occhi un terribile peccato. In che modo potrebbe aiutarlo, come risolverebbe la sua difficoltà il consiglio di fare il proprio dovere con disinteresse e senza passione? Vorrà sapere qual è il suo dovere, e come può essere suo dovere distruggere con un massacro sanguinario il suo paese. Gli è stato detto che egli è dalla parte della ragione, ma ciò non lo soddisfa, né può soddisfarlo, poiché ritiene che il buon diritto delle sue pretese non giustifichi ch'egli le sostenga con un massacro spietato che distruggerebbe l'avvenire del suo popolo. Deve dunque agire spassionatamente, nel senso che non deve preoccuparsi se commette un peccato e quali ne saranno le conseguenze, purché faccia il suo dovere di soldato? Questa potrebbe essere una teoria della ragione di Stato, o una dottrina di uomini politici, di giuristi o di casisti; non potrebbe però mai essere l'insegnamento di una grande opera religiosa o filosofica che si propone di risolvere dalla radice il problema della vita e dell' azione. E se questa fosse l'ultima parola della Gita su un cosi acuto problema morale e spirituale, dovremmo escluderla dalla lista delle Scritture Sacre del mondo e, semmai, annoverarla tra le opere di scienza politica o di casistica morale.

Indubbiamente la Gita, come le Upanishad, insegna la perfetta equanimità che si eleva sopra il vizio e la virtú, di là dal bene e dal male; la insegna però, in quanto facente parte della conoscenza brahmica, soltanto per l'uomo che è abbastanza avanzato sulla via spirituale per poter seguire la norma suprema. Essa non predica l'indifferenza riguardo al bene e al male nella vita comune dell'uomo, ove una simile dottrina provocherebbe le più dannose conseguenze; al contrario, essa afferma che colui il quale commette il male non raggiungerà Dio. Perciò, sebbene Arjuna cerchi semplicemente di seguire nel miglior modo possibile la legge ordinaria della vita umana, non può certamente aiutarlo il fatto di compiere disinteressatamente ciò che a lui pare essere un peccato, un'opera infernale, e neppure la considerazione che quel peccato rientri nei suoi doveri di soldato. Egli deve astenersi dall'atto che ripugna alla sua coscienza, anche se ciò l'obbliga a infrangere tutti i doveri.

Dobbiamo ricordarci che il dovere è un'idea che si basa di fatto su certe concezioni sociali. È possibile estendere il senso del termine oltre il significato specifico e parlare del nostro dovere di fronte a noi stessi; possiamo dire se vogliamo, in senso trascendentale, che il dovere di Buddha fu di abbandonare tutto, oppure che è dovere dell'asceta restare seduto senza muoversi nella sua caverna. Ma è chiaro che questo è un gioco di parole. Il dovere è una nozione relativa e dipende dai nostri rapporti con gli altri uomini. È dovere di un padre, in quanto tale, nutrire ed educare i propri figli; quello di un avvocato, difendere il suo cliente, anche se lo sa colpevole e si rende conto che la propria arringa è menzognera; quello di un soldato, combattere e, su ordini dei superiori, sparare, anche se deve colpire un parente o un compatriota; è dovere di un giudice mandare il colpevole in prigione e l'assassino sul patibolo. Finché quest'ordine viene accettato, il dovere resta chiaro; è un dato di fatto, una cosa naturale, anche quando non intervengano a rafforzarlo il senso dell'onore e il vincolo affettivo, che annulla la legge assoluta, religiosa o morale. Ma che succede se cambiano le intime convinzioni, se l'avvocato si rende improvvisamente conto dell'assoluta colpevolezza della menzogna, se il giudice si persuade che la pena di morte è un delitto contro l'umanità, se l'uomo chiamato a combattere sente, come lo sentirebbe oggi un obiettore di coscienza, come l'ha sentito Tolstoj, che in nessuna circostanza si deve considerare lecito togliere la vita all'uomo, né più né meno di quanto non sia lecito mangiare la carne umana? È evidente che in questo caso la legge morale, che precede tutti i doveri relativi, deve prevalere; e questa legge morale non dipende da alcun rapporto sociale, da alcuna concezione di dovere, ma unicamente dalla percezione interna cui può giungere l'uomo, essere morale.

Ci sono nel mondo, in effetti, due leggi di condotta molto differenti, valide ognuna nel proprio campo: una dipende principalmente dalla posizione sociale, l'altra invece, indipendente da tale posizione, deriva completamente dal pensiero e dalla coscienza. La Gita non ci insegna a subordinare il piano superiore all'inferiore; non richiede alla coscienza morale che si sta destando di suicidarsi sull'altare del dovere, vittima sacrificata alle leggi dello stato sociale. Essa ci chiama più in alto e non più in basso; per uscire dal conflitto di questi due piani, essa ci obbliga ad elevarci fino all'equilibrio supremo che domina sia il piano principalmente pratico, sia quello puramente etico - fino alla coscienza brahmica. La Gita sostituisce alla concezione del dovere sociale quella dell'obbligo divino. La soggezione alla legge esterna cede il posto a un certo principio che, mediante la libertà dell'anima, si svincola a poco a poco dal groviglio delle regole d'azione. E questo - la coscienza brahmica, la libertà dell'anima di fronte alle opere e Ia determinazione delle opere nella natura da parte del Signore che sta in noi e sopra di noi - è, il centro dell'insegnamento come vedremo più avanti, il nocciolo dell'insegnamento della Gita per quanto concerne l'azione.

La Gita non può essere capita, come qualsiasi altra grande opera del genere, se non la si studia nel suo insieme, come argomentazione che si sviluppa. Proprio al contrario, gli interpreti moderni, a partire dal grande scrittore Bankim Chandra Chatterji, che per primo attribuì alla Gita questo nuovo significato di vangelo del dovere, hanno insistito quasi esclusivamente sui primi tre o quattro canti, in particolare sull'idea svoltavi d'equanimità, sull'espressione kartavyam karma, "l'opera, l'azione che dev'esser fatta", ch'essi traducono con la parola, “dovere”, e sulla frase: "Tu hai diritto all'azione, ma non ai frutti dell'azione", che è ora comunemente citata come la grande parola, mahavakya, della Gita. Al resto dei diciotto canti, ricchi della loro alta filosofia, è data un'importanza secondaria, tranne tuttavia alla grande visione dell'undicesimo canto. Tutto ciò è abbastanza consono allo spirito moderno che è - o era fino a qualche tempo fa - poco incline alla pazienza davanti alle sottigliezze metafisiche e alle lontane ricerche spirituali, tanto è ansioso di mettersi all'opera e interessato soprattutto, come del resto Arjuna, a una regola d'azione che si possa mettere in pratica, ad un dharma, però un modo errato di considerare questa Scrittura.

La perfetta equanimità che la Gita insegna non è il disinteresse, poiché il grande comandamento dato ad Arjuna, dopo che sono state poste le basi dell'insegnamento ed eretta la struttura principale: "Sorgi, stermina tutti i tuoi nemici e godi della prosperità del tuo regno", non ha proprio l'aria di un altruismo intransigente, né di un'abnegazione pura da ogni passione e desiderio. È invece uno stato intimo di equilibrio e di grandezza, che è il fondamento della libertà spirituale. In quest'equilibrio, in questa libertà, dobbiamo fare "l'opera che dev'esser fatta", frase che la Gita impiega nel senso più esteso e che comprende tutte le opere, sarvakarmàni, e oltrepassa di molto, benché possa includerli, il dovere sociale e l'obbligo morale. Non spetta alla scelta individuale il compito di stabilire quale azione si debba fare; però neppure il diritto all'azione e il rifiuto di ogni pretesa ai frutti di essa rappresentano l'ultima parola della Gita, ma soltanto una formula preliminare che dirige i primi passi del discepolo quando comincia l'ascesa dello yoga. In realtà, tale regola viene annullata ad uno stadio successivo. La Gita infatti prosegue affermando energicamente che l'uomo non è l'autore dell'azione che compie; è Prakriti, la Natura, la grande forza nei suoi tre modi d'azione, che opera attraverso di lui, e bisogna ch'egli impari a vederci che non è lui ad agire. Quindi "il diritto all'azione" è un'idea valida soltanto finché restiamo nell'illusione di essere noi ad agire; dobbiamo necessariamente abbandonarla, assieme "alla pretesa ai frutti dell'azione", nel momento in cui diveniamo consci del fatto che non siamo noi gli autori di ciò che facciamo. Scompare allo tendenza egoistica di attribuire tutto a sé stessi, si tratti del diritto all'azione o di quello ai suoi frutti.

Il determinismo di Prakriti, però, non è ancora l'ultima parola della Gita. L'assenza di desideri, la rinuncia ai benefici dell'azione non sono altro che mezzi per entrare e per vivere con lo spirito, il cuore e l'intelligenza, nella coscienza divina; la Gita afferma esplicitamente che questi sono i metodi da usare finché il discepolo è da parte sua incapace di vivere in quella condizione oppure di sviluppare gradualmente, con la pratica, tale stato superiore. Ma insomma, che cos'è quel Divino che Krishna dichiara esser egli stesso? È il Purushottama - il Purusha supremo -, di là dal Sé che non agisce, di là da Prakriti che agisce, fondamento di quello, padrone di questa, il Signore di cui tutte le cose sono la manifestazione, che ha sede nel cuore delle sue creature, anche nella loro attuale soggezione a màyà, e che da là dirige le opere di Prakriti; in realtà, i combattenti schierati sul campo di Kurukshetra sono già stati uccisi, sebbene momentaneamente siano ancora in vita, proprio da Lui, che utilizza Arjuna come suo strumento o come l'occasione immediata di quel grande massacro. Prakriti non è altro che la sua forza esecutrice. Il discepolo deve elevarsi sopra quella forza e i suoi tre modi o guna; egli deve diventare trigunatita[20]. Non a quella egli deve rimettere le sue azioni, su cui non ha più “pretesa' né “diritto', ma all'Essere supremo. Affidando a Lui lo spirito e l'intelligenza, il cuore e la volontà, pienamente conscio di sé, di Dio e del mondo, con un perfetto equilibrio, una perfetta devozione, un completo abbandono, egli deve compiere le sue opere in offerta al Signore di tutte le energie e di tutti i sacrifici. Quando l'uomo si identificherà con quella volontà e sarà cosciente di quella coscienza che agisce in lui, Quello prenderà la decisione e l'iniziativa dell'azione. Ecco la soluzione che il divino Maestro propone al discepolo.

Non è necessario cercare quale sia Ia grande, la suprema parola della Gita, il suo mahavakya; la Gita stessa infatti la rivela nella sua ultima frase, nota dominante del grande accordo: "Con tutto il tuo essere, prendi rifugio nel Signore che ha sede nel tuo cuore; la sua grazia ti condurrà alla pace suprema e all'eternità. Ti ho così rivelato la conoscenza più segreta di tutti i segreti. Ascolta ancora la Mia parola suprema, la più segreta di tutte: Con il tuo pensiero costantemente rivolto a Me, sii il Mio devoto; offriMi i tuoi sacrifici e prosternati davanti a Me; la Mia promessa è solenne, perché Mi sei caro. Abbandona tutti i dharma e rifugiati in Me solo, ti libererò da ogni peccato, non ti crucciare."

Il sistema della Gita consiste in tre gradi attraverso i quali l'azione si eleva dal piano umano al piano divino e abbandona la schiavitù della legge inferiore per la libertà. Dapprima, bisogna che l'uomo - finché si crede l'autore dell'atto - rinunci al desiderio e, raggiungendo una perfetta equanimità, compia le opere come un sacrificio offerto a una divinità che è il solo e supremo Sè, pur senza averlo ancora intimamente realizzato. È il prima grado. In seguito l'uomo deve abbandonare, ed è il secondo grado, non soltanto il desiderio ai frutti dell'azione ma anche la pretesa di esserne l'autore, e riconoscere il Sé come il principio sempre uguale, inattivo, immutabile, e tutte le opere come semplici operazioni della forza universale, dell'anima della Natura, di Prakriti, il potere ineguale, attivo e mutevole. Infine, il terzo grado, che consiste nel vedere il supremo Sé come il supremo Purusha che governa Prakriti, il principio di cui l'anima nella Natura è manifestazione parziale, e dal quale tutte le azioni sono dirette, in una trascendenza perfetta, con la mediazione della Natura. A lui devono essere offerti l'amore, l'adorazione e il sacrificio delle opere; tutto l'essere umano deve abbandonarsi a lui e l'intera coscienza deve elevarsi fino a vivere in quella coscienza divina, in modo che l'anima umana possa partecipare alla sua divina trascendenza, di là dalla Natura e dalle opere, e possa agire in perfetta libertà spirituale.

Il primo grado è il karma yoga, il sacrificio delle opere fatte senza egoismo; in questo caso la Gita mette l'accento sull'azione. Il secondo grado è lo jnana yoga, la scoperta del Sé e la conoscenza della sua vera natura e di quella del mondo; in tal caso l'accento è posto sulla conoscenza, ma il sacrificio delle opere resta sempre valido e la via delle opere si confonde, senza però scomparire, con la via della conoscenza. Il terzo grado è il bhakti yoga, l'adorazione e la ricerca del supremo Sé quale Essere divino. L'accento qui è sulla devozione; tuttavia la conoscenza non le è subordinata; è invece innalzata, resa più viva, più perfetta dalla devozione. La duplice via diventa la triplice via della conoscenza, delle opere e della devozione. Ed è così conseguito il frutto del sacrificio, quell'unico frutto che resta offerto all'uomo che cerca: l'unione con l'Essere divino e l'unità realizzata con la suprema Natura divina.


 

5. KURUKSHETRA

 

Prima di seguire il Maestro della Gita sul tracciato della triplice via dell'uomo, in cui la sua volontà, il suo cuore e il suo pensiero si elevano verso l'Altissimo e penetrano nel cuore dell'Essere che è il fine supremo di ogni azione, di tutto l'amore e di tutta la conoscenza, dobbiamo ancora una volta considerare la situazione di fatto donde scaturisce il racconto della Gita. La considereremo adesso nella sua portata generale, come il prototipo della vita umana e persino della vita del mondo. Difatti, sebbene Arjuna si preoccupi esclusivamente della propria situazione, della propria lotta interiore e della regola d'azione ch'egli deve seguire, tuttavia, come abbiamo visto, la domanda particolare che rivolge e il modo in cui la rivolge suscitano il problema generale della vita umana e dell'azione, l'esigenza di conoscere che cos'è il mondo, perché esiste, e come, dal momento che è quello che è, la vita in questo mondo possa conciliarsi con la vita nello Spirito. Il Maestro insiste sulla necessità di risolvere anzitutto questo problema difficile e profondo, poiché la sua soluzione sta alla base dell'ordine di un'azione che Arjuna deve eseguire, alla luce di una conoscenza liberatrice che procede da un nuovo equilibrio dell'essere.

Ma qual è dunque la natura della difficoltà per l'uomo che deve prendere il mondo così com'è, e viverci, e che tuttavia vorrebbe condurre, interiormente, una vita spirituale? Qual è quell'aspetto dell'esistenza che spaventa la sua mente lucida, che provoca ciò che il primo canto della Gita, con un titolo assai espressivo, chiama “Lo yoga dello sgomento di Arjuna”, l'afflizione, lo scoraggiamento dell'uomo costretto ad affrontare ad occhi aperti lo spettacolo del mondo tale quale realmente è, una volta che il velo dell'illusione etica (l'illusione della rettitudine personale) è lacerato, e prima di aver raggiunto una più alta riconciliazione con sé stesso? Proprio quell'aspetto è raffigurato esteriormente con la strage e il massacro di Kurukshetra, e spiritualmente con la visione del Signore del tutto, che sorge sotto la forma del Tempo per divorare e distruggere le proprie creature. È questa la visione del Signore di ogni esistenza come Creatore universale, ma anche come Distruttore universale - il Signore di cui l'antica Scrittura poteva dire, con un'immagine crudele: "I saggi e gli eroi sono il suo cibo, e la morte il condimento del suo banchetto." Si tratta sempre della stessa verità, intravista dapprima in modo indiretto e oscuro nei fatti della vita, percepita in seguito direttamente e chiaramente dall'anima in una visione di ciò che si manifesta nella vita. L'aspetto esteriore è quello dell'esistenza del mondo e dell'uomo, la quale procede attraverso lotte e massacri; l'aspetto interiore è quello dell'Essere universale che realizza sé stesso attraverso un'immensa creazione e un'immane distruzione. La vita come campo di battaglia e campo di morte: ecco che cos'è Kurukshetra. Dio il Terribile: ecco la visione che appare ad Arjuna sul campo della carneficina.

"La guerra", dice Eraclito, "è il padre di tutte le cose, la guerra è il sovrano onnipotente." Questa massima racchiude una profonda verità, come del resto la maggior parte dei detti memorabili del filosofo greco. Pare infatti che da una collisione di forze, materiali o meno, siano nate tutte le cose di questo mondo, se non il mondo stesso, che sembra poi svilupparsi attraverso una lotta di forze, di tendenze, di principi, di esseri, per creare continuamente cose nuove, sempre distruggendo le vecchie. Così il mondo ha l'aspetto di avanzare verso chissà quale scopo: verso una finale disintegrazione, dicono alcuni; in una serie di cicli privi di ogni finalità, dicono altri; in una progressione di cicli che conducono, attraverso tutta l'agitazione e l'apparente confusione e con un'approssimazione sempre più alta, ad una divina apocalisse - ed è questa la conclusione più ottimistica. In ogni modo, una cosa è certa: non soltanto qui non c'è costruzione senza distruzione e non esistono armonie se non attraverso un equilibrio di forze opposte, ottenuto con molti antagonismi attuali o virtuali, ma inoltre ogni vita, per sussistere, esige costantemente nutrimento, quindi di divorare altre vite. La nostra stessa vita corporea è una continua morte e una continua rinascita, il corpo una città assediata, attaccata da forze offensive, protetta da forze difensive, la cui funzione è di divorarsi a vicenda; ed è l'esempio tipico di ogni aspetto della nostra esistenza. Fin dal principio della vita sembra che sia stato dettato questo comandamento: "Non conquisterai nulla senza combattere contro i tuoi simili e contro l'ambiente che ti circonda; vivrai esclusivamente mediante la battaglia e la lotta, assorbendo altre vite in te. La prima legge di questo mondo che io ho fatto è: creazione e conservazione tramite la distruzione."

Il pensiero antico accettava tale punto di partenza nella misura in cui poteva percepirlo osservando il mondo. Le antiche Upanishad lo videro molto chiaramente e lo espressero appieno in tutta la sua crudezza, senza aggiungere né commenti tranquillizzanti né scappatoie ottimistiche. La fame, che è la morte, dicevano, è il creatore e il signore di questo mondo; esse rappresentavano l'esistenza vitale con l'immagine del cavallo del sacrificio. Alla materia diedero un nome che comunemente significava cibo. La chiamiamo così, dissero, poiché essa è divorata e divora le creature. "Colui che mangia è mangiato", è la formula del mondo materiale, tale quale la riscoprirono Darwin e i suoi seguaci, quando conclusero che la lotta per la vita è la legge che governa l'evoluzione dell'esistenza. La scienza moderna non ha fatto altro che ripetere la vecchia verità che era stata espressa in formule più vigorose, più larghe e più esatte dalla massima di Eraclito e dalle immagini delle Upanishad.

Nietzsche ha molto insistito sulla guerra come aspetto della vita e sul guerriero come prototipo perfetto dell'uomo. Questi può essere all'inizio l'uomo-cammello, e più tardi l'uomo-bambino; tra queste due tappe però deve diventare l'uomo-leone, se vuole raggiungere la perfezione. Per quanto possiamo dissentire su molte conclusioni morali e pratiche che a Nietzsche parve bene di dover dedurre, tali teorie, attualmente così screditate, sono incontestabilmente giustificate e ci rammentano una verità che preferiremmo fingere d'ignorare. È bene che questa verità ci sia ricordata; in primo luogo perché ogni anima forte vi trova un effetto tonico, che la salva dalla mollezza e dalla rilassatezza troppo incoraggiate, da quella specie di sentimentalismo all'acqua di rose, filosofico, religioso e morale, che ama contemplare la natura sotto il suo aspetto d'amore, di vita, di bellezza e di bene, ma che distoglie lo sguardo dalla sua crudele maschera di morte, che adora Dio come Shiva, ma che rifiuta di adorarlo come Rudra[21]; secondariamente, perché non riusciremo mai a risolvere le discordanze e le opposizioni dell' esistenza, fino a quando non avremo il coraggio e l'onestà di guardarla direttamente in faccia. Dobbiamo anzitutto vedere ciò che sono la vita e il mondo; in seguito potremo cercare il miglior modo di trasformarli in ciò che devono essere. Se quest'aspetto ripugnante dell'esistenza racchiude in sé qualche segreto dell'armonia finale, ignorandolo o attribuendogli scarsa importanza, ci lasceremo sfuggire tale segreto, e tutti i nostri sforzi per trovare una soluzione andranno a vuoto, per colpa della nostra compiacente ignoranza dei veri elementi del problema. Se d'altronde, quest'aspetto dell'esistenza nasconde un nemico che dobbiamo abbattere e tenere ai nostri piedi, estirpare ed eliminare, non guadagneremo nulla sottovalutandone il potere d'influenza sulla vita, o rifiutando di riconoscere la forza con cui è radicato nel passato effettivo e nei principi realmente operanti dell'esistenza.

La guerra e la distruzione non sono soltanto un principio universale della nostra vita di qui, nel suo aspetto puramente fisico; esse dirigono anche la nostra esistenza mentale e morale. Appare evidente che nella vita reale dell'uomo, sia intellettuale, sia sociale, politica o morale, non possiamo avanzare di un solo passo senza incontrare lotta e battaglia tra ciò che esiste e vive e ciò che cerca di vivere e d'esistere e tra tutto ciò che si cela dietro a questi due partiti. È impossibile, almeno allo stato attuale degli uomini e delle cose, crescere, avanzare, compiere il proprio destino, e contemporaneamente osservare in modo reale e concreto il comandamento di non nuocere al prossimo[22], che tuttavia ci viene dato come la migliore e più alta regola di condotta. Dite che non dovremmo servirci altro che della forza spirituale, e mai distruggere con la guerra o con l'impiego, foss'anche difensivo, della violenza fisica? E sia, benché la forza asurica nell'uomo e nelle nazioni possa, nell'attesa che la forza spirituale divenga efficace, calpestare e distruggere tutto, massacrare, incendiare e profanare, come la vediamo fare oggi, con la differenza però che, in tal caso, lo farebbe liberamente e che il vostro non intervento avrebbe forse causato una strage tanto grande quanto l'avrebbero causata altri ricorrendo alla violenza; forse sareste riusciti a diffondere un ideale, che un giorno avrebbe potuto condurre - che anzi dovrà condurre - ad un migliore stato di cose. Ma persino la forza spirituale distrugge, quando è efficace. Soltanto coloro che l'hanno usata con gli occhi bene aperti sanno quanto essa sia più terribile e più distruttiva della spada o del cannone, e solamente quelli la cui vista non si ferma all'atto e ai suoi risultati immediati possono vedere quanto sia spaventoso il susseguirsi dei suoi effetti, quante cose essa distrugga, e con quelle cose, tutta la vita che ne dipendeva e che di quelle si nutriva. Il male non può perire senza causare la distruzione di gran parte di ciò che fonda la propria esistenza sul male; si tratta pur sempre di una distruzione, anche se a noi personalmente è risparmiata la sensazione dolorosa di un atto di violenza.

Inoltre, ogni volta che usiamo la forza spirituale, costruiamo contro il nostro nemico una grande forza karmica, di cui non siamo in grado di controllare i movimenti successivi. Vashishtha si servì della forza spirituale contro la violenza guerriera di Vishvàmitra, ed eserciti di Unni, di Shaka e di Pallava si precipitarono sull'aggressore. Il semplice atteggiamento di calma passiva dell'uomo spirituale, vittima della violenza e dell'aggressione, provoca l'azione retributiva di terribili forze cosmiche; può quindi essere più caritatevole opporsi, anche con la forza, a coloro che rappresentano il male, piuttosto di permettere loro di calpestare tutto fino a richiamare su di sé una distruzione peggiore di qualunque altra noi avessimo mai pensato di infligger loro. Non basta che le nostre mani rimangano pulite e la nostra anima pura perché la legge di guerra e di distruzione scompaia dal mondo; deve anzitutto essere divelto dall'umanità ciò che ne costituisce la radice. Tanto meno la semplice immobilità e l'inerzia di coloro che non vogliono o non possono opporre alcuna resistenza al male aboliranno tale legge; infatti l'inerzia - tamas - è ancor più nociva di quanto lo possa essere il principio rajasico di lotta, il quale almeno crea più di quanto distrugga. Quindi, per quanto concerne il problema dell'azione dell'individuo, il suo astenersi dalla lotta e dalla distruzione che inevitabilmente ne consegue, nelle loro forme fisiche più brutali, può aiutare lo sviluppo del proprio essere morale, ma lascia intatta la potenza dell'Uccisore delle creature.

Del resto, tutta la storia dell'umanità testimonia l'irriducibile vitalità, il persistente predominio di quel principio nel mondo. Come palliativo, è naturale che si cerchi di insistere su altri aspetti. La lotta e la distruzione non sono tutto; come esiste il principio salvatore di associazione e di reciproco aiuto, esiste anche il principio di dissociazione e di lotta; come c'è la forza della rivendicazione egoistica, c'è anche quella dell'amore; come c'è l'impulso di sacrificare gli altri a sé stessi, esiste pure quello di sacrificarsi per il prossimo. Quando però vediamo come, in realtà, questi principi hanno operato, non siamo più tentati di ignorare la forza dei loro opposti. L'associazione non è stata creata soltanto con uno scopo di collaborazione, ma anche per la difesa e l'aggressione, per rafforzarci contro tutto ciò che ci attacca e ci resiste nella lotta per la vita. L'associazione si è dimostrata un sostegno dell'egoismo, della rivendicazione, della guerra della vita contro la vita. Persino l'amore è stato costantemente un potere di morte. In particolare l'amore del bene e l'amore di Dio, nel modo in cui sono stati abbracciati dall'ego umano, sono responsabili di molte lotte, distruzioni, massacri. Il sacrificio di sé è cosa grande e nobile ma, al massimo delle sue possibilità, è un riconoscimento della legge secondo cui la vita si afferma attraverso la morte, e diviene l'offerta di sé sull'altare di qualche potenza che esige una vittima perché l'opera desiderata possa essere compiuta. L'uccello-madre che affronta l'animale da preda per difendere i piccoli, il patriota che muore per la libertà del suo paese, il martire di una religione o il martire di un'idea sono, a differenti gradi nella scala della vita animale, i più alti esempi del sacrificio di sé; è fin troppo chiaro quale verità essi affermino.

Se consideriamo i risultati che ne conseguono, un facile ottimismo diventa ancor più insostenibile. Prendete il caso del patriota che muore perché il proprio paese possa essere libero, e osservate quello stesso paese qualche decennio più tardi, dopo che il Signore del Karma ha pagato il prezzo del sangue versato e delle sofferenze che furono inflitte; lo vedrete diventare a sua volta oppressore, sfruttatore, conquistatore di colonie e di possedimenti, un paese che divora altri popoli per poter vivere e riuscire a dominare. I martiri cristiani perirono a migliaia, opponendo la loro forza spirituale alla forza dell'Impero affinché Cristo vincesse e il Cristianesimo si affermasse. La forza spirituale trionfò, il Cristianesimo prevalse - ma non il Cristo; la religione vittoriosa divenne una chiesa militante e dominatrice, e una potenza che si diede a persecuzioni più fanatiche di quelle della fede e dell'impero a cui essa si era sostituita.

Persino le religioni si organizzano come potenze di lotta reciproca e combattono tra di loro con accanimento per vivere, crescere e possedere il mondo.

Tutto ciò sembra indicare la presenza di un elemento dell'esistenza - l'elemento iniziale, forse, - che non sappiamo come dominare, sia perché non può esser dominato, sia perché non abbiamo fissato su di esso uno sguardo abbastanza penetrante e imparziale, per riconoscerlo tranquillamente e onestamente, e scoprire così la sua natura. Dobbiamo guardare in faccia l'esistenza, se il nostro scopo è quello di trovarne la giusta spiegazione, qualunque essa possa essere. E guardare l'esistenza in faccia, significa guardare Dio in faccia, poiché i due non possono esser distinti, né d'altronde si può sottrarre la responsabilità delle leggi dell'esistenza a Colui che le ha create, o a Ciò che ha costituito il mondo. Ma anche in questo caso, preferiamo camuffare la realtà e prestarci all'equivoco. Abbiamo costruito un Dio d'amore e di misericordia, un Dio giusto, equo e virtuoso secondo le nostre proprie concezioni morali della giustizia, della virtù e dell'equità, e tutto il resto non è Lui, non è opera sua, vediamo, ma è l'opera di qualche potere diabolico, cui Egli permette, per una ragione qualsiasi, di elaborare la propria cattiva volontà - oppure è l'opera di qualche tenebroso Ahriman contrapposto al nostro grazioso Ormuzd -, oppure ancora, deriva dalla colpa di un uomo egoista e peccatore che ha corrotto ciò che era uscito perfetto dalle mani di Dio. Come se fosse stato l'uomo a creare la legge che impone la morte al mondo animale e la necessità di divorarsi a vicenda, o quel processo terrificante per cui la natura crea e preserva, ma nello stesso tempo, con un'azione parallela, inseparabile, distrugge e uccide! Vi sono ben poche religioni che abbiano il coraggio di dire, senza riserve, come fecero quelle dell'India, che tale enigmatica potenza cosmica è una divinità unica, una Trinità[23], e di presentare l'immagine della forza che agisce nel mondo non soltanto nelle sembianze della benefica Durgà, ma anche in quelle della terribile Kàli nella sua sanguinaria danza di distruzione, dicendo: "Anche questa è la Madre; sappi che anche questo è Dio; anche questo, adoralo se ne hai il coraggio." È significativo che la religione che ha avuto questa inflessibile onestà e questo straordinario coraggio sia riuscita a creare una spiritualità profonda ed estesa che nessun'altra può eguagliare. La verità infatti è il fondamento della vera spiritualità e il coraggio ne è l'anima stessa.

Tutto ciò non significa che la guerra e la distruzione siano l'alfa e l'omega dell'esistenza, che l'armonia non sia superiore alla guerra, che l'amore non manifesti il Divino più della morte, o che noi non dobbiamo cercare di sostituire alla forza fisica la forza spirituale, alla guerra la pace, alla rivalità l'unione, all'odio l'amore, all'egoismo l'universalità, alla morte la vita immortale. Dio non è soltanto il Distruttore, è anche l'Amico delle creature; non è soltanto la Trinità cosmica, ma anche il Trascendente; la terribile Kàli è pure la Madre amorevole e benefica, il Signore di Kurukshetra è il divino compagno e l'auriga, Colui che attrae gli esseri, Krishna incarnato. Dovunque Egli ci conduca, attraverso lotte, conflitti e confusione, qualunque sia lo scopo, lo stato divino verso cui Egli ci attira, si tratta certamente di una trascendenza che oltrepassa tutte quelle apparenze su cui ci siamo così lungamente soffermati. Ma dove e come, a quale trascendenza e sotto quali condizioni - questo dobbiamo scoprirlo; e per scoprirlo bisogna anzitutto vedere il mondo qual è, osservarne e valutarne correttamente l'azione, quale ci appariva all'inizio ed ora, perché in seguito il suo percorso e il suo scopo si rivelino più chiaramente. Dobbiamo riconoscere Kurukshetra per quello che è: dobbiamo sottometterci alla legge che condiziona la vita alla morte, prima di poter trovare la nostra via verso la vita immortale; dobbiamo aprire gli occhi, con uno sguardo meno spaventato di quello di Arjuna, alla visione del Signore del tempo e della morte e cessare di negare, di odiare il Distruttore universale o di indietreggiare davanti a Lui.


 

6. L'UOMO E LA BATTAGLIA DELLA VITA

 

Per potere apprezzare l'universalità dell'insegnamento della Gita, dobbiamo accettare intellettualmente il suo punto di vista e la maniera coraggiosa con la quale ci prospetta la Natura manifestata e lo sviluppo cosmico. Il divino auriga di Kurukshetra si rivela come il Signore dei mondi, l'Amico e la Guida onnisciente di tutte le creature, e come il Tempo, il Distruttore "che si erge per la distruzione di tutti questi popoli". Seguendo in ciò la grande ampiezza delle spirito religioso induista, la Gita afferma che anche questo secondo aspetto è Dio; non tenta di sfuggire all'enigma che il mondo presenta, cercando di sottrarsi attraverso la porta di servizio. Prendiamo il caso dell'uomo che non considera l'esistenza come la semplice azione meccanica di una forza materiale, brutale e indifferente e neppure come un giuoco meccanico d'idee e di energie che sorgono da una non-esistenza primigenia o che si riflettono in un'anima passiva, od anche come l'evoluzione di un sogno o di un incubo nella coscienza superficiale di una Trascendenza indifferente e immutabile che non subisce l'influenza di questo sogno e che non vi prende parte. Supponiamo anche che quest'uomo ammetta, come lo fa la Gita, l’esistenza di Dio, ossia dell'Essere onnipresente e onnipotente, ma sempre trascendente, mediante il quale il mondo è manifestato e che si manifesta nel mondo, di un Dio che non è lo schiavo, ma il padrone della propria coscienza, della propria natura o della propria forza creatrice (maya, prakriti o shakti), il cui disegno e la cui concezione cosmici non potrebbero essere frustrati dalle sue creature, umane o diaboliche, e che non ha bisogno di giustificarsi trasferendo sul creato e sul manifestato la responsabilità di una parte della sua creazione o manifestazione.

In questo caso l'essere umano deve partire da un grande e difficile atto di fede. Messo davanti a un mondo che è apparentemente un caos di poteri in lotta, un conflitto di vaste e oscure forze, una vita che sussiste solo mediante il continuo cambiamento e la morte, minacciata da ogni parte dal dolore, dalla sofferenza, dal male e dalla distruzione, deve in tutto ciò riconoscere il Divino onnipresente. Sapendo che questo enigma dovrà avere una soluzione e che sopra l'ignoranza in cui vive deve pur esistere una conoscenza che può tutto conciliare, bisogna che assuma questa fede quale punto d'appoggio: "Anche se mi farai perire, ho fede in Te." Infatti ogni dottrina o fede umana, se è attiva e affermativa, sia teistica, panteistica o ateistica, implica più o meno esplicitamente e completamente un simile atteggiamento. Essa ammette ed essa crede; ammette le contraddizioni del mondo e crede in un principio supremo - Dio, Essere universale o Natura - che ci renderà capaci di oltrepassare, superare o armonizzare queste contraddizioni, forse di fare le tre cose a un tempo, cioè di armonizzare superando e oltrepassando.

In ciò che concerne le realtà della vita umana, si deve quindi accettare il suo aspetto di lotta e di battaglia che si amplia sino alle crisi più estreme, come quella di Kurukshetra.

Dobbiamo ricordarci che la Gita è stata composta in un tempo in cui la guerra era più di adesso una parte necessaria dell'attività umana e che l'idea della sua eliminazione dallo svolgersi della vita sarebbe stata una perfetta chimera. Il vangelo di pace universale e di buona volontà fra gli uomini - senza buona volontà reciproca, universale e totale, non può esistere una pace vera e permanente - non è mai riuscito, neppure per un istante, a impossessarsi della vita umana nel corso dei cicli storici del suo sviluppo, perché moralmente, socialmente e spiritualmente la specie non era pronta e perché l'equilibrio della Natura, nella sua evoluzione, non avrebbe permesso di prepararla immediatamente per una simile trascendenza.

Anche nei tempi attuali, non siamo andati oltre la possibilità di un sistema di compromessi per gli interessi in conflitto, capace tutt'al più di ridurre il numero delle peggiori forme di lotta. E per avvicinarsi a questa fine ideale, il mezzo che l'umanità si è vista obbligata a adottare, spinta dalla natura che le è propria, è stato un mostruoso massacro senza esempi nella storia; una guerra universale, piena di amarezza e di odio irriducibile, è stato il cammino più breve e il mezzo più efficace che l'uomo moderno abbia saputo trovare per stabilire la pace universale[24]. Una pace che non si appoggi su nessun cambiamento fondamentale della natura umana, ma solo su nozioni intellettuali, su convenienze economiche, su un retrocedere vitale e sentimentale davanti alla perdita di vite umane, alla durezza e agli orrori della guerra, capace di raggiungere al massimo qualche accordo di carattere politico, non può dare serie garanzie di solidità e di durata. Un giorno verrà in cui l'umanità sarà preparata spiritualmente, moralmente e socialmente per il regno della pace universale, ma in tale attesa, la battaglia intesa come aspetto della vita, la natura e la funzione dell'uomo come guerriero, devono essere accettate, e ogni religione e filosofia pratiche devono tenerne conto. La Gita, che prende la vita così com'è e non soltanto come potrebbe essere in un futuro più o meno lontano, ricerca come possano, quest'aspetto e questa funzione necessari alla vita, entrare in armonia con l'esistenza spirituale.

Per questo la Gita s'indirizza a un combattente, a un uomo d'azione, che ha il dovere di combattere e di proteggere, in quanto la guerra è una delle funzioni che spettano a un governo per la protezione di coloro che non sono tenuti a combattere, coloro che non possono proteggere sé stessi e che rimangono perciò esposti alla violenza dei forti. La guerra deve inoltre, mediante l'estensione morale dell'idea precedente, assicurare la protezione del debole e dell'oppresso e mantenere nel mondo il diritto e la giustizia. Tutti questi ideali, l'ideale sociale e pratico, l'ideale morale e cavalleresco, fanno parte del concetto che si ha in India dello kshatriya, dell'uomo che ha la funzione di essere guerriero, capo e, per sua natura, cavaliere e re. Quantunque le più generali e più universali idee della Gita abbiano per noi la maggiore importanza, non dobbiamo escludere radicalmente dalle nostre considerazioni le sfumature e le tendenze che ricevono dalla cultura indiana e dal particolare sistema sociale da cui sono uscite. Le concezioni fondamentali di questo sistema differiscono dal sistema moderno. Per lo spirito moderno l'uomo è nello stesso tempo un pensatore, un lavoratore (o un produttore) e un combattente, e la tendenza del sistema sociale è di riunire queste attività e di esigere da ogni individuo il suo contributo alla vita e ai bisogni intellettuali, economici e militari della comunità, senza tener conto delle disposizioni, della natura e del temperamento di ognuno. L'antica civiltà indiana attribuiva un'importanza particolare alla natura individuale, alla sua tendenza, al suo temperamento, cercando di determinarne il tipo etico, la funzione e il posto che gli competeva nella società. Soprattutto essa non considerava l'uomo come un essere sociale, o la pienezza della sua esistenza sociale come l'ideale più alto; essa vedeva piuttosto nell'uomo un essere spirituale in via di formazione e di sviluppo e considerava la sua vita sociale, la sua legge morale, il giuoco del suo temperamento e l'esercizio della sua funzione come i mezzi e i gradi della sua formazione spirituale. Il pensiero e la conoscenza, la guerra e il governo, la produzione e la distribuzione delle ricchezze, il lavoro manuale e il servizio costituivano funzioni sociali accuratamente differenziate, ciascuna assegnata a coloro che vi erano naturalmente chiamati, assicurando in tal modo il giusto mezzo mediante il quale ognuno, individualmente, poteva avanzare sulla via dello sviluppo spirituale e del perfezionamento di sé.

Certamente l'idea moderna di un obbligo comune in tutte le principali attività umane ha i suoi vantaggi: favorisce la solidarietà, l'unità e rende piena la vita della comunità, favorendo in tutti i sensi il completo sviluppo dell'essere umano, in opposizione alla divisione senza fine e alla superspecializzazione del lavoro, con la conseguente limitazione artificiale della vita dell'individuo cui il sistema indiano conduce inesorabilmente. Ma l'idea moderna offre anche i suoi inconvenienti e, in certe conseguenze delle sue troppo logiche applicazioni, porta a grottesche e disastrose assurdità. Ciò appare evidente nel carattere della guerra moderna. Partendo dall'idea di un comune obbligo militare, che vincola ogni individuo a combattere per difendere la comunità in cui vive e di cui profitta, è nato il sistema per il quale ogni uomo della nazione viene gettato nella sanguinosa trincea per uccidere ed essere ucciso; pensatori, artisti, filosofi, sacerdoti, mercanti e artigiani, sono tutti strappati alle loro naturali funzioni, la vita della comunità disorganizzata, la ragione e la coscienza calpestate, gli stessi ministri della religione, chiamati dalle proprie funzioni o dallo Stato che li paga a predicare il vangelo della pace e dell'amore, vengono forzati a rinnegare la propria fede e a divenire i macellai dei propri fratelli! Non soltanto i decreti arbitrari dello Stato militare violano la coscienza e la natura, ma la difesa nazionale, spinta ad estremi insensati, fa del suo meglio per divenire un suicidio collettivo.

La civiltà indiana, al contrario, si è sempre proposta di ridurre al minimo i livelli e i disastri delle guerre. Limitava, a questo proposito, l'obbligo militare alla sola e poco numerosa classe destinata per nascita, natura e tradizione a questa funzione, che trovava i mezzi naturali per il proprio sviluppo attraverso il coraggio, la disciplina, il soccorso disinteressato e la nobiltà cavalleresca, qualità alle quali la vita di soldato, sotto la spinta di un alto ideale, offre il campo e le occasioni. In tal modo gli altri membri della comunità erano protetti contro la morte e l'oltraggio, la loro vita e le loro occupazioni disturbate il meno possibile. Alle tendenze combattive e distruttrici della natura umana era lasciato solo un terreno limitato, una specie di campo chiuso, in modo da causare il minimo danno possibile alla vita generale della razza, mentre nello stesso tempo la funzione guerriera, sottoposta ai suoi alti ideali etici e a tutte le regole possibili di umanità e di cavalleria, era costretta a nobilitare coloro che l'esercitavano, anziché incoraggiarne la brutalità. Dobbiamo sempre ricordare che la Gita si riferisce a questo tipo di guerra, a qualcosa che è sottoposto a queste condizioni - una guerra considerata come parte inevitabile della vita umana, ma limitata e regolata in modo da servire, come le altre attività, allo sviluppo spirituale e morale, considerato allora come lo scopo ultimo e vero della vita -, una guerra distruttrice della vita corporea dell'uomo individuale, contenuta entro certi limiti attentamente stabiliti, ma costruttrice della propria vita interiore e dell'elevazione morale della razza. Che la guerra abbia nel passato, quando era mossa da un ideale, aiutato ad elevarsi, come nello sviluppo della cavalleria, nell'ideale indiano dello kshatriya, in quello giapponese del samurai, sono fatti che possono essere negati solo dai fanatici del pacifismo. Una volta esaurita la sua funzione, deve allora sparire, poiché il tentativo dì sopravvivere alla propria utilità apparirebbe come pura brutalità, una violenza priva del proprio ideale e dell'aspetto costruttivo e rifiutata dallo spirito in progresso dell'essere umano. Ma, per avere un'esatta visione della nostra evoluzione, dobbiamo riconoscere i servizi che nel passato ha reso alla specie.

Tuttavia il fatto fisico della guerra è solo una manifestazione particolare ed esteriore di un principio generale della vita, di cui lo kshatriya è la manifestazione esteriore e il tipo generale necessario all'integralità della perfezione umana. La guerra riproduce e incarna fisicamente l'aspetto della battaglia e della lotta che appartiene a ogni vita, alla nostra vita interiore e a quella esteriore, in un mondo che ha per metodo lo scontro di forze opposte; mediante una reciproca distruzione queste forze progrediscono verso un riassestarsi continuamente mutevole che esprime una progressiva armonizzazione e mira a una perfetta armonia che si appoggia su qualche non ancora compreso potenziale dell'unità. Lo kshatriya è il tipo e l'incarnazione umana del combattente, che accetta questo principio della vita e lo affronta come un guerriero teso verso la conquista, che non indietreggia davanti alla distruzione dei corpi e delle forme, che passa su tutto ciò che gli si oppone pur di realizzare certi principi del diritto, della giustizia e della legge, su cui fonderà l'armonia verso la quale tutta la lotta è tesa. La Gita accetta quest'aspetto dell'energia universale e il fatto fisico che la incarna: la guerra, estrema contraddizione dell'alta aspirazione dell'anima verso la pace interiore, e la non-violenza[25] di fuori. Essa si rivolge all'uomo d'azione, a colui che lotta, al combattente: lo kshatriya, necessariamente immerso in un tumulto di combattimenti e di azioni che sembrano la contraddizione stessa dell'alto ideale dell'anima, del calmo dominio di sé. Per risolvere la contraddizione, la Gita cerca un punto di unione fra i due termini e un equilibrio che servirà di base a quest'armonia e trascendenza.

L'uomo risponde alla battaglia della vita nel modo più conforme alla tendenza dominante della propria natura. Secondo la filosofia sankhya, che la Gita accetta su questo punto, esistono tre qualità essenziali[26] o modi dell'energia universale e, dì conseguenza, tre qualità essenziali della natura umana: sattva, il modo dell'equilibrio, della conoscenza e della soddisfazione; rajas, il modo della passione, dell'azione, dell'emozione e della lotta, e tamas, il modo dell'ignoranza e dell'inerzia.

L'uomo dominato da tamas tende più a subire i colpi della violenza e gli urti delle energie del mondo che stanno intorno a lui e convergono su di lui, ad esserne tormentato e sopraffatto, che a reagire contro tali violenze e urti; al massimo, aiutato dalle altre qualità, cerca di sopravvivere, di sussistere finché può, di proteggersi nella fortezza di una ridda abituale di pensieri e di atti in cui si sente fino a un certo punto protetto, in grado di respingere le più alte esigenze della propria natura ed esonerato dall'obbligo di lottare per un ideale e uno sviluppo.

L'uomo dominato da rajas si getta nella battaglia e tenta di utilizzare questa lotta di forze in favore del proprio beneficio egoistico, tenta di uccidere, conquistare, dominare, godere; oppure, aiutato sino a un certo limite dalla sua natura sattvica, fare della lotta stessa un mezzo per ampliare il proprio dominio interiore, la propria gioia e il proprio potere. La battaglia della vita diviene per lui gioia e passione, in parte come fine a sé stessa, per il piacere dell'attività e il senso del potere, in parte come mezzo di crescita e di sviluppo naturale.

L'uomo dominato da sattva, situato in mezzo alle discordie della vita, cerca un principio di legge, di diritto, di equilibrio, di armonia, di pace e di soddisfazione. L'uomo puramente sattvico, generalmente mediante un distacco interiore o una ripulsione esteriore davanti al conflitto e ai tormenti dell'energia attiva del mondo, tende a cercare in sé stesso questo principio, sia per uso proprio sia per trasmetterlo, una volta acquisito, ad altri spiriti, Ma quando l'uomo sattvico accetta parzialmente l'impulso rajasico, cerca piuttosto d'imporre alle lotte e al caos apparente, il principio di armonia e di equilibrio, di preparare la vittoria della pace, dell'amore e dell'armonia sul principio della guerra, della discordia e della lotta. Tutti gli atteggiamenti adottati dallo spirito umano nei confronti del problema della vita derivano dall'una o dall'altra di queste qualità o modi, oppure da un tentativo di stabilire fra di esse un equilibrio armonioso.

Ma può sopravvenire una fase in cui l'uomo deluso dalle soluzioni che il triplice modo della Natura gli offre, traigunya, abbandoni il problema e cerchi una soluzione più alta, fuori o sopra la Natura. Cerca un'uscita verso qualcosa che sia, o al di fuori e sprovvisto di qualità - e quindi di attività -, o superiore alle tre qualità - e dì conseguenza capace di azione, - ma senza essere toccato o dominato da quest'azione: nirguna o trigunatita. Aspira sia alla pace assoluta dell'esistenza incondizionata, sia al calmo dominio di un'esistenza superiore. Il moto naturale del primo atteggiamento tende verso la rinuncia al mondo, sannyasa; il secondo verso uno stato superiore alle esigenze della Natura inferiore e al suo turbinio di azioni e di reazioni; il suo principio è l'equanimità e la rinuncia interiore alle passioni e ai desideri. Il primo atteggiamento è quello che mette in evidenza il movimento iniziale di Arjuna, l'indietreggiare di fronte al risultato disastroso di tutta la sua attività eroica nel grande cataclisma della battaglia e del massacro di Kurukshetra; di fronte alla caduta del principio di azione che ha seguito sino a quel momento, l'inazione e il rifiuto della vita e delle sue esigenze gli sembrano la sola via d'uscita. Ma a uno stato di superiorità interiore e non di rinuncia fisica alla vita e all'azione, la voce del divino Maestro lo chiama....

Sannyasa è la rinuncia alla vita, all'azione e al triplice modo della Natura; ma questo stato non può essere avvicinato che mediante l'una o l'altra di queste qualità (guna). L'incitamento può essere tamasico - senso d'impotenza, di paura, di avversione, di ripulsione, di orrore del mondo e della vita; o forse proviene dalla qualità rajasica che tende verso tamas - senso di stanchezza davanti allo sforzo da compiere, d'infelicità, di disappunto, il rifiuto di accettare ancora questa vana tormenta di attività con i suoi dolori e insoddisfazioni eterni. Oppure può essere l'impulso di rajas che tende verso sattva - il desiderio di raggiungere qualcosa di più elevato di ciò che la vita può dare, di conquistare uno stato superiore, di calpestare la vita stessa sotto l'azione di una forza interiore che cerca di spezzare tutti i legami e di superare i propri limiti. O ancora può essere l'impulso sattvico - una percezione intellettuale della vanità della vita, dell'assenza di ogni vero scopo e di ogni ragione di questo eterno girare in tondo dell'esistenza del mondo; oppure una percezione spirituale di Ciò che è fuori del tempo: dell'Infinito, del Silenzioso, della pace senza né nome né forma situata oltre. Il retrocedere di Arjuna è l'indietreggiare tamasico di un uomo che si trova davanti all'azione sattvico-rajasica. Il Maestro potrebbe incoraggiare l'orientamento di questo moto, utilizzandolo come un fosco passaggio verso la purezza e la pace della vita ascetica; oppure purificarlo di un sol tratto ed elevarlo alle altezze eccezionali della rinuncia sattvica. In realtà, non fa nulla di tutto ciò. Scoraggia questo moto d'indietreggiamento tamasico e la tendenza alla rinuncia, dà ordine di continuare l'azione, questa violenta e terribile azione, ma orienta il suo discepolo verso la più intima rinuncia che costituisce la vera soluzione della crisi e indica il cammino verso la superiorità dell'anima sulla Natura universale ed anche verso l'azione dell'anima, calma e padrona di sé stessa, nell'universo. L'insegnamento della Gita non è un ascetismo fisico, ma un'ascesi interiore.


 

7 SANKHYA E YOGA[27]

 

Sin dall'inizio Krishna, il divino Maestro, fa una distinzione che è d'estrema importanza per la comprensione della Gita: la distinzione tra Sànkhya e Voga.

La Gita è essenzialmente un'opera vedantina; è una delle tre autorità riconosciute nell'insegnamento del Vedanta[28]. Tuttavia tutte le sue idee vedantine sono fortemente colorate dalle concezioni proprie del Sànkhya e dello Yoga, ed è appunto da questa colorazione che deriva il carattere sintetico peculiare della sua filosofia.

Che cosa sono, insomma, il Sankhya e lo Yoga dì cui parla la Gita? Non certo i sistemi filosofici che ci sono giunti sotto questi nomi, come vengono enunciati nel “Sankhya-Karika” di Ishvara-Krishna, e nello “Yoga-Sutra” di Patanjali. Eppure, tutto ciò che è essenziale in questi due sistemi, tutto ciò che in essi v'è di vasto, di totale, di universalmente vero è ammesso dalla Gita, la quale però non accetta le limitazioni che caratterizzano le due scuole rivali. Il suo Sànkhya è il Sankhya vedantino, universalmente valido, di cui troviamo i principi e gli elementi fondamentali nella grande sintesi delle Upanishad e negli ulteriori sviluppi dei Purana. Il suo Yoga si fonda su una concezione, anch'essa assai vasta, di una pratica e di una trasformazione interiore, entrambe principalmente soggettive, necessarie alla scoperta del Sé e all'unione con Dio, di cui il raja yoga è soltanto un'applicazione particolare, ma non la più importante o la più vitale. La Gita sostiene che Sànkhya e Yoga, lungi dal costituire due sistemi differenti, discordanti e incompatibili, sono tutt'uno nel loro principio e nel loro scopo; le loro divergenze si limitano al metodo e al punto di partenza.

Quali sono le verità del Sànkhya? Questa filosofia prende il nome dal suo procedimento analitico. Il Sànkhya è l'analisi, l'enumerazione, l'enunciazione - mediante distinzione e discriminazione - dei principi del nostro essere, di quei principi di cui la mentalità comune vede soltanto le combinazioni e i risultati delle combinazioni. Il Sànkhya non cerca affatto la sintesi. Il suo punto di partenza è dualistico - non di quel dualismo alquanto relativo, proprio delle scuole vedantine che portano quel nome, dvaita - ma di un dualismo assoluto e categorico. Il Sànkhya infatti spiega l'esistenza mediante, non uno, ma due principi originali, la cui interazione è la causa dell'universo: Purusha, l'inattivo, e Prakriti, l'attivo.

Purusha è l'Anima, non nel senso comune o popolare del termine, ma in quello di Essere puro e cosciente, immobile, immutabile e in sé luminoso. Prakriti è l'energia e i suoi processi. Prakriti è meccanica (jada) ma, per il suo riflettersi in Purusha, ci appare, nelle sue attività, come coscienza. Così si producono i fenomeni di creazione, conservazione, dissoluzione, vita e morte, coscienza e incoscienza, conoscenza sensoria, conoscenza intellettuale e ignoranza, azione e inazione, felicità e sofferenza, tutti fenomeni che il Purusha, sotto l'influenza della Prakriti, attribuisce a sé stesso, mentre in realtà non appartengono a lui, ma all'azione e al movimento di Prakriti.

Prakriti è costituita dai tre guna o modi essenziali d'energia: sattva, germe d'intelligenza, che sostiene le operazioni dell'energia; rajas, germe di forza e d'azione, che crea le operazioni dell'energia; tamas, germe d'inerzia e di inintelligenza, negazione di sattva e di rajas, che dissolve ciò che essi creano e sostengono. Quando questi tre poteri dell'energia di Prakriti sono in equilibrio, tutto è allo stato di quiete: non vi è movimento, azione o creazione, e quindi non vi è nulla che si rifletta nell'immutabile essere luminoso dell'Anima cosciente. Ma quando l'equilibrio si rompe, i tre guna cadono in uno stato d'instabilità in cui lottano tra di loro e reagiscono l'uno sull'altro. Comincia allora l'avvicendamento inestricabile e incessante di creazione, conservazione e dissoluzione, in cui si svolgono i fenomeni del cosmo. Questo movimento continua finché il Purusha consente a riflettere l'agitazione che oscura la sua eterna natura attribuendo a questa il carattere mutevole della natura di Prakriti; ma quando ritira il suo assenso, i guna riprendono il loro equilibrio e l'Anima ritorna alla sua eterna, immutabile immobilità: essa è liberata dai fenomeni.... Cosi il Sànkhya spiega l'esistenza del cosmo.

Ma da dove provengono quell'intelligenza e quella volontà coscienti che noi percepiamo come una parte tanto importante del nostro essere, e che di solito, istintivamente, non attribuiamo alla Prakriti, ma al Purusha? Secondo il Sànkhya, l'intelligenza e la volontà rientrano completamente nell'energia meccanica della Natura e non sono proprie dell'Anima; esse costituiscono la buddhi, uno dei ventiquattro tattva o principi cosmici. Prakriti, il primo dei tattva nell'evoluzione del mondo, ne è la base, con i suoi tre guna e come sostanza originaria delle cose, non-manifestata, incosciente, dalla quale evolvono successivamente cinque condizioni elementari dell'energia o della materia - materia ed energia sono la stessa cosa per la filosofia Sànkhya. Queste sono chiamate con i nomi dei cinque elementi concreti (bhúta in sanscrito) del pensiero antico: etere, acqua, fuoco, aria e terra; si deve però ricordare che questi elementi non vanno intesi nel senso scientifico moderno del termine; essi sono condizioni 'sottili' dell'energia materiale, assolutamente introvabili allo stato puro nel mondo fisico sensibile[29]. Tutti gli oggetti sono creati dalla combinazione di queste cinque condizioni o elementi. Rispettivamente, ognuno di essi è la base di una delle cinque proprietà dell'energia-materia: suono, tatto, forma, gusto e odore, che costituiscono il mezzo attraverso cui la mente sensoria percepisce gli oggetti. Così, i cinque elementi o condizioni materiali espressi dall'energia originaria e le cinque relazioni sensorie attraverso cui la materia è conosciuta, compongono quello che nel linguaggio moderno si potrebbe chiamare l'aspetto oggettivo dell'esistenza cosmica.

Tredici altri principi costituiscono l'aspetto soggettivo dell'energia cosmica. Essi sono: buddhi o mahat, ahankara, manas e le sue dieci funzioni sensorie - cinque di conoscenza e cinque d'azione. Manas, la mente, è il senso fondamentale che percepisce gli oggetti e reagisce su di essi; essa ha un'attività al tempo stesso inferente ed efferente: riceve attraverso la percezione ciò che la Gita chiama i contatti esteriori delle cose - formandosi così la sua idea del mondo -, ed esercita le sue reazioni di vitalità attiva. Ma specializza le sue più comuni funzioni di ricettività mediante i cinque sensi di percezione - udito, tatto, vista, gusto e olfatto - che hanno per oggetto le cinque rispettive proprietà della materia; d'altro canto, specializza alcune necessarie funzioni vitali di reazione per mezzo dei cinque sensi di azione, che hanno per oggetto la parola, la locomozione, l'atto dell'afferrare, l'escrezione e la generazione. Buddhi, il principio di discriminazione, è al tempo stesso intelligenza e volontà; considerato come facente parte della Natura, è il potere che distingue e coordina. Ahankara, il senso dell'ego, è in buddhi il principio soggettivo che induce il Purusha a identificarsi con Prakriti e con le sue attività. Benché questi principi siano soggettivi, rientrano nondimeno nell'energia incosciente e sono meccanici, come gli altri dieci che costituiscono le attività oggettive della natura. Se stentiamo a capire come l'intelligenza e la volontà possano essere proprietà della natura incosciente meccanica, ed essere esse stesse meccaniche, dobbiamo ricordare che la scienza moderna è stata indotta alla stessa conclusione. Ma il Sankhya spiega ciò che la scienza moderna lascia nell'oscurità, ossia il processo per cui ciò che è meccanico e incosciente assume l'apparenza di coscienza. A causa del riflettersi di Prakriti in Purusha la luce della coscienza dell'Anima viene attribuita alle operazioni dell'energia meccanica; avviene che il Purusha, osservando la Natura come testimone, dimentica sé stesso, cade nell'illusione (generata nella natura) e crede di essere lui a pensare, a sentire, a volere, ad agire, mentre in realtà le operazioni di pensiero, di senso, di volontà e di azione sono sempre effettuate dalla Natura e dai suoi tre modi, e mai completamente da lui. Sbarazzarsi di quest'illusione è il primo passo verso la liberazione dell'Anima dalla Natura e dalle sue opere.

Ci sono certo moltissime cose della nostra esistenza che il Sànkhya non chiarisce; ma se ciò di cui abbiamo bisogno è una spiegazione razionale dei processi cosmici nei loro principi, che serva di base per il grande obiettivo comune a tutta la filosofia antica - la liberazione dell'anima dalla soggezione alla natura cosmica - allora la spiegazione del mondo e la via di liberazione proposte dal Sànkhya sembrano valide ed efficaci come ogni altro sistema del genere. Ciò che in un primo momento non riusciamo ad afferrare è la ragione per cui il Sànkhya introduce nel suo dualismo un elemento di pluralismo, affermando l'esistenza dì una Prakriti da un lato e di molti Purusha dall'altro. L'esistenza di una Prakriti e di un Purusha potrebbe sembrare sufficiente a spiegare la creazione dell'universo e la sua evoluzione; tuttavia il Sankhya era obbligato, dalla sua osservazione rigorosamente analitica dei principi delle cose, a sfociare nel pluralismo. Innanzi tutto, sta di fatto che nel mondo ci sono molti esseri coscienti, e che ognuno ha dello stesso mondo una visione propria, un'esperienza indipendente dalla realtà sia oggettiva che soggettiva; ognuno è in differente rapporto con gli stessi processi di percezione e di reazione. Se ci fosse soltanto un unico Purusha, quest'indipendenza e questa separatività centrali non esisterebbero: tutti vedrebbero il mondo in modo identico, con un'oggettività e una soggettività che sarebbero comuni. Siccome Prakriti è una, tutti sono di fronte allo stesso mondo; siccome i suoi principi sono sempre gli stessi, i principi generali che costituiscono l'esperienza interna ed esterna sono uguali per tutti; quindi le infinite differenze di visione, di prospettiva e di atteggiamento, di azione, di esperienza e di evasione dall'esperienza - differenze non delle operazioni naturali che sono le stesse, ma della coscienza testimone che osserva - sono assolutamente inspiegabili se non si presuppone la molteplicità dei testimoni, l'esistenza, cioè, di molti Purusha. In questo senso, un pluralismo di Anime è la logica necessità per un puro sistema Sànkhya, una volta che questo abbia divorziato dagli elementi vedantini della conoscenza antica, da cui era originariamente derivato. Con la relazione tra un Purusha e una Prakriti si possono spiegare il cosmo e i suoi processi, ma non la molteplicità degli esseri coscienti nel cosmo.

C'è un'altra difficoltà, anch'essa molto grave. Questa filosofia, come le altre, si propone per meta la liberazione. E la liberazione si effettua quando il Purusha ritira il suo assenso alle attività di Prakriti, attività che Prakriti svolge per il piacere del Purusha. Ma, in fondo, questo è soltanto un modo di dire. Il Purusha è passivo, e l'atto di dare o di ritirare l'assenso non può in realtà appartenergli, dev'essere un movimento della Prakriti stessa. Se esaminiamo attentamente il problema, vedremo che questo movimento, nei limiti in cui è un'operazione, consiste in un rovesciamento o in un ripiegamento del principio di buddhi, la volontà discriminatrice. Buddhi si è prestata alle percezioni della mente sensoria; si è dedicata a discriminare e a coordinare le operazioni dell'Energia cosmica, identificando, con l'aiuto del senso dell'ego, il Purusha testimone con le attività di Prakriti - pensiero, sensazione, azione. Mediante il processo di discriminazione, buddhi giunge alla chiara percezione che questa identificazione è un'illusione; essa distingue infine il Purusha dalla Prakriti e si rende conto della confusione provocata dalla rottura dell'equilibrio dei guna. Buddhi, intelligenza e volontà al tempo stesso, ripiega di fronte alla menzogna che aveva fino allora sostenuto, e il Purusha, cessando d'esser legato, non si associa più all'interesse che la mente presta al gioco cosmico. Il risultato finale sarà questo: Prakriti perderà il potere di riflettersi nel Purusha, poiché il senso dell'ego non avrà più alcun effetto, e la volontà intelligente, trasformandosi in indifferenza, cesserà d'essere il mezzo della sua sanzione: necessariamente, quindi, i tre guna dovranno cadere in uno stato d'equilibrio, il gioco cosmico dovrà cessare e il Purusha ritornare nella sua immobile quiete. Ma se esistesse soltanto un Purusha, l'universo intero cesserebbe d'esistere non appena si verificasse quel ripiegamento del principio discriminatore di fronte all'illusione. Stando a quanto vediamo, nulla di tutto ciò succede. Pochi esseri - tra gli innumerevoli milioni di esistenze - giungono alla liberazione o vi si avvicinano; gli altri non ne sono minimamente toccati, e la natura cosmica, nel suo gioco con gli esseri, non è assolutamente disturbata da quel rifiuto sommario che dovrebbe rappresentare la fine di tutte le sue attività. Solo la teoria dei Purusha molteplici e indipendenti può spiegare questo fatto.

La Gita parte dalla stessa analisi e sembra in un primo momento accettarla pienamente, persino quando espone il suo Yoga. Essa accetta la Prakriti, i suoi tre guna e i suoi ventiquattro tattva; accetta la molteplicità degli esseri coscienti nel cosmo; accetta, come mezzi di liberazione, la dissoluzione del senso identificatore dell'ego (ahankara), l'azione discriminante della volontà intelligente e la trascendenza di là dall'azione dei tre guna. Lo yoga, che sin dall'inizio Krishna chiede ad Arjuna di praticare, è lo yoga di buddhi, lo yoga della volontà intelligente. Vi è però una divergenza, di importanza capitale: il Purusha è considerato unico, e non molteplice. Se si eccettua questa differenza. il Sé della Gita, libero, immateriale, immobile, eterno, immutabile, è una descrizione vedantina del Purusha del Sànkhya, eterno, passivo, immobile, immutabile. Ma questa differenza capitale - che ci sia un solo Purusha e non molti - risolleva tutte le difficoltà evitate dal Sànkhya e richiede una nuova e diversa soluzione. La Gita fornisce questa soluzione immettendo nel suo Sànkhya vedantino le idee e i principi dello Yoga vedantino.

Il primo elemento importante lo troviamo già nella concezione del Purusha. Prakriti svolge le sue attività per il piacere del Purusha; ma questo piacere, da che cosa è determinato? Secondo la rigorosa analisi del Sànkhya, soltanto da un assenso passivo del Testimone silente. Passivamente questi acconsente all'azione della volontà intelligente e del senso dell'ego, passivamente acconsente che questa volontà si ritiri dal senso dell'ego. È il Testimone, l'origine dell' assenso, quello che riflette le opere della Natura, e così facendo le sostiene. (Questa è la posizione del Sànkhya). Il Purusha della Gita, invece, è il Signore della Natura; è l'Ishvara. Se l'attiva volontà intelligente appartiene alla Natura, l'origine e il potere della volontà procedono dal Purusha, dall'Anima cosciente, dal Signore della Natura. Il Purusha non è soltanto il Testimone, ma è il Signore della conoscenza e della volontà, la causa suprema dell'azione di Prakriti, la causa anche del suo ritiro dall'azione. Secondo l'analisi del Sànkhya, Purusha e Prakriti, nel loro dualismo, sono la causa dell'universo; secondo il Sànkhya sintetico della Gita, il Purusha, per mezzo della sua Prakriti, è la causa del cosmo. Ci rendiamo subito conto di quanto siamo lontani dal rigido purismo dell'analisi tradizionale.

Ma che dire di quel Sé unico, immutabile, eternamente libero, che costituiva il punto di partenza della Gita? Esso è libero da ogni cambiamento e non è implicato nel cambiamento; è il non-nato, il non-manifestato, il Brahman; eppure è "quello da cui tutto questo (mondo) è diffuso". Parrebbe quindi che il principio dell'Ishvara appartenga all'essere stesso del Sé: il Sé è immobile ed è tuttavia la causa e il signore di ogni azione e di ogni movimento. Ma come? E che dire della molteplicità degli esseri coscienti nel cosmo? Questi non sembrano esserne i signori (isha), ma ben piuttosto i non-signori (an-isha), poiché sono sottomessi all'azione dei tre guna e all'illusione del senso dell'ego. Se quindi, come sembra affermare la Gita, questi sono tutti l'unico Sé, da dove proviene la loro involuzione, la soggezione e l'illusione? Come si può spiegare tutto ciò, se non affermando la pura passività del Purusha? E inoltre, da dove proviene la molteplicità? E com'è possibile che il Sé unico raggiunga la liberazione in un corpo e in una mente, pur rimanendo in altri corpi e in altre menti nell'illusione e nella schiavitù? Sono queste difficoltà che non si possono lasciare senza soluzione.

La Gita trova la risposta, nei canti che seguono, attraverso un'analisi del Purusha e della Prakriti, che introduce nuovi elementi, propri di uno Yoga vedantino, ma estranei al Sànkhya tradizionale. Essa parla dei tre Purusha, o piuttosto dei tre stati del Purusha. Le Upanishad, quando trattano le verità del Sànkhya, sembrano talvolta parlare di due Purusha. Vi è un non-nato dai tre colori, dice un testo, l'eterno principio femminile di Prakriti, con i suoi tre guna, che crea incessantemente; vi sono due non-nati, due Purusha, di cui uno aderisce a Prakriti e trova in essa la propria gioia, mentre l'altro l'abbandona poiché ha già provato tutte le gioie ch'essa poteva dargli. Un altro versetto li descrive come due uccelli sullo stesso albero, compagni eternamente accoppiati; uno mangia i frutti dell'albero - il Purusha nella Natura, che trova la gioia nel cosmo - l'altro non mangia, ma - Testimone silenzioso, staccato dalle gioie della natura - osserva il suo compagno; quando il primo vede il secondo e scopre che tutto è la sua grandezza, allora è liberato dalla sofferenza. I due versetti differiscono per quanto riguarda il punto di vista, ma hanno un significato comune. Uno degli uccelli è il Sé, il Purusha, eternamente non-legato, silente, "quello da cui tutto questo è diffuso"; egli guarda il cosmo che ha diffuso, ma resta in disparte; l'altro è il Purusha implicato nella Prakriti. Il primo versetto indica che i due sono lo stesso uccello, e rappresentano due stati differenti - asservimento e liberazione - dello stesso essere cosciente: il secondo Non-nato infatti scende sino al piacere della Natura per poi ritirarsene. Il secondo versetto mette in risalto ciò che non era possibile trovare nel primo, e cioè che nel suo superiore stato di unità, il Sé è libero da sempre, inattivo, privo di attaccamento, benché nel suo essere inferiore scenda sino alla molteplicità delle creature di Prakriti, per poi ritirarsi e, attraverso qualche Creatura individuale, ritornare allo stato superiore. Questa teoria del doppio stato dell'Anima cosciente unica apre uno spiraglio; tuttavia il processo della molteplicità dell'Uno è ancora oscuro.

A questi due stati, la Gita, sviluppando il pensiero racchiuso in altri passaggi delle Upanishad[30], ne aggiunge ancora uno, il supremo, il Purushottama, il più alto Purusha, la cui grandezza è tutta la creazione. Vi sono quindi tre stati: lo kshara, l'akshara, l'uttama. Lo kshara, il mobile, il mutevole, è la Natura, svabhava, il multiforme divenire dell'Anima; il Purusha in questo stato è la molteplicità dell'Essere divino, è il molteplice Purusha, non separato da Prakriti, ma in essa. L'akshara, l'immobile, l'immutabile, è il Sé silente e inattivo, l'unità dell'Essere divino, Testimone della Natura, ma non implicato nel suo movimento; è il Purusha inattivo, libero da Prakriti e dalle sue opere. L'uttama è il Signore, il Brahman supremo, il Sé supremo che possiede al tempo stesso l'unità immobile e la mutevole molteplicità. Attraverso una vasta mobilità, una vasta azione della sua natura, della sua energia, della sua volontà e del suo potere, Egli si manifesta nel mondo; attraverso una più grande calma, una più grande immobilità del suo essere, Egli sta in disparte dal mondo; in quanto Purushottama, egli domina al tempo stesso la separazione dalla Natura e l'attaccamento alla Natura. Il concetto di Purushottama, benché costantemente implicito nelle Upanishad, se ne stacca per trovare nella Gita un'espressione ben definita; esso eserciterà un forte influsso sugli ulteriori sviluppi della coscienza religiosa indiana. Su di esso si basa la più elevata corrente del bhakti yoga, che sostiene d'essere il superamento delle rigide definizioni della filosofia monista, e che sta alle spalle della filosofia di devozione dei Purana.

La Gita inoltre non si accontenta di restare nei limiti dell'analisi che il Sànkhya fa di Prakriti; quest'analisi infatti comprende soltanto il senso dell'ego e non il Purusha molteplice, il quale appunto non vi figura come parte di Prakriti, ma separato da essa. La Gita invece afferma che, per mezzo della Sua natura, il Signore diventa il jiva. Come può essere possibile, dal momento che esistono soltanto i ventiquattro principi dell'energia cosmica e null'altro? Il divino Maestro è sostanzialmente d'accordo con la teoria del Sànkhya: egli riconosce che essa dà una spiegazione perfettamente valida delle operazioni apparenti della Prakriti cosmica e dei suoi tre guna, e che la relazione da essa attribuita al Purusha e alla Prakriti è altrettanto valida e di grande utilità ai fini pratici dell'implicazione e del ritiro. Ma il Sànkhya tratta soltanto della Prakriti inferiore dei tre guna, della Natura incosciente, apparente; esiste però una Natura più alta, suprema, cosciente e divina, che è diventata l'anima cosciente, il jiva. Nella Natura inferiore, ogni essere appare come ego; in quella superiore, ogni essere è il Purusha individuale. In altri termini, la molteplicità fa parte della Natura spirituale dell'Uno, "Quest'anima individuale", dice il Supremo per bocca del suo Avatàr, "è Me stesso; essa è nella creazione una manifestazione parziale di Me - mamaiva anshah[31] - e possiede tutti i miei poteri: essa è il testimone, essa dà la sanzione, sostiene, conosce, dirige. Essa scende nella Natura inferiore e si crede legata all'azione, per poter così gioire dell'essere inferiore, ritirarsi e riconoscersi come il Purusha passivo libero da ogni azione. Essa può elevarsi sopra i tre guna e, liberata dal legame dell'azione, possedere tuttavia l'azione, come faccio Io stesso; essa può gioire pienamente della sua natura divina adorando il Purushottama e giungendo all'unione con Lui."

Questa è l'analisi su cui la Gita fonda le sue sintesi, quella del Vedanta, del Sankhya e dello Yoga, e quella della conoscenza, dell'azione e della devozione. È un'analisi che non si limita ai processi cosmici apparenti, ma penetra negli occulti segreti della Natura ultra-cosciente, uttamam rahasyam. Per il Sankhya puro e semplice, combinare le opere con la liberazione è contraddittorio e impossibile. Per il monismo puro e semplice, continuare le opere come parte dello yoga e indulgere nella devozione una volta raggiunta la liberazione, l'unione e la conoscenza perfette, diventa qualcosa d'impossibile, o per lo meno d'irrazionale e d'inutile. La conoscenza che la Gita ha elaborato dal sistema Sànkhya, unitamente al suo sistema di Yoga, dissipano tutte queste contraddizioni e trionfano di tutti questi ostacoli.


CANTO I

LO SGOMENTO DI ARJUNA

 

 

Dhritarshtra[32] disse:

1. A Kurukshetra[33], sul campo [del compimento] del dharma[34] cosa fanno, o Sanjaya, riuniti, avidi di combattimento, il mio popolo[35] e i Pàndava[36]

 

La particolarità della Gita, fra le grandi opere religiose del mondo, e di non essere un'opera isolata, il frutto della vita spirituale di una personalità creatrice — come il Cristo, Maometto e il Buddha — o quello di un'epoca di ricerca spirituale come lo sono i Veda o le Upanishad. È un episodio della storia epica delle nazioni, delle loro guerre, degli uomini e dei loro fatti d'armi; il suo insegnamento è dato nell'occasione di una crisi che attraversa l'anima di uno dei suoi principali personaggi alle prese con l'azione che corona la sua vita — azione terribile, violenta e sanguinaria — nel momento in cui doveva, o indietreggiare davanti all'atto o eseguirlo inesorabilmente fino in fondo. L'insegnamento della Gita non deve quindi essere considerato solamente alla luce di una filosofia spirituale o di una dottrina morale generali, ma anche alla luce di una crisi pratica nell'applicazione dell'etica e della spiritualità alla vita umana.

Si potrebbe tradurre simbolicamente l'espressione "campo del compimento del dharma" con "campo dell'azione umana, che è quello dell'evoluzione del dharma". La Gita inquadra uno dei periodi di transizione e di crisi che l'umanità deve periodicamente attraversare nel corso della sua storia, dove grandi forze si urtano in gigantesche distruzioni e ricostruzioni, intellettuali, sociali, morali, religiose e politiche; e queste crisi, all'attuale stato psicologico e sociale dell'evoluzione umana, culminano generalmente in una violenta convulsione fisica: lotte, guerre e rivoluzioni. La Gita ammette la necessità nella natura di queste veementi crisi; non ne accetta solamente l'aspetto morale, la lotta tra il giusto e l'ingiusto, tra la legge del bene che si afferma e le forze che si oppongono a questo progredire, ma anche l'aspetto materiale, la vera guerra in armi o qualsiasi altra lotta fisica violenta tra gli esseri umani che rappresentano le forze in conflitto. Un giorno verrà, e noi diremo anche, un giorno deve certamente venire, in cui l'umanità sarà pronta spiritualmente, moralmente e socialmente per il regno della pace universale; in attesa di questo giorno, le religioni e le filosofie pratiche devono constatare e spiegare l'aspetto di lotta, come pure la natura e la funzione dell'uomo nella sua qualifica di combattente. La Gita, prendendo la vita tale e quale è, e non come potrebbe essere in un lontano avvenire, si chiede in che modo quest'aspetto, questa funzione della vita, che sono realmente un aspetto e una funzione dell' attività umana in generale, possano armonizzarsi con l'esistenza spirituale.

 

 

Sanjaya disse:

2. Alla vista dell'esercito dei Pandava, spiegato in ordine di battaglia, Duryodhana[37], il re, si avvicinò al suo maestro[38] e gli tenne questo discorso:

 

3. "Contempla, o Achàrya[39], il potente esercito dei figli di Pàndu, raccolto dal figlio di Drupada[40], tuo intelligente discepolo.

 

4-6. "Vedi, in questo potoente esercito [ci sono] eroi e grandi arcieri che, nella battaglia, rivaleggiano con Bhima[41] e Arjuna: Yuyudhàna, Viràta e Drupada dal grande carro, Dhrishtaketu, Chekitàna e il valoroso principe di Kàshi[42], Purujit e Kuntibhoja, e Shaibya, grande fra tutti gli uomini, Yudhàmanyu il forte e Uttamaujà, il vittorioso, il figlio di Subhadrà[43] e i figli di Draupadi, tutti grandi guerrieri!

 

7. "Conosci, o Migliore fra i due-volte nati[44], coloro che dalla nostra parte si distinguono, i capi del mio esercito; te li menzionerò per nome affinché tu impari a conoscerli.

 

8-9. "Tu stesso e Bhishma[45] e Karna[46] e Kripa[47], vittoriosi nelle battaglie, Ashvatthàmà[48], Vikarna e Saumadatti, ed altri numerosi eroi, pronti per me a rinunciare alla vita. Sono tutti ben provvisti di armi e proiettili, tutti esperti nell'arte della guerra.

 

10. "Senza limiti è il nostro esercito di cui Bhishma è il condottiero, mentre il loro, condotto da Bhima, [benché grande] è limitato.

 

11. "Perciò, voi tutti, che vi tenete al vostro posto di combattimento, proteggete come prima cosa Bhishma!"

 

12. Allora il valoroso avo, il vecchio Kaurava[49], per animare il cuore di Duryodhana, ruggì come un leone con voce poderosa e dette fiato alla sua conchiglia[50].

 

13. Allora, conchiglie e timpani, corni, tamburi risuonarono d'un tratto e il clamore divenne immenso.

 

14. In piedi, sul grande carro trainato da cavalli bianchi, Màdhava[51] e il figlio di Pàndu[52] dettero fiato alle loro conchiglie divine.

 

Arjuna è il combattente e il divino Krishna il conduttore del carro di combattimento. Per spiegare la Gita, esiste un metodo secondo il quale, non solamente questo episodio, ma l'intero Mahàbhàrata vengono trasformati in un'allegoria della vita interiore, non riferendosi più alla nostra vita e alle nostre azioni esteriori, ma soltanto alla battaglia dell'anima e delle forze che si contendono la supremazia su di noi. È un concetto non convalidato né dal carattere generale, né dallo stesso linguaggio del poema epico; spinta, quest'idea, fino alle sue più estreme conclusioni logiche, trasformerebbe il linguaggio filosofico diretto della Gita in una mistificazione costante, laboriosa ed anche un po' puerile. Il linguaggio dei Veda, e perlomeno di una parte dei Puràna, è nettamente simbolico, pieno d'immagini e di rappresentazioni concrete di ciò che è dietro il velo. La Gita è invece scritta in termini chiari e pretende risolvere le grandi difficoltà etiche che si sollevano nella vita dell'uomo; non conviene quindi ricercare un senso nascosto a questo pensiero e a questo linguaggio diretto, né torturarli per metterli al servizio della nostra fantasia. Però tali concetti racchiudono una parte di verità, in quanto il quadro in cui la dottrina viene esposta, senza essere simbolico, è certamente tipico — e il quadro di un discorso come quello espresso dalla Gita deve necessariamente esserlo, se deve avere un qualche rapporto con ciò che racchiude.

Esistono in verità, nella Gita, tre elementi che sono, sotto il punto di vista spirituale, significativi, quasi simbolici, tipici dei rapporti e dei problemi più profondi della vita spirituale e dell'esistenza umana fino nelle sue più profonde radici. Questi tre elementi sono rappresentati dalla persona divina del Maestro, dalle relazioni caratteristiche col suo discepolo e dalle circostanze in cui l'insegnamento si svolge. Il Maestro è lo stesso Dio sceso tra gli umani, il discepolo è il primo o, come oggi diremmo, l'uomo più rappresentativo della sua epoca, amico intimo dell'Avatàr e suo strumento d'elezione, il suo protagonista nell'opera immensa e nell'immensa lotta di cui lo scopo segreto, ignorato dagli stessi protagonisti, è noto solamente al Dio incarnato che dirige tutto da dietro il velo della sua insondabile conoscenza; l'occasione è una crisi violenta, nel momento in cui l'angoscia e la difficoltà morale, la violenza cieca dei moti apparenti di quest'opera e di questa lotta s'impongono allo spirito dell' uomo rappresentativo con l'urto di una rivelazione tangibile, e sollevano l'intero problema del senso di Dio nel mondo, dei fini, della tendenza e del significato della vita e della condotta umane.

 

 

15-16. Hrishikesha[53] dette fiato alla sua Panchajanya[54] e Dhananjaya[55] alla sua Devadatta; Vrikodara[56], dalle imprese terrificanti, soffiò nella grande conchiglia Paundra; il re Yudhishthira, figlio di Kunti, fece risuonare Anantavijaya; Nakula e Sahadeva, Sughosha e Manipushpaka.

 

17-18. E il re di Kàshi dal grande arco e Shikhandi dal grande carro, Dhrishtadyumna e Viràta, e Sàtyaki l'invitto, Drupada e i figli di Draupadi tutti insieme, o Signore della terra, e il figlio di Subhadrà, dalle forti braccia, fecero risuonare le loro conchiglie da tutte le parti.

 

19. Il fragoroso tumulto che rimbombava fra la terra e il cielo fece fremere il cuore dei figli di Dhritaràshtra.

 

20. Allora, vedendo i figli di Dhritaràshtra allineati in ordine di battaglia, e i proiettili che già solcavano il cielo, il figlio di Pàndu, che aveva per insegna una scimmia[57], afferrò il suo arco, o Signore della terra, e disse queste parole a Hrishikesha.

 

Il cameratismo simbolico fra Arjuna e Krishna, fra l'anima umana e l'anima divina, si ritrova spesso nella letteratura religiosa indiana: nel viaggio al cielo di Indra e Kutsa seduti sullo stesso carro, nell' immagine dei due uccelli sullo stesso albero data dall'Upanishad, nei due personaggi gemelli Nara e Nàràyana, i `veggenti' che si dedicano insieme alla tapasyà per acquistare conoscenza. Ma nei tre casi, ciò che è messo in evidenza è l'idea della conoscenza divina in cui, come dice la Gita, culminano tutte le azioni; qui, al contrario, è l'azione che conduce a questa conoscenza, e a questa azione prende personalmente parte il divino Conoscitore. Arjuna e Krishna, l'umano e il divino, si trovano riuniti non come dei profeti in un tranquillo eremo consacrato alla meditazione, ma l'uno come combattente e l'altro tenendo le redini del carro da guerra, in un campo di battaglia pieno di clamori e in mezzo a una nube di frecce. Il Maestro della Gita non è soltanto il Dio nell'uomo che si rivela attraverso le parole di conoscenza, ma anche il Dio nell'uomo che fa muovere tutto il nostro mondo d'azione, mediante il quale e grazie al quale tutta l'umanità esiste, lotta e soffre, e verso cui tutta l'umanità si muove e progredisce. È il Segreto Signore delle opere e del sacrificio e l'Amico dei popoli.

 

 

Arjuna disse:

21-23. "O Achyuta[58], arresta il carro fra i due eserciti in modo che io possa vedere questi uomini impazienti di battersi e che devo affrontare in combattimento. Voglio contemplare coloro che sono qui raccolti per difendere la causa del perverso figlio[59] di Dhritaràshtra."

 

La Gita inizia con l'azione, e Arjuna è l'uomo d'azione e non di conoscenza. Un tratto essenziale dell'uomo prammatico è quello di svegliarsi ai sensi dell'azione che deve compiere attraverso le sue stesse sensazioni. Ha richiesto al suo amico e conduttore del carro d'arrestarsi fra i due eserciti, non a motivo di un profondo pensiero, ma soltanto per il desiderio orgoglioso di guardare in faccia le miriadi di campioni dell'ingiustizia che deve combattere, vincere e massacrare "in una festa di combattimento", per il trionfo del diritto. Questo spettacolo gli rivela il senso di una guerra civile e familiare, guerra in cui gli uomini, non solamente di una stessa razza, di una stessa nazione, di uno stesso clan, ma di una stessa famiglia, di uno stesso lare, si affrontano in campi opposti. Tutti coloro che l'uomo sociale considera i più cari, i più sacri, deve affrontarli come nemici e massacrarli; tutti questi legami sociali devono essere tagliati con la spada. Non che fino a quel momento l'avesse ignorato, ma non era mai stato messo di fronte all'evidenza di ciò.

Ossessionato dalle sue prerogative di casta, dalle ingiustizie che ha dovuto subire, dai principi della sua vita — la lotta per il il diritto è il dovere dello kshatriya, difensore della giustizia e della legge — non aveva riflettuto profondamente, non l'aveva sentito nel suo cuore come l'essenza stessa della sua vita. Ed ecco che il divino Auriga glielo rivela, lo situa in modo sensazionale davanti ai suoi occhi, colpendolo fortemente al centro stesso del suo essere sensitivo, vitale ed emotivo.

 

 

Sanjaya disse:

24-25. Interpellato così da Gudàkesha[60], Hrishikesha arrestò il migliore dei carri fra i due eserciti, o Bhàrata[61], di fronte a Bhishma, a Drona e a tutti i principi della terra e disse: "Contempla, o figlio di Prithà[62], i Kuru, tutti qui riuniti."

 

26.     Allora il figlio di Prithà vide nelle opposte fazioni, zii, nonni, maestri, cugini, figli e nipoti, suoceri, amici e benefattori.

 

27.     Vedendo tutti quei parenti spiegati per la battaglia, invaso da una grande compassione, disse turbato queste parole.

 

Arjuna disse:

28-29. "O Krishna, vedendo la mia gente così disposta per il combattimento, le mie membra vengono meno, la bocca diviene secca, il mio corpo trema e i capelli mi si rizzano sulla testa; Gàndiva[63] mi sfugge di mano e la mia pelle sembra ardere.

 

30. "Non posso reggermi in piedi, il mio spirito vacilla e ho presagi funesti, o Keshava[64].

 

31. "A che pro uccidere i miei nella battaglia, o Keshava? Non desidero né vittoria, né regno, né piaceri.

 

32. "Cos'è per noi un regno, o Govinda[65]? Cosa i piaceri e la stessa vita?

 

Arjuna è l'uomo abituato a muoversi con fiducia attraverso le vicissitudini e le difficoltà della vita e che, a un certo momento, scopre che tutti i suoi principi non servono a nulla, si sente senza una base e persino privo di fiducia in sé stesso e nella vita.

Il primo effetto è una violenta crisi dell'anima e del corpo che trascina dietro di sé il disgusto per l'azione, per i moventi che la determinano e per la vita stessa. Arjuna respinge lo scopo di vita perseguito dall'umanità egoista: la felicità e la gioia; respinge la ragione di vita dello kshatriya: vittoria, autorità, potere, dominio sugli uomini. Che cos'è, dopo tutto, la lotta per la giustizia, una volta ridotta alla sua espressione pratica, se non semplicemente la lotta per i propri interessi, per gli interessi dei propri fratelli, del proprio partito o per il possesso, la gioia e il potere? Ma a questo prezzo non vale la pena di lottare, poiché in loro stessi non hanno valore; valgono per mantenere l'equilibrio della vita sociale e nazionale che, dopo tutto, è proprio ciò che rimarrebbe distrutto distruggendo la famiglia e la razza. Allora viene la crisi delle emozioni.

 

 

33-35. "Coloro per cui desideriamo regni, terre e piaceri, eccoli qui davanti a noi, avendo abbandonato vita e ricchezze — maestri, padri e figli, ed anche nonni, zii e suoceri; nipoti, cognati ed altri parenti e amici. Non desidero ucciderli, anche se essi dovessero uccidermi, o Madhusùdana[66], e questo neppure per il regno dei tre mondi[67] — ancor meno quindi per regnare sulla terra!

 

36. "Dopo aver ucciso i figli di Dhritaràshtra, quale piacere potremmo avere ancora dalla vita, o Janàrdana[68]? Uccidendoli, soltanto il peccato si attaccherebbe a noi, anche se sono uomini versati al male.

 

Tutto ciò è peccato spaventoso; ecco che il senso morale si sveglia per giustificare la rivolta delle sensazioni e delle emozioni. Non c'è nulla che possa giustificare questo massacro, né il diritto, né la giustizia, e meno ancora quando si tratta di uccidere coloro che sono il naturale oggetto della nostra venerazione e del nostro amore, coloro la cui morte toglierebbe ogni attrazione alla nostra vita. Violare questi sacri sentimenti non può essere virtù, non può essere che crimine odioso. È chiaro che l'offesa, l'aggressione, il primo peccato, i delitti di cupidigia e di passione egoistica che hanno provocato la crisi, provengono dai nostri avversari; tuttavia la resistenza armata al male, in queste condizioni, sarebbe essa stessa un peccato e un delitto peggiore del loro, in quanto il partito avverso è accecato dalla passione ed incosciente del suo errore, mentre noi, da questa parte, peccheremmo con chiaro senso di colpevolezza. E per quale scopo poi? Per difendere la morale familiare, la legge sociale e nazionale? Ma sono proprio quei valori che la guerra civile distruggerebbe.

 

 

37. "Non è cosa degna uccidere i figli di Dhritaràshtra, nostri parenti. In verità, come potremmo esser felici, o Màdhava, dopo aver ucciso la nostra propria famiglia?

 

38-39. "Anche se loro, accecati dalla cupidigia, non vedono nessun male a distruggere la famiglia, nessun peccato a combattere gli amici, perché noi non dovremmo avere la saggezza di ritrarci davanti un peccato cosi grande, o Janàrdana, noi che vediamo nella distruzione della famiglia tutto il male possibile?

 

40. "La distruzione della famiglia causa la rovina delle tradizioni eterne[69]; con il crollo delle tradizioni, il disprezzo dei doveri[70] sottomette la famiglia tutta intera.

 

41. "Quando domina il disprezzo dei doveri, o Krishna, le donne della famiglia si corrompono; la corruzione delle donne, o Discendente dei Vrishni[71], determina la confusione delle caste[72].

 

42. "Questa confusione vale l'inferno[73] per i distruttori della famiglia e per la famiglia stessa; soccombono anche gli spiriti degli antenati, privati d'offerte e di libagioni[74].

 

43-44. "Questi misfatti, compiuti dai distruttori della famiglia, conducono alla confusione delle caste; le eterne leggi della razza[75] e la legge morale della famiglia vengono così infrante. E gli uomini, dalle tradizioni familiari corrotte, sono inevitabilmente votati all'inferno, o Janàrdana. Così ci è stato detto.

 

45. "In verità, un gran peccato stavamo per commettere, noi che cercavamo di massacrare la nostra gente per la brama dei piaceri di un regno.

 

46. "È meglio per me che i figli di Dhritaràshtra mi uccidano nella battaglia, disarmato e senza resistere."

 

Sanjaya disse:

47. Avendo così parlato sul campo di battaglia, Arjuna, con l'animo angosciato, si accasciò sul sedile del carro, lasciando cadere l'arco divino e la faretra inesauribile[76].

 

Anche se Arjuna non è preoccupato che della propria situazione, della propria lotta interiore e della legge d'azione che è obbligato a seguire, il problema da lui posto — come lo pone — solleva in realtà tutto il problema della vita e dell'azione umana: che cos'è il mondo, perché esiste, com'è possibile, essendo il mondo quello che è, conciliare la vita nel mondo con la vita nello spirito. Questo problema, profondo e difficile, viene affrontato da Krishna per farne la base stessa del suo comandamento per un'azione che deve provenire da un nuovo equilibrio dell'essere, alla luce della conoscenza liberatrice. Qual è dunque la difficoltà per l'uomo che deve accettare il mondo così com'è, che in questo mondo deve agire, ma che vorrebbe vivere nel proprio intimo la vita spirituale? Qual è dunque l'aspetto dell' esistenza che terrorizza la sua mente e causa ciò che il primo canto della Gita indica con un nome quanto mai significativo, “Lo yoga dello sgomento di Arjuna”, quando la disperazione e lo scoraggiamento sono sofferti dall'essere umano. costretto a guardare in faccia lo spettacolo dell'universo nella sua cruda realtà, quando il velo dell'illusione etica, dell'illusione di rappresentare la giustizia, è stato strappato dai suoi occhi, prima che non sia arrivato ad una riconciliazione superiore con sé stesso?

È l'aspetto che raffigura, esteriormente, la carneficina di Kurukshetra e, spiritualmente, la visione del Signore di tutte le cose come Tempo — il Tempo che si erge per divorare e distruggere gli esseri da lui stesso creati. L'aspetto esteriore è l'esistenza del mondo e l'esistenza umana che avanzano attraverso lotta e stragi; l'aspetto interiore è l'Essere universale che realizza sé stesso in una vasta creazione e in una vasta distruzione.

La vita come battaglia e campo di morte come lo è Kurukshetra; Dio, il Terribile, è la visione di Arjuna sul campo del massacro.

Noi dobbiamo accettare Kurukshetra, dobbiamo sottometterci alla legge della vita e della morte prima di poter rintracciare il cammino della vita immortale; dobbiamo aprire gli occhi, con uno sguardo meno atterrito di quello di Arjuna, alla visione del Signore del Tempo e della Morte, cessare di negare, di odiare e di sfuggire l'universale Distruttore.


 

CANTO II

[a] LA FEDE DEL GUERRIERO ARIANO

 

Sanjaya disse:

1. Ad Arjuna, invaso da un sentimento di pietà, con gli occhi pieni di lacrime e affranto dallo scoraggia-mento, Madhusùdana rivolse queste parole.

 

Il Beato Signore disse:

2. "Da dove viene questa tua debolezza nel momento della difficoltà? Essa è indegna di un Ariano, non viene dal cielo, o Arjuna, e non conduce alla gloria.

 

Le parole di Krishna lasciano intravedere la vera natura di ciò che ha privato Arjuna delle sue qualità eroiche. Avremmo potuto credere che il divino Maestro incoraggiasse il suo discepolo alla bontà, alla santità, all'abnegazione e a separarsi dalle vie del mondo. A questo irrompere dell'appassionato esame di coscienza di Arjuna, della sua avversione per l'imminente massacro, al sentimento di dolore e di peccato, a questo suo tormento davanti ad una vita vuota e desolata, al presentimento dei cattivi risultati di un'azione malvagia, il Maestro risponde con severo biasimo. Ci troviamo forse davanti ad un vangelo di guerra e d'eroismo, ad una fede nella potenza e nella forza bruta secondo il credo di Nietzsche, oppure davanti ad una lezione di durezza ebraica o teutonica che ritiene debolezza la pietà ed incita l'eroe norvegese a ringraziare Dio di avergli concesso un cuore duro? No, l'insegnamento della Gita emana dalla fede indiana, e lo spirito indiano ha sempre situato la compassione fra i più alti valori della natura divina.

Esiste una divina compassione che dall'alto scende su di noi, ma per l'uomo la cui natura non possiede questa compassione, credersi un uomo superiore, un superuomo, è follia e insolenza, in quanto può esserlo solo colui che manifesta al grado massimo, nell' umanità, la suprema natura del Divino. Questa compassione vede con amore, saggezza e calma vigilanza la battaglia e la lotta, la forza e la debolezza dell'uomo, le sue virtú e i suoi vizi, le sue gioie e le sue sofferenze, la sua scienza e la sua ignoranza, la sua saggezza e la sua follia, la sua aspirazione e le sue cadute, e sempre interviene per aiutare e guarire. Nel santo e nel filantropo può prendere la forma di pienezza d'amore o di carità, e nel pensatore e nell'eroe assumere l'ampiezza e il potere di una saggezza che soccorre. Nel guerriero ariano, questa compassione, anima della sua cavalleria, lo spinge ad aiutare il debole e l'oppresso, il ferito e il vinto. È anche la divina compassione che rovescia il tiranno e l'oppressore presuntuoso, non con un gesto di collera o di odio, perché né odio né collera appartengono al Divino, come non gli appartiene la tortura degli inferni, ma con lo stesso amore per l'asura[77] messo a morte che per l'infelice oppresso, come l'ha chiaramente compreso l'antica spiritualità indiana.

Ma non è questa la compassione che spinge Arjuna a rifiutare il suo dovere e la sua missione. Non è compassione, ma impotenza e pietà verso sé stesso, un ritrarsi davanti alla sofferenza mentale che l'azione dovrà imporgli. Per un ariano, la pietà verso sé stesso è il piú vile dei sentimenti.

 

 

3. "Non cedere a questo vile sentimento, o figlio di Pritha, non è degno di te: scaccia la vergognosa debolezza e sorgi, o Parantapa[78]!"

 

La pietà di Arjuna per gli altri è anche una forma di debolezza verso sé stesso; è la ripulsione ispirata dall'atto di uccidere, l'indietreggiare emotivo ed egoistico del cuore davanti alla distruzione dei parenti, perché senza di essi la vita non avrebbe più senso. Quella pietà è una debolezza della mente e dei sensi, debolezza che potrebbe essere benefica per uomini di un livello inferiore, che, se non fossero deboli, sarebbero duri e crudeli. Ma non è questo il cammino dell'ariano evoluto, che deve svilupparsi attraverso una continua ascesa di forza in forza. Non ad Arjuna appartiene il diritto di deridere quello che farà o non farà, secondo le sue passioni o le sue emozioni, d'indietreggiare davanti a una distruzione necessaria invocando il cuore o la sua ragione egoistica, di rifiutare il compito che gli arrecherà do re e solitudine nella vita, o perché il risultato terrestre non merita la pena di tanto sacrificio di uomini. Tutto ciò è venir meno, per debolezza, alla sua più alta natura.

 

 

Arjuna disse:

4. "Come potrò io, combattere sul campo di battaglie trafiggere con frecce Bhishma e Drona, così degni di rispetto e di venerazione, o Arisudana[79]

 

5. "Meglio vivere elemosinando che uccidere questi venerandi maestri. Essi sono i miei maggiori[80]; uccidendoli, godrei piaceri e ricchezze macchiati di sangue.

 

6. "Non so nemmeno se sia preferibile vincerli od esser da loro vinti; i figli di Dhritaràshtra sono davanti a noi, schierati in ordine di battaglia, sono essi che dobbiamo uccidere; ma la loro morte ci farà odiare la vita.

 

Arjuna tenta ancora una volta di giustificare il rifiuto di combattere, mettendo in giuoco tutte le difficoltà del suo essere inferiore che indietreggia di fronte all'eccidio e alle gioie macchiate di sangue che ne seguirebbero, ai diritti del cuore che vacilla davanti al vuoto che i creerebbe nella sua vita, quale risultato anticipato della sua azione.

Anche le abituali nozioni del codice morale fanno sentire la loro protesta, facendolo fremere davanti alla necessità di uccidere Bhishma e Drona, i suoi guru. La sua ragione anche si ribella, la ragione che non vede che spaventosi risultati, senza nessun vantaggio, dall'opera terribile e violenta che gli è stata assegnata.

 

 

7. "Una debolezza sentimentale ha offuscato la mia vera :natura; ho perduto il senso del dovere[81]. Io Ti domando: Dimmi con chiarezza quale sia il meglio - dimmelo decisamente. Sono il Tuo discepolo - Ti prego, istruiscimi, in Te prendo rifugio.

 

Pur protestando contro l'ordine che riceve e respingendolo, Arjuna accetta il biasimo. É consapevole della sua debolezza, ma tuttavia cede ad essa. Riconosce che la pusillanimità l'ha privato della sua vera ed eroica natura. La sua coscienza è smarrita davanti ai concetti del bene e del male, e in questo turbamento accetta quale maestro l'Amico divino.

 

 

8. "Davvero non vedo nulla che possa allontanare da me l'angoscia che offusca i miei sensi, neppure se avessi su questa terra un regno senza rivali o il dominio sugli dèi[82]."

 

Sanjaya disse:

9. Avendo così parlato a Hrishikesha[83] e dopo aver detto a Govinda[84]: "Non combatterò più", Gudàkesha[85], il terrore dei nemici, rimase in silenzio.

 

10. A lui, che vedeva cosi scoraggiato fra i due eserciti, Hrishikesha, quasi sorridendo, disse queste parole, o Bhàrata[86].

 

Arjuna ha tentato di giustificare il suo rifiuto ricorrendo all'etica e alla ragione, riuscendo appena a mascherare con parole apparentemente ragionevoli il ribellarsi delle emozioni ignoranti e indisciplinate. Sono le rivendicazioni egoistiche di Arjuna che Krishna incomincia a distruggere, per far posto alla legge superiore che lo spingerà a superare i moventi egoistici dell'azione.

 

 

Il Beato Signore disse:

11. "Tu piangi su uomini per i quali non ci si deve affliggere, e tuttavia le tue parole sono quelle della saggezza[87]. I veri saggi non piangono nè per i vivi né per i morti.

 

Vedremo in seguito che la risposta del Maestro segue due linee differenti; dapprima una breve replica fondata sulle più alte idee della civiltà ariana, nella quale Arjuna è stato allevato, poi una più ampia spiegazione fondata su una conoscenza più intima che favorisce l'accesso alle profonde verità dell'essere umano. Questo è il vero punto di partenza dell'insegnamento della Gita, La prima risposta si appoggia sui concetti filosofici e morali del Vedanta e sulle idee sociali del dovere e dell'onore che formavano il fondamento etico della società ariana.

 

 

12."Mai vi è stato tempo in cui Io non esistessi, né tu né questi re di uomini; noi tutti mai cesseremo d'essere nell'avvenire.

 

Il dolore per la morte fisica dei suoi amici e parenti è un'afflizione che la saggezza e la vera conoscenza della vita non approvano; l'uomo che sa, non si affligge né per i vivi né per i morti, perché non ignora che la sofferenza e la morte sono solo semplici incidenti nel corso della storia dell'anima. La realtà è rappresentata dall'anima e non dal corpo.

 

 

13. "L'anima[88], dopo che in questo corpo mortale ha vissuto la fanciullezza, la giovinezza e la vecchiaia, assume un altro corpo. L'uomo che è in pace non ha motivo di turbarsene.

 

Lo spirito calmo e saggio, il pensatore, vede la realtà dell'essere oltre l'apparenza della vita, del corpo e dei sensi e si eleva sopra i desideri fisici ed emotivi della natura ignorante fino a raggiungere il solo e vero scopo dell'esistenza umana.

Qual è la realtà di questo scopo supreme? La vita e la morte, che si ripetono nelle età dei grandi cicli del mondo, non sono che un lungo processo evolutivo per cui l'uomo si prepara all'immortalità e se ne rende capace.

 

 

14. "I contatti con le cose materiali, o figlio di Kunti[89], che danno il freddo e il caldo, il piacere e la sofferenza, vanno e vengono. Impara a sopportarli, o Bhàrata[90]

 

15. "L'uomo che a questi contatti non si turba, che resta saldo ed equanime nella gioia e nella pena, costui, o migliore degli uomini[91]', si rende degno dell'immortalità.

 

Per immortalità non si deve intendere sopravvivenza alla morte - essa già appartiene a tutte le creature dotate di una mente - ma trascendenza alla vita e alla morte. Ciò significa che l'uomo cessa di vivere come corpo animato dalla mente, per vivere come spirito nello Spirito. Chiunque sia soggetto al dolore e all'afflizione, chiunque sia schiavo delle sensazioni e delle emozioni, e che si lasci prendere dai contatti con le cose esteriori, non è adatto all'immortalità. Tutto ciò dev'essere sopportato fino alla conquista, fino a che l'uomo, libero e dominatore, non possa provarne dolore, fino a che non sia capace di accogliere tutti gli avvenimenti, gioiosi o tristi, del mondo esteriore, con animo invariabile, calmo e saggio, nello stesso modo in cui vengono accolti dallo Spirito eterno, tranquillo, nella parte più segreta di noi.

 

 

16. "Ciò che esiste non può cessare d'esistere, e ciò che non esiste non può cominciare ad essere. La fine di queste opposizioni d'essere è stata scorta da coloro che vedono la verità essenziale.

 

La morte non esiste, poiché la morte colpisce il corpo, e il corpo non è l'uomo. L'anima è, e non può cessare d'essere, anche se cambia di forma e d'apparenza. Questa opposizione fra ciò che è e ciò che non è, l'equilibrio fra l'essere e il divenire, si risolvono quando l'anima realizza d'essere il Sé unico e imperituro da cui quest'universo si è diffuso.

 

 

17. "Sappi dunque che quello[92], da cui tutto si è diffuso, è indistruttibile; non vi è nulla che possa causarne la distruzione.

 

18. "Questi corpi hanno [necessariamente] una fine. Ma ciò che abita questi corpi è indistruttibile e senza fine. Combatti quindi, o Bhàrata!

 

19. "Colui che vede Quello come l'uccisore e colui che pensa che Quello è ucciso, non hanno la conoscenza [non percepiscono la verità]. Quello né uccide né viene ucciso.

 

20. "Non nasce né muore; non è cosa che un giorno cominciò ad esistere e che andandosene non ritornerà mai più all'esistenza. É senza nascita, infinito, eterno, permanente; non ucciso quando il corpo viene ucciso.

 

21. "Colui che lo conosce come eterno, indistruttibile, senza nascita e senza fine, come potrebbe, o Pàrtha[93], uccidere o far uccidere qualcuno?

 

22. "Come un uomo cambia un vestito usato per prenderne uno nuovo, così l'Abitante del corpo[94] abbandona i corpi logori per rivestirne dei nuovi.

 

23. "Le armi non possono ferirlo, le fiamme non possono consumarlo, le acque penetrarlo, il vento disseccarlo.

 

24. "Non lo si può ferire, ardere, bagnare, disseccare. Esso si tiene eternamente immobile, onnipenetrante, immutabile, esistente per l'eternità.

 

25. "Lo si dice[95] inafferrabile[96], inconcepibile, immutabile. Così conoscendolo, non affliggerti dunque.

 

Non manifestata, come invece lo è il corpo, ma più grande di qualsiasi manifestazione, l'anima non può essere analizzata dal pensiero, perché va oltre la più alta intelligenza (supera la mente); non è suscettibile ai cambiamenti, a modificarsi, come lo sono la vita, i suoi organi e gli scopi di questi organi, va oltre i cambiamenti della mente, della vita e del corpo, pur rimanendo tuttavia la Realtà che tutto il resto tenta di rappresentare.

 

26. "Anche se tu lo credessi eternamente soggetto alla nascita e alla morte, non per questo, o guerriero dal braccio possente[97], devi affliggerti.

 

27. "Se certa è la morte per chi è nato, altrettanto certa è la nascita per chi è morto. Perché dovrebbe causarti afflizione ciò che è inevitabile?

 

La nascita e la morte sono circostanze inevitabili nella manifestazione del Sé, dell'anima. La nascita è un'apparizione fuori da uno stato in cui essa non è inesistente, ma soltanto non manifestata ai nostri sensi mortali; la morte è il ritorno a quel mondo o a quella condizione non manifestata, da cui emergerà di nuovo nella manifestazione fisica. L'agitazione della mente fisica e dei sensi per la morte e per l'orrore della morte - sul letto di morte o sul campo di battaglia - è la più assurda delle reazioni nervose. Piangere la morte degli uomini è un'afflizione ignorante e inutile, perché nessuno è uscito dall'esistenza, nessuno ha subito un cambiamento doloroso e terribile; nell'al di là non sono meno esistenti o in circostanze più infelici di quanto lo siano nella vita.

 

 

28. "Gli esseri[98] sono non-manifestati all'inizio del loro esistere, manifestati nel mezzo e di nuovo non-manifestati nella loro disintegrazione. É motivo questo di afflizione?

 

29. "L'uomo contempla Quello come una meraviglia, un altro ne parla come di una meraviglia, un terzo ne sente parlare come di una meraviglia, ma nessuno, in verità, l'ha conosciuto.

 

È l'Unico, il Divino, il padrone del corpo, quaggiù velato dal mondo; la vita non è che la sua ombra; la venuta dell'anima nella manifestazione fisica o la sua uscita al momento della morte non sono per Lui che episodi di minima importanza. Quando veniamo a sapere che noi siamo Lui, parlare di noi come coloro che uccidono o che vengono uccisi è un'assurdità. Non vi è che una sola cosa: la verità che dobbiamo vivere, l'Eterno che si manifesta come anima dell'uomo nel gran ciclo del suo pellegrinaggio, con la nascita e la morte quali pietre miliari, il mondo dell'al di là come luogo di riposo, le circostanze della vita, felici o disgraziate, come mezzo di progresso, come campo di battaglia e di vittoria, e l'immortalità come punto finale dell'anima in viaggio.

 

 

30. "Questo Abitante del corpo in ciascuno di noi è eterno e indistruttibile, o Bhàrata; ecco perché non devi piangere su nessuna creatura.

 

31. "Considera il tuo dovere[99], non farti prendere dall' emozione, non c'è nulla di meglio per lo kshatriya che una giusta battaglia[100].

 

Ma come l'alta conoscenza che Krishna sta impartendo ad Arjuna, può giustificare l'azione che viene comandata e il massacro di Kurukshetra? La risposta è che l'azione che deve compiere è qualcosa d'inevitabile sul cammino che deve percorrere. Questa azione si presenta inevitabile nella funzione imposta dal suo svadharma, dal suo dovere sociale, dalla legge della sua vita e dalla legge del suo essere. Questo mondo, manifestazione del Sé nell'universo materiale, non è solamente un ciclo di sviluppo interiore, ma anche il terreno su cui le circostanze esteriori della vita devono essere accettate come condizione e occasione di questo sviluppo. È un mondo di aiuto scambievole e di lotta; il progresso che ci offre non è lo scivolare nella pace e nella serenità attraverso gioie facili; ogni passo in avanti va conquistato con sforzi eroici in mezzo a un conflitto di forze contrarie. Gli kshatriya sono coloro che accettano il combattimento interiore ed esteriore fino al conflitto più fisico che possa esistere, la guerra; la natura degli kshatriya, uomini forti, è il combattimento, la forza, la nobiltà e il coraggio; la loro virtù è la difesa del diritto, e il loro dovere l'accettazione, senza riserva, della battaglia.

 

 

32. "Quando una simile battaglia si offre così naturalmente, è come se si aprissero le porte del cielo; felici sono gli kshatriya, o figlio di Pritha.

 

Il Maestro s'interrompe un istante per dare un'altra risposta al lamento di Arjuna, all'Arjuna che teme di perdere, con la morte dei suoi, la ragione d'essere e lo scopo di vivere. Qual è la vera aspirazione di uno kshatriya e quale il suo vero stato di felicità? Non è certo il piacere personale, le gioie domestiche e una vita comoda, e nemmeno la tranquilla gioia in compagnia di amici e di parenti. Combattere per il diritto è lo scopo della sua vita, non esiste per lui felicità maggiore che trovare una causa che gli permetta di sacrificare la sua vita o, se raggiunge la vittoria, di ottenere la gloria e la corona dell'eroe.

 

 

33. "Ma se tu rifiuti questa lotta secondo giustizia[101], tradirai il tuo dovere[102] e la tua gloria, e commetterai peccato.

 

Senza interruzione si svolge una lotta fra il bene e il male, fra il giusto e l'ingiusto, fra le forze che proteggono e quelle che opprimono. Quando questa lotta si conclude con una battaglia fisica, il campione, l'alfiere del diritto non deve più tremare o esitare davanti alla terribile violenza dell'opera che deve affrontare. La sua virtù e il suo dovere sono la battaglia e non l'astensione, e il peccato lo colpirebbe, non uccidendo ma rifiutandosi di uccidere.

 

 

34. "Inoltre, gli uomini parleranno sempre della tua vergogna, e per l'uomo d'onore, il disonore è peggiore della morte.

 

35. "I grandi guerrieri penseranno che per paura ti sei astenuto dal combattimento, e coloro che ti tenevano in alta stima ti disprezzeranno.

 

Avvilire l'ideale dello kshatriya, permettere che il suo onore venga offuscato, dare l'esempio di un eroe fra gli eroi che si espone a macchiarsi di vigliaccheria e debolezza, significa abbassare il livello morale dell'umanità, tradire sé stesso e tradire ciò che il mondo si attende dai suoi capi e dai suoi re.

 

36. "Molte parole di vituperio pronunceranno i tuoi nemici, gettando il dubbio sulla tua forza. Cosa potrebbe esserci [per te] di più penoso?

 

37. "Ucciso, raggiungerai il cielo; vittorioso tu godrai la terra. Sorgi dunque, o figlio di Kunti, deciso a combattere.

 

L'eroico appello di Krishna può sembrare di un grado inferiore a quello della spiritualità stoica che precede, e a quello della spiritualità più profonda che seguirà. Nei versetti successivi il Maestro ingiunge ad Arjuna di considerare uguali agli occhi dell'anima la buona e la cattiva fortuna, la perdita e il guadagno, la vittoria e la sconfitta, e di lanciarsi nella battaglia.

L'etica indiana ha sempre riconosciuto la necessità pratica d'ideali progressivi per lo sviluppo della vita morale e spirituale dell'uomo. "Ti ho già mostrato," dice sostanzialmente Krishna, "in quale direzione ti guidi la più alta conoscenza del sé e del mondo; ho finito adesso di mostrarti per quale cammino ti dirigano il tuo dovere sociale e i valori morali dalla tua casta. Che tu accetti l'uno o l'altro il risultato non cambia. Ma se tu dovessi essere insoddisfatto del tuo dovere sociale e della virtù propria dello kshatriya, se tu dovessi pensare che essi ti conducono al dolore e al peccato, allora, ti scongiuro, elevati a un ideale più alta, non cedere a un ideale inferiore."

 

 

38. "Vedi con occhio equanime il piacere e la pena, il guadagno e la perdita, la vittoria e la sconfitta e gettati nella battaglia; così non commetterai peccato."

 

Il tal modo, tutti gli argomenti di Arjuna - quello dell'afflizione, quello dell'orrore del massacro, quello del peccato e quello dei risultati nefasti della sua azione - ricevono una risposta in accordo con la conoscenza più alta e l'ideale morale più elevato che la sua razza abbia mai raggiunto nell'epoca in cui si svolgono i fatti della Gita.

 

 


 

[b] LO YOGA DELLA VOLONTÀ INTELLIGENTE

 

 

39. "Questa è la conoscenza[103] trasmessa dal Sànkhya[104]. Ascolta adesso quella che t'impartisce lo Yoga; se ti lascerai penetrare profondamente da questa sapienza, o figlio di Pritha, potrai sfuggire ai vincoli dell'agire[105].

 

"Ti ho esposto l'equilibrio che apporta l'intelligenza liberatrice, secondo il Sànkhya," dice ad Arjuna il divino Maestro. "Ti proporrò adesso un altro equilibrio, quello secondo lo Yoga. Tu indietreggi davanti alle conseguenze dei tuoi atti, tu desideri altri risultati e abbandoni il vero cammino perché non te li può dare; ma questa maniera di concepire le opere e i loro frutti - desiderio dei frutti come movente dell'azione e azione come mezzo per soddisfare il desiderio - è il servaggio dell'ignorante che non conosce ciò che sono le opere, la loro vera origine e la loro vera utilità. Il mio yoga ti libererà dall'asservimento alle tue opere."

 

 

40. "In questo sentiero nessuno sforzo è perduto, nessun ostacolo può prevalere; anche un minimo di questo dharma[106] libera da una grande paura.

 

Arjuna è in preda al terrore che assale l'uomo: paura del peccato, paura della sofferenza, in questo mondo e nell'altro, paura di un mondo di cui ignora la vera natura, paura di un Dio che non conosce e le cui intenzioni cosmiche gli sono velate.

 

 

41. "L'intelligenza risoluta si dimostra unificata e stabile, o Gioia dei Kuru[107]; instabile ed estremamente divisa è invece l'intelligenza dell'irresoluto.

 

La volontà intelligente unificata è stabilita con fermezza nell'anima illuminata e concentrata nella conoscenza interiore di sé. L'intelligenza è invece dispersa quando si occupa di numerose e svariate cose, trascurando la sola necessaria. Sottoposta all'agitazione continua del pensiero discorsivo, si disperde nella vita e nell'azione esteriori alla ricerca dei frutti.

 

 

42-43. "Coloro che non posseggono un chiaro discernimento si compiacciono dei precetti vedici[108] intesi alla lettera e proclamano, con fiorito parlare, che la stretta osservanza [delle Scritture] è sufficiente, o Figlio di Pritha. Anime di desiderio e ricercatori di paradisi, parlano del concetto della rinascita come del frutto delle azioni compiute sulla terra[109] e prescrivono molti riti speciali per ottenere godimento e poteri.

 

Nei primi sei canti, la Gita fissa le basi della sua sintesi dell'azione e della conoscenza, la sua sintesi del Sànkhya, dello Yoga e del Vedanta. Osserva dapprima che il termine karma, l'azione, le opere, viene interpretato dagli antichi vedantini, da coloro che si attaccano all'interpretazione letterale dei Veda, secondo una loro particolare accezione; la parola Veda significa per loro i sacrifici e le cerimonie vediche, compiute secondo riti precisi e complicati. Questi sacrifici, dice la Gita, sono offerte di desiderio fatte nella speranza di una ricompensa, sulla terra o in cielo, in questa vita o in un'altra - godimenti o poteri, gioie più grandi, immortalità e suprema salvazione.

La Gita non rifiuta, come il Buddismo per esempio, l'idea del sacrificio, ma essa preferisce elevarlo e renderlo più ampio. Essa non nega l'efficacia del sacrificio vedico, la riconosce, ammette anche che, grazie a questo sacrificio, si possano ottenere godimenti su questa terra e un paradiso nell'al di là. "Io stesso," dice più avanti il divino Maestro (IX, 23), "sono colui che accetta il sacrificio e a cui tutti i sacrifici vengono offerti, sono Io colui che concede i frutti, rivestendo la forma degli dèi, poiché questo cammino hanno scelto gli uomini per avvicinarMi. Ma non è il vero cammino, e il godimento del paradiso non è né la liberazione né il compimento che l'uomo deve cercare”. Sono gl'ignoranti che adorano gli dèi, senza sapere chi adorano sotto queste forme divine. Malgrado la loro ignoranza, essi adorano l'Unico, il Signore, il solo Deva, ed è Lui che accetta le offerte. Al Signore dev'essere offerto il sacrificio - il vero sacrificio di tutte le energie e di tutte le attività della vita - con devozione, senza desiderio, per il solo amore del Signore e per il bene dei popoli. Attraverso l'intrico dei suoi riti, il vedavada maschera questa verità, rendendo l'uomo schiavo dell'azione dei tre guna: ed è per questo che si deve condannarlo severamente e respingerlo con forza. L'idea centrale non dev'essere però distrutta; una volta trasfigurata ed elevata, essa diviene parte importantissima della vera esperienza spirituale e del metodo di liberazione.

 

 

44. "Coloro che si lasciano così fuorviare, attaccati al godimento e al potere, per quanto perspicace possa essere la loro intelligenza[110], non possono fissarsi nella contemplazione perfetta[111].

 

L'unione con il Sé esige la concentrazione perfetta del pensiero e della volontà; il pensiero che vaga ad ogni istante non può pervenire a così elevata altezza.

 

 

45. "I Veda si occupano del giuoco dei tre guna[112]; ma tu, o Arjuna, liberati dalle tre qualità, portati oltre gli opposti[113], e per sempre stabilito nel vero essere, senza curarti di acquistare e conservare, prendi possesso del vero Sé[114].

 

Il Veda si occupa della conoscenza del Divino, dell'Eterno, del Brahman: ma si tratta della conoscenza del Brahman rivelato dalle operazioni di Prakriti, dal giuoco dei tre guna. Brahman è uno, ma il suo svolgersi nelle opere di Prakriti assume due aspetti: l'Essere immutabile, samam brahman, atman, e il creatore originario delle opere del Divenire, sarvabhutani (tutte le creature). Questi due aspetti vengono definiti come l'anima immobile ed onnipresente delle cose e il principio spirituale del loro mobile svolgimento. La Bhagavad Gita li chiama akshara purusha e kshara purusha, il Purusha statico, equilibrato in sé stesso, e il Purusha che sostiene l'azione di Prakriti. Si può anche dire che lo kshara purusha è uscito, o procede, dall' akshara purusha, il Sé immutabile che si mantiene dietro i guna, le tre qualità di Prakriti, e dietro le loro operazioni. Gli uomini, sommersi dall'ignoranza, vengono trascinati dai movimenti della Natura e travolti dal giuoco dei guna. Per ricuperare il loro equilibrio interiore devono divenire coscienti del Sé silenzioso, immobile, immutabile, atman, samam brahman.

 

 

46. "Per il bramino[115]' che possiede la conoscenza, i Veda sono tanto inutili quanto può esserlo un pozzo in un luogo inondato dalle acque.

 

I Veda e le Upanishad non sono necessari all'uomo che ha ottenuto la conoscenza attraverso l'esperienza spirituale diretta. Possono persino essere per lui un ostacolo, perché la lettura della Scrittura Sacra - certamente a motivo del conflitto fra i testi e le loro molteplici interpretazioni - turba e devia l'intendimento, che può solo trovar la certezza e la concentrazione nella luce interiore (Il, 52-53).

 

 

47. "Tu hai diritto all'azione, ma in nessun caso ai suoi frutti, non devi compiere l'opera per i frutti che essa ti procura, ma nemmeno devi attaccarti alla non-azione.

 

Dice in sostanza il Maestro: "Ti ho assegnato l'intero dominio dell'azione umana per compiere il progresso dell'uomo, dalla Natura inferiore fino alla Natura superiore, dal non-divino apparente fino al divino cosciente. Colui che conosce Dio deve muoversi in questo campo di attività umane."

Ma "i frutti delle azioni non devono essere il tuo movente!" Ciò che all'uomo viene ingiunto non è l'opera compiuta sotto la spinta del desiderio, come per coloro che seguono alla lettera i Veda, e nemmeno il diritto di soddisfare attraverso un'attività costante una mente agitata e piena di energia, come rivendica l'uomo pratico e dinamico.

 

 

48. "Saldamente stabilito nello yoga[116], o Conquistatore di tesori, compi la tua azione libero dall'attaccamento, imperturbabile nella sconfitta e nel successo. Yoga significa equanimità.

 

Quali possono essere le conquiste e i possessi dell'anima libera? Possedendo il Sé, essa possiede tutto. Tuttavia l'uomo liberato non si astiene dall'azione. In questo risiede la forza e l'originalità della Gita che, dopo aver affermato per l'anima liberata il valore di questa condizione statica, di questa superiorità sulla Natura, del vuoto da cui è costituita di solito l'azione della Natura, può ancora rivendicare per quest'anima la continuazione dell'agire, ed anche imporla, evitando in tal modo il gran difetto delle filosofie puramente quietistiche e ascetiche, errore da cui oggi tentano di sottrarsi.

A causa della sua intelligenza deviata, l'uomo prova speranza e timore, collera, afflizione e gioie effimere; potrebbe altrimenti compiere le sue opere in perfetta serenità e libertà. È per questo che ad Arjuna viene imposto in primo luogo lo yoga dell'intelligenza, il buddhi yoga.

 

 

49. "L'azione è di gran lunga inferiore allo yoga dell' intelligenza; rifugiati nell'intelligenza, o Conquistatore di tesori; pietà destano coloro che compiono le opere con mira ai loro frutti.

 

Agire con giusta intelligenza e, di conseguenza, con giusta volontà, saldamente stabilito nell'Uno, cosciente del Sé unico in tutti, incominciando con serena equanimità, senza agitarsi in tutti i sensi unto dai mille impulsi del sé mentale di superficie, significa agire secondo lo yoga della volontà intelligente.

 

 

50. "Colui che mediante l'intelligenza ha raggiunto l'unione [con il Sé][117], si eleva sopra il bene e il male.

Lotta dunque per realizzare lo yoga; lo yoga è l'abilità nelle opere.

 

Anche in questo mondo di opposti (II, 45), colui che ha raggiunto la divina unione, si eleva - oltre il bene e il male - a una legge superiore fondata sulla libertà venuta dalla conoscenza di sé. Si potrebbe Pensare che le azioni effettuate senza il desiderio dei frutti siano senza effetto, senza efficacia, senza una spinta sufficiente, senza una forza animatrice ampia e vigorosa. No, l'azione fatta nello yoga non solamente è la più alta, ma la più saggia, la più potente e la più efficace, anche per le cose dì questo mondo. Essa è ispirata dalla conoscenza e dalla volontà dal Maestro delle opere: "Lo yoga è la vera abilità nelle opere."

 

 

51. "I saggi che rinunciano al frutto delle loro azioni e che, mediante l'intelligenza, hanno raggiunto l'unione [con il sé], vengono liberati dal legame delle nascite e raggiungono una condizione stabile di là da ogni male.

 

Ma le azioni dirette verso la vita non allontanano forse dai fini universali degli yogi che, secondo l'unanime opinione, consistono nello fuggire alla schiavitù di questa miserabile e dolorosa nascita umana? No, i saggi che agiscono senza desiderio per i frutti delle loro azioni e in perfetta unione con il Divino vengono liberati dalla schiavitù delle nascite e raggiungono il perfetto stato (vedi più avanti, II, 68-72), dove non esistono i mali che affliggono il pensiero e la vita dell'umanità sofferente.

 

 

52. "Quando la tua intelligenza avrà superato il turbine dell'illusione[118], allora perverrai all'indifferenza per ciò che hai udito e per ciò che devi ancora udire[119].

 

53. "Quando la tua intelligenza, [in questo momento] sviata dalle Scritture rivelate, rimarrà salda e immota in samadhi[120], allora raggiungerai lo yoga."

 

Questa critica alle Scritture rivelate, shruti, offende talmente il sentimento religioso convenzionale che la comoda e utile inclinazione umana di voler torturare i testi ha tentato naturalmente di dare a questi versetti un senso differente. Ma il loro significato è chiaro e coerente da un capo all'altro, e viene confermato da un passaggio ulteriore dove è detto che la conoscenza di colui che conosce supera la portata dei Veda e delle Upanishad (VI, 44).

Tuttavia la Gita non tratta con spirito di semplice negazione o non ripudia parti così importanti della cultura ariana. La sua critica tende ad eliminare l'interpretazione egoistica, limitata e chiusa di loro che vogliono interpretare alla lettera le Sacre Scritture. Come è già stato detto (II, 43 c), la Gita accetta l'idea centrale del sacrificio vedico, ma lo purifica e lo trasfigura.

 

 

Arjuna disse:

54. "Qual è, o Keshava, il segno dell'uomo saldamente stabilito nella saggezza[121] e immerso in samadhi? II saggio dall'intelligenza stabile, come parla, come si siede, come cammina?"

 

Arjuna, esprimendo il sentimento dell'uomo medio, chiede, del samadhi, un segno facile da distinguersi, materiale. Tali indicazioni non possono essere fornite, e il Maestro non tenta di farlo; poiché il solo criterio possibile dell'entrata in samadhi è interiore. L'equanimità è il segno principale dell'anima liberata e i segni più evidenti dell'equanimità sono anch'essi soggettivi.

Per samadhi, s'intende generalmente l'estasi, la trance yoghica. Ma la perdita di coscienza del mondo esteriore non accompagna necessariamente l'unione completa; l'estasi è un'intensità particolare del samadhi, non ne è il segno essenziale (vedi il commento al versetto seguente).

 

 

Il Beato Signore disse:

55. "Quando un uomo allontana dalla sua mente[122] tutti i desideri, o figlio di Pritha, e trova solo soddisfazione nel Sé[123] e dal Sé, si può dire che egli è saldo nella saggezza.

 

Il segno del samadhi è rappresentato dall'espulsione di tutti i desideri, dalla loro incapacità di raggiungere la mente, ed è lo stato interiore da cui nasce la libertà, la felicità dell'anima raccolta in sé stessa, con una mente calma, uguale, equilibrata, sopra le attrazioni e le ripulsioni, sopra le alternative di sole e di tempesta, esente dalle tensioni della vita esteriore. In questa condizione l'uomo vive ritirato interiormente anche quando agisce esteriormente; concentrato in sé anche quando lo sguardo si posa sugli oggetti; unicamente occupato nel Divino, anche quando agli occhi altrui sembra preoccuparsi degli affari del mondo.

 

 

56. "Colui che non si turba mentalmente in mezzo ai dolori e che va esente dal desiderio in mezzo ai piaceri colui che ha abbandonato la passione, la paura e la collera, è ritenuto un saggio dall'intelligenza stabile.

 

La Gita impone di affrontare il desiderio e di sopprimerlo. La sua prima descrizione dell'equanimità è quella dello stoico, ma se accetta questa filosofia eroica, vi aggiunge anche la visione sattvica della conoscenza, con alla base l'aspirazione a realizzare il Sé libero e, ad ogni passo, l'ascesa verso la Natura divina.

 

 

57. "Colui che non prova attaccamento per cosa alcuna e, allorquando sopravvengano il male e il bene, non si affligge o si rallegra, in lui la saggezza è saldamente stabilita.

 

58. "Allorché ritrae i sensi dagli oggetti sensibili, come la tartaruga le membra, in lui la saggezza è saldamente stabilita.

 

Il primo moto dev'essere quello di sbarazzarsi dal desiderio, sola radice del male e della sofferenza; e per sbarazzarsi dal desiderio bisogna metter fine alla causa del desiderio stesso, all'impazienza dei sensi di voler afferrare gli oggetti e gioirne. Bisogna frenare i sensi quando stanno per precipitarsi di fuori, bisogna richiamarli e riportarli alla sorgente, dove devono mantenersi tranquilli nella mente, la mente tranquilla nell'intelligenza e l'intelligenza tranquilla nell'anima e nella conoscenza di sé, che osserva l'azione della Natura ma senza esserle sottomessa e nulla desiderare della vita materiale.

"Ma," aggiunge Krishna (nel versetto seguente), "per evitare il malinteso che certamente ne deriverebbe, quello che t'insegno non è un ascetismo esteriore, una rinuncia fisica agli oggetti dei sensi, ma un ritiro interiore, una rinuncia al desiderio."

 

 

59. "Quando dall'anima[124] di colui che si astiene dall'usufruirne si ritraggono i sensi, ma l'inclinazione[125] per essi permane, con la visione del Supremo[126] anche questa svanisce.

 

A partire dal momento in cui l'anima si incarna in un corpo, deve normalmente occuparsene nutrendolo, affinché possa esercitare la sua normale azione fisica. Astenendosi dal nutrire il corpo, l'anima sopprime solamente il contatto materiale con l'oggetto dei sensi, non sopprime il rapporto interiore che è quello che rende pernicioso il contatto. Essa lascia intatto il piacere che i sensi hanno per l'oggetto - rasa -, l'attrazione e la ripulsione, i due aspetti di rasa. L'anima deve invece poter sopportare il contatto fisico senza risentire interiormente la reazione dei sensi.

L'equanimità stoica si giustifica, nella disciplina della Gita, come elemento che può associarsi, aiutandola, alla visione del Supremo - param drishtvà - ossia alla realizzazione di un nuovo stato di coscienza che la Gita ci descrive nei versetti seguenti - lo stato brahmico (II, 68-72).

 

 

60. "O figlio di Kunti, l'impeto dei sensi trascina con violenza anche la mente del saggio che lotta [per la perfezione].

 

61. "Ritornato padrone dei sensi, si mantenga saldo nello stato di unione con Me, prendendoMi come [scopo] supremo[127]. In colui che domina i sensi, la saggezza è saldamente stabilita.

 

Nessun consiglio è più corrente di quello di dominare i sensi, ma questa padronanza non può essere compiuta alla perfezione mediante un atto della sola intelligenza, o una disciplina solamente mentale. Non può essere ottenuta che mediante lo yoga - l'unione - con qualcosa di più elevato dell'intelligenza e a cui siano inerenti la calma e il dominio di sé stessi. Questo yoga potrà avere successo solamente con la consacrazione, l'abbandono, votandosi interamente al Divino, a Me, dice Krishna. Il liberatore è in noi, ma questo liberatore non è la nostra mente, la nostra intelligenza, la nostra volontà personale, anche se ne sono gli strumenti: è il Signore, in cui - la Gita ce lo dirà alla fine - dobbiamo prendere integralmente rifugio. Per questo motivo il nostro essere deve esserGli totalmente consacrato e mantenere con Lui il contano dell'anima.

 

 

62-63. "Nell'uomo che indugia assorto negli oggetti dei sensi, nasce l'attaccamento per essi; dall'attaccamento nasce il desiderio, dal desiderio la collera; la collera conduce allo smarrimento, lo smarrimento alla perdita della memoria e la perdita della memoria produce la distruzione dell'intelligenza; e in seguito a questa distruzione l'uomo giunge a rovina.

 

La passione oscura l'anima, la volontà e l'intelligenza dimenticano di vedere e di tenersi fermamente stabilite nell'anima che osserva con calma; la memoria del vero Sé è perduta, e con questa perdita, la volontà intelligente si oscura e può essere anche distrutta; poiché da quel momento essa non esiste più nella nostra memoria ma si dilegua in una nube di passione; diveniamo passione, collera o dolore, cessiamo d'essere il Sé, l'intelligenza e la volontà.

 

 

64-65. "Ma colui che si muove fra gli oggetti sensibili con i sensi sottomessi al Sé, esente dall'attaccamento e dall'avversione, questi, padrone di sé stesso, perviene alla serenità. La serenità genera in lui la sparizione del dolore; e quando l'anima è serena, l'intelligenza è presto stabilita.

 

Ma come è possibile stabilire questo contatto con gli oggetti dei sensi, quest'impiego che non dipende da essi? È possibile, param drishtva, mediante la visione del Supremo - param, l'Anima, il Purusha; è possibile quando l'intero essere soggettivo, mediante lo Yoga dell' intelligenza, vive in unione o in unità col Supremo. Allora, liberati da tutte le reazioni, i sensi non reagiranno più davanti all'attrazione ed alla ripulsione; sfuggiranno al dualismo dei desideri, positivi e negativi, e così, la calma, la pace, la chiarezza, la felice tranquillità si diffonderanno nell'uomo. Questa chiara tranquillità è la sorgente della felicità dell'anima; l'afflizione perde il suo potere; l'intelligenza si stabilisce rapidamente nella pace del Sé; la sofferenza viene distrutta. A questa immutabilità della buddhi nell'equilibrio e nella conoscenza di Sé - immutabilità calma, senza desideri, senza dolore - la Gita dà il nome di samadhi.

 

 

66. "L'uomo non unito [al Sé][128] non possiede né intelligenza né concentrazione; colui che manca di concentrazione è privo di pace; e senza la pace come potrebbe esser felice?

 

67. "Colui, la cui mente si lascia sviare dai sensi vagabondi, vede ben presto la saggezza allontanarsi come una nave trasportata dal vento sulle acque.

 

68. "Di conseguenza, o Guerriero dal braccio possente, colui i cui sensi si sono distolti per ogni verso dagli oggetti sensibili, è fermamente stabilito nella saggezza.

 

È il rinnovarsi dall'esortazione fatta prima (Il, 58-59) e, come in quel caso, si deve comprendere che l'eccitazione - attrazione o ripulsione - causata dagli oggetti sensibili, deve essere frenata, superata e conquistata.

La Gita incomincia da qui la descrizione dello stato brahmico, coronamento dello yoga della volontà intelligente.

 

 

69. "Ciò che è notte per tutti gli esseri, è stato di veglia per colui che ha la padronanza di sé, e il loro stato di veglia è notte per il saggio veggente.

 

Il saggio che compie le opere senza il desiderio dei frutti e in unione costante col Supremo, raggiunge lo stato di perfezione dove non esiste alcuno dei mali che affliggono l'umanità (II, 51). È il rovesciamento di tutte le concezioni, di tutte le esperienze, della conoscenza, dei valori e delle percezioni, prerogativa delle creature legate alla terra. La vita sottomessa agli opposti, che per queste creature è il giorno, lo stato di veglia, la coscienza, la brillante condizione d'attività e di conoscenza, è per il saggio veggente un sonno turbato, un'oscurità d'anima, la notte; e la coscienza superiore che per loro e notte oscura, il sonno in cui cessano conoscenza e volontà, è lo stato di veglia per il saggio che ha conquistato la padronanza di sé stesso, il giorno luminoso di esistenza vera, di conoscenza e di potere.

 

 

70. "Colui in cui tutti i desideri entrano come entrano le acque nell'oceano, che senza tregua si riempie, ma che tuttavia non aumenta mai di livello, raggiunge la pace - non colui che è preda del desiderio[129].

 

71. "L'uomo che abbandona tutti i desideri, che vive e agisce senza brama, che non possiede più né ‘me’ né ‘mio’, costui raggiunge la [grande] pace.

 

72. "Tale è lo stato brahmico[130], o figlio di Pritha. Colui che lo ha raggiunto non può più smarrirsi; e se vi si attiene fortemente, anche al momento della morte, raggiunge il nirvana in Brahman."

 

Egli continua ad agire, ma ha abbandonato tutti i desideri e tutte le passioni. È entrato nella grande pace e non è più sviato dall'apparenza delle cose. Ha spento nell'Unico il suo ego individuale, vive in questa unità e, saldamente stabilito in essa al momento della sua fine, può raggiungere il Nirvana, l'estinzione nel Brahman - non l'annichilamento dei Buddisti, ma la grande immersione del sé personale separato nella vasta realtà dell'Esistenza una, infinita e impersonale.

Tale è - riunendo sottilmente Sankhya, Yoga e Vedanta, - la prima base dell'insegnamento della Gita. È lungi dall'essere l'insegnamento completo, ma è la prima fusione pratica indispensabile della conoscenza e dell'azione, che contiene già l'indicazione del terzo elemento, il più intenso, quello che perfeziona la pienezza dell'anima: la devozione e l'amore divino.

 


CANTO III

[a] LE OPERE E IL SACRIFICIO

 

 

Arjuna disse:

1. "Se ritieni la conoscenza[131] superiore all'azione, o Janàrdana, perché vuoi impormi questo terribile atto, o Keshava?

 

Arjuna non ignora l'insegnamento in cui è dichiarato che la via della conoscenza, per chi rinuncia alla vita e alle opere, conduce l'uomo alla perfezione. Lo stesso Krishna sembra ammettere la dottrina sànkhyana ortodossa quando dice che le opere sono inferiori allo yoga dell'intelligenza (II, 49), pur ripetendo con insistenza che le opere fanno parte dello yoga. Il suo insegnamento sembra dunque infirmato da una radicale incoerenza. Rispondendo a questa obiezione la Gita incomincia a sviluppare con maggior chiarezza la dottrina positiva e imperativa delle opere.

 

 

2. "Con questo modo ambiguo di esprimerTi, il mio intelletto si confonde; dimmi con chiarezza quale sia l'unica regola cui attenermi per raggiungere il sommo bene."

 

Arjuna esige una regola di condotta precisa e definita.

 

Il Beato Signore disse:

3. "O [eroe] Senza-macchia[132], già ti avevo indicato le due vie della consacrazione: quella del Sànkhya attraverso lo yoga della conoscenza e quella dello yoga delle opere.

 

I primi sei canti della Gita sintetizzano in un ampio quadro di verità vedantina i due metodi, considerati abitualmente come differenti, ed anche opposti. Krishna incomincia dimostrando che la rinuncia fisica, sannyàsa, non è il solo cammino a disposizione e nemmeno il migliore.

 

 

4. "Non è con l'astenersi dalle opere che l'uomo raggiunge la non-azione[133], e nemmeno con la rinuncia[134] al mondo può raggiungere la perfezione[135].

 

Naishkarmya è la tranquilla assenza d'azione che l'anima, il Purusha, deve raggiungere, perché è Prakriti che agisce. Nelle attività dell' essere l'anima deve elevarsi sopra qualsiasi impegno e raggiungere un equilibrio e una serenità invariabili, osservando le operazioni di Prakriti senza esserne turbata. Questo significa naishkarmya, e non la cessazione delle opere da parte di Prakriti.

Ma se le opere di Prakriti continuano, come è possibile per l'anima non sentirsi coinvolta? Come posso combattere e allo stesso tempo impedire all'anima di pensare, di non sentire che io, l'individuo, sto combattendo? Come non desiderare la vittoria e non sentirsi amareggiati dalla sconfitta? Per il Sànkhya, quando l'uomo è impegnato nelle attività della Natura, la sua intelligenza è presa nelle reti dell'egoismo, dell'ignoranza e del desiderio, e in tal modo e attirata verso l'azione. Se al contrario l'intelligenza si ritrae, l'azione deve cessare, e con essa cesseranno il desiderio e l'ignoranza. Di conseguenza, per il Sànkhya l'abbandono del mondo e delle opere una parte indispensabile, una circostanza inevitabile per il movimento di liberazione. Questa obiezione, propria della logica comune, viene prevista immediatamente dal Maestro. "No," dice Krishna, "una simile rinuncia, non soltanto non è indispensabile, ma nemmeno possibile."

 

 

5. In verità, nessuno può rimanere un solo istante inattivo; ogni uomo è ineluttabilmente costretto all'azione dai guna, che prendono nascita dalla Natura[136].

 

Una delle caratteristiche di maggior rilievo della Gita è di fornire una percezione intensa della grande azione cosmica su cui dovevano insistere più tardi gli shaka[137] tantrici che considerarono Prakriti o Shakti superiore al Purusha. Anche se questa caratteristica non risulta chiaramente espressa, è sufficientemente forte, se viene associata agli elementi teistici e devozionali della Gita, per introdurre un attivismo che modifica considerevolmente la tendenza quietistica dello yoga concepito dall'antico Vedanta metafisica. L'uomo col suo corpo di carne ed ossa, che vive nel mondo della Natura materiale, non può astenersi dall'azione, nemmeno per un secondo; la sua esistenza in questo mondo è in sé stessa un'azione. L'intero universo è un atto di Dio; il fatto di vivere, il Suo movimento.

 

 

6. "Colui che, dominando gli organi dell'azione[138], lascia che la sua mente si occupi degli oggetti dei sensi, costui si smarrisce nella menzogna.

 

Karma - l'azione, le opere - non vuoi rappresentare solamente i nostri movimenti e le nostre attività fisiche; la nostra esistenza mentale è pure una grande e complessa azione, è anzi la parte più ampia e più importante dell'azione dell'infaticabile energia - la causa soggettiva che determina l'esistenza fisica. Non serve a nulla reprimere l'effetto se conserviamo l'attività nella causa soggettiva.

Gli oggetti dei sensi sono soltanto l'occasione della nostra servitù, e l'interesse che presta loro l'intelligenza ne è il mezzo, Io strumento. Infatti, le azioni del corpo e dell'intelligenza non sono in sé stesse né una servitù né la causa della servitù, ma la potente energia della Natura che mantiene il ruolo principale. La Natura pretende di seguire le sue vie e di continuare il giuoco nel vasto campo delle sue attività mentali, vitali e fisiche, ma ciò che in essa è vera-mente pericoloso, è il potere che hanno i tre guna di turbare e deviare l'intelligenza, e con ciò di oscurare l'anima. Secondo la Gita, come vedremo più avanti, è il luogo dove si nasconde il nodo dell'azione e della liberazione. Colui che è libero dalla deviazione e dall'offuscamento causato dai tre guna, può continuare la sua azione, sia essa la più ampia, la più ricca, la più intensa, la più violenta, senza che nulla arrivi a sfiorare il Purusha. L'anima possiede il naishkarmya.

 

 

7. "Colui che domina i sensi con la mente e che, senza attaccamento, intraprende, servendosi dei suoi organi d'azione, lo yoga delle opere[139], costui eccelle, o Arjuna.”

 

8. "Compi dunque l'azione che ti è stata prescritta[140], poiché l'agire è superiore al non-agire; senza l'azione non potresti mantenere nemmeno la vita fisica[141].”

 

"Compi l'azione in completa padronanza di te stesso," dice Krishna. "Ti ho detto che la conoscenza e l'intelligenza sono superiori alle opere (II, 49), ma con questo non ho voluto dire che l'inazione sia superiore all'azione; la verità risiede esattamente nel contrarlo."

Conoscenza non significa rinuncia alla opere, essa significa equanimità e non attaccamento al desiderio e agli oggetti dei sensi; conoscenza significa equilibrio della volontà intelligente nell'anima libera, svincolata dagli strumenti inferiori di Prakriti e dominante le opere della mente, dei sensi e del corpo grazie al potere della conoscenza di sé e alla pura felicità senza oggetto della realizzazione spirituale. È niyatam karma (l'azione che ti ho prescritto).

 

 

9. "Perché non compie le opere con spirito di sacrificio, il mondo [degli uomini] è incatenato all'azione; compi l'opera tua offrendola in sacrificio, o figlio di Kunti, libero dall'attaccamento.”

 

Essendo la nostra Natura quella che è e il desiderio il principio della sua azione, com'è possibile istituire una vera azione senza desiderio? Ciò che generalmente si chiama azione disinteressata non è in realtà un'azione senza desiderio, è semplicemente la sostituzione di certi piccoli interessi personali con desideri di più grande portata quali virtù, patria, umanità, che hanno solamente l'apparenza di essere impersonali. Come giungere quindi alla vera assenza del desiderio? Offrendo tutte le opere in sacrificio - tale à la risposta del Maestro.

 

 

10. "Nei tempi remoti, il Signore delle creature[142], creando gli esseri insieme al sacrificio disse: `Col sacrificio genererete [frutti e discendenza], che sia per voi la vacca dell'abbondanza[143].”

 

Tutti gli stati d'essere e tutte le azioni di Prakriti non esistono che per il Divino e nel Divino; da Lui vengono, grazie a Lui durano e a Lui fanno ritorno. 'Tutta la vita ed ogni esistenza di questo mondo sono un sacrificio offerto dalla Natura (Prakriti) al Purusha. Finché saremo dominati dal senso dell'ego non potremo percepire questa verità e nemmeno agire secondo il suo spirito; agiremo per la soddisfazione dell'ego e nello spirito dell'ego e non certamente con spirito di sacrificio. L'egoismo è il centro della schiavitù. Agendo per il Divino senza nessun pensiero egoistico, scioglieremo il nodo della schiavitù ed arriveremo alla libertà.

 

 

11. `Mediante il sacrificio nutrite[144] gli dèi[145] e che gli dèi vi nutrano; nutrendovi gli uni gli altri, raggiungerete il supremo bene.

 

12. Nutriti e fortificati dal sacrificio, gli dèi vi daranno le gioie desiderate. Colui che gode di questi doni senza restituirli agli dèi, in verità, è un ladro.

 

13. "I buoni che mangiano i resti del sacrificio si liberano dal peccato; ma i malvagi che preparano il cibo solo per sé stessi, in verità, si nutrono di peccato.

 

I resti del sacrificio contengono il nettare dell'immortalità, amrita, vero resto dell'offerta lasciata in dono dalla divinità. Abbiamo qui un'immagine dell'antico simbolismo vedico in cui il soma, offerto agli dèi e bevuto dagli uomini, era il simbolo materiale dell'amrita, l'immortale delizia dell'estasi divina ottenuta mediante il sacrificio.

 

 

14-15. "Dal nutrimento provengono le creature; dalla pioggia ha origine il nutrimento; dal sacrificio nasce la pioggia e dall'agire il sacrificio. Sappi che l'azione ha origine in Brahman[146] e Brahman dall'Immutabile[147]. Per questo, Brahman che tutto compenetra è sempre presente nel sacrificio.

 

Dal Brahman con qualità (saguna), o kshara purusha, procedono tutte, le operazioni dell'energia universale, karma, che si estrinsecano nell'uomo e in tutte le creature; da questa azione (karma) procede Il principio del sacrificio. Lo scambio materiale fra uomini e dei è basato sullo stesso principio, come la Gita lo dimostra spiegando che la nascita delle creature dipende fisicamente dalla pioggia e dal nutrimento che essa produce, che a loro volta dipendono dal sacrificio.

Tutte le operazioni di Prakriti, nella loro vera natura, sono un sacrificio in cui l'Essere divino, supremo Signore dei mondi, è Colui che gode del sacrificio delle opere e delle energie (V, 29). Conoscere questo Divino che tutto penetra e che è stabilito nel sacrificio, è la vera conoscenza, la conoscenza vedica.

 

 

16. "Colui che non partecipa in questo mondo al movimento circolare [della vita] gode il piacere dei sensi immerso nel peccato; egli vive invano, o figlio di Prithà.

 

Nella Gita non c'è molto che sia puramente locale o che aderisca a un'epoca particolare; il suo spirito è così ampio, così profondo e universale che anche queste apparenti limitazioni possono essere facilmente universalizzate senza che il senso dell'insegnamento ne soffra diminuzione o violenza; al contrario, superando la portata che appartiene al paese o all'epoca, si guadagna in profondità, in verità e in potere. Infatti la Gita stessa suggerisce il significato più ampio che possa essere dato a un'idea di per sé stessa locale o limitata. Per esempio, essa si basa sull'antico sistema e sull'antica idea indiana del sacrificio come interscambio fra dèi e uomini - sistema e idea praticamente sorpassati da molto tempo anche in India e senza realtà per lo spirito umano in generale; ma nella Gita il senso della parola sacrificio è così sottile, così figurato e simbolico e la concezione degli dèi così poco mitologica o locale, così interamente cosmica e filosofica, che possiamo accettare tutto come l'espressione di un fatto psicologico e legge generale della Natura. Possiamo quindi applicare l'insegnamento ai moderni concetti di scambio fra una vita e l'altra, al sacrificio etico e al dono di sé, col fine di rendere più ampie queste concezioni e proiettare su di esse un aspetto più spirituale alla luce di una Verità più profonda e di maggior portata.

Avendo esposto in tal modo la necessità del sacrificio, Krishna continua esponendo la superiorità dell'uomo spirituale nei riguardi delle opere.

 

 

17. "Per l'uomo che fonda la sua gioia solo nel Sé, colui che del Sé è soddisfatto, felice solamente nel Sé, per lui non esiste opera che debba essere compiuta.”

 

18. "In questo mondo non ha nulla da guadagnare dall'agire o dal non-agire. Egli non dipende da nessuna di queste esistenze per qualsiasi cosa [debba ottenere].”

 

Nei versetti 10-16, la Gita presenta il concetto vedico del sacrificio, e lo fa impiegando un linguaggio che sembra a prima vista sostenere la necessità dei riti prescritti dai Veda. I versetti 17-18, al contrario, descrivono la liberazione come è vista dal Vedanta (Upanishad).

Abbiamo qui i due ideali - il vedico e il vedantino - messi a confronto in tutta l'intensità dei loro contrasti e delle loro opposizioni originali. Da una parte l'ideale attivo che cerca le soddisfazioni terrene e un più gran bene nell'al di là, da ottenersi col sacrificio e la reciproca dipendenza fra l'essere umano e le forze divine; dall'altra parte, in opposizione, il più austero ideale dell'uomo liberato che, indipendente nello Spirito, non ha più rapporti con Ia gioia, con le opere, coi mondi umani o divini, e che esiste solo nella pace del supremo Sé, solamente felice nella gioia del Brahman. I versetti che seguono creano una base di conciliazione fra i due estremi. Il segreto non consiste nel cessare di agire quando ci si volge verso la più alta verità, ma d'agire senza desiderio, sia prima d'aver raggiunto questa verità, sia dopo. L'uomo liberato non ha da trarre nessun beneficio dall'azione e nemmeno dall'inazione, ma non è mirando a scopi personali che la scelta dev'essere fatta.

 

 

19. "E perciò compie sempre, senza attaccamento, l'opera che dev'essere fatta[148]; poiché l'uomo, compiendo le sue opere senza attaccamento, raggiunge il [bene] supremo.

 

È vero che le opere e il sacrificio sono un mezzo per arrivare al bene supremo; ma ci sono tre tipi di opere: quelle compiute senza sacrificio, per la propria soddisfazione e che, per essere interamente egoistiche, tradiscono la vera legge, lo scopo e l'utilità della vita; quelle che vengono fatte con desiderio, ma tuttavia offerte in sacrificio, in cui la soddisfazione del desiderio è il risultato del sacrificio e che, per questa ragione ed entro questi limiti, si vedono consacrate e santificate; ed infine le opere compiute senza né desiderio né attaccamento. Sono queste ultime che conducono l'anima dell'uomo al bene supremo.

 

 

20. "In verità, per mezzo delle opere Janaka[149] ed altri conseguirono la perfezione; ma tu devi agire mantenendo anche lo sguardo sulla coesione del mondo[150].

 

Pochi passaggi della Gita sono cosi importanti come quelli dal versetto 20 al 26. Dobbiamo chiaramente comprendere che la Gita non ci propone la legge di un ampio altruismo morale e intellettuale, ma quella di un'unità con Dio e col mondo delle creature che vivono in Dio e in cui Egli dimora. Non ci incita a subordinare l'individuo alla società o all'umanità o ad immolare l'egoismo sull'altare della collettività umana; essa c'impone di cercare in Dio il compimento dell'individuo e di sacrificare l'ego sull'unico e vero altare, su quello della Divinità che tutto contiene.

 

 

21. "Qualunque cosa compia il migliore fra gli uomini. viene messa in pratica dagli uomini di un livello inferiore. L'umanità segue il modello da lui creato.

 

La legge data qui dalla Gita è la legge del superuomo, dell'essere umano divenuto divino, del migliore, non secondo il senso di una superumanità alla Nietzsche - mal proporzionata e male equilibrata - olimpica, apollinea o dionisiaca, angelica o demoniaca, ma nel senso dell'uomo la cui personalità è stata offerta per intero all'essere, alla natura e alla coscienza dell'unica Divinità trascendente e universale, e che perdendo il suo piccolo sé ha trovato il più grande Sé, divenendo divino. Elevarsi oltre l'imperfetta Prakriti inferiore, fino all'unità con l'essere divino, fino alla coscienza e natura divine, è l'oggetto dello yoga. Ma una volta realizzato quest'oggetto, una volta che l'uomo abbia raggiunto la condizione brahmica e che la visione falsa ed egoistica che ha di sé e del mondo sia perduta, che veda tutti gli esseri nel Sé, in Dio, e il Sé in tutti gli esseri, Dio in tutti gli esseri, quale dovrà essere l'azione risultante da questa visione, dato che l'azione sussiste, e quale il movente cosmico o individuale delle opere?

È la domanda di Arjuna (II, 54), ma la risposta di Krishna non viene data situandosi dal punto di vista di Arjuna. Il movente non può essere il desiderio personale secondo i piani intellettuale, morale o emotivo già abbandonati - anche il movente morale non è più, perché l'uomo liberato supera la distinzione inferiore del peccato e della virtù, e vive nella gloria di una purezza di là dal bene e dal male. Non può essere nemmeno il richiamo spirituale verso il suo perfetto sviluppo mediante le opere disinteressate, perché questo richiamo ha ricevuto la sua risposta; il suo sviluppo è perfetto e finito. Il movente dell'azione può solamente essere quello di mantenere imiti i popoli. È necessario mantenere la coesione di questi popoli in cammino verso un lontano ideale divino per impedirne lo smarrimento, la confusione e la mancanza di comprensione che li condurrebbero alla dissoluzione e alla distruzione. Il mondo che avanza nell'oscuro crepuscolo o nella notte dell'ignoranza, troppo facilmente cadrebbe in una simile sorte se non fosse condotto, mantenuto, entro i grandi margini della sua disciplina, dall'illuminazione, dalla forza e dall'autorità dell'esempio visibile e dall'influsso invisibile dei suoi migliori componenti. Ma l'uomo divenuto divino è il migliore, in un senso assai poco comune, e il suo esempio, il suo influsso avranno un tale potere da non trovare paragone nell' esempio e nell'influsso di nessun uomo semplicemente superiore. Per rendere perfettamente chiaro il suo pensiero, il divino Maestro, l'Avatar, offre ad Arjuna il proprio esempio.

 

 

22. "O figlio di Prithà, non c'è nulla nei tre mondi[151] che Io debba fare, né alcuna cosa da ottenere che non abbia già ottenuto, eppure rimango [impegnato] nell'azione.

 

23-24. "Gli uomini seguono in ogni modo le Mie orme: Se non rimanessi infaticabilmente [impegnato] nell'azione, se cessassi d'agire, i mondi cadrebbero in rovina; creerei il caos e diverrei il distruttore di queste creature.

 

I due versetti precedenti, in cui la Gita propone il Signore stesso come esempio all'uomo liberato, rivestono un profondo significato, in quanto rivelano la base stessa della sua filosofia delle opere divine. L'uomo liberato è colui che, per essersi elevato fino alla divina natura, compie le proprie azioni secondo questa natura divina. Né l'attività dell'uomo dinamico, né la luce inattiva dell'asceta e del quietista, né la personalità impetuosa dell'uomo d'azione, né l'impersonalità indifferente del saggio e del filosofo, sono il completo ideale divino. Esistono due tipi opposti: l'uomo che vive nel mondo e l'asceta o filosofo quietista - l'uno immerso nell'azione del Purusha mutevole, kshara, l'altro che tenta di rimanere nella pace del Purusha immutabile, akshara; ma il completo ideale divino partecipa della natura del Purusha supremo, uttama[152], che trascende l'opposizione e concilia tutte le possibilità divine.

 

 

25. "Gl'ignoranti agiscono con attaccamento all'azione mentre il saggio[153], o  Bharata, deve agire senza attacca-mento e col solo scopo di mantenere la coesione del mondo[154].

 

26. "Colui che ha la conoscenza non turbi lo spirito degli ignoranti attaccati all'azione. Il saggio deve impegnarli in tutte le opere che egli stesso compie nella saggezza e nello yoga.

 

Colui che conosce Dio deve agire nell'intero dominio delle opere umane. L'azione individuale, l'azione sociale, tutte le opere dell' intelletto, del cuore e del corpo, egli le compirà non per sé stesso, ma per Dio nel mondo, per Dio in tutti gli esseri, affinché questi esseri Possano avanzare, come lui stesso ha fatto, lungo la via delle opere verso la scoperta del Divino in ogni uomo e in tutto. Può darsi che le sue opere non presentino differenza essenziale con quelle degli altri; il suo campo d'azione potrebbe comprendere la guerra e il governo dei Popoli, come pure l'insegnamento e il pensiero o la grande varietà di scambi che esistono fra gli uomini. Tutto questo sarà però svolto in uno spirito differente, e precisamente questo spirito sarà la grande calamita capace di elevare gli uomini al proprio livello, la gran leva che solleverà la massa degli esseri nella loro lunga ascesa.


 

[b] IL DETERMINISMO DELLA NATURA

 

 

I passaggi in cui la Gita insiste sulla soggezione alla Natura da parte “dell'anima di desiderio”, sono stati talvolta interpretati come l'affermazione di un determinismo assoluto e meccanico, che chiude le porte ad ogni possibile libertà in seno all'esistenza cosmica. Il linguaggio impiegato è senza dubbio forte e sembra anche categorico. Ma in questo caso, come in altri, bisogna accettare il pensiero della Gita come un tutto e non forzare il senso di certe affermazioni prese isolatamente. Nella nostra esistenza cosciente vi sono diversi piani, ma ciò che riveste verità pratica su uno qualsiasi di essi assume un aspetto completamente diverso e cessa di esser vero, non appena ci portiamo a livelli più elevati da cui le cose possono esser viste con visione panoramica.

 

 

27. `"Quando tutte le opere sono compiute dai guna [modi della Natura], l'uomo il cui sé è traviato dal senso dell'ego pensa: “Sono io colui che agisce”.

 

28. "Ma chi conosce il vero principio della divisione dei guna e delle azioni si accorge che sono i guna che agiscono e reagiscono gli uni sugli altri, e perciò non ha attacca-menti, o Guerriero dal braccio possente.

 

29. "I fuorviati dai guna della Natura sono asserviti alle azioni prodotte da questi modi o qualità. Che nessuno dotato di conoscenza turbi la mente di chi non ha la conoscenza completa[155].

 

Ecco qui una chiara distinzione fra due livelli di coscienza, fra due concezioni dell'operare: quella dell'anima prigioniera della sua natura egoistica, che agisce sotto l'impulso della Natura, con l'illusione del libero arbitrio, e quella dell'anima liberata dalla sua identificazione con l'ego, che osserva, sancisce e dirige le opere della Natura.

Abbiamo accennato alla soggezione dell'anima alla Natura; ma la Gita, quando fornisce la distinzione fra i caratteri dell'anima c quelli della Natura, afferma che se la Natura è l'esecutore, l'anima è sempre il Signore, l'Ishvara. La Gita parla del sé come fuorviato dall'egoismo, mentre per i vedantini il vero Sé è il Divino, eterna-mente libero e cosciente di sé.

Chi è dunque questo sé fuorviato dalla Natura, quest'anima ad essa soggetta?

Ci stiamo esprimendo nel linguaggio corrente della nostra visione inferiore o mentale delle cose: questa è la risposta; noi parliamo del sé apparente, dell'anima apparente, non del vero Sé, del vero Purusha. In realtà stiamo parlando dell'ego soggetto alla Natura, ed è inevitabile che sia così, perché è parte della Natura, perché è uno dei tanti ingranaggi del suo meccanismo; e quando, al livello mentale, la coscienza del sé s'identifica con l'ego, essa crea l'apparenza di un sé inferiore, di un sé-ego. Generalmente, quello che concepiamo come anima non è altro che la personalità naturale, non la vera persona, il Purusha, ma l'anima di desiderio in noi, un riflesso della coscienza del Purusha nelle opere di Prakriti; infatti quest'anima di desiderio non è che un'azione dei tre guna e di conseguenza una Parte della Natura. Possiamo perciò dire che esistono in noi due anime, l'anima apparente o anima di desiderio, che cambia col cambiare dei guna, interamente costituita e determinata da essi, e il Purusha, eterno e libero, non limitato dalla Natura e dai suoi guna Nello stesso modo esistono in noi due “sé”.

Il sé apparente o ego, centro mentale in noi che s'impadronisce della mutevole azione di Prakriti, della personalità instabile, e dice: "Io sono questa persona, io sono quest'essere naturale, io compio le opere" - non accorgendosi che l'essere naturale è semplicemente la Natura, una composizione dei guna.

Esiste però il vero Sé, il vero sostenitore, il possessore e il signore della Natura, rappresentato dalla personalità naturale instabile, senza però essere lui stesso questa personalità. Per essere liberi, bisogna sbarazzarsi degli impulsi dell'anima di desiderio c della falsa visione del sé come ego (messo in evidenza nel versetto che segue).

Questa concezione del nostro essere parte dall'analisi del duplice principio della nostra natura secondo la visione Sànkhya: Purusha e prakriti. Purusha inattivo, a-karta, Prakriti attiva, Metri; Purusha, l'essere pieno di luce della coscienza; Prakriti, Natura meccanica, le cui opere si riflettono nel testimone cosciente, il Purusha. Prakriti agisce mediante l'ineguaglianza dei tre modi, i guna, che perpetuamente si urtano, si mescolano e si alternano l'uno con l'altro e, attraverso la funzione di ego mentale, essa fa in modo che il Purusha s'identifichi con tutto questo giuoco e crei così, nella silenziosa eternità del Sé, il sentimento di una personalità attiva, mobile e temporale.

Se nessun’altra soluzione fosse possibile, il solo rimedio sarebbe di ritirare completamente il nostro assentimento e, con questo ritirarlo, permettere alla nostra natura di ricadere nell'equilibrio immobile dei tre guna, cessando in tal modo qualsiasi azione. Quantunque sia indiscutibilmente un rimedio - il rimedio che sopprime il male e l'ammalato -, è ciò che la Gita sconsiglia ad ogni passo. Ritirarsi in un'inazione tamasica è quello che farebbe precisamente un ignorante, se lo mettessimo improvvisamente di fronte alla verità. In quale contraddizione, confusione o inerzia si cadrebbe allora? (Da qui il consiglio di non seminare il turbamento negli spiriti).

 

 

30. "Con la coscienza fermamente stabilita nel Sé[156], abbandonaMi[157] tutte le opere; senza preferenze né preoccupazioni per te stesso, combatti, libero da codesta tua febbre.

 

31. "Gli uomini che, con fede e senza vane critiche, seguono il Mio insegnamento, vengono liberati dal legame delle opere.

 

32. "Gli insensati che biasimano il Mio insegnamento e rifiutano di seguirlo, ingannati dalla loro conoscenza, s'avviano verso la loro perdita.

 

Queste verità superiori non possono essere utili che su piani superiori di più vasta coscienza e di più vasta esistenza, poiché sono esperienze di verità che devono essere realmente vissute. Considerare queste verità da un piano inferiore, significa vederle male, comprenderle male e probabilmente servirsene male. La distinzione del bene e del male è un fatto e una legge di ordine pratico, valevole per la vita umana egoistica, nel ciclo di transizione fra l'animale e il divino. Ma è anche vero - ed è una verità d'ordine superiore - che passando ad un piano più elevato, ci situiamo sopra tale opposizione, di là dal bene o dal male, nello stesso modo in cui lo è il Divino. Ma la mente non ancora matura, che s'impadronisce di questa verità senza liberarsi della coscienza inferiore dove questa verità non è praticamente valida, ne farà una comoda scusa per dar libero corso alle proprie inclinazioni asuriche, sprofondando sempre di piú nei pantani della perdizione.

È la stessa cosa per la verità che si esprime parlando del determinismo della Natura; essa rimarrebbe incompresa e male impiegata se venisse usata come la usano coloro che affermano che un uomo è quello che ne ha fatto la sua natura e non può agire altrimenti. È vero in un certo senso, ma non certamente nel senso in cui l'ego debba considerarsi irresponsabile del suo operato e, in tal modo, reclamare l'impunità. In effetti, il sé-ego ha la volontà e ha il desiderio, e finché agisce secondo questo desiderio e questa volontà, anche se secondo natura, deve subire le reazioni del karma. Si trova preso in una fitta rete o in una trappola che alla sua esperienza attuale può sembrare inesplicabile, illogica, ingiusta e terribile a causa della limitata conoscenza che ha di sé, ma è una trappola che lui stesso ha scelto una rete che lui stesso ha tessuto.

 

 

33. "Tutti gli esseri seguono la loro natura. A cosa serve la coercizione? Lo stesso saggio agisce secondo la propria natura.

 

34. "Negli oggetti sensibili si trova nascosto ciò che ai sensi produce attrazione o ripulsione. Che nessuno cada sotto il loro potere poiché sono per lui due nemici.

 

35. «È preferibile seguire la propria legge d'azione[158], che [se può sembrare] imperfetta, che la legge altrui, e se [l'azione] sembra migliore. Vale più morire osservando la propria legge, perché la legge altrui è piena di pericoli."

 

Considerato isolatamente, (il versetto 33) sembra affermare categoricamente e senza speranza l'onnipotenza della Natura sull'anima. Su quest'affermazione riposa l'ingiunzione (del versetto 35) di conformarsi fedelmente alla legge della propria natura. Per sapere esattamente cosa significa svadharma, bisogna aspettare gli ultimi canti della Gita. Ma questo termine non vuoi certamente dire che dobbiamo seguire qualsiasi impulso, anche perverso, che ci spinga verso ciò che noi chiamiamo natura. Infatti in questi due versetti, la Gita ci fornisce un'altra ammonizione, quella di "non cadere sotto l'attrazione e la ripulsione, i due nemici dell'anima". Un po' più avanti (versetto 35) l'Istruttore parla del desiderio e della sua inseparabile compagna, l'ira, e ripete che la passione, grande nemica dell' anima, dev'essere abbattuta. Dobbiamo quindi distinguere l'essenziale della natura, la sua azione originale e inevitabile, che a nulla servirebbe contenere o sopprimere, da quella accidentale - smarrimenti, confusioni, perversioni -, che dobbiamo invece dominare. Conviene anche imparare a distinguere, da una parte la costrizione e la soppressione, nigraha, e dall'altra un ben diretto e bene impiegato dominio, samyama. Nigraha è la violenza fatta dalla volontà alla natura, che finisce sempre per deprimere i poteri naturali dell' essere; samyama, è il dominio de! Sé superiore sul sé inferiore, che riesce a conferire a questi poteri pienezza d'azione e il massimo d'efficacia (II, 50).

L'uomo non è come la tigre, il fuoco o la tempesta; egli non Può uccidere e giustificarsi col dire: "Ho agito secondo la mia natura”. Non lo può dire perché non ha la natura, e di conseguenza la legge d'azione, svadharma, della tigre, del fuoco e della tempesta. Egli possiede una volontà cosciente ed intelligente, buddhi, alla cui guida deve ricorrere per le sue azioni. Non facendolo, agendo ciecamente secondo i propri impulsi e le proprie passioni, non seguendo la legge del suo essere, non agisce al massimo delle sue possibilità umane, ma bensí come lo farebbe un animale. L'uomo sa più o meno imperfettamente che deve dominare la sua natura tamasica e rajasica con l'aiuto di quella sattvica, e che a ciò tende la perfezione della sua normale umanità.

Ma la natura in cui sattva predomina segna forse uno stato di libertà? La volontà cosciente intelligente, buddhi, possiede il libero arbitrio?

La Gita lo smentisce, situandosi nel punto di vista di una coscienza superiore, dove solamente la libertà può esistere. Buddhi è anche uno strumento della Natura e, quando agisce, anche nel senso pienamente sattvico, è sempre la Natura che agisce. La più sattvica delle volontà è così contrariata dagli altri guna, rajas e tamas, che introducendosi in essa la circuiscono a tal punto che solo una parte rimane della virtù originale; ed è proprio ciò che permette questa possibilità di travestimenti, di commedia involontaria e spesso innocente, di falsa apparenza e di sotterfugio che l'occhio esperto dello psicologo discerne anche nell'azione apparentemente più pura. Quando crediamo di agire liberamente non ci accorgiamo che dietro la nostra azione lavorano forze che sfuggono alla più oculata introspezione; quando crediamo di esserci liberati dall'ego, l'ego è là, nascosto nella mente del santo come in quella del peccatore. E quando i nostri occhi si aprono realmente sulle azioni e sui moventi segreti che le animano, siamo obbligati di dire, con la Gita: "Sono i modi della Natura (i guna) che agiscono sui modi" (III, 28).

 

 

Arjuna disse:

36. "O Discendente dei Vrishni[159], chi spinge dunque l'uomo verso il peccato, anche contro la sua volontà, come se vi fosse costretto?"

 

Il Beato Signore rispose:

37. "Il desiderio[160], con [la sua compagna] la collera[161], parto di rajas[162], è il grande istigatore del peccato, colui che tutto divora; sappi che è il nemico di questo mondo[163].

 

L'uomo dinamico non si sente soddisfano con ideali che non permettano il totale spiegamento della Natura cosmica, il giuoco dei tre modi o qualità di questa Natura e l'umana attività della mente, del cuore e del corpo. "La piena attività," dirà l'uomo dinamico, "rappresenta il mio ideale di perfezione umana, della divina possibilità dell'uomo. Ogni essere umano è legato alla propria natura; in questa natura deve cercare la propria perfezione, tendere il proprio sforzo per raggiungerla seguendo la linea della sua personalità, del suo svadharma, ma nella vita, nell'azione, non fuori dalla vita e dall' azione." "Sì," risponde la Gita, "ma è vero solo in parte: il compi-mento di Dio nell'uomo, il giuoco del Divino nella vita, fanno parte della perfezione ideale. Ma se la cercate solo all'esterno, nella vita, nel principio dell'azione, non la troverete mai, poiché in tal caso agirete secondo la vostra natura - che in sé è principio di perfezione - ma sarete eternamente sottoposti - e questo è principio d'imperfezione - ai suoi modi, alle sue opposizioni d'attrazione e di ripulsione, di piacere e di dolore, c soprattutto al modo rajasico, col suo principio di desiderio e di collera, col suo corteggio di cupidigia e di dolore."

 

 

38-39. "Nello stesso modo in cui il fumo ricopre la fiamma, la polvere Io specchio e l'utero l'embrione, o Figlio di Kunti, così ricopre e nasconde la conoscenza[164] questo persistente nemico del saggio, la cui forma è il desiderio[165], fuoco insaziabile.

 

40. "I sensi, la mente[166] e l'intelligenza[167] sono la sua dimora; attraverso questi, velando la conoscenza, travia l'anima incarnata[168].

 

"Tuttavia, è proprio nelle ristrette limitazioni di questi sensi, di questa mente e di questa intelligenza, in questo giuoco della Natura inferiore, che vorreste condurre la vostra ricerca di perfezione! Lo sforzo sarebbe vano. All'aspetto dinamico della vostra natura si deve prima aggiungere l'aspetto quietistico; bisogna che vi eleviate sopra questa Natura inferiore fino a situarvi di là dai tre guna, fino al principio supremo, all'anima. Solo quando avrete raggiunto la pace dell'anima diverrete capaci di un'azione libera e divina."

 

 

41. "Perciò, tu [che sei] il migliore fra i Bharata[169], incomincia con il dominare i tuoi sensi e abbatti questo peccato, distruttore della conoscenza perfetta[170].

 

42. "I sensi, dicono, sono superiori [agli oggetti sensibili]; la mente è sopra i sensi; sopra la mente è la volontà intelligente, ma più grande ancora dell'intelligenza è Lui, [il Purusha].

 

Per comprendere questo versetto e quello che segue dobbiamo ricordarci dell'ordine psicologico del Sànkhya, adottato dalla Gita. Da una parte vi è l'anima cosciente, il Purusha, calma, inattiva, una, immutabile, fuori dall'evoluzione; dall'altra parte vi è la Natura dinamica, la Prakriti, inerte se non attivata, animata dalla presenza dell'anima cosciente; essa è di triplice aspetto e capace di evoluzione. Il contatto fra l'anima e la Natura genera il giuoco del soggettivo e dell'oggettivo che è la nostra esperienza dell'essere. Si manifesta dapprima quello che per noi è soggettivo, perché l'anima cosciente è la causa originale, e la forza incosciente della Natura la causa secondaria e subordinata; tuttavia la Natura e non l'anima fornisce gli strumenti della nostra soggettività. In principio, emanata dalla Natura, viene buddhi, la facoltà di discernimento e di determinazione, accompagnata dalla sua facoltà subordinata, ahankara, l'ego, che ci spinge a considerarci come un'entità separata dal resto.' Da ciò si manifesta poi la facoltà che afferra la differenziazione degli oggetti: manas, la mente sensoria. In terzo ed ultimo luogo, da manas si manifestano i sensi - cinque di percezione e cinque d'azione.

Nel viaggio di ritorno dell'anima, che si ritira da Prakriti per ritornare al Purusha, va considerato l'ordine inverso. Per questo la Gita indica l'ordine ascendente delle nostre facoltà soggettive.

 

 

43. "Divenuto in tal modo cosciente di Colui che è di là dall'intelligenza, rinsaldando il sé[171] per mezzo del Sé[172], uccidi [in te], o Guerriero dal braccio possente, questo nemico in forma di desiderio, così difficile da vincere."

 

Di conseguenza, dice la Gita, è il Purusha, causa suprema della nostra vita soggettiva, che dobbiamo comprendere e di cui dobbiamo divenire coscienti con l'aiuto della nostra intelligenza; in Lui la nostra volontà dev'essere stabilita. Se mediante il Sé superiore, quello realmente cosciente, riusciamo a mantenere fermamente equi-librato e in pace il nostro sé soggettivo inferiore, quello della Natura (inferiore), potremo allora distruggere il nemico insidioso e attivo della nostra pace e della padronanza di noi stessi: il Desiderio.

 


CANTO IV

[a] NATURA E FUNZIONI DELL'AVATAR

 

 

Il Beato Signore disse:

1. Questo yoga imperituro, già lo esposi a Vivasvàn[173]; Vivasvàn lo trasmise a Manu[174] e a Ikshvàku[175].

 

Parlando di questo yoga in cui l'azione e la conoscenza diventano una sola cosa e vengono offerte al Purushottama, Krishna dichiara, di sfuggita, che si tratta dello stesso antico e originale yoga che Egli stesso aveva insegnato in altre epoche a Vivasvàn e che oggi ripete ad Arjuna, perché da lui si sente amato con devozione e perché è suo compagno e amico.

 

 

2. Così trasmesso dall'uno all'altro lo conobbero i saggi regali[176], fino a che questo yoga si perse nel trascorrere del tempo, o Terrore dei nemici.

 

3. Questo antico yoga ti è stato oggi rivelato, perché sei Mio devoto[177] e Mio amico - questo è il sommo segreto[178].

 

È superiore alle altre forme di yoga, perché le altre conducano al Brahman impersonale o a una Divinità personale, alla liberazione in una conoscenza fuori dell'azione o a una liberazione nell'estasi della beatitudine, mentre questo yoga rivela integralmente il più alto segreto; ci porta alla pace divina, alle opere divine, alla conoscenza, all'azione e all'estasi divine, unificate in una perfetta libertà; tutte le altre forme di yoga sono in esso riunite, nello stesso modo in cui l'essere supremo del Divino concilia e riunisce nel suo seno tutti i poteri, tutti i principi diversi, a volte opposti, del suo essere manifestato. Lo yoga della Gita non è dunque un semplice karma yoga, come taluni credono, il più basso dei tre sentieri dello yoga classico, ma uno yoga supremo, sintetico ed integrale, che dirige verso Dio tutte le facoltà del nostro essere.

 

 

Arjuna disse:

4. Vivasvàn è nato prima di Te, Tu sei venuto dopo; in che modo devo intendere che Tu gli hai rivelato questo yoga fino dal principio dei tempi?

 

L'intelligenza pratica di Arjuna rimane sconcertata dall'affermazione di Krishna di essere stato Egli stesso a rivelare a Vivasvàn questo yoga, perdutosi successivamente ed infine nuovamente rivelato al suo amico devoto. Arjuna, richiedendone la spiegazione, provoca la famosa dichiarazione, così spesso citata, sull'Avatar e sull'opera che questi svolge nel mondo (versetti 7 e 8).

 

 

Il Beato Signore disse:

5. Numerose sono le Mie vite passate, o Arjuna, così come le tue; tutte Io le conosco, ma tu non le conosci, o Terrore dei nemici.

 

6. Sebbene Io sia il Non-nato, il Sé imperituro, il Signore[179] di tutte le creature, ricorrendo alla Natura[180] che Mi è propria[181], vengo all'esistenza mediante i Miei stessi poteri.

 

Per lo spirito moderno, l'idea dell'Avatar è, fra tutte quelle che dall'Oriente tentano di penetrare la coscienza umana razionalizzata, una delle più difficili da essere capita e accettata. Il razionalista sostiene che, se Dio esiste, è un essere extra-cosmico o super-cosmico, che non interviene negli affari del mondo ma li fa governare dal meccanismo fisso delle leggi naturali. Spirito puro, non può rivestire un corpo; infinito, non può essere finito come l'essere umano; creatore non-nato, non può essere creatura nata in questo mondo. Sono cose impossibili anche per la sua assoluta onnipotenza. Il Maestro sembra aver presenti queste obiezioni, a prima vista così potenti per la ragione. Non dice forse che, sebbene il Divino sia non-nato, dall'esistenza imperitura, Signore di tutti gli esseri, nasce ricorrendo all'azione della sua natura mediante la forza della sua stessa maya? Non dice forse (IX, 11) che, disprezzato dagli ignoranti perché abita un corpo umano, è in verità nel suo supremo essere il Signore di tutti; che nell'attività della coscienza divina è il creatore del quadruplice ordine e l'autore delle opere nel mondo, e allo stesso tempo, nel silenzio della divina coscienza, il testimone imparziale delle opere della sua stessa natura, il supremo Purushottama oltre il silenzio o l'attività?

La Gita riesce a confutare tutte le obiezioni, a conciliare tutte le contraddizioni, perché parte dalla concezione vedantina dell'universo e di Dio. Per essa tutto è Dio, tutto è spirito o esistenza del Sé, tutto è Brahman, l'Uno senza secondo; non c'è altro, non c'è nulla che non sia Quello, non può esserci altro e nulla che non sia Quello. Non solamente lo Spirito ha la piena capacità di prendere forma o di unirsi a una forma materiale o mentale e di rivestire una natura o un corpo limitati, ma quaggiù tutto è Quello, il mondo esiste solo grazie a tale relazione, a tale accettazione delle forme. Siamo quindi ben lontani dall'idea che il mondo sia un meccanismo di leggi senza che anima e spirito intervengano nei movimenti delle forze o nell'azione dell'intelligenza e del corpo - salvo forse qualche Spirito originale, indifferente, esistente in qualche parte fuori del mondo o al di sopra. L'intero mondo e ognuna delle sue parti componenti non sono altro che la forza divina in azione, che determina e dirige fino nei più piccoli movimenti, che abita ognuna delle sue forme e possiede ogni anima e ogni intelligenza. Tutto vive in Dio, in Lui si muove e giustifica il proprio essere; Egli è in tutto, Egli agisce e manifesta il suo Essere. Siamo ben lontani da un Non-nato incapace di nascita; tutti gli esseri sono, persino nella loro individualità, lo Spirito non-nato, unico; nascita e morte sono fenomeni attraverso i quali riveste o cambia una forma. Il perfetto che riveste l'imperfetto è il fenomeno mistico dell'universo. L'imperfezione appare nelle forme e nell'azione della mente o del corpo che viene rivestito; essa sussiste nel fenomeno, ma chi riveste non è imperfetto, nello stesso modo in cui, nel sole che tutto illumina, non esistono difetti né di luce né di percezione, essi sono presenti solamente nell'organo individuale di percezione visiva.

 

 

7-8. Ogni volta che la giustizia[182] declina e che l'ingiustizia[183] si afferma, o Bhàrata, incarno Me stesso e nasco di età in età nelle creature, per la protezione dei buoni, la distruzione dei malvagi e per ristabilire la giustizia.

 

9. Colui che conosce il vero principio della Mia nascita e della Mia azione divina, quando abbandona il corpo, non rinascerà più, o Arjuna; egli verrà a Me.

 

10. Liberati dall'attrazione della paura e della collera, purificati mediante l'austerità della conoscenza, imbevuti di Me, avendo in Me preso rifugio, molti hanno raggiunto la Mia natura[184] [divina].

 

Dobbiamo attentamente notare che il fatto di ristabilire il dharma nel mondo non è il solo oggetto della discesa dell'Avatar, di questo grande mistero divino manifestato nell'umanità. Mantenere il dharma non è né un motivo sufficiente né lo scopo supremo della manifestazione di un Cristo, di un Krishna o di un Buddha; non è altro che la condizione generale di un fine più elevato e di una su-prema e più divina utilità. La nascita divina ha due aspetti: uno è la discesa, la nascita di Dio nell'umanità, la Divinità che si manifesta nella forma e nella natura umane, l'eterno Avatar; l'altro è un'ascesa, la nascita dell'uomo alla divinità, l'uomo che si eleva fino alla natura e alla coscienza divine. Questa è la seconda nascita dell'essere, la nuova nascita, quella dell'anima. La venuta dell'Avatar e il man tenimento del dharma aiutano questa nuova nascita.

La venuta dell’Avatar avviene per spingere l'uomo all'ascesa verso la Divinità; sarebbe un fenomeno superfluo se dovesse limi-tarsi solo a mantenere il dharma, in quanto il semplice diritto, la semplice giustizia, i semplici modelli di virtù possono sempre esser conservati mediante i comuni mezzi dell'onnipotenza - grandi uomini, grandi movimenti, vita e opere di saggi, di re e di maestri religiosi - senza che ci sia il bisogno di una vera incarnazione. L'Avatar viene come manifestazione della natura divina nella natura umana, rivelandosi nelle qualità del Cristo, di Krishna o del Buddha, affinché la natura umana, modellando i suoi principi, il suo pensiero, la sua sensibilità, la sua azione e il suo essere sulle linee della natura di questi esseri straordinari, possa raggiungere la trasfigurazione divina. Il Cristo, Krishna, il Buddha si tengono al centro, quali porte d'ingresso, divenendo loro stessi la via che gli uomini devono seguire. É per questo motivo che le incarnazioni divine presentano agli uomini il loro proprio esempio e si dichiarano la via e la porta; affermano anche l'identità del loro essere umano con l'essere divino, dichiarano che il Figlio dell'uomo e il Padre che è nei cieli sono uno, che Krishna nel suo corpo umano e il Signore supremo, l'Amico di tutte le creature, non sono che due rivelazioni dello stesso Purushottama divino, rivelato qui sotto forma umana, là come il suo proprio essere.

La nascita del Divino nell'uomo è una crescita della coscienza umana per raggiungere la coscienza divina, il cui punto culminante è la perdita del sé separato in questa più ampia coscienza. L'anima fonde la sua individualità in un essere universale e infinito, oppure la perde nelle altezze di un essere trascendentale; essa diviene una col Sé, col Brahman, il Divino, o, come qualche volta è stato detto, essa “diventa” l'unico Sé, il Brahman, il Divino. Ma questa suprema unione, questa sommità del divenire, fa ancora parte dell'ascesa. Ogni jiva giunge a questa nascita, senza peraltro rappresentare una discesa della Divinità, senza essere un Avatar. L'anima esce dalla presente individualità nell'universo e si sveglia a una supercoscienza infinita; ma ciò non significa che debba possedere la coscienza interiore dell'Avatar o la sua azione caratteristica.

Questa entrata nella coscienza divina può accompagnarsi ad un'azione riflessa del Divino, un'azione che penetra o scende nelle parti umane dell'essere e si riversa sulla natura, sull'attività, sulla mentalità e anche sul corpo degli uomini. Il Signore sì mantiene nel cuore, dice la Gita - intendendo il cuore dell'essere sottile, il centro delle emozioni, delle sensazioni, della coscienza mentale dove il Purusha individuale risiede - ma si mantiene velato, avvolto dalla sua Màyà. Al di sopra, in un piano interiore ancora per noi sovracosciente, che gli antichi mistici chiamavano il Cielo o i Cieli, il Signore e il jiva si mantengono uniti come se possedessero una sola e stessa essenza: sono il Padre e il Figlio di certi simbolismi, l'Essere divino e l'Uomo divino che da lui procede, nato dalla Natura superiore o divina - la Vergine Madre[185], paraprakriti, paramaya - nella Natura inferiore o umana. Questo sembra essere il senso intimo della dottrina cristiana dell'Incarnazione. Nella Trinità cristiana, il Padre si tiene sopra i Cieli interiori; il Figlio, la suprema Prakriti divenuta il jiva della Gita, discende nel corpo mortale, come uomo divino sulla terra; lo Spirito Santo, il puro Sé, la coscienza brahmica, è ciò che li unisce e il mezzo di comunicazione; ci è stato detto che lo Spirito Santo discese su Gesù, e la discesa stessa diede alla semplice umanità degli apostoli i poteri della coscienza superiore.

 

 

11. Qualunque sia la maniera in cui gli uomini vengono a Me, in quella maniera vengono accolti dal Mio amore[186], o figlio di Prithà, [poiché] gli uomini seguono[187] la Mia via.

 

12. Coloro che desiderano quaggiù il successo[188] delle loro opere, sacrificano agli dèi[189]; in verità, nel mondo degli uomini, le opere danno rapidamente e facilmente i loro frutti.

 

L'altra realizzazione, la perfezione (nello yoga) attraverso il sacrificio fatto, in piena conoscenza, alla Divinità suprema, è molto più difficile; i suoi risultati appartengono a un piano più elevato dell'esistenza ed è più difficile raggiungerli. Per questo motivo gli uomini devono seguire la quadruplice legge della loro natura e delle loro opere e, sul piano dell'azione nel mondo, ricercare il Divino mediante le sue diverse (forme e) qualità.

 

 

13. Ho creato il quadruplice sistema delle caste secondo una divisione fondata sui guna e le opere[190]. Sappi che, sebbene Io ne sia l'autore[191], non agisco[192] e sono immutabile.

 

La Gita non prende il quadruplice ordine delle caste nel senso ristretto che gli si attribuisce abitualmente, nemmeno lo considera come un ordine sociale eterno e universale. Quest'ordine è solamente la forma concreta di una verità spirituale, in sé stessa indipendente da tutte le forme, riposa sull'opera giusta in quanto espressione giustamente ordinata dalla natura dell'individuo attraverso il quale l'opera è compiuta, assegnando all'individuo la linea e il campo d'azione secondo la qualità (guna) che gli è propria e la funzione in cui trova la propria espressione.

 

 

14. Le opere non Mi toccano e non ho desiderio dei loro frutti; colui che cosi Mi conosce non è più vincolato dalle opere.

 

Dio non è l'autore delle opere, secondo il senso personale che riveste la nostra azione in seno a Prakriti, in quanto il Signore agisce per mezzo del suo potere, della sua natura cosciente, della sua forza effettiva, Shakti, Màyà, Prakriti, ma resta sopra, non impegnato o sottomesso ad esse; non é vincolato o toccato dalle leggi, dai procedimenti e dalle abitudini d'azione che Egli stesso crea, al punto di essere incapace - come a noi succede - di distinguere fra sé stesso e i processi mentali, vitali e fisici. È colui che fa le opere, ma che non agisce, kartaram akartaram,

 

 

15. Così consapevoli, gli antichi cercatori di liberazione[193] compirono le loro opere; in tal modo compi le tue come lo fecero gli antichi dei tempi andati.

 

I benefici della venuta dell'Avatar sono per coloro che imparano da lui la vera natura della nascita divina e delle opere divine, che riempiono il loro essere della sua coscienza e prendono in lui rifugio; purificati dalla forza realizzatrice della loro conoscenza e liberati della loro natura inferiore, raggiungono l'essere divino e la Natura divina. L'Avatar viene a rivelare la divina Natura dell'uomo, sopra la Natura inferiore, e a mostrare ciò che sono le opere divine, libere, non egoistiche, disinteressate, impersonali, universali, piene di luce divina, di potere e di amore divini. Egli viene come personalità divina a riempire la coscienza dell'essere umano, per sostituire la sua personalità egoistica e limitata e per liberarla, per farla uscire dalle strettoie dell'ego aprendola all'infinito e all'universale, per scioglierla dall'obbligo della nascita e condurla all'immortalità. Egli viene come potere e amore divini per chiamare a sé gli uomini affinché in lui trovino rifugio, rifiutando le debolezze della loro volontà, i tormenti della loro paura, della loro collera e delle loro passioni - affinché, liberati dall'agitazione e dalla sofferenza, imparino a vivere nella calma e nella beatitudine del Divino.

La forma in cui l'Avatar si presenta, il suo nome, l'aspetto del Divino che egli manifesta, non hanno importanza essenziale; poiché, in tutti i modi e secondo la loro natura, gli uomini seguono il cammino che dal Divino è stato loro assegnato e che alla fine li condurrà a Lui. L'aspetto del Divino che conviene alla loro natura è quello che seguono più facilmente quando l'Avatar viene a loro per condurli. In qualsiasi modo gli uomini accettino Dio, l'amino e prendano gioia in Lui, in questo stesso modo Dio accetta l'uomo, l'ama e prende gioia in lui.

 


 

[b] IL DIVINO OPERAIO

 

 

Raggiungere la nascita divina - la nascita a una più alta coscienza che divinizzi l'anima - e compiere le opere divine prima di aver ottenuto questa divina nascita, come mezzo per raggiungerla e, dopo averla raggiunta, come mezzo per esprimerla, è quanto rappresenta l'intero sistema del karma-yoga della Gita. Questo grande insegna-mento non cerca di definire le opere mediante i segni esteriori che le renderebbero riconoscibili e paragonabili; la Gita rinuncia persino, deliberatamente, alle distinzioni etiche comuni attraverso le quali gli uomini cercano di guidarsi rischiarati dalla luce della loro ragione. I segni mediante i quali la Gita distingue le opere divine sono tutti profondamente intimi e soggettivi; essi sono invisibili, ultra-etici, spirituali. Non possono essere riconosciuti che alla luce dell'anima che compie le opere.

 

 

16. Su ciò che è l'agire[194] e il non-agire[195] gli stessi antichi saggi rimangono perplessi; Io ti rivelerò l'agire, la cui conoscenza ti libererà dal male.

 

17. Si deve comprendere cosa sia l'agire e cosa l'azione sbagliata[196], ed anche cosa sia il non-agire. Misteriosa è la via delle opere.

 

L'agire compiuto nel mondo è simile a un'intricata foresta attraverso la quale l'uomo si muove il meglio che può, incespicando, rischiarato dalle idee dell'epoca in cui vive, dai criteri della sua personalità e da quelli delle persone che lo circondano, o piuttosto guidato dalle idee di numerose epoche, di numerose personalità, da strati successivi di pensiero e di etica appartenenti a infiniti cicli sociali, tutti inestricabilmente aggrovigliati. Queste idee temporanee e convenzionali, anche se pretendono d'essere l'assoluta e immutabile verità, sono empiriche e irrazionali anche quando imitano la giusta ragione.

Il saggio che, in mezzo a tutta questa confusione, cerca la solida base di una legge fissa e di una verità originale, si vede costretto a porsi la suprema domanda: L'agire, la vita stessa, non sono forse un inganno, un tranello? Cessare ogni azione, a-karma, non è forse l'ultimo rifugio di un'umanità stanca e disingannata?

No, dice Krishna, attraverso l'azione, attraverso le opere e non mediante l'inazione, la conoscenza e la liberazione vengono raggiunte. Su questo punto i saggi stessi rimangono perplessi e si sbagliano.

Qual è dunque la soluzione? Quali le opere che ci libereranno dal dubbio, dall'errore, dall'afflizione, dai mali della vita, dai risultati incerti, impuri, sconcertanti delle nostre azioni - anche le più pure e le meglio intenzionate -, dai milioni di forme del male e della sofferenza?

 

 

18. Colui che vede nell'agire il non-agire e nel non-agire l'agire, è saggio fra gli uomini; unito [al Sé][197] compie tutte le opere.

 

Krishna risponde che non è necessario fare distinzioni esteriori, evitare il lavoro necessario al mondo, imporre limiti o barriere alle attività umane. Al contrario, l'agire non deve conoscere limiti, ma le azioni devono essere compiute con l'anima unita al Divino. La cessazione dell'agire non è il giusto cammino; l'uomo che è stato penetrato dalla ragione superiore si accorge che l'inazione è in sé - stessa un'azione continua, uno stato di soggezione alle attività della natura e ai suoi modi. La mente che si rifugia nell'inattività fisica è ancora nell'illusione di essere l'autrice delle opere; commette l'errore di prendere l'inerzia per liberazione; non si rende conto che, anche in ciò che sembra inerzia assoluta - un'inerzia maggiore di quella della pietra o della zolla di terra -, la Natura è all'opera e mantiene inalterata la sua attività. Al contrario, anche in mezzo al turbinio dell'azione, l'anima non è incatenata all'agire, non si sente né l'autore né il responsabile di ciò che fa.

Colui che vive nella libertà dell'anima, e non nella schiavitù dei modi della Natura, è liberato dall'agire.

 

 

19, Colui le cui imprese sono esenti dalla spinta del desiderio, colui le cui azioni vengono consumate dal fuoco della conoscenza, è chiamato saggio[198] da quelli che sanno.

 

L’uomo liberato non teme l'agire; egli è l'agente vasto e universale di tutte le azioni, non soggetto alla Natura come gli altri uomini, ma in equilibrio nella calma silenziosa dell'anima, in tranquilla unione con il Divino; egli non è che il canale, e la sua natura, cosciente del Signore, è a lui sottomessa quale strumento. Grazie alla purezza e all'ardente intensità di questa conoscenza, tutte le sue opere sono consumate come in un fuoco e la sua mente non ne conserva la minima traccia, il minimo segno che la sfiguri. Egli rimane calmo, silenzioso, imperturbabile, bianco, pulito, puro. Compiere tutte le azioni sotto l'impulso di questa conoscenza liberatrice, senza l'egoismo proprio all'autore, è il primo segno che distingue il divino operaio.

Il secondo è dato dall'assenza del desiderio. Senza l'egoismo dell'autore, il desiderio diviene impossibile, deperisce e, mancante di nutrimento, s'affloscia e muore d'inedia. Visto dall'esterno, l'uomo liberato sembra intraprendere opere d'ogni specie come gli altri uomini, forse su più grande scala e con maggior forza ed energia, in quanto la forza della volontà divina opera nella sua natura attiva; ma le sue imprese non sono motivate dal desiderio; egli ha abbandonato l'attaccamento ai frutti dell'azione, e quando si agisce senza desiderio di ricompensa, ma unicamente come strumento impersonale nelle mani del Signore delle opere, il desiderio non può trovar posto. Nemmeno il desiderio di servire con successo deve infiltrarsi, poiché il risultato appartiene al Signore; è Lui che lo determina, e non la volontà e lo sforzo personali. Anche il desiderio di servire per soddisfare il Signore delle Opere deve sparire, poiché il vero autore è Lui e la gloria non deve ricadere sulla personalità umana limitata, ma su di una forma della divina Shakti all'opera nella Natura. L'anima e la mente dell'uomo liberato non fanno nulla; anche se la natura dell'uomo lo impegna nell'azione, è la Natura, la Shakti esecutiva, la Dea cosciente, diretta dall'Abitante divino, che compie l'azione.

 

 

20. Abbandonato l'attaccamento ai frutti dell'azione, indipendente da tutto, sempre felice, non agisce, anche se impegnato nell'agire.

 

Un altro segno del divino operaio è la gioia e la perfetta pace interiore che risiedono nel centro stesso della coscienza divina e non dipendono da nulla per nascere e per durare- pace e gioia innate, sostanza della coscienza, dell'anima e della stessa natura dell'essere divino. L'uomo comune dipende dalle cose esteriori per la sua felicità, ecco il perché del desiderio, ecco perché è soggetto alla collera e alla passione, al piacere e al dolore, alla gioia e alla disperazione. Egli valuta tutte le cose con la bilancia della buona e della cattiva fortuna. Tutto questo non tocca l'anima divina, sempre soddisfatta senza dipendere da nulla.

 

 

21. Non ha preferenze, ha rinunciato ad ogni forma di possesso; domina il suo pensiero e il suo cuore[199], e, pur agendo coi mezzi fisici, non commette peccato.

 

L'uomo liberato riceve ciò che la volontà divina gli concede; non desidera nulla, non è geloso; ciò che gli viene concesso l'accetta senza ripulsione e senza attaccamento; ciò che lo abbandona, lascia che se ne vada a raggiungere il turbinio delle cose, senza rammarico, senza affliggersi e senza avere il senso di perdere qualcosa. L'azione dell' uomo liberato è puramente fisica, tutto il resto viene dall'alto e non dal piano umano; tutto il resto è solo un riflesso della volontà, della conoscenza e della gioia del divino Purushottama. Per questo l'uomo liberato, staccato dall'agire e dal suo oggetto, non suscita nella propria mente e nel proprio cuore le reazioni che chiamiamo passione e peccato. Il peccato non consiste tanto nell'azione esteriore quanto nella reazione impura della volontà personale, della mente e del cuore che segue o causa l'azione. L'impersonale, lo spirituale è sempre puro e trasmette la sua inalienabile purezza a tutto ciò che fa. Questa impersonalità spirituale è il terzo segno del divino operaio.

Il risultato di questa conoscenza, di questa assenza di desiderio e di questa impersonalità è una perfetta equanimità nell'anima e nella natura. (L'equanimità è il quarto segno del divino operaio.

 

 

22. Soddisfatto di ciò che la sorte gli assegna, libero dall' invidia, libero dai contrari, uguale nel successo e nell' insuccesso, anche quando agisce non è soggetto a vincoli.

 

Gli avvenimenti felici e gli avvenimenti infausti, così importanti per l'anima umana soggetta al desiderio, vengono accolti con equanimità dall'anima divina libera dal desiderio, che si accorge che le loro fibre, strettamente unite, servono a tessere le forme progressive dell'eterno Bene. L'uomo liberato non può essere vinto, poiché per lui tutto è in marcia verso la vittoria divina sul campo di Kurukshetra della Natura - il campo dell'azione, che è allo stesso tempo il campo del dharma in evoluzione; egli sa che ogni fase del conflitto è stata voluta e tracciata dalla visione cosciente del Maestro della battaglia, Signore delle opere e Guida del dharma.

 

 

23. Per l'uomo che ha raggiunto la liberazione, che ha abbandonato ogni attaccamento e che opera con la coscienza[200] saldamente fissata nella conoscenza, offrendo la sua azione in sacrificio, l'intero operare si dissolve.

 

La liberazione non impedisce l'agire. L'uomo liberato sa che l'attività non proviene da lui, ma dai tre guna, modi o qualità della Natura. Questa superiorità dell'anima calma, che osserva il proprio agire senza immedesimarsi col movimento dei guna, è anche un segno evidente del divino operaio. Questa idea potrebbe facilmente condurre alla dottrina di un determinismo meccanico della Natura e finire in una perfetta indifferenza, in una completa irresponsabilità dell'anima, se Ia Gita non evitasse l'errore di questo concetto con la luce offerta dall'idea “superteistica” del Purushottama. Essa dimostra che in fondo non è la Natura che determina l'azione dell'anima, ma la volontà del Supremo che ispira la Natura. Il Divino suscita, ispira, determina l'intera azione; l'anima umana impersonale nel Brahman è il canale puro e silenzioso del potere divino che si serve della Natura per eseguire il divino movimento.

Così, e solamente così, devono essere le opere dell'anima liberata, in quanto essa non agisce per iniziativa personale - tale è l'agire del perfetto karma yogi. Sono atti che emanano da uno spirito libero e spariscono senza alterarlo, come le onde che si elevano e spariscono sulla superficie di profondità coscienti cd immutabili.

 


 

[c] IL SIGNIFICATO DEL SACRIFICIO

 

 

La Gita ci darà adesso una spiegazione minuziosa di cosa intende per sacrificio, yajna, una spiegazione particolareggiata, che non lascerà dubbi sull'impiego simbolico delle parole e sul carattere psicologico del sacrificio prescritto dal suo insegnamento.

 

24. Brahman è l'atto di offrire, Brahman è l'offerta[201], dal Brahman[202] viene versata sul fuoco del sacrificio[203] di Brahman. In verità si raggiunge il Brahman concentrandosi[204] perfettamente nell'azione, che è essa stessa il Brahman.

 

Questo è il modo di conoscere con cui l'uomo liberato deve compiere il sacrificio delle opere. È la stessa conoscenza espressa in altri tempi dalle grandi parole vedantine: "Io sono Lui", "In verità tutto ciò è Brahman", "Brahman è questo Sé". È la conoscenza dell'unità totale - quella dell'Unico manifestato come attore, come atto e come oggetto dell'atto, come conoscitore, come conoscenza e come oggetto della conoscenza. L'energia universale in cui è versata l'offerta è il Divino; l'energia dell'offerta consacrata è il Divino; tutto ciò che viene offerto non è altro che una forma del Divino; colui che porge l'offerta è lo stesso Divino nell'uomo; l'azione, l'opera, il sacrificio sono l'attività, il movimento del Divino; il Divino è Io scopo da raggiungere mediante il sacrificio. Per chi possiede questa conoscenza e vive e agisce in essa, non c'è opera che possa incatenarlo, non può esistere azione personale che possa essere rivendicata dall'ego; solo esiste il divino Purusha che agisce nell'essere mediante la Prakriti divina, che offre tutto nel fuoco dell'energia cosmica cosciente, mentre la conoscenza e il possesso dell'esistenza e della coscienza divina da parte dell'anima che è a lui imita, sono lo scopo di tutta quest'attività e di tutto questo movimento diretto verso Dio. Conoscere ciò, vivere e agire in questa coscienza unificatrice, significa essere libero.

Ma neppure tutti gli yogi hanno raggiunto questa conoscenza.

 

 

25. Certi yogi offrono il sacrificio agli dèi[205]; altri l'offrono invece al fuoco[206] di Brahman.

 

Coloro che offrono il sacrificio agli dèi concepiscono il Divino con forme e poteri diversi; lo cercano con mezzi diversi, comandamenti, leggi, dharma, o attraverso rigidi riti d'azione, di disciplina, di consacrazione; ma per colui che ha la conoscenza, l'atto stesso del sacrificio, la semplice offerta al Divino di tutto ciò che fa, il rimettere tutte le sue attività alla Coscienza e all'Energia divine, è l'unica via, l'unico dharma.

Molti sono i mezzi del sacrificio, molte le offerte. Esiste il sacrificio psicologico del dominio di sé e della disciplina interiore, che conducono al possesso e a una conoscenza di sé superiori.

 

 

26. Alcuni offrono l'udito e gli altri sensi al fuoco del dominio di sé[207]; altri offrono il suono e gli altri oggetti sensibili al fuoco dei sensi.

 

Esiste una disciplina che placa i sensi in tal modo che l'anima può attraversare il velo dell'azione mentale ed apparire calma e serena nella sua purezza. Esiste la disciplina in cui si ha la percezione sensoria senza permettere alla mente d'essere turbata o toccata dalle attività dei sensi, che divengono essi stessi pure fiamme di sacrificio.

 

 

27. Altri offrono al fuoco dello yoga del dominio di sé, ravvivato dalla conoscenza, tutte le attività dei sensi e quelle dell'energia vitale[208].

 

Attraverso questa disciplina, quando il Sé è conosciuto, tutte le azioni e le percezioni sensorie e tutte le attività dell'essere vitale vengono ricevute dall'anima in uno stato di silenziosa calma.

 

 

28. Alcuni offrono in sacrificio i loro beni, altri le loro austerità[209] o il loro yoga [le pratiche del loro yoga][210], mentre altri ancora, asceti fermamente stabiliti nei loro voti, offrono il loro studio [delle Scritture] e la loro conoscenza.

 

29. Coloro che si consacrano al dominio del respiro[211] sacrificano il fiato espirato[212] a quello inspirato[213] e il fiato inspirato a quello espirato, dopo aver disciplinato il doppio movimento della loro respirazione.

 

30. Altri ancora, che hanno regolato il cibo, versano in sacrificio il loro fiato vitale[214] negli altri fiati vitali. Tutti hanno imparato la scienza del sacrificio e mediante il sacrificio hanno distrutto le impurità.

 

Tutti i sacrifici tendono alla purificazione dell'essere; ogni sacrificio è una via che ha per scopo la ricerca del Supremo. La sola cosa necessaria, il principio permanente di salvezza in queste diversità, è subordinare e controllare le attività inferiori, ridurre la pressione del desiderio e sostituirlo con una forza superiore, abbandonare il godi-mento puramente egoistico per una felicità divina che provenga dal sacrificio, dalla consacrazione di sé, dal dominio di sé e dall'abbandono degli impulsi inferiori a favore di uno scopo più nobile e più elevato.

 

 

31. Coloro che godono il nettare dell'immortalità[215] che resta dal sacrificio, raggiungono l'eterno Brahman; ma colui che per non compiere il sacrificio non possiede questo mondo, come potrebbe possedere l'altro [mondo], o Migliore dei Kuru?

 

Il sacrificio è la legge del mondo, e nulla può essere ottenuto senza di esso; né il dominio in questa terra, né il possesso dei cieli nell'al di là, né il possesso supremo del Tutto.

 

 

32. In tal modo mille forme di sacrificio irradiano dalla bocca di Brahman. Sappi che tutte sono nate dall'agire e, così sapendo, tu sarai liberato.

 

Sono mezzi e forme dell'unica grande Esistenza in attività, mezzi mediante i quali l'essere umano può offrire Ia sua azione a Colui di cui l'esistenza esteriore è una parte e con il quale il suo essere intimo è unificato.

Tutte queste forme provengono dall'unica vasta energia del Divino e da quest'energia sono formate. Essa si manifesta attraverso il karma universale e fa di tutte le attività cosmiche un'offerta progressiva al Sé, unico Signore.

Per l'essere umano, l'ultimo stadio di quest'offerta è la conoscenza di sé e il possesso della coscienza divina o coscienza brahmica: "E così sapendo tu sarai liberato."

 

 

33. Il sacrificio della conoscenza[216], o Parantapa, è più grande di qualsiasi altro sacrificio materiale, in quanto tutte le opere, o Figlio di Prithà, trovano la loro conclusione nella conoscenza[217].

 

34. Acquisiscila[218], umiliandoti [ai piedi del maestro spirituale], mediante la ricerca e il servizio[219]. I saggi che hanno conquistato la visione dei principi[220] [delle cose], ti istruiranno in questa conoscenza.

 

35. In possesso di questa conoscenza, tu non ricadrai nell'illusione[221], o Figlio di Pàndu; poiché allora tu vedrai nel Sé[222], quindi in Me stesso[223], tutti gli esseri[224] senza eccezione.

 

II Sé è questa unica e immutabile realtà che tutto penetra, che tutto contiene, autoesistente, quello stesso Brahman nascosto dietro la nostra mente, in cui si estende la nostra coscienza quando è liberata ' 'Viso. Vedremo allora tutti gli esseri come il divenire, bhutani, nel seno di quest'Essere unico autoesistente. Ma vedremo che questo Sé. questo Brahman immutabile, è anche la rappresentazione che fa di sé stesso nella nostra esistenza e di cui tutto, mutevole e immutabile, è la manifestazione. Egli è Dio, il Divino, il Purushottama.

 

 

36. Anche se tu fossi il più grande dei peccatori, sulla barca della conoscenza passerai attraverso ogni peccato.

 

37. Nello stesso modo in cui il fuoco riduce il legno in cenere, o Arjuna, il fuoco della conoscenza riduce in cenere le opere.

 

38. Non esiste al mondo nulla che purifichi come la conoscenza; chi ha raggiunto la perfezione yoghica, con l'andar del tempo, da sé stesso la trova nel Sé.

 

In questo inizio d'insegnamento, la Gita fissa lo yoga e la conoscenza come le due ali che servono all'ascesa dell'anima. Lo yoga è l'unione tramite le opere divine, compiute senza desiderio e con animo uguale di fronte alle cose e agli uomini, come un sacrificio offerto al Supremo; la conoscenza è la base su cui si fondano questa assenza dì desiderio, questa equanimità e questo potere di sacrificio. Infatti, le due ali si aiutano reciprocamente nel loro volo. Più le opere sono compiute senza desiderio, con equanimità, con spirito di sacrificio, più la conoscenza si accresce; e con la crescita della conoscenza l'anima si afferma nell'assenza di desiderio, nell'equanimità e nello spirito di sacrificio che accompagna le opere.

 

39. L'uomo che ha fede, che è padrone di sé stesso e che si dà senza nulla riservarsi[225], raggiunge la conoscenza e, avendola conseguita, raggiunge presto la pace suprema.

 

La conoscenza cresce nell'uomo e l'uomo cresce in questa conoscenza a mano a mano che l'assenza di desiderio, l'equanimità e la devozione al Divino divengono più vaste. Ma tutto ciò ha valore sola-mente per la conoscenza suprema, in quanto la conoscenza accumulata dall'intelletto umano è laboriosamente riunita dai sensi e dalla ragione, e proviene dall'esterno. Per ottenere questa conoscenza intuitiva è indispensabile possedere la fede e il dominio di sé stessi, ed essere coscientemente concentrati, tatparah, sulla verità della suprema Realtà in cui tutto esiste, affinché possa manifestare in noi la sua luminosa esistenza.

 

 

40. Ma l'anima[226] piena di dubbi, ignorante e senza fede, è votata alla perdizione, poiché né questo né un altro mondo e neppure la felicità, sono per l'anima che si abbandona al dubbio.

 

Dobbiamo avere una fede che nessun dubbio intellettuale giunga a turbare. Infatti, è risaputo che senza fede nulla di decisivo può esser compiuto in questo mondo o in altri mondi; solamente assicurandosi una sicura base e un sostegno positivo l'uomo può raggiungere un certo successo, la soddisfazione e la felicità, su questa terra o in cielo. La mente puramente scettica si perde nel vuoto.

 

 

41. Colui che attraverso lo yoga ha rinunciato alle opere, che attraverso la conoscenza ha distrutto il dubbio, che possiede il Sé, non è più vincolato alle opere, o Conquistatore di ricchezze.

 

Quando la Gita dice che la totalità delle opere trova il suo compi-mento nella conoscenza (IV, 33), o che il fuoco della conoscenza riduce in cenere tutte le opere (IV, 37), non significa che si debba abbandonare l'azione. Quello che la Gita vuol dire è chiaramente espresso in questo versetto: "Lo yogi che possiede la conoscenza non rimane vincolato dalle proprie opere".

 

 

42. Con la spada della conoscenza taglia dunque il dubbio, che nasce dall'ignoranza che dimora nel tuo cuore, rimani fermamente stabilito nel tuo yoga e sorgi, o Bhàrata.

 

Il dubbio e lo scetticismo hanno un'utilità temporanea per la conoscenza inferiore; per la conoscenza superiore sono intoppi. Il segreto non consiste in un equilibrio fra verità ed errore, ma in una realizzazione progressiva della verità che si rivela. Non si tratta di una verità che si debba provare, ma di una verità che si deve vivere interiormente, una realtà più grande in cui si deve crescere. Non è il sortilegio dell'ignoranza in cui viviamo, ma una verità esistente in sé e di per sé stessa evidente. I dubbi, le perplessità che c'impediscono di accettarla e di seguirla, provengono dall'ignoranza di questa mente e di questo cuore fuorviati dai sensi e turbati nel loro giudizio, che vivono nella verità inferiore dei fenomeni, mettendo in dubbio, di conseguenza, le realtà superiori. Questi dubbi debbono essere tagliati dalla spada della conoscenza, dice la Gita, dalla conoscenza realizzatrice e ricorrendo costantemente allo yoga, o in altre parole, vivendo in totale unione col Supremo. "Quando la verità è conosciuta, tutto è conosciuto" ;Shandilya Upanishad, cap. 2).

 


CANTO V

LA RINUNCIA E LO YOGA DELLE OPERE

 

 

Arjuna disse:

1. Tu lodi, o Krishna, la rinuncia alle opere[227] e anche lo yoga [delle opere][228]. Quale delle due cose è la migliore? Dimmelo chiaramente.

 

Nuovamente, Arjuna è perplesso: da un lato le opere compiute senza desiderio - principio dello Yoga - e dall'altro la rinuncia alle opere - principio del Sànkhya - si trovano riunite, l'una accanto all'altra, come facessero parte dello stesso metodo, senza che però si possa intravedere la possibilità di un accordo tra loro. A dire il vero, il Maestro ha già tentato una conciliazione quando ha proposto di liberarci dall'illusione d'essere l'autore delle opere, abbandonando le attività nelle mani del Signore del Sacrificio, e di vedere l'azione persistere ancora nell'inazione esteriore, e nell'azione apparente una vera inazione (IV, 18). Ma una risposta del genere, espressa in termini quasi enigmatici, è troppo sommaria, troppo sottile per la mentalità pratica di Arjuna; questi non ne ha saputo cogliere il senso, o comunque non ne ha penetrato lo spirito o la portata.

La risposta è importante, poiché essa presenta con estrema chiarezza la distinzione ed indica, senza tuttavia svilupparla completa-mente, la linea secondo cui la conciliazione è possibile.

 

 

2. La rinuncia [alle opere] e lo yoga delle opere conducono entrambi al bene supremo; tuttavia lo yoga è superiore alla rinuncia.

 

Lo yoga delle opere è da preferire alla rinuncia materiale ad agire, perché quest'ultima è difficile per gli esseri incarnati che, avendo un corpo, non possono evitare d'agire, mentre lo yoga praticato mediante le opere è interamente efficace e conduce l'anima al Brahman in modo rapido e sicuro.

 

 

3. Dev'essere sempre considerato un sannyàsin[229] [anche quando è impegnato nell'azione], colui che non prova né desiderio né avversione; in quanto, libero dalla schiavitù dei dualismi, o Guerriero dal braccio possente, egli facilmente si svincola dal legame [delle opere].

 

4. Separare il Sànkhya dallo Voga è parlare da bambini, non da saggi; chi si dedica esclusivamente a uno dei due, ottiene il frutto di entrambi.

 

5. Lo stato che raggiungono coloro che seguono il Sànkhya è raggiunto anche da coloro che seguono lo Yoga; colui che vede Sànkhya e Yoga come la stessa cosa, questi appunto vede.

 

La Gita afferma insistentemente che Sànkhya e Yoga sono tutt'uno nel loro principio e nel loro scopo; la loro unica differenza consiste nel punto di partenza e nel metodo. Il Sànkhya parte dalla discriminazione e dall'analisi intellettuale, lo Yoga si basa sulle opere; queste due vie si riuniscono alla fine per giungere alla stessa meta. Nella loro integralità, ognuna contiene l'altra.

 

 

6. Ma la rinuncia, o Guerriero dal braccio possente, è difficile da ottenere senza lo yoga; il saggio che attraverso lo yoga si è unito [al Sé][230] giunge rapidamente sino al Brahman.

 

La penosa disciplina del sannyasa esteriore non è necessaria. È vero che bisogna rinunciare all'azione, come pure al frutto dell'azione, ma dev'essere una rinuncia interiore, non esteriore; non si deve seguire l'inerzia della natura, ma offrire l'azione al Signore del Sacrificio, nella calma e nella gioia dell'Impersonale, da cui proviene ogni azione senza che la pace ne sia turbata. Il vero sannyasa dell'azione consiste nel rimettere tutte le attività al Brahman (V, 10-12).

 

 

7. Colui che mediante lo yoga si è unito [al Sé], anima pura, padrone di sé stesso, che ha dominato i sensi, il cui sé è diventato il sé di tutti gli esseri, costui, anche quando agisce, non è coinvolto nell'azione.

 

8-9. "In realtà io non compio cosa alcuna", pensa colui che unito [al Sé] conosce l'essenza delle cose. Quando vede, ode, tocca, odora, gusta, cammina, dorme, respira, quando parla, afferra, dà, quando apre gli occhi o li chiude, in tutto ciò egli non riconosce altro che l'opera dei sensi, che si muovono in mezzo agli oggetti dei sensi.

 

Il saggio sa che le azioni non gli appartengono, ma che appartengono alla Natura, e con questa conoscenza è libero; ha rinunciato alle opere e non compie nessuna azione, benché l'azione si compia suo tramite; diventa il Sé, il Brahman (V, 24), vede tutta la realtà come il divenire dell'Essere in sé esistente, e la propria esistenza come una delle infinite forme di quel divenire; vede che tutte le azioni sono soltanto lo sviluppo della Natura cosmica che opera mediante la natura individuale di ognuno, e che anche la propria azione fa parte della stessa attività cosmica.

 

 

10. Come l'acqua non può aderire alla foglia del loto, così il peccato non può macchiare colui che, avendo abbandonato ogni attaccamento, agisce riponendo in Brahman ogni sua opera.

 

Lo yoga delle opere consiste, come abbiamo visto, nell'offerta di ogni azione al Signore, e raggiunge il suo culmine nell'abbandono delle opere al Brahman, all'essere del Signore. Quest'abbandono non è esteriore, ma interiore, non è materiale, ma spirituale. Quando le opere "si appoggiano", come dice la Gita, "sul Brahman", cessa la personalità dell'autore - che diviene così un semplice strumento; sebbene agisca, egli non fa nulla, poiché ha abbandonato al Signore non soltanto il frutto delle opere, ma le opere stesse e la loro esecuzione; il Divino lo alleggerisce allora del fardello delle opere; il Supremo diventa (ad un tempo) l'autore, l'azione, e il risultato dell'azione.

 

 

11. Avendo abbandonato ogni attaccamento, gli yogi compiono l'azione col corpo, con la mente, con l'intelligenza o persino con i soli sensi[231], per la loro purificazione[232].

 

12. Colui che è unito [al Sé][233] e ha rinunciato al frutto dell'azione ottiene la pace che si fonda sul Brahman; ma colui che non è in unione e che, sotto l'impulso del desiderio, è attratto dal frutto dell'azione, quello in verità è incatenato.

 

13. L'anima incarnata[234] che mentalmente[235] ha rinunciato ad ogni attività, sta serena e sovrana nella città dalle nove porte[236], senza agire o essere la causa di nessuna azione.

 

14. Il Signore[237] non crea [direttamente] né le azioni del mondo né la tendenza all'azione, e neppure il legame tra l'azione e il suo frutto; è la natura individuale[238] che manifesta tutte queste attività.

 

15. Il Signore[239] non accetta né i peccati né i meriti di nessuno[240]; la conoscenza è avvolta dall'ignoranza, e per-ciò le creature sono smarrite.

 

16. Ma in coloro in cui questa ignoranza è distrutta dalla conoscenza del Sé[241], questa conoscenza, come un sole, fa risplendere il Supremo[242].

 

Questa conoscenza di cui parla la Gita non è un'attività intellettuale della mente; è una crescita luminosa sino allo stato più elevato dell' essere, grazie all'azione della luce risplendente del sole divino della Verità, di "quel Sole di Verità che sta nascosto nelle tenebre" della nostra ignoranza - come dice il Rig Veda. Il Brahman immobile sta nei cieli dello spirito, sopra questa Natura inferiore turbata dagli opposti: è inaccessibile sia alla virtù sia al peccato, poiché non accetta né il nostro senso del peccato né l'orgoglio della nostra virtù; è insensibile al piacere e al dolore, indifferente alla nostra gioia nel successo e alla nostra tristezza nell'insuccesso, signore di tutto, supremo, che tutto pervade, Prabhu, Vibhu, calmo, forte, puro, equo in ogni cosa; Lui, origine della Natura, Lui che, pur senza essere direttamente l'autore delle nostre azioni, è il testimone della Natura e delle sue opere, non più c'impone l'illusione di essere gli autori delle opere, in quanto tale illusione è il risultato dell'ignoranza della Natura inferiore. Ma quella libertà, quella padronanza, quella purezza, noi non possiamo vederle, siamo troppo sviati dall'ignoranza naturale che ci nasconde l'eterna conoscenza di noi stessi, che è quella del Brahman segreto nell'intimo del nostro essere. Ma al ricercatore perseverante la verità giunge e gli toglie la naturale ignoranza; essa risplende come un sole a lungo nascosto e rivela alla nostra visione l'essere supremo, di là dagli opposti dell'esistenza inferiore. Il risultato, come dice la Gita, è una perfetta equanimità verso tutto e verso tutti, e allora soltanto possiamo porre completamente le nostre opere fra le mani del Brahman.

 

 

17. Con tutto l'essere consacrato a Quello[243], con l'intelligenza fissa su Quello, con Quello come solo Sé e scopo supremo, essi vanno dove non c'è ritorno; i loro peccati sono dissolti dalla conoscenza.

 

18. I saggi vedono con occhio equanime il bramino colto ed erudito, la vacca, l'elefante, il cane e chi mangia la carne del cane[244].

 

Il saggio ha per tutti, nel suo cuore, la stessa benevolenza, lo stesso affetto divino. Le circostanze possono determinare l'effusione o il conflitto esteriore, ma non possono mai turbare il suo “occhio equanime”, il suo cuore aperto e il suo abbraccio interiore che si estende a tutto.

 

 

19. Persino quaggiù[245] hanno dominato la natura creata coloro la cui mente è stabilita nell'equanimità; essi vivono nel Brahman, poiché il Brahman è equo[246] e oltre [ogni] colpa.

 

Il Brahman è equo, samam, e quando possediamo quella perfetta equanimità, quando vediamo con “occhio equanime” il bramino colto ed erudito, la vacca, l'elefante e il paria, sapendo che sono tutti l'unico Brahman, allora, e allora soltanto possiamo, vivendo in quest' unità, vedere - come il Brahman - che le nostre opere procedono dalla Natura, ed essere completamente liberati dal timore dell'attaccamento, del peccato e della schiavitù. Colpa e peccato non possono più esistere, perché abbiamo dominato questa natura creata, piena di desiderio, e le sue opere e reazioni che appartengono all'ignoranza. Quando viviamo nella suprema e divina Natura, le nostre opere sono esenti da colpa o da difetto, poiché questi sono creati dalla parzialità dell'ignoranza. Il sereno Brahman è esente da colpe, di là dalla confusione del bene e del male; vivendo nel Brahman ci eleviamo anche noi oltre il bene e il male; possiamo agire in quella purezza, senza macchia, avendo per fine unico e costante il lavoro per il bene di tutti gli esseri (V, 25).

 

 

20. Con l'intelligenza stabile, svincolato dall'illusione, colui che conosce il Brahman, che vive nel Brahman, non si rallegra quando succede qualcosa di piacevole, non si rattrista quando sopravviene qualcosa di spiacevole.

 

Dopo aver parlato della perfetta equanimità di chi conosce il Brahman e si è elevato sino alla coscienza del Brahman, la Gita espone nei nove versetti seguenti la sua concezione del brahma yoga e del nirvàna nel Brahman.

 

 

21. Con l'anima staccata dai contatti esteriori, egli trova la felicità[247] che esiste nel Sé: e con il Sé unito al Brahman per mezzo dello yoga, gode di una felicità[248] imperitura.

 

22. Il piacere nato dal contatto [con le cose] genera il dolore, o Figlio di Kunti; esso ha un inizio e una fine, e il saggio[249] non se ne compiace.

 

23. Colui che quaggiù, prima ancora d'essere liberato dal corpo, è capace di sopportare l'impeto del desiderio e della collera, quello è unito [al Sé] e ha raggiunto la felicità.

 

Non essere attaccati, dice la Gita, è indispensabile se si vuole essere liberi dall'assalto del desiderio, della collera e della passione, e senza tale libertà la vera felicità non è possibile. La felicità e l'equanimità di cui parla la Gita devono essere conquistate interamente dall'uomo in possesso di un corpo: l'uomo non deve tollerare nessuna traccia di soggezione alla Natura inferiore, avvalendosi dell'idea che la perfetta liberazione verrà quando avrà abbandonato il corpo. La perfetta libertà spirituale dev'essere conquistata qui, sulla terra, e bisogna possederla e gioirne durante la vita umana.

 

 

24. Colui che trova in sé la felicità, la quiete gioiosa e anche la luce interiore, quello yogi diventa il Brahman[250] e raggiunge l'estinzione dell'io nel Brahman[251].

 

Qui, molto chiaramente, Nirvàna significa l'estinzione dell'ego nel più elevato e spirituale Sé interiore, per sempre fuori dal tempo e dallo spazio, non legato alla catena della causa e dell'effetto o ai cambiamenti provocati dall'evoluzione del mondo, che ha in sé la luce e la felicità, ed è per sempre in pace.

Lo yogi cessa d'essere l'ego, la piccola persona limitata dalla mente e dal corpo, diventa il Brahman ed è unito in coscienza con la divinità immutabile del Sé eterno, che è immanente nel suo essere naturale. Ma si tratta dell'accesso allo stato di sonno profondo del samàdhi, senza coscienza del mondo, oppure del movimento preparatorio alla dissoluzione dell'essere naturale e dell' anima individuale in un Sé assoluto, del tutto e per sempre di là dalla Natura e dalle sue opere, laya, moksha?

 

 

25. I rishi[252], purificati da ogni contaminazione, che hanno distrutto il peccato e tagliato il nodo del dubbio, che hanno acquisito la padronanza di sé stessi e che si sono votati al bene di tutti gli esseri, giungono all'estinzione nel Brahman.

 

26. Quanto agli asceti[253] che si sono liberati dal desiderio e dalla collera, padroni della loro mente[254], che conoscono il Sé, l'estinzione nel Brahman li avvolge[255].

 

Per queste anime, l'estinzione nel Brahman è 'tutt'attorno', le avvolge; esse già vivono in Lui. Si può anche dire che conoscere e possedere il Brahman significa essere in Nirvàna. È chiaro che questa è un'estensione dell'idea di Nirvàna. L'assenza di ogni macchia dovuta alle passioni, l'autocontrollo di una mente equa sulla quale si fonda la libertà, l'equanimità nei riguardi di tutti gli esseri e l'amore per tutti, la distruzione definitiva del dubbio e dell'oscurità pro-venienti dall'ignoranza che ci mantiene separati dal Divino, la conoscenza del Sé unico in noi e in tutti, sono evidentemente le condizioni del Nirvàna esposte in questi versetti della Gita; sono la sostanza spirituale del Nirvàna e contribuiscono a costituirlo. Così descritto, il Nirvàna è chiaramente compatibile con la coscienza del mondo e con l'azione nel mondo. I saggi che lo possiedono sono coscienti del Divino e, tramite le opere, in intima relazione con Lui in questo mutevole universo. Essi agiscono per il bene di tutte le creature.

Per Nirvàna nel Brahman si deve intendere la distruzione o l'estinzione della coscienza separatrice limitata, generatrice dell' errore e della divisione, portata alla superficie dell'esistenza dalla maya inferiore dei tre guna. L'accesso al Nirvàna è il passaggio ad un'altra coscienza, vera e unificatrice, che è il cuore dell'esistenza, il suo contenente e il suo totale contenuto, il suo sostegno, la sua intera verità originale, eterna e finale. Quando raggiungiamo il Nirvàna, quando vi entriamo, non soltanto l'abbiamo in noi, ma intorno a noi, poiché non soltanto la coscienza del Brahman vive segretamente in noi, ma noi viviamo in essa. Questa coscienza è il Sé che siamo dentro dì noi, il Sé supremo del nostro essere individuale, ma anche il Sé di tutte le esistenze. Vivendo in questo Sé noi viviamo in tutto, e non più soltanto nel nostro essere egoistico; grazie all'unione con il Sé, un'unità stabile con tutto ciò che è nell'universo diventa la natura stessa del nostro essere, lo stato base della nostra coscienza attiva e il motivo base di ogni nostra azione.

 

 

27-28. Avendo abolito il contatto con gli oggetti esteriori e concentrato la visione tra le sopracciglia, avendo reso uguale il fiato inspirato e il fiato espirato[256] dalle narici, avendo dominato i sensi, la mente e l'intelligenza, il saggio che si consacra alla liberazione[257] e che ha respinto il desiderio, la paura e la collera, è libero[258] per sempre.

 

Il procedimento yoghico indicato in questi versetti introduce un elemento che sembra differire completamente dallo yoga delle opere e persino dal puro yoga della conoscenza raggiunta mediante la discriminazione e la contemplazione; tutti i suoi tratti sono caratteristici del raja yoga, di cui espongono l'ascesi psicofisica. C'è il riferimento al dominio di tutti i movimenti della mente, al controllo della respirazione, pranayama, al ritiro dei sensi e della visione all'interno di sé. Tutte queste pratiche conducono all'estasi interiore, alla `trance' del samadhi; esse hanno per oggetto moksha, e moksha significa nel linguaggio corrente la rinuncia - non soltanto alla coscienza separatrice dell'ego, ma a tutta quanta Ia coscienza attiva - e la dissoluzione del nostro essere nel Brahman supremo. Dobbiamo forse supporre che la Gita adotti questo significato e faccia di questo pro-cedimento l'ultimo movimento di una liberazione ottenuta attraverso la dissoluzione? Oppure Io considera soltanto un metodo particolare, un aiuto specialmente efficace al fine di dominare la mente rivolta verso l'esteriore? Si tratta della raccomandazione finale, dell'ultima parola? Vedremo che c'è ragione di considerare questo procedimento sia come un metodo particolare, un aiuto, sia come una delle porte che danno accesso al movimento finale, il quale però non consiste in una dissoluzione, ma in un'ascesa all'esistenza ultracosmica. Infatti, la raccomandazione espressa in questo passaggio non è l'ultima parola. La parola finale, il punto culminante, si trova nel versetto seguente, l'ultimo del canto.

 

 

29. Sono Io, il Signore sovrano[259] di tutti i mondi e l'Amico di tutti gli esseri, colui che coglie il frutto del sacrificio e dell'ascesi[260]. Chi Mi conosce come tale raggiunge la pace.

 

In questo passaggio ritroviamo tutta la forza del karma-yoga; la conoscenza del Brahman attivo, della super-anima cosmica, viene insistentemente presentata come una delle condizioni della pace del Nirvàna. Ritorniamo così alla grande idea della Gita, all'idea del Purushottama. Benché questo nome non venga espresso sin verso la fine del poema, è sempre al Purushottama che Krishna si riferisce quando dice “Io” e “Me”; egli intende cioè, il Divino che è il Sé unico nel nostro essere immutabile e intemporale, che è anche presente nel mondo, in tutte le esistenze e in tutte le attività, Signore del silenzio e della pace, Signore del potere e dell'azione, incarnato, in questo tremendo conflitto, nella forma del divino Auriga. È il Trascendente, il Sé, il Tutto, il Signore di ogni essere individuale; è Colui che coglie il frutto di ogni sacrificio e di ogni ascesi, tapasyà; e perciò l'uomo che cerca la liberazione compirà le opere come un sacrificio e un'ascesi. È il Signore di tutti i mondi, manifestato nella Natura e negli esseri; perciò l'uomo liberato continuerà ad agire affinché i popoli di questi mondi siano diretti e governati giustamente, loka-sangraha (III, 20, 21). t l'Amico di tutte le creature; perciò il saggio che ha trovato il Nirvàna in sé e attorno a sé si occupa ancora e sempre del bene di tutti gli esseri - come pure il Nirvana del Buddismo Mahàyàna ha fatto delle opere di compassione universale il suo simbolo più alto. Inoltre, anche quando ha trovato nel suo sé immutabile e intemporale l'unità col Divino, il saggio è ancora capace - poiché abbraccia anche le relazioni del giuoco della Natura - d'amore divino per l'uomo e d'amore per il Divino, bhakti. Che sia questa la tendenza del pensiero sarà ancor più evidente quando avremo approfondito il senso del sesto canto, vasto commento e completo sviluppo dell'idea contenuta negli ultimi versetti del quinto - il che dimostra l'importanza che attribuisce loro la Gita.


CANTO VI

IL NIRVANA E LE OPERE NEL MONDO

 

 

Il Beato Signore disse:

1. Il vero sannyàsi[261], il vero yogi, è colui che compie l'opera che deve compiere[262] senza pensare al frutto dell' opera stessa, non colui che non accende il fuoco [del sacrificio], astenendosi dall'agire.

 

2. Sappi, o figlio di Pàndu, che ciò che si chiama sannyàsa non è altro che lo yoga, e nessuno diviene yogi se non ha rinunciato alla volontà-desiderio[263].

 

Il Maestro insiste dapprima - ed è assai significativo - sull'affermazione molte volte ripetuta che la vera essenza del sannyasa è la rinuncia interiore e non quella esteriore. Le opere devono farsi, ma secondo quali intenti e in che ordine?

 

 

3. Per il saggio che sale il pendio, l'azione è la causa[264] della liberazione; per colui che ha raggiunto la sommità dello yoga, la serenità[265] è la causa [della perfezione delle opere].

 

Le opere sono la causa, ma la causa di che? La causa della perfezione di sé, della liberazione, del Nirvana neI Brahman, poiché se si adempiono le opere praticando fermamente la rinuncia interiore, allora la perfezione, la liberazione, la conquista della mente di desiderio, del sé egoista e della natura inferiore possono essere facilmente conseguite.

E quando la sommità è stata raggiunta? Allora le opere non sono più la causa; la calma della padronanza e del possesso di sé, acquisiti mediante le opere divine, divengono la causa. Ma ancora una volta, la causa di che? Della stabilità nel sé, della coscienza che si ha del Brahman e della perfetta equanimità di cui sono tessute le opere divine dell'uomo liberato.

 

 

4. Di colui che non ha più attaccamento né per gli oggetti sensibili né per le opere, e che ha rinunciato alla volontà-desiderio[266], si dice che ha raggiunto la sommità dello yoga.

 

Tale è lo spirito in cui l'uomo liberato compie le opere; egli agisce senza desiderio e senza attaccamento, senza volontà personale egoistica e senza la ricerca mentale, causa del desiderio.

 

 

5. Mediante il Sé libera il sé[267] e non degrada sé stesso, poiché in verità solo il sé è amico del sé e solo il sé è nemico del sé.

 

6. Il sé è l'amico del sé per colui il cui sé è stato vinto dal Sé, ma per colui il cui sé non è stato conquistato, in verità il sé gli è ostile e può anche agire da nemico[268].

 

7. Il supremo Sé[269] è concentrato[270] in colui il cui sé è stato conquistato e pacificato, e che rimane indifferente davanti al freddo o al caldo, al piacere o al dolore, all'onore o al disonore.

 

Colui che ha conquistato il sé inferiore ha raggiunto la calma per-fetta in cui il Sé supremo gli si manifesta. Questo supremo Sé è sempre in samadhi, concentrato sul proprio essere, non solamente nella trance della coscienza ritirata nell'intimo, ma anche nello stato di veglia di una mente esposta agli opposti, alle cause del desiderio e della perturbazione, al dolore e al piacere, al caldo e al freddo, all'onore e alla vergogna. Questo Sé superiore è l'akshara, (il Brahman) immutabile, imperturbabile.

 

 

8. Dello yogi che trova la propria soddisfazione nella conoscenza perfetta[271] [del Brahman], e che, imperturbabile e padrone dei sensi, non vede differenza fra la zolla di terra, la pietra e l'oro, si dice che è unito[272] [al Sé, al Brahman].

 

9. Eccelle colui la cui intelligenza rimane imperturbabile[273] davanti all'amico benevolente, al nemico, all'indifferente, a colui che odia, allo straniero o a quelli che gli sono vicini, al peccatore e al santo.

 

L'Akshara, il Sé superiore, si tiene sopra i cambiamenti e le perturbazioni dell'essere sottomesso alla natura; si può anche dire che lo yogi è in unione col Sé quando come Lui rimane imperturbabile e superiore a tutte le apparenze e a tutti i cambiamenti e quando, pienamente soddisfatto della conoscenza di sé, osserva con equanimità tutte le cose, tutte le circostanze e tutte le persone.

 

 

10. Che lo yogi si tenga in un luogo isolato e, solo, dominando pienamente sé stesso e i suoi pensieri[274], libero dal desiderio e dall'idea di possedere qualcosa, si dedichi costantemente all'unione [col Sé].

 

Questo yoga non è facile da ottenere, come lo stesso Arjuna suggerisce poco dopo, poiché la mente agitata può essere sempre strappata alle cime di una coscienza elevata, dall'assalto delle cose esteriori, e ricadere sotto il dominio dell'afflizione, della passione e della mancanza di equanimità (come reazione alle circostanze). Sembra che per questo motivo la Gita inserisca uno speciale procedimento di meditazione proprio del raja-yoga, disciplina pratica possente e via sicura verso la padronanza della mente e delle sue operazioni.

 

 

11. Dopo aver scelto un luogo pulito per sedersi, non troppo alto né troppo basso, lo ricopra di erba sacra[275], di una pelle di daino e di una di stoffa, una sull'altra.

 

12. Seduto sul suo seggio, la mente concentrata, l'attività dei sensi e dei pensieri[276] sotto controllo, che egli pratichi lo yoga per la propria purificazione[277].

 

13-14. La testa, il collo e il corpo eretti e immobili, gli occhi fissi sull'estremità del naso[278], senza volgersi attorno, sereno e senza paura, saldo nel voto di castità[279], che si mantenga seduto in yoga[280], con tutto l'essere mentale sotto controllo e rivolto verso di Me, e si consacri interamente a Me[281].

 

15. Lo yogi con la mente sottomessa, costantemente unito a Me, raggiunge la pace suprema del nirvana, la cui base è in Me[282] situata.

 

Una volta spenti tutti i desideri e le passioni, che alla mente non venga più permesso di esteriorizzarsi sotto forma di pensiero e che la pratica di questo yoga silenzioso e solitario sia divenuta una regola, quali relazioni possono sussistere col mondo dei contatti esteriori e delle instabili apparenze? Quali azioni si possono ancora esercitare su di esso? Senza dubbio lo yogi rimane ancora qualche tempo nel proprio corpo, ma la caverna, la foresta o la montagna sembrano essere per lui il quadro più appropriato, il solo possibile per la sua vita che continua nell'estasi del samadhi come sola gioia e sola preoccupazione.

Tuttavia, il punto finale, finché si è ancora in vita, non è un nirvana che elimini tutte le possibilità d'azione nel mondo, ogni rapporto col resto del mondo. La Gita non raccomanda la rinuncia ad ogni tipo d'azione. (Vedi i versetti seguenti.)

 

 

16. In verità lo yoga non è né per colui che mangia troppo né per colui che digiuna, e nemmeno per chi dorme troppo o veglia continuamente, o Arjuna.

 

17. Lo yoga distrugge la sofferenza di colui in cui tutto è unificato[283], si tratti del sonno o della veglia, del cibo, dell'abbandono o dell'agire.

 

Da questi versetti si comprende generalmente che tutto dev'essere regolato, fatto in giusta misura, e tale può essere effettivamente il loro significato. Ma in ogni modo, quando lo yoga è raggiunto, tutto dev'essere vukta in un altro senso: il senso che questa parola ha nella Gita. In tutte le circostanze, nella veglia e nel sonno, nel riposo o mangiando, nel giuoco o nell'azione, lo yogi sarà unito al Divino, lo yogi farà tutto nella consapevolezza che il Divino è il Sé, il Tutto che sostiene e contiene la propria vita e la propria azione.

Il desiderio e l'ego, la volontà personale e il pensiero della mente devono essere moventi solo nell'azione della Natura inferiore. Quando lo yogi ha abbandonato l'ego, è divenuto il Brahman e vive in una coscienza trascendentale e universale - diviene questa stessa coscienza -, l'azione scaturisce allora spontaneamente; si rivela una luminosa conoscenza più alta di quella mentale; un potere più potente della volontà personale compie le opere e ne riceve i frutti; l'azione personale è cessata, tutto è stato assorbito nel Brahman e assunto dal Divino (XVIII, 57).

 

 

18. Dell'uomo il cui pensiero[284], esente da desiderio, interamente sottomesso, riposa nel Sé, si dice: "Egli è in unione[285]".

 

19. Come la fiamma di una lampada riparata dal vento non oscilla, così è lo yogi che ha sottomesso la mente e che pratica l'unione[286] col Sé.

 

20. La condizione in cui la mente dominata dalla pratica dello yoga trova la quiete[287], e dove [lo yogi] contempla il Sé mediante il sé, e nel sé trova la sua gioia;

 

21. La condizione in cui lo yogi conosce la felicità suprema[288], percepita dall'intelligenza[289], liberata dalla presa dei sensi, e in cui prende stabile dimora nella verità essenziale[290] [del suo essere] per non più uscirne;

 

22. È la conquista massima che possa ottenere, nella quale una volta saldamente stabilito, non è più sconvolto dai più crudi tormenti.

 

23. Yoga è la rottura dell'unione con la sofferenza; questo yoga deve essere praticato risolutamente e senza mai abbandonarsi allo scoraggiamento.

 

Allora l'anima è soddisfatta, poiché conosce la vera e incomparabile beatitudine. Non è mediante il piacere, prerogativa della niente e dei sensi, ma in una serena felicità interiore che l'anima è protetta dalle perturbazioni mentali e non può ricadere dalla verità spirituale del suo essere.

 

 

24-25. Dopo aver rinunciato a tutti i desideri generati dalla volontà egoistica[291] e impiegando la mente per do-minare i sensi da ogni parte [affinché non si disperdano], lo yogi raggiunge a poco a poco la quiete mediante l'intelligenza sostenuta fermamente, finché la mente concentrata sul Sé non pensi più a nulla.

 

Si insiste in questo versetto sulla necessità di tranquillizzare la mente emotiva, la niente di desiderio e i sensi, che ricevono i contatti esteriori e ad essi rispondono con le reazioni emotive abituali; ma anche la mente pensante deve estinguersi nel silenzio dell'Essere esistente in sé.

 

 

26. Ogni volta che la sua mente incostante, senza stabilità, sfugge al controllo, che la freni e la sottometta al Sé.

 

27. La suprema felicità scende sullo yogi che ha calmato la sua mente e spento le sue passioni, e che, puro da ogni peccato, è divenuto il Brahman[292].

 

28. In tal modo, lo yogi che ha rifiutato il peccato e praticato costantemente l'unione [col Sé] gode facilmente la suprema felicità del contatto con Brahman.

 

29. Colui il cui sé è unito [al Sé] mediante lo yoga[293], vede il Sé presente in tutte le creature e tutte le creature nel Sé; egli vede tutto con l'occhio dell'equanimità[294].

 

30. Colui che Mi[295] vede in tutto e che vede il tutto in Me, più non può perderMi o essere da Me perduto.

 

Per lui, tutto ciò che vede è il sé, tutto è il suo sé, tutto è il Divino. Ma non corre forse il pericolo di perdere tutti i risultati di questo difficile yoga, di perdere il Sé e ricadere nella mente, se resta anche per un solo attimo nel dominio instabile dello Kshara? Non rischia di perdere il Divino per ritrovare al suo posto l'ego e la natura inferiore? No, dice la Gita, questa pace del nirvana, pur essendo ottenuta attraverso la mediazione dell'Akshara, è fondata sull'essere del Purushottama, che si stende sul mondo delle creature; il Divino, il Brahman, pur trascendendolo, abbraccia anche il mondo, ma non rimane prigioniero della propria trascendenza; si deve scorger lo in tutte le cose, vivere e agire in questa visione; tale è il frutto perfetto dello yoga. Ma perché si deve agire? Non è forse più sicuro ritirarsi nella solitudine e vivere in un samadhi interiore, gettando occasionalmente uno sguardo sul mondo, vederlo nel Brahman, nel Divino, senza però parteciparvi, senza viverci o agire in esso? Non dovrebbe essere questa la legge, la regola, il dharma di questo supremo stato spirituale? No, e ancora no! Per lo yogi che ha raggiunto la liberazione non esiste altra legge, altra regola o altro dharma che questa semplicissima: "vivere nel Divino, amare il Divino ed essere uno con tutti gli esseri". La sua libertà non è una libertà contingente, ma assoluta, esistente in sé, che non dipende dalle regole di condotta, dalle leggi di vita, o da limitazione di qualsiasi genere. Non ha più bisogno dei metodi di yoga, perché perpetua-mente in yoga.

 

 

31. Lo yogi che, fermamente stabilito nell'unità, Mi adora con amore[296] - Me che sono presente in tutti gli esseri -, vive e agisce in Me, in qualsiasi modo egli viva e agisca.

 

L'amore spiritualizzato del mondo, divenuto esperienza d'anima a partire da un'esperienza dei sensi, è fondato sull'amore verso Dio, e in quest'amore non esiste né pericolo né imperfezione. Abbiamo forse bisogno, durante molto tempo, del timore e del disgusto del mondo per svincolarci dalla Natura inferiore, quando in realtà si tratta del timore e del disgusto verso il nostro ego che si riflette sul mondo. Vedere Dio nel mondo significa nulla temere e abbracciare tutto nel suo essere; vedere il Divino in tutto significa nulla odiare e nulla respingere, ma amare Dio nel mondo e il mondo in Dio.

Tuttavia, non si dovrebbero temere o evitare le cose della Natura inferiore che lo yogi ha dovuto superare con dura lotta? No, nemmeno quelle, tutto è riunito nell'uguaglianza della visione del Sé.

 

 

32. Colui che, prendendo il Sé come punto di paragone, vede tutte le cose con equanimità, si tratti del piacere o del dolore, è considerato, o Arjuna, lo yogi supremo[297].

 

Ciò non significa ch'egli debba ricadere dalla felicità spirituale nella sofferenza del mondo, nemmeno per compassione verso l'afflizione altrui, ma osservando negli altri il giuoco degli opposti da lui stesso abbandonato e superato, vedrà tutto in sé stesso, il suo sé in tutto e Dio in tutto. Senza essere turbato o smarrito dall'apparenza delle cose, accetterà quest'apparenza solo per aiutare a guarire, per lavorare per il bene di tutti gli esseri, per condurre gli uomini alla felicità spirituale e per contribuire al progresso del mondo verso Dio; egli vivrà la vita divina per tutto il tempo che dovrà restare sulla terra. Si può veramente chiamare col nome di yogi supremo colui che può vivere così, l'amante di Dio che può scorgere tutta l'esistenza di Dio, contemplare con calma la Natura inferiore e le opere della màyà dei tre guna, agire in esse e su di esse senza turbamento e senza ricadere dai cieli e dal potere dell'unità spirituale, restando libero nell'ampiezza della visione divina, dolce, grande e luminoso nella forza della Natura divina. Lo yogi che così opera ha conquistato la creazione (V,19).

 

 

Arjuna disse:

33. Non vedo come l'agitazione [mentale] possa garanti-re a questo yoga, che Tu poggi sull'equanimità, una base molto solida, o Madhusùdana.

 

34. La mente è per sua natura agitata, o Krishna; essa è possente, turbolenta, indomabile e, come il vento, difficile da essere sottomessa.

 

Il Beato Signore disse:

35. Senza dubbio, o Guerriero dal braccio possente[298], la mente è ribelle e difficile da sottomettersi; ma con la pratica[299] e il distacco[300] essa si sottomette, o figlio di Kunti.

 

36. È certo che lo yoga è difficile da realizzare per colui che non ha raggiunto il dominio di sé; ma chi riesce a controllarsi può realizzarlo mediante sforzi ben diretti.

 

Arjuna disse:

37. Quale sarà il destino di colui che ha la fede, ma che non ha saputo avere su di sé la dovuta padronanza ed ha lasciato che la mente si smarrisse lontano dallo yoga senza raggiungere la perfezione totale[301]?

 

38. Non perisce forse come una nuvola che si lacera, o Guerriero dal braccio possente[302], respinto da una parte e dall'altra[303], instabile e smarrito lontano dal sentiero che conduce a Brahman?

 

39. Questo dubbio che è in me, o Krishna, Ti prego, dissipalo totalmente; Tu solo puoi distruggerlo.

 

II Beato Signore disse:

40. Figlio di Prithà, né in questo mondo né nell'altro esiste per lui distruzione, poiché all'uomo dal nobile agire nulla di male può accadere, o amato!

 

41. Arrivato al mondo dei giusti e avendovi dimorato per molti e molti anni, colui che nel passato era caduto dal sentiero dello yoga, rinasce in una casa pura e prospera.

 

42. O anche in una famiglia di yogi che hanno raggiunto la saggezza; è però ben difficile ottenere una simile nascita.

 

43. In questa nuova vita e condizione, recupera lo stato di unione mediante l'intelligenza[304] che gli apparteneva nella vita anteriore, e riprende così il cammino verso la totale perfezione, o Gioia dei Kuru.

 

44. Egli è trascinato irresistibilmente dalla sua pratica anteriore; e nell'ardore della sua ricerca della conoscenza supera anche la Parola rivelata[305].

 

45. Ma lo yogi che ha lottato per la perfezione attraverso numerose nascite e che, puro da ogni peccato, compie assidui sforzi, raggiunge la suprema destinazione.

 

46. Lo yogi è più grande dell'asceta[306]; si dice che sia più grande del saggio[307], più grande dell'uomo d'azione[308]. Diventa yogi, Arjuna!

 

Diventa yogi, Arjuna! - Yogi è colui che cerca e ottiene, mediante l'azione, la conoscenza, l'ascesi o qualsiasi altro mezzo, non la conoscenza e il potere spirituali o qualsiasi altra cosa che sia fine a sé stessa, ma unicamente l'unione con Dio, poiché in questa unione tutto il resto è contenuto e mediante essa portato oltre le sue naturali possibilità, sino a ricevere un significato interamente divino.

 

 

47. E di tutti gli yogi, colui che nel più profondo del suo essere si è dato a Me e Mi adora con amore[309] e fede[310], lo ritengo come l'essere che più si è unito a Me nello yoga[311].

 

La Gita, qui o altrove, presenta la bhakti come l'azione dello yoga. Si può dire, per riassumere questa parte dell'insegnamento: "Chiunque ami Dio in tutto e la cui anima riposi sull'unità divina, in qualunque modo egli viva e agisca, vive ed agisce in Dio."

Di tutti gli yogi il più grande è il bhakta. Questa è la parola finale di questi primi sei canti. Essa contiene il germe di tutto il resto, di tutto ciò che rimane ancora inespresso e che in nessun luogo si trova interamente espresso, rimanendo per sempre un mistero e un segreto - il mistero spirituale supremo e il segreto divino.


CANTO VII

[a] LE DUE NATURE

 

 

Il Beato Signore disse:

1. Ascolta, o figlio di Prithà, come, praticando lo yoga con la mente concentrata su di Me ed accettandoMi come [il solo] sostegno, senza il minimo dubbio tu Mi conoscerai integralmente.

 

2. Ti esporrò la conoscenza integrale[312], senza nulla omettere; quando avrai conosciuto questa sapienza, null'altro ti rimarrà da conoscere in questo mondo.

 

L'Essere divino è tutto, vasudevah sarvam (VII, 19); di conseguenza, se si conoscono integralmente tutti i suoi poteri e tutti i suoi principi, tutto è conosciuto, non soltanto il puro Sé, ma anche il mondo, l'azione e la Natura. Non rimane più nulla da conoscere su questa terra perché tutto è la sua divina Esistenza. Percepiamo le cose in un modo ignorante perché la nostra visione non è integrale, perché riposa sulla mente e sulla ragione che dividono, e sull'idea separativa dell'ego. Dobbiamo sbarazzarci di questa visione mentale egoistica Per raggiungere i due aspetti della vera conoscenza unificatrice: l'essenziale, jnana, e il comprensivo, vijnana, il diretto risvegliarsi spirituale verso l'Essere supremo e la conoscenza intima e corretta dei principi della sua esistenza - Prakriti e Purusha; l'insieme di questi due aspetti ci permette di conoscere tutto ciò che è contenuto nella sua origine divina e nella suprema verità della sua natura. Questa conoscenza integrale, dice la Gita, è cosa rara e difficile.

 

 

3. Fra migliaia di uomini, [appena] uno solo tenta di raggiungere la perfezione e, fra coloro che la raggiungono, [appena] uno solo riesce a conoscerMi nei Miei principi.

 

4. Terra, acqua, fuoco, aria, etere[313], mente[314], intelligenza[315], ego[316], sono le otto divisioni della Mia natura[317].

 

Per incominciare e per dare un fondamento a questa conoscenza integrale, la Gita stabilisce la profonda e capitale distinzione che sta alla base di ogni yoga, la distinzione fra le due Nature: la Natura fenomenica e la Natura spirituale. È la prima nuova idea metafisica della Gita, quella che l'aiuta a utilizzare le nozioni della filosofia Sànkhya, per poi superarle e dare ai loro termini, che però mantiene e rende più ampi, un senso vedantino. Una Natura in otto parti è la descrizione sankhyana di Prakriti. Il Sànkhya non va oltre, e siccome non va oltre, si vede costretto a stabilire una divisione insuperabile fra l'Anima e la Natura, dovendo enunciarle come due entità primordiali completamente distinte. Anche la Gita, se si arrestasse qui, dovrebbe creare l'antinomia incurabile fra il Sé e la Natura cosmica; quest'ultima si limiterebbe allora alla maya dei tre guna, e tutta l'esistenza cosmica non sarebbe che il semplice risultato di questa maya; non potrebbe essere altra cosa. Esiste invece qualcosa d'altro, un principio più elevato, una Natura dello Spirito.

 

 

5. Quella è [la Mia Natura] inferiore[318]: sappi però che esiste l'altra Mia Natura suprema[319], che diviene l'anima individuale[320] e sostiene il mondo, o Guerriero dal braccio possente.

 

Si tratta del Purushottama, dell'Essere supremo, dell'Anima suprema, dello Spirito trascendente e universale. Paraprakriti designa l'eterna Natura originale dello Spirito e la sua Shakti trascendentale e creatrice. Parlando dell'origine del mondo, vista dalla forza attiva della sua natura, Krishna afferma: "... è la matrice di tutti gli esseri" (VII, 6), e continua ad esporre lo stesso fatto secondo il punto di vista dell'anima creatrice: "Io sono l'origine di questo universo e anche la sua dissoluzione; al di là di Me non vi è nulla di supremo..."

La suprema Natura, Paràprakriti, è quindi il potere cosciente, infinito e fuori del tempo dell'Essere esistente in sé, e tutti gli esseri del cosmo, che escono dall'eternità (assenza di tempo) per entrare nel tempo, ne sono la manifestazione. Per assicurare nel cosmo una base spirituale a questo divenire universale e innumerevole, la Natura suprema prende la forma del jiva. In altri termini, la molteplice ed eterna Anima del Purushottama appare come un'individuale esistenza spirituale in ognuna delle forme del cosmo. Tutti gli esseri ne sono penetrati tramite la vita dello Spirito unico e indivisibile; tutti sono sostenuti nella loro personalità, nella loro azione e nella loro forma dall'eterna molteplicità del Purusha unico. Dobbiamo fare attenzione a non commettere l'errore d'identificare questa suprema Natura con il jiva manifestato nel tempo, in questo senso: che non debba esserci nulla all'infuori di lui o che questa Natura sia solo la natura di un divenire e non la natura dell'essere. La suprema Natura dello Spirito non potrebbe essere così costituita. Anche nel tempo essa rappresenta qualcosa di più; altrimenti, nel cosmo, la sola verità sarebbe una natura molteplice e nel mondo non potrebbe esistere natura di unità. Non sarebbe ciò che la Gita afferma; essa non dice che la suprema Prakriti è nella sua essenza il jiva, ma che è divenuta il jiva, e questa espressione sta a indicare che dietro la sua manifestazione come jiva vi è originalmente qualcosa d'altro e di superiore: la Natura del supremo e unico Spirito. Il jiva, come vedremo più avanti (XV, 8), è il Signore, l'Ishvara, manifestato solo in parte. Gli esseri, anche nella loro totale molteplicità, non possono, nel loro divenire, costituire il Divino integrale in questo universo o negli innumerevoli altri universi; solo giungono a manifestare una parte dell'Uno infinito. Brahman, l'unica Esistenza in-divisibile, risiede in essi come se Egli fosse diviso. L'unità è la più grande verità, la molteplicità la verità minore, pur rimanendo tutte e due una verità e nessuna di esse un'illusione.

 

 

6. Comprendi che essa è la matrice di tutti gli esseri[321]; [grazie ad essa] Io sono l'origine[322] dell'intero universo e anche la sua dissoluzione[323].

 

In questo caso, l'Anima superiore, Purushottama, e la suprema Natura, Paraprakriti, si compenetrano, divengono una sola e stessa realtà. In effetti, quando Krishna dichiara: "Io sono l'origine e la dissoluzione di quest'universo", appare evidente che si tratta di Paràprakriti, la Natura suprema del suo essere, che rappresenta le due cose simultaneamente. Lo Spirito è l'Essere supremo nella sua infinita coscienza, e la Natura suprema è l'infinita forza o volontà d'essere dello Spirito - la stessa coscienza infinita sotto l'aspetto di divina energia e di divina azione sovrannaturale. L'origine è il movimento di evoluzione di questa Energia cosciente emanata dallo Spirito, la sua attività nel mutevole universo; la dissoluzione è il richiamo di quest'attività mediante il ritorno dell'Energia in seno all'esistenza immutabile dello Spirito.

Mediante l'unità di questa Natura spirituale il mondo è sostenuto e da essa è nato con tutti i suoi divenire, ed essa ancora, nell'ora della dissoluzione, attira a sé l'intero universo con tutte le sue creature. Ma alla base di quest'azione dello Spirito, del suo manifestarsi e del suo ritirarsi nei periodi di riposo, vi è il jiva, base dell'esistenza molteplice. Si può dire che egli sia l'anima molteplice, o l'anima della molteplicità di cui abbiamo l'esperienza in questo mondo. Il suo essere sempre unito al Divino, non differisce da Lui che nell'aspetto di potere, in quanto il jiva non è che il sostegno di una parte dell'azione del Potere unico, individualizzato nel numero.

 

 

7. Nulla esiste che sia a Me superiore, o Conquistatore di tesori; tutto ciò è a Me unito come una collana di perle al suo filo.

 

È la Natura suprema dello Spirito, il Potere cosciente e infinito del suo essere, cosciente di sé, cosciente di tutto, che possiede tutta la saggezza, che mantiene i fenomeni in rapporto gli uni con gli altri, che li penetra, che dimora in essi e che serve loro di base e li inserisce nel sistema della propria manifestazione. Questo unico e supremo Potere si manifesta in tutti, non solamente come l'Unico, ma come il jiva, “la presenza spirituale”; esso si manifesta anche come essenza di tutte le qualità nella Natura. Questa suprema qualità non è il giuoco dei tre guna che si limita ad essere un fenomeno della qualità e non la sua spirituale essenza. È piuttosto la forza interiore, unica e tuttavia variabile, inerente a tutte le variazioni superficiali. Essa è una verità fondamentale del Divenire, una verità che ne sostiene le apparenze o concede loro un significato spirituale e divino. Le operazioni dei guna sono solo i divenire superficiali e instabili della ragione, della mente, dei sensi, dell'ego, della vita e della materia; questa qualità suprema è piuttosto il potere essenziale, stabile, originale, intimo in ogni divenire - svabhàva. Questo svabhàva determina la legge di ogni divenire e di ogni jiva; esso costituisce l'essenza della loro natura e ne sviluppa i movimenti. In ogni crea-tura è il principio che deriva da un divino e trascendente Divenire e che a lui si ricongiunge immediatamente.

Se l'anima, jiva, impegnata quaggiù nel povero, inferiore e limitato giuoco delle qualità fenomeniche, vuole sfuggirvi, se vuoi essere divina e perfetta, deve ricorrere alla pura azione della qualità essenziale del suo svabhàva e ritornare alla legge più alta del proprio essere in cui scoprirà la volontà, la forza, il principio dinamico e il giuoco supremo della sua natura divina.

 

 

8. Io sono il sapore nelle acque[324], o figlio di Kunti, sono la luce della luna e del sole, la sillaba AUM[325] in tutti i Veda. Io sono il suono nell'etere e la virilità nell'uomo.

 

(In questo versetto e nei versetti seguenti) la Gita fornisce numerosi esempi che dimostrano come il Divino, mediante il potere della sua suprema Natura, si manifesti ed agisca dall'interno degli esseri animati e di quelli cosiddetti inanimati.

Secondo un punto di vista materiale, la materia è la realtà, e le relazioni sensorie un suo derivato; ma dal punto di vista spirituale la verità risiede esattamente nel contrario. La materia e tutto ciò che è materiale rappresentano forze derivate e, in fondo, solo vie o condizioni concrete, mediante le quali il giuoco della "qualità della natura" nelle cose si manifesta alla coscienza sensoria del jiva. Il solo fatto originale ed eterno è rappresentato dall'energia della Natura, ossia dal potere e dalla qualità d'essere che ha in tal modo la possibilità di manifestarsi attraverso i sensi... "Io sono," dice Krishna, "la luce del sole e della luna, la virilità dell'uomo, l'intelligenza dell'intelligente, l'energia dell'energico, la forza del forte, l'ascesi dell'asceta" (vedi versetti che seguono). In ogni caso, ciò che viene dato come segno caratteristico per rivelare la presenza divina nella Natura, è l'energia della qualità essenziale, da cui ogni divenire dipende per produrre i risultati che ha prodotto.

Krishna dice ugualmente: "In tutti i Veda io sono la sillaba AUM", ossia la base di tutti i suoni dotati del potere creatore del Verbo rivelato. 'AUM' è la forma universale unica d'energia del suono e della parola (shabda e vak), quella che contiene e riassume, sintetizza e libera tutto il potere e il potenziale spirituale del suono e della parola; tutti gli altri suoni, che servono a tessere le parole del linguaggio, sono considerati come sviluppi evolutivi. Tutto è dunque chiaro. Non sono gli sviluppi fenomenici dei sensi, della vita, della luce, dell'intelligenza, dell'energia, del potere, della virilità, della forza ascetica che appartengono in proprio alla suprema Prakriti, ma la qualità essenziale, nel suo potere spiri-male - lo svabhava. La forza dello spirito così manifestato, la luce della sua coscienza e il potere della sua energia in ogni cosa, rivelati da un segno puro e originale, costituiscono la natura propria (di quella cosa). Questa forza, questa luce, questo potere formano l'eterno germe di cui tutti gli altri fenomeni ne sono gli sviluppi, i derivati, le variazioni e le circostanze plastiche. Ecco perché la Gita dà come enunciato generale (VII, 10): "Sappi che Io sono l'eterno seme di tutti gli esseri, o Figlio di Prithà." Questo seme eterno è il potere dell'essere spirituale, la volontà cosciente nell'essere, il seme che il Divino (XIV, 4) getta nel grande Brahman, nell'immensità supermentale, ed è da questa semenza che gli esseri nascono all' esistenza. Questo seme spirituale si manifesta mediante la qualità essenziale del divenire e ne costituisce lo svabhadva.

 

 

9. Io sono il puro profumo della terra, la risplendente energia del fuoco; in tutti gli esseri[326] Io sono la vita e negli asceti[327] l'austerità[328].

 

10. Sappi che sono l'eterno seme[329] di tutti gli esseri, o figlio di Prithà; Io sono l'intelligenza dell'intelligente, l'eroismo[330] dell'eroe.

 

Vedere la parte finale del commento al versetto 8.

 

11. Sono la forza del forte, libera dal desiderio e dalla passione; e negli esseri sono il desiderio che non è contrario al dharma, o Migliore fra i Bharata.

 

La distinzione pratica fra il potere originale della qualità essenziale (svabhava) e i derivati fenomenici della Natura inferiore, fra la cosa stessa nella sua purezza e la cosa nelle sue apparenze esteriori, viene qui chiaramente indicata.

Come è possibile che il Divino possa essere il desiderio, kama, quando il desiderio è stato denunciato come il nemico pericoloso che dobbiamo abbattere? Ma quello è il desiderio appartenente alla Natura inferiore dei guna, desiderio la cui origine risiede nell'essere rajasico; è ciò che generalmente intendiamo per 'desiderio'. L'altro desiderio, quello spirituale, è una volontà non contraria al dharma. Il dharma, nel senso spirituale, non è la moralità o l'etica. Il dharrna, dice la Gita (XVIII, 47-48), è l'azione diretta da svabhàva, e quindi la legge essenziale di ogni natura. Lo svabhàva è nella sua essenza la pura qualità dello spirito con l'inerente potere di volontà cosciente e la sua forza caratteristica di azione. Il desiderio di cui si parla qui è di conseguenza la volontà divina, consapevole dello scopo che vuoi raggiungere, che cerca e scopre in noi, non il piacere della Prakriti inferiore, ma l'Ananda del proprio giuoco e del proprio compimento; è il desiderio delle divine delizie di esistenza che spiega la sua forza cosciente d'azione in accordo con la legge dello svabhàva.

 

 

12. Sappi che sono l'origine dei divenire[331], siano questi sattvici, rajasici o tamasici; in verità Io non sono in essi ma essi sono in Me.

 

In che modo si deve capire che il Divino non è nei divenire, nelle forme e negli attributi della Natura inferiore, quando essi stessi sono nell'essere del Divino? In un certo senso, Egli deve essere evidente-mente in essi, altrimenti non potrebbero esistere. Ma, ed è questa l'idea che la Gita vuole esprimere, la vera Natura spirituale del Divino, la Natura suprema, non è loro prigioniera; essi sono i fenomeni del suo essere, creati dall'azione dell'ego e dell'ignoranza. L'ignoranza ci presenta, almeno in parte, ogni cosa sotto una visione rovesciata e un'esperienza falsificata. Immaginiamo l'anima nel corpo come il risultato e il derivato del corpo - ed è così che la sentiamo; ma il corpo è nell'anima, il corpo è un risultato e un derivato dell'anima. Noi consideriamo lo spirito come una piccola parte - il Purusha "non più grande del pollice" (Katha Upanishad, II, 1, 12) - nell'enorme massa di fenomeni materiali e mentali che ci costituisce; in realtà questa massa, malgrado la sua imponente apparenza, non è che una cosa insignificante nell'infinità d'essere dello spirito. Anche in questo caso, queste cose sono nel Divino più che il Divino in esse.

 

 

13. Il mondo è tratto in inganno[332] da queste condizioni del divenire[333] composte dai guna, e non riconosce Me che sono ad essi superiore e imperituro.

 

È maya, la Natura inferiore dei tre guna, che crea una falsa idea delle cose e conferisce loro un carattere inferiore, è la forza d'illusione che devia la nostra conoscenza, crea falsi valori, ci avvolge nell'ego, nella mente, nei sensi, nell'essere fisico, nell'intelligenza limitata e ci nasconde la suprema verità della nostra esistenza. Questa ingannevole maya ci vela il Divino che siamo, lo spirito infinito e imperituro. Se potessimo vedere che il Divino è la vera verità della nostra esistenza, tutto cambierebbe nella nostra visione, tutto rivestirebbe il vero carattere, la nostra vita e la nostra azione acquisterebbero valori divini e i loro movimenti seguirebbero la legge della Natura divina.

 

 

14. Questa Mia divina maya[334], composta dai guna, è difficile da essere attraversata; vi riescono solo coloro che cercano rifugio in Me.

 

Questa (maya) è essa stessa divina, è lo sviluppo della Natura del Divino, ma del Divino sotto forma degli dèi; essa è daivi, "degli dèi", o se si preferisce della Divinità, ma della Divinità sotto il suo aspetto diviso e soggettivo, sotto il suo aspetto cosmico inferiore, sattvico, rajasico e tamasico. 1; un velo cosmico che la Divinità ha tessuto intorno al nostro intendimento; Brahmà, Vishnu e Rudra (Shiva) ne hanno teso i fili complessi; la Shakti, la Natura suprema, celata dappertutto nella trama, ne è la base. Bisogna che questa tela venga elaborata e terminata in noi, per volgerci poi - attraverso o fuori di essa, abbandonandola dietro di noi come un oggetto senza utilità - non più verso gli dèi, ma verso la Divinità suprema e primigenia, in cui scopriremo l'ultimo significato degli dèi e delle loro opere, e le verità spirituali più profonde della nostra esistenza imperitura.

 


 

[b] LA SINTESI DELLA DEVOZIONE E DELLA CONOSCENZA

 

 

Dopo averci dato nei primi quattordici versetti di questo canto una verità filosofica importante, la Gita ne dà, nei sedici restanti, l'immediata applicazione. Essa se ne serve come punto di partenza per unire la conoscenza alla devozione - la sintesi preliminare delle opere e della conoscenza è già stata fatta nei canti precedenti.

 

 

15. Coloro che fanno il male, smarriti come uomini fra i più vili, non pervengono a Me; la facoltà di conoscenza che posseggono è rapita da mayà[335] e prendono la natura dell'asura[336].

 

Questo smarrimento è il risultato di una frode all'anima fatta dall'ego ingannatore. Chi fa il male non può raggiungere il Supremo perché il suo desiderio è di soddisfare, al livello più basso della natura umana, l'idolo rappresentato dall'ego; l'ego è il suo vero Dio. La mente e la volontà che si precipitano nell'attività della mayà dei tre guna non sono lo strumento dello spirito, ma le schiave volontarie o le vittime consenzienti dei loro desideri.

La Gita, fin dall'inizio, ha affermato che la condizione fondamentale per la nascita nell'esistenza divina superiore è la distruzione del desiderio rajasico e della sua progenie. Il peccato non è altro che l'azione della natura inferiore che cerca di soddisfare in modo grossolano le proprie tendenze ignoranti, inerti o violente, tamasiche o rajasiche, in un gesto di ribellione contro il dominio superiore dello spirito sulla natura.

Per sbarazzarci del dominio di uno dei modi più bassi della Prakriti inferiore, bisogna appoggiarsi all'aspetto più elevato di questa stessa Prakriti, al modo sattvico, sempre alla ricerca di un'armoniosa luce di conoscenza e di una giusta regola d'azione. Il Purusha, l'anima in noi che dà il consenso all'impulso mutevole dei guna, deve approvare e sostenere quest'impulso sattvico, questa volontà e questo temperamento sattvici che si muovono nel nostro essere alla ricerca di più elevati valori. La direzione dell'essere deve affidarsi alla volontà sattvica e non tanto a quella tamasica e rajasica. il senso che ha l'intervento nelle azioni di una ragione superiore e il significato di una vera cultura etica; è la legge della natura in noi che tenta di evolvere da un'azione inferiore e disordinata a una superiore e ordinata, non nella passione e nell'ignoranza, aventi come conseguenza il dolore e l'inquietudine, ma nella conoscenza e nella volontà che hanno come risultato la felicità, la pace e l'equilibrio interiori. Non possiamo andare oltre i tre guna senza prima esserci assicurati il dominio del guna più elevato, sattva.

L'uomo deve quindi divenire morale, sukriti, per poi elevarsi alle altezze che superano ogni regola di vita puramente etica ed entrare nella luce. nell'ampiezza e nel potere della natura spirituale, in cui può sfuggire alla pressione degli opposti e al loro potere d'illusione (VII, 27). Lì non è più alla ricerca del bene e del piacere personali, e neppure tenta di sfuggire alla sofferenza e alla pena personali, in quanto queste cose non Io toccano più. Non dice più "io sono virtuoso", "io sono peccatore", ma agisce secondo la propria natura spirituale, per volontà divina e per il bene universale.

Abbiamo visto che la conoscenza di sé, l'equanimità, l'impersonalità, sono le prime condizioni richieste, che una volta ottenute garantiscono la conciliazione della conoscenza con le opere, della spiritualità con l'attività nel mondo, del quietismo eternamente immobile del Sé fuori del tempo con l'eterno giuoco dell'energia prammatica nella Natura. Ma la Gita pone una nuova e più grande condizione al karmayogi che ha unito lo yoga delle opere a quello della conoscenza. Non solo gli viene richiesto lo yoga della conoscenza e quello delle opere, ma anche quello della bhakti, della devozione al Divino, dell'amore, dell'adorazione, dell'aspirazione dell'anima per il Supremo.

 

 

16. [Ma] quattro specie di uomini di bene[337] vengono a Me con devozione[338], o Arjuna: colui che soffre, colui che ricerca la prosperità, colui che ricerca la conoscenza e colui che ha la conoscenza[339], o migliore fra i Bharata.

 

Si può dire che queste quattro forme di bhakti rappresentano, nell' ordine indicato, la bhakti della natura vitale, emotiva e affettiva, quella della natura pratica e dinamica, quella della natura intellettuale che ragiona e quella dell'essere intuitivo più alto che riunisce tutto il resto della natura nell'unità con il Divino. Tuttavia si possono considerare le prime tre specie come movimenti preparatori.

 

 

17. Supera quelli, il saggio[340] costantemente unito [al Divino] mediante una devozione senza divisioni; in verità egli sommamente Mi ama ed è da Me amato.

 

Questa devozione unica è la sola legge della sua vita; egli è andato oltre le credenze religiose, oltre le regole di condotta o gli scopi personali della vita. Non ha afflizioni da guarire perché in possesso di Colui che è tutta felicità, non deve soddisfare desideri in quanto possiede il Supremo e il Tutto, e a lui è vicina l'Onnipotenza apportatrice di ogni compimento. Per lui non esiste né dubbio né vana ricerca poiché tutta la Luce nella quale vive lo riempie di conoscenza. Egli ama perfettamente il Divino e da Lui è amato, poiché, come egli trova la Gioia nel Divino, Questi la trova in lui. Questo è l'amante di Dio, che possiede la conoscenza, jnàni bhakta.

 

 

18. Sono tutti nobili, senza eccezioni, ma colui che ha la saggezza[341] è Me medesimo, in quanto con l'anima unita [a Me, il Divino] Mi accetta come supremo scopo.

 

19. Dopo numerose vite, colui che possiede la conoscenza[342] viene a Me. Però molto rara è la grande anima[343] che sa che Vàsudeva è tutto ciò che esiste[344].

 

La Gita dice che solo dopo aver avuto la conoscenza integrale (VII, 2) e averla vissuta durante numerose vite, si può raggiungere il Trascendente. La conoscenza del Divino come tutto ciò che è, è difficile da ottenere, e rara è sulla terra la grande anima, mahàtma, capace di vederLo come tale, di entrare in Lui, in tutto il suo essere e in ognuno degli aspetti della sua natura, mediante la grande forza della conoscenza che tutto abbraccia.

"Colui che ha la conoscenza, dice la Divinità nella Gita, è Me medesimo." Gli altri afferrano solo motivi o aspetti della Natura; ma egli coglie il senso dell'essere vero e totale del Purushottama, a cui si trova unito. La nascita divina nella Natura suprema gli appartiene, integrale nell'essere, completa in volontà, assoluta nell' amore, perfetta nella conoscenza. In lui l'esistenza cosmica del jiva è giustificata perché egli ha superato sé stesso e ha trovato la suprema e completa verità del suo essere.

 

 

20. Coloro la cui conoscenza è stata presa da questo o quel desiderio, si dirigono verso altri dèi[345], osservando gli uni un rito e gli altri un rito diverso, secondo la tendenza delle loro nature.

 

21- Qualunque sia la forma[346] che un devoto[347] pieno di fede desidera adorare, la sua fede Io rendo salda e immutabile.

 

22. Pieno di fede, egli rende il culto a quella forma e ottiene da essa [l'adempimento dei] suoi desideri, ma in verità sono Io che concedo questi benefici.

 

23. Ma sono effimeri i frutti che ottengono questi esseri di scarsa intelligenza; coloro che sacrificano agli dèi vanno agli dèi, i Miei devoti vengono a Me.

 

I limiti di questa realizzazione spirituale sono gli dèi. (Coloro che si dirigono agli dei) divengono coscienti del Divino nelle forme della mutevole Natura e lo riconoscono come il dispensatore dei frutti che appartengono a questa Natura. Ma coloro che adorano la Divinità integrale e trascendente abbracciano tutto ciò e, trasformandolo, esaltano gli dèi sino al loro massimo e la Natura sino alle proprie sommità; essi vanno oltre la stessa Divinità, raggiungono la trascendenza e conoscono la sua realtà.

Tuttavia la Divinità suprema non rifiuta questi adoratori a causa del loro imperfetto modo di vedere. Il Divino, trascendente e su-premo, non nato, immutabile e superiore a tutte queste manifestazioni parziali, non può essere facilmente conosciuto dalle creature viventi.

 

 

24. Gli uomini privi d'intelligenza pensano che Io, il Non-manifestato[348], sia limitato dalla Mia stessa manifestazione[349]; essi ignorano la Mia natura suprema[350], imperitura e perfetta.

 

25. Celato dalla mia stessa forza creatrice[351], non a tutti sono manifesto, questo mondo illuso e smarrito non conosce Me, il Non-nato e l'Imperituro.

 

Il Divino si è avvolto nell'immenso mantello della sua maya, la maya del suo yoga, per cui Egli è uno col mondo e tuttavia oltre il mondo, immanente ma nascosto, stabilito in tutti i cuori, ma non a tutti rivelato. L'uomo immerso nella Natura pensa che queste (forme divine), manifestazioni (del Divino) nella Natura, costituiscano tutto il Divino, mentre non sono che le sue opere, la sua forza e i suoi veli.

Se il Divino, dopo aver smarrito gli uomini nel giuoco delle sue manifestazioni nella Natura, non dovesse più ritrovarli, non vi sarebbe speranza divina per nessun essere umano, per nessun'anima immersa nella maya. Per questo, quando l'uomo si avvicina a Lui secondo la sua natura, Egli accerta la bhakti e vi risponde mediante la compassione e l'amore divino. Queste forme (divine) non sono altro che una specie di manifestazione attraverso cui l'imperfetta intelligenza umana può toccare il divino; questi desideri, (queste preghiere,) sono i primi mezzi che le anime impiegano per rivolgersi a Lui. Nessuna devozione è inefficace e senza valore, qualunque siano le limitazioni; una sola cosa è importante: la fede. "Qualunque sia la forma (di Me) che un devoto pieno di fede desidera adorare, faccio in modo che questa fede sia salda e senza debolezze." Mediante la forza di questa fede infusa nel culto e nell'adorazione, l'adoratore ottiene la realizzazione spirituale di cui è capace in quel momento. Tutto aspettandosi dal Divino, finirà per tutto ricercare nel Divino. Dipendendo dal Divino per le sue gioie, imparerà a fissare in Lui tutta la sua gioia. ConoscendoLo nelle sue forme e qualità, arriverà a conoscere che è il Tutto, il Trascendente e l'origine di tutto. In tal modo, mediante uno sviluppo spirituale (progressivo), la devozione si unirà alla conoscenza.

 

 

26. O Arjuna, Io conosco gli esseri che sono passati, gli esseri presenti e quelli che saranno, ma non c'è nessuno che conosca Me.

 

27. Turbate dagli opposti[352] che generano il desiderio e la ripulsione, o Bhàrata, tutte le creature di questo mondo sono immerse nell'illusione, o Parantapa.

 

Questa ignorante illusione è l'egoismo che non riesce né a vedere ne a comprendere il Divino ovunque, perché non vede nella Natura che le coppie degli opposti; è continuamente preoccupato dalla propria personalità separata e da ciò che a lui piace o non piace. Per uscire da quel circolo vizioso, la prima cosa da farsi nell'azione è sbarazzarsi del peccato dell'ego vitale, del fuoco della passione, del desiderio tumultuoso della natura rajasica, e per far ciò bisogna appoggiarsi all'impulso sattvico e stabilizzatore dell'essere etico.

 

 

28. Ma gli uomini dalle azioni pure[353], che hanno abbandonato il peccato[354], liberi dal turbamento degli opposti[355], adorano Me con devozione, fedeli al loro voto [di consacrazione].

 

Quando ciò sia fatto, o piuttosto mentre ciò si sta facendo - in quanto a partire da un certo momento ogni crescita della natura sattvica si accompagna a una crescente capacità di alta quiete, di equanimità e di trascendenza -, diviene necessario elevarsi sopra gli opposti e divenire impersonale, imparziale, uno con l'Immutabile, uno con tutte le creature. Questo processo di crescita nello Spirito completa la nostra purificazione.

Mentre ciò si sta compiendo, mentre l'anima si allarga nella conoscenza di sé, bisogna crescere in devozione. Essa deve non solo agire con un ampio spirito di equanimità, ma anche sacrificare al Signore, a questa Divinità in tutti gli esseri che essa non conosce ancora perfettamente, ma che diverrà capace di conoscere integralmente quando avrà la ferma visione del Sé unico dappertutto o in tutto. Una volta che l'equanimità e la visione dell'unità siano perfettamente raggiunte, una devozione integrale per il Divino diviene la legge totale e unica dell'essere. Ogni regola di condotta si fonda su quest'abbandono. L'anima si afferma allora nella bhakti e nel voto di consacrazione di tutto il suo essere, di tutta la sua conoscenza, di tutte le sue opere, in quanto possiede adesso, come base sicura, come fondamento della propria esistenza e azione, la conoscenza perfetta, integrale e unificatrice della Divinità che tutto crea.

 

 

29. Coloro che hanno preso rifugio in Me e si sforzano di raggiungere la liberazione dalla vecchiaia e dalla morte, pervengono alla conoscenza del Brahman[356], dell'integralità del principio del Sé[357], e a quella di tutta l'azione[358].

 

Una conoscenza integrale è la condizione che permette al dono di sé di divenire efficace. È la ragione per cui dobbiamo dapprima conoscere tutti i poteri e tutti i principi della divina esistenza del Purusha, della sua completa armonia, dell'essenza eterna e del pro-cesso vivente di questa divina esistenza, Ma per l'antico pensiero, tutti i valori di questa conoscenza, tattva-jnana (la conoscenza dei principi), risiedono nel potere di poterci liberare dalla nascita mortale per farci entrare nell'immortalità dell'esistenza suprema. In tal modo la Gita continua mostrandoci che questa liberazione raggiunge, al suo vertice, il risultato ultimo del moto per il compimento spirituale di sé. La conoscenza del Purushottama, dice la Gita, è la conoscenza perfetta del Brahman.

 

 

30. Coloro che Mi conoscono e [che conoscono] contemporaneamente i principi di questi divenire[359] [materiali], il principio degli dèi[360] e quello del sacrificio[361], Mi conoscono anche nel momento di lasciare questo mondo e [anche in quel momento] la loro coscienza[362] è unita a Me.

 

"Per questo vengono a Me." Non più incatenati dall'esistenza mortale, raggiungono effettivamente lo stato supremo del Divino, come coloro che immergono la loro personalità nel Brahman impersonale e immutabile. Con queste parole la Gita chiude questo canto così importante e decisivo.


CANTO VIII

IL SUPREMO DIVINO

 

 

Gli ultimi due versetti del canto precedente contengono espressioni che ci descrivono sommariamente i principi essenziali della manifestazione del Supremo nel cosmo. In essi sono rappresentati tutti gli aspetti effettivamente creatori e tutto ciò che interessa all'anima nel momento del suo ritorno alla conoscenza integrale. Viene dapprima tad-brahman, “quel Brahman”; poi adhyatma, il principio del Sé nella natura; adhibhuta e adhidaiva, il fenomeno oggettivo e quello soggettivo dell'essere; e infine adhiyajna, il segreto del principio cosmico nelle opere e nel sacrificio. Questi termini non sono chiari o si prestano a interpretazioni diverse; bisogna che l'accezione ne sia precisata e Arjuna, il discepolo, ne chiede subito la spiegazione.

 

Arjuna disse:

1. Che cos'è il Brahman? che cos'è il principio del Sé? che cos'è l'azione, o Purushottama[363]? Che cosa si deve intendere per principio del divenire e per principio degli dèi?

 

2. Cosa costituisce il sacrificio supremo in questo corpo, o Madhusudana[364]? In che modo possono conoscerTi nel momento in cui abbandonano [il corpo] coloro che hanno acquisito il dominio su sé stessi?

 

Il Beato Signore disse:

3. [Quel] Brahman è l'Immutabile supremo[365]. Il principio del Sé[366] è la natura propria[367] [dell'anima individuale], e karma è [qui] il nome dato all'impulso creatore[368] che richiama all'esistenza la natura del divenire[369].

 

Krishna risponde molto brevemente. La Gita non si dilunga mai in spiegazioni puramente metafisiche; essa dà esattamente quello che ci vuole e nel modo più appropriato affinché l'anima possa afferrare la verità e passare all'esperienza.

Per “quel Brahman” - espressione assai impiegata dalle Upanishad per designare l'esser esistente in sé, in opposizione all'essere fenomenico[370] - la Gita sembra voglia alludere all'immutabile esistente in sé, aksharam paramam, suprema espressione del Divino, e all'inalterabile unità su cui è fondato tutto ciò che si muove ed evolve. Per adhyåtma essa intende lo svabhava, la via e la legge d'essere spirituali dell'anima nella natura divina. Karma, dice la Gita, è il nome dato all'impulso creatore, visarga, all'energia che proietta le cose fuori dal primo essenziale divenire, lo svabhava, e che sotto il suo influsso effettua, crea, sviluppa in Prakriti il divenire cosmico degli esseri.

 

 

4. La natura mutevole[371] è il principio dei divenire [materiali][372], il principio degli dèi[373] è il Purusha. Io sono il principio del sacrificio[374] nel corpo [degli esseri incarnati], o Migliore[375] degli esseri incarnati.

 

Per adhibhúta si deve intendere l'intero risultato del divenire mutevole, ksharo badvah. Adhidaiva significa il Purusha, l'anima nella Natura, l'essere soggettivo che situa davanti alla propria coscienza, per osservarlo e gioirne, tutto questo mutevole divenire della sua esistenza che il karma elabora qui nella Natura. Per adhiyajna, il Signore delle opere e del sacrificio, dice Krishna, intendo Me stesso, il Divino, la Divinità, il Purushottama che risiede segretamente in tutti gli esseri incarnati. Questa formula comprende tutto ciò che esiste.

 

 

5. Colui che nel momento della sua fine ha la mente a Me solo rivolta e in tal modo abbandona il corpo, viene alla Mia natura[376] [divina], senza, a questo proposito, dubbio alcuno.

 

6. Ma chiunque al momento della fine abbandona il corpo con la mente fissata su qualche modo d'essere, egli raggiunge, o figlio di Kunti, il modo che ha influito su di lui durante tutta la vita fisica.

 

L'uomo che nasce sulla terra si muove fra mondo e mondo spinto dall'azione della Prakriti e del karma. "Purusha in Prakriti" è la formula: diviene ciò che l'anima in lui pensa, contempla e adempie. Tutto ciò che è stato ha determinato la presente nascita; e tutto ciò che è, pensa e fa in questa vita, determina ciò che diverrà nei mondi dell'al di là e nelle vite future. Se la nascita è un divenire, la morte è anche un divenire e in nessun modo una cessazione. Il corpo e abbandonato, ma l'anima prosegue la sua strada.

È quindi molto grande l'importanza che assume la condizione in cui si trova l'uomo nel momento critico della partenza. Ciò che possiede tale potere di salvezza non è però un ricordo evocato negli ultimi istanti sul letto di morte, contrario a tutto il corso della vita e alla sua natura soggettiva passata o, in ogni caso, senza una sufficiente preparazione. Il pensiero della Gita non ha qui nulla che assomigli alle indulgenze e alle facilità concesse dalla religione popolare; esso non ha nulla in comune con le immaginazioni semplicistiche che fanno dell'assoluzione e dell'estrema unzione amministrate dal prete la condizione sufficiente per un'edificante morte cristiana alla fine di una vita tutt'altro che edificante, o che fanno di una morte avvenuta, per precauzione o accidente, nella santa città di Benares o nel sacro Gange, un sufficiente meccanismo di salvezza. Il divino divenire soggettivo, su cui la mente deve saldamente afferrarsi nel momento della morte fisica, dev'essere lo stesso che l'anima ha coltivato e in cui è cresciuta durante tutto il corso della vita fisica.

 

 

7. Perciò, in ogni momento ricordati di Me e combatti. Se la tua mente e la tua intelligenza Mi sono consacrate, a Me solo tu verrai certamente.

 

8. Colui che, mediante la pratica costante dello yoga, ha unito la sua coscienza[377] [a Me] e che, senza lasciarsi deviare da nulla, medita sul Purusha supremo, questi, o figlio di Prithà, raggiunge questo supremo e divino Purusha.

 

9-10. Chiunque è unito [a Me] mediante la devozione e la forza dello yoga, e, con una mente che non vacilla, medita sull'Onnisciente[378], sull'Antico[379], più sottile del sottile, sul Sovrano e Sostegno di tutto, la cui forma non è pensabile e il cui splendore è quello del sole che emerge dalle tenebre, e che al momento di abbandonare il corpo attira la forza vitale[380] in mezzo alle sopracciglia, raggiunge il supremo e divino Purusha.

 

Arriviamo in questi versetti alla prima descrizione del supremo Purusha - la Divinità più grande dello stesso Immutabile, a cui la Gita dà il nome di Purushottama. Anch'Egli, nella sua eternità fuori del tempo, è immutabile e di là da ogni manifestazione; qui, fuori del Tempo, arriva del suo essere solo qualche pallido riflesso, attraverso simboli o travestimenti vari. Ai nostri occhi appare come un' esistenza indefinita e indiscernibile perché la forma del Divino supera le nostre possibilità di pensiero. Quest'Anima, questo supremo Sé è il Veggente, l'Antico dei Giorni; nella sua saggezza e nella sua eterna visione Egli è il Maestro e il Sovrano di tutte le esistenze, e tutte le cose hanno il loro posto nel suo grande essere.

L'unione per devozione con Dio, l'unione per amore di cui parla il versetto, non cede il suo posto all'unione senza forma a cui conduce la via della conoscenza, che fino alla fine è parte intrinseca dalla forza suprema dello yoga.

 

 

11. Ti descriverò succintamente questo stato[381] che i conoscitori del Veda dichiarano immutabile[382], quella condizione che gli asceti[383] che si sono liberati dalle passioni cercano di possedere conducendo una vita di austerità[384].

 

Quest'Anima suprema è il Brahman immutabile, esistente in sé, di cui parlano coloro che conoscono il Veda. Questa eterna Realtà è l'ultimo scalino, il più alto punto d'appoggio, pada, dell'essere; è quindi lo scopo ultimo del movimento dell'anima nel Tempo, quantunque essa non sia un movimento ma lo stato d'essere (sthana) originale, eterno e supremo (VIII, 28).

 

12-13. Chiudendo le porte [dei sensi], confinando la mente nel cuore e attirando verso la testa la forza vitale[385], 'colui che, ben saldo nella concentrazione[386] dello yoga, pronuncia la sillaba sacra AUM[387], e si ricorda di Me nel momento in cui abbandona il corpo, questi raggiunge la sua suprema destinazione[388].

 

La Gita descrive la condizione mentale ultima dello yogi nel momento in cui, attraverso la morte, passa dalla vita all'esistenza suprema e divina. È il modo tradizionale di abbandonare il corpo per uno yogi, l'ultima offerta del suo essere all'Eterno, al Trascendente. Ma ciò che questo versetto descrive non è che il procedimento esteriore; la condizione essenziale è il ricordo continuo e costante del Divino durante tutta la vita, anche in seno all'azione e alla battaglia - la trasformazione, dell'atto di vivere, in uno yoga senza interruzioni.

 

 

14. Colui che ha la mente in modo continuo fissa su di Me, senza che altra cosa occupi la sua coscienza[389], questo yogi così costantemente unito [al Sé] Mi raggiunge facilmente, o figlio di Prithà.

 

15. Le grandi anime[390] che sono a Me pervenute non ritornano alla nascita, luogo di sofferenza e di soggiorno precario, poiché esse hanno raggiunto la più alta perfezione[391].

 

16. Dal mondo di Brahmà[392] in giù. tutti sono soggetti alla rinascita, o Arjuna, ma per chi viene a Me. o figlio di Kunti non esiste rinascita.

 

L'anima non ritorna alla terra quando ha raggiunto la condizione ultracosmica. Anche i più elevati mondi celesti dell'ordine sono sottoposti alla rinascita, ma nessuna nuova nascita è imposta a chi raggiunge il Purushottama. Di conseguenza, tutto ciò che si può ottenere aspirando a conoscere l'indefinibile Brahman, si attiene ugualmente mediante l'aspirazione più comprensiva e più completa che raggiunge il Divino esistente in sé, Signore delle opere, Amico della specie umana e di tutti gli esseri, attraverso la via della conoscenza, delle opere e dell'amore. RicercarLo e conoscerLo in tal modo non vincola alla rinascita e alla catena del karma. L'anima può quindi sfuggire in modo permanente alla condizione transitoria e dolorosa dell'essere mortale.

E qui la Gita, per precisare alla mente questo ciclo di nascite e' l'evasione fuori dallo stesso, riprende la vecchia teoria dei cicli cosmi-ci, divenuta parte integrante delle nozioni cosmologiche indiane.

 

 

17. Conoscono il giorno e la notte coloro che sanno che il giorno di Brahmà[393] dura mille età[394] e che la sua notte non finisce che dopo mille età.

 

È un eterno ciclo di periodi alternati di manifestazione e di non-manifestazione cosmiche, chiamati rispettivamente il giorno e la notte di Brahmà - il Creatore; sono periodi uguali nel tempo, di mille età l'era di attività e di altre mille quella di riposo silenzioso.

 

 

18. Con la venuta del giorno[395] tutti gli esseri manifestati[396] emergono dalla non-manifestazione[397] e, quando la notte[398] sopraggiunge, si dissolvono in ciò che è stato chiamatola non-manifestazione.

 

19. Questa moltitudine di esseri[399] che nascono e fina- stono senza posa, si dissolve necessariamente all'avvicinarsi della notte, o figlio di Prithà, per risorgere al venire del giorno.

 

20. Ma oltre questa non-manifestazione[400] esiste un altro stato[401] non-manifestato, eterno[402], che non perisce quando tutti questi esseri periscono.

 

21. Il Non-manifestato[403] è chiamato l'Immutabile, e si parla di lui come della destinazione[404] suprema; coloro che lo raggiungono non ritornano più. Quella è la Mia suprema dimora[405].

 

L'anima che lo raggiunge sfugge al ciclo delle manifestazioni e delle non-manifestazioni cosmiche.

Che questa nozione cosmologica venga o no accettata dipende dal valore che siamo disposti a dare alla conoscenza di "coloro che conoscono il giorno e la notte". Ciò che importa è l'orientamento che le viene impresso dalla Gita. Si potrebbe facilmente immaginare che quest'Essere eternamente non manifestato, il cui stato sembra non avere relazione alcuna con il manifesto e il non-manifesto, sia l'Assoluto indefinito e per sempre indefinibile; il miglior modo di raggiungerlo non sarebbe quello di elevarsi interiormente sino a Lui in una concentrazione combinata della conoscenza mentale, dell' amore del cuore, della volontà yoghica e della forza vitale, ma di sbarazzarsi di tutto ciò che con la manifestazione siamo divenuti. In particolare, la bhakti potrebbe sembrare inapplicabile a un Assoluto inaccessibile a ogni relazione. La Gita afferma invece con insistenza, nel versetto seguente, che il supremo Purusha, anche se ultracosmico ed eternamente non manifestato, deve essere conquistato mediante la bhakti.

 

 

22. Questo supremo[406] Purusha, o figlio di Prithà, può essere raggiunto mediante una devozione immutabile verso Colui nel cui seno tutti gli esseri[407] esistono e da cui tutto questo universo è diffuso[408].

 

In altre parole, il supremo Purusha non è un Assoluto incapace di rapporti e fuori portata delle nostre illusioni; Egli è il Veggente, il Creatore e il Sovrano dei mondi (VIII, 9) e, conoscendolo e amandolo come l'Uno e il Tutto, vasudevah sarvam (VII, 19), dobbiamo, mediante l'unione con Lui di tutto il nostro essere cosciente, cercare l'adempimento supremo, la perfetta perfezione e l'assoluta liberazione in tutte le cose, in tutte le azioni e in tutte le energie.

Viene subito dopo un curioso pensiero che la Gita prende in prestito dai primitivi mistici vedantini, dove indica le diverse epoche in cui lo yogi deve abbandonare il corpo a seconda che voglia rinascere sulla terra o evitare di reincarnarsi.

 

 

23. Ti rivelerò adesso, o migliore fra i Bharata, il momento in cui uno yogi parte per ritornare e quello in cui parte per non più rivenire.

 

24. [Quando partono] nel fuoco e nella luce, [o durante] il giorno, la luna crescente e i sei mesi in cui il sole è al nord, coloro che conoscono il Brahman[409] vanno al Brahman.

 

25. [Quando parte] nel fumo, [o durante] la notte, la luna calante, i sei mesi in cui il sole è al sud, lo yogi entra nella luce lunare[410] per ritornare [quaggiù].

 

26. La luce e le tenebre, si dice siano le due eterne vie[411] del mondo; per mezzo dell'una si parte per non piú ritornare, con l'altra si ritorna ancora.

 

Questa nozione ci viene da un'epoca di mistici che vedevano in ogni cosa fisica il simbolo effettivo di una realtà psicologica e che scoprivano dappertutto un'interazione, una specie d'identità fra l'esteriore e l'interiore, per esempio fra la luce e la conoscenza, fra il fuoco e l'energia spirituale. Ciò che si ritrova all'origine di questo passaggio, sia esso un fatto psicofisico o un simbolismo, basta per mettere in evidenza l'orientamento che ne segna la fine: "Perciò, o Arjuna, realizza il tuo yoga."

 

 

27. Lo yogi che conosce le due vie, o figlio di Prithà, non può smarrirsi. Perciò, o Arjuna, realizza il tuo yoga[412].

 

Dopo tutto, l'essenziale è di unire l'intero essere al Divino, in tutti i modi e così completamente che l'unione divenga naturale e continua, facendo della vita un costante ricordo di Dio - non solo in pensiero e in meditazione ma anche nell'azione, nel lavoro e nella battaglia, L'ingiunzione: "Ricordati di Me e combatti", significa che il nostro pensiero non deve per un solo istante perdere il contatto con L'Eterno; neppure negli urti della vita corrente che abitualmente occupano l'intera mente.

È una condizione che sembra assai difficile da realizzare, quasi impossibile. In realtà non è possibile se altre condizioni non sono state previamente realizzate. Se consciamente siamo divenuti un solo “sé” con tutto - un sé che nel nostro pensiero è sempre e solamente il Divino -, se i nostri occhi e gli altri sensi vedono e sentono il Divino ovunque, in modo che non sia possibile sentire né pensare con i sensi non illuminati né essere null'altro che non sia ciò che il Divino ha celato e manifestato nell'assieme di questa forma, se la nostra volontà nel suo profondo sentire è unita a una volontà suprema, e se ogni atto della volontà, della mente e del corpo e sentito come proveniente da questa suprema volontà, come il suo movimento, impregnato di questa volontà o identico ad essa, allora ciò che la Gita richiede può essere integralmente compiuto. Il ricordo dell'Essere divino non è più un atto intermittente della mente, diviene la condizione naturale delle nostre attività e, in un certo senso, la sostanza stessa della nostra coscienza. Il jiva ha stabilito la giusta e naturale condizione - il rapporto spirituale col Purushottama - e tutta la vita è divenuta uno voga, un'unità perfetta e tuttavia in via di un eterno adempiersi

 

28. Lo yogi abbandona dietro di sé i frutti assegnati agli atti meritori: [studio dei] Veda, sacrifici, austerità e anche le offerte caritatevoli; egli conosce tutto ciò[413] e giunge alla condizione[414] originale e suprema.

 


CANTO IX

L'AZIONE, LA DEVOZIONE E LA CONOSCENZA

 

 

Krishna, il Maestro, incomincia a preparare lo spirito di Arjuna a ricevere la conoscenza e la percezione della Divinità integrale, portandolo sino alla visione descritta nel canto undicesimo, che permetterà al guerriero di Kurukshetra di divenire cosciente di Colui che crea e sostiene il suo essere, la sua azione e la sua missione - il Divino nell'uomo e nel mondo. Arjuna deve sapere che non esiste che in Dio e che non può agire se non grazie alla forza divina in lui, che le sue azioni sono gli strumenti dell'azione divina, la sua coscienza egoistica un velo e una rappresentazione deformata, causata dall' ignoranza del vero essere in lui, scintilla immortale della suprema Divinità.

 

 

Il Beato Signore disse:

1. A te che non fai critiche vane, rivelerò adesso il più profondo segreto, la conoscenza integrale[415], conoscendo la quale sarai liberato dal male.

 

2. Questa è la conoscenza reale, mistero sovrano e purificatore supremo, accessibile alla percezione diretta[416], in accordo con la legge [dell'essere][417], facile da praticarsi e imperitura.

 

3. Le anime[418] che non hanno fede in questa legge[419] [superiore], o Terrore dei nemici, non arrivano a Me, ma ritornano sulla strada di questo mondo[420] di morte.

 

Questa legge, questa verità superiore è qualcosa che dev'essere vissuta nella sempre crescente luce dell'anima e non estratta a forza di argomenti dalle tenebre della mente. E il solo metodo per poterla verificare è crescere in essa, divenire questa verità. Non potremo divenire il divino Sé e vivere la verità della nostra esistenza spirituale che superando il sé inferiore. Tutte le apparenze di verità che possono essere opposte a questa affermazione sono apparenze della Natura inferiore.

Per crescere nella libertà della Natura divina, bisogna riconoscere e accettare la Divinità nascosta nella nostra limitata natura attuale. Rimettendo nelle mani del divino Purusha interiore l'attività di tutto ciò che siamo per natura, la pratica di questo yoga diviene possibile e anche facile. La Divinità opera in noi la nascita divina, progressivamente, semplicemente, infallibilmente, prendendo il nostro essere nel suo essere e colmandolo della sua conoscenza e della sua forza. Si appropria la nostra natura oscura e ignorante e la trasforma nella sua luce e nella sua ampiezza.

 

 

4. Sono Io, dalla forma non manifesta[421], che ha diffuso tutto questo universo; tutti gli esseri[422] dimorano in Me[423], ma Io non dimoro in loro[424].

 

La Gita inizia da questo punto a svelare il supremo segreto integrale, la verità unica in cui l'aspirante alla perfezione e alla liberazione deve imparare a vivere, la vera legge di perfezione delle parti spirituali che compongono il suo essere e di tutti i loro movimenti. Questo supremo segreto è il mistero del Divino trascendente, presente in ogni luogo e tuttavia talmente diverso e talmente più grande dell' universo con tutte le forme in esso contenute, che nulla può qui con-tenerlo, nulla che possa realmente esprimerlo, nessun linguaggio preso dall'apparenza delle cose e dalle loro relazioni spaziali e temporali che possa suggerire la verità del suo inconcepibile essere.

Esiste Qualcuno o Qualcosa d'altro oltre l'universo, qualcosa d'inimmaginabile, d'indicibile, una Divinità infinita e ineffabile oltre quello che le nostre più sottili e più ampie concezioni dell' infinito ci permettono di presentire. L'intera massa dei divenire in perpetuo movimento e mutamento, tutte le creature, le esistenze, le cose, le forme che vivono e respirano, nulla di tutto ciò può contenerlo. Non lo possono le loro esistenze separate o la loro somma totale. Non in esse né mediante esse Egli vive, si muove e possiede il suo proprio essere - Dio non è il Divenire. Sono le esistenze in Lui che vivono e si muovono in Lui e che da Lui ricevono Ia verità - esse sono i suoi divenire, Egli è il loro essere.

 

 

5. Tuttavia gli esseri non dimorano in Me[425]. Osserva il Mio supremo yoga! Il Mio Sé[426] è l'origine e il sostegno degli esseri, pur senza dimorare in essi[427].

 

Esiste uno yoga del Potere divino, mediante il quale il Supremo crea fenomeni che conferiscono una forma spirituale - non materiale - allo spiegamento della sua infinità - uno spiegamento la cui estensione materiale non è che un'immagine. Il mistero del Supremo consiste nell'essere ultracosmico, senza essere tuttavia, in senso assoluto, extracosmico. Esiste nell'universo una presenza permanente, sia pure non direttamente impegnata, dell'Essere di Dio, mama atma, in relazione permanente col Divenire e che, col semplice fatto della sua presenza, permette la manifestazione di tutte le creature.

 

 

6. Nello stesso modo in cui l'aria, questo possente [elemento] che tutto penetra, ha il suo fondamento nell'etere[428], Io sono la base di tutti gli esseri; è cosi che devi capire.

 

L'Esistenza universale è infinita e penetra tutto, e l'Essere esistente in sé è anche infinito e penetra tutto. Ma l'Esistente in sé è stabile, statico, immutabile, mentre l'Universale è un moto di penetrazione. Il Sé è uno e non molteplice, mentre l'Universale si esprime attraverso ogni esistenza ed è rappresentato dalla somma di tutte le esistenze. L'uno è l'Essere, l'altro è il Potere d'essere che si muove, crea e agisce nell'esistenza dello Spirito immutabile, fondamentale, sostegno di tutto. Il Sé non dimora in tutte queste esistenze né in alcuna di esse, esattamente come l'etere (o spazio) non è in nessuna forma, anche se tutte le forme, in ultima analisi, derivano da esso. Neppure è contenuto e costituito dall'insieme di tutte le esistenze - non più di quanto l'etere non sia contenuto dall'estensione mobile del principio aria né costituito dall'insieme delle sue forme e delle sue forze. Tuttavia nel movimento è anche il Divino. Nel caso del Divino i due rapporti sono veri simultaneamente.

 

 

7. Alla fine di un ciclo[429], o figlio di Kunti, tutti gli esseri ritornano alla Mia [divina] Natura[430]; al principio del ciclo successivo li emetto di nuovo.

 

8. Suscitando l'azione della Natura che Mi è propria[431], emetto questa moltitudine di esseri[432], tutti inesorabilmente sottoposti alla dominazione della Natura [inferiore][433].

 

Il jiva (VII, 5-7), ignorante, soggetto al turbinio ciclico della Natura, non è padrone di sé stesso, ma dominato da essa. Solo ritornando alla coscienza divina può raggiungere la padronanza e la libertà. Il Divino partecipa anche al movimento ciclico come Spirito animatore e guida, senza esserne dominato o coinvolto, ma accompagnandolo e modellandolo con il suo potere d'essere.

 

 

9. E queste opere non Mi vincolano minimamente, o Conquistatore di tesori, poiché assisto non coinvolto a questi atti [come se fossi uno spettatore] che li osserva dall'alto[434].

 

Se, con il suo potere, (il Divino) accompagna la Natura e ne causa l'attività, si trova ugualmente fuori dalla Natura, come se stesse sopra la sua azione universale in una condizione superiore ai fatti cosmici. Nessun desiderio lo domina e lo trascina vincolandolo ad essa e, di conseguenza, non resta asservito alle azioni da essa compiute; Egli le precede e le supera infinitamente, rimane immutato prima, durante e dopo il loro svolgersi attraverso i cicli del Tempo.

Ma dato che questa attività è l'azione della Natura divina, e che questa Natura non può mai essere separata dal Divino, Egli deve essere immanente in tutto ciò che essa crea. Senza dubbio questo rapporto non è l'intera verità, ma è una verità che non possiamo permetterci di trascurare totalmente.

 

 

10. Da Me guidata, la Natura produce gli esseri animati e inanimati; in tal modo, o figlio di Kunti, l'universo gira e gira.

 

11. Gli insensati Mi disprezzano perché Mi rivesto di un corpo umano[435], ma è perché non conoscono la Mia suprema natura[436] di Signore delle creature[437].

 

La mente dei mortali si smarrisce perché, nella sua ignoranza, si arresta davanti ai veli e si afferra alle apparenze; non vede che il corpo esteriore, la mente umana, la maniera umana di vivere, e non ha della Divinità che risiede in ogni creatura nessuna visione liberatrice. L'uomo non possiede la capacità di riconoscere la divinità in lui e nemmeno può vederla negli altri uomini. Anche se il divino si manifesta agli uomini come avatàr o come vibhúti, l'uomo rimane cieco, trascura o disprezza la Divinità velata. Se non riesce a vederla nella creatura vivente, come può riconoscerla nel mondo oggetti che vede dalla prigione di un ego separatore, attraverso la finestra con sbarre di una mente limitata? Non vede Dio nell'universo, non sa nulla del Supremo padrone di questo mondo pieno di creature diverse che sono la sua dimora; è cieco alla visione mediante la quale tutto nell'universo diventa divino e permette all'anima di svegliarsi alla propria divinità, divenendo (della stessa natura) del Divino, simile a Dio. Quello che vede con chiarezza - e vi si aggrappa con passione - è la vita dell'ego alla ricerca delle cose finite, per loro stesse e per la soddisfazione degli appetiti terrestri del corpo, dei sensi e dell'intelletto.

 

 

12. Privi del vero modo di conoscere, si rivestono della natura ingannevole[438] dell'asura e del ràkshasa[439]. Vana è la loro speranza, vani i loro atti, vana la loro conoscenza.

 

Coloro che si attaccano troppo a questa spinta mentale verso l'esterno cadono sotto il dominio della Natura inferiore, si attaccano ad essa e ne fanno il loro sostegno. Essi divengono preda della natura del ràkshasa, che tutto sacrifica alla soddisfazione violenta e senza freni del suo ego vitale separato, facendone il fosco dio della volontà, del pensiero, della passione e del piacere propri. Oppure, sferzati dalla presunzione, dall'arroganza, dall'impulso egoistico, dall'appetito intellettualizzato verso il godimento, propri dell'asura, soddisfatti di sé, ma tuttavia sempre insoddisfatti, girano senza fine in un circolo sterile.

Vivere continuamente in questa coscienza separativa dell'ego e farne il centro di tutte le proprie attività significa rimanere tagliati fuori della vera coscienza che in noi risiede. Il fascino che la coscienza dell'ego getta sugli strumenti mal diretti dello spirito è un (vero) sortilegio che costringe la vita a girare in tondo senza costrutto. La speranza, l'azione, la conoscenza (che nascono da questa coscienza) sono cose vane, se si giudicano sulla base dei criteri eterni e divini, in quanto questa coscienza chiude le porte alla grande speranza, esclude l'azione liberatrice e bandisce la conoscenza che illumina. È una falsa conoscenza, che vede il fenomeno ma non tocca la verità del fenomeno stesso, una speranza cieca che corre dietro all'effimero e manca l'eterno, un'azione sterile, il cui profitto viene annullato da una perdita (equivalente) e che condanna a un lavoro da Sisifo.

 

 

13. Ma coloro la cui anima è grande[440] rivestono la natura divina[441], o Figlio di Prithà; essi conoscono in Me l'origine imperitura di tutti gli esseri e Mi adorano con devozione assoluta.

 

Coloro che hanno l'anima grande e si aprono alla luce e all'ampiezza della natura più divina che sia accessibile all'uomo, sono soli sul cammino - stretto al principio, ma inesprimibilmente largo alla fine - che conduce alla liberazione e alla perfezione. La crescita di Dio nell'uomo è il vero compito dell'uomo; la trasformazione assidua della natura inferiore asurica e ràkshasica è il senso rigorosamente nascosto della vita umana. A mano a mano che questa crescita si va compiendo, i veli cadono e l'anima comincia a scoprire il più grande significato degli atti e il vero scopo dell'esistenza. L'occhio si apre al Divino nell'uomo, si apre al Divino nel mondo, acquisisce una visione interiore ed esteriore dello Spirito infinito, dell'Imperituro, origine di tutti gli esseri, in tutti esistente, da cui e in cui tutti esistono eternamente. Quando questa visione, questa conoscenza è afferrata dall'anima, l'aspirazione di tutta la vita diviene un amore senza restrizioni e un'insondabile adorazione verso il Divino e verso l'Infinito. La mente aderisce unicamente all'eterno, allo spirituale, all'universale, al reale, dando valore solo a ciò che conduce al beato Purusha. Non trova delizia che nella sua completa felicità. Ogni Parola, ogni pensiero divengono un culto all'Anima suprema una e alla Persona infinita, un solo inno all'universale grandezza - Luce, Bellezza, Potere e Verità - rivelata in tutta la sua gloria allo spirito umano.

 

 

14. Ardenti e perseveranti nelle loro risoluzioni, cantando senza posa le lodi a Me rivolte, Mi rendono omaggio con devozione e Mi adorano in un'eterna unione[442].

 

Questo persistente sforzo dell'essere interiore per aprirsi una breccia prende la forma di ricerca spirituale, di aspirazione a possedere il Divino nell'anima e a scoprirlo nella Natura. La vita intera diviene uno yoga senza interruzione, una continua unione del Divino con lo spirito umano. Tale è il risultato della devozione integrale; mediante il sacrificio, compiuto da un cuore devoto, all'eterno Purushottama, essa produce l'elevazione di tutto il nostro essere, di tutta la nostra natura.

 

 

15. Altri Mi offrono il sacrificio della conoscenza[443] e Mi adorano come l'Unico e il Molteplice, e come l'Innumerevole che mostra loro il viso da ogni parte[444].

 

Questa conoscenza diviene facilmente un'adorazione, una gran devozione, un vasto dono di sé, un'offerta integrale, perché rappresenta la conoscenza di uno Spirito, di un Essere, di un'Anima universale e suprema, che esige tutto quello che siamo, ma che allo stesso tempo riversa su di noi, quando ad essa ci avviciniamo, gli inesauribili tesori della delizia della sua esistenza, del suo contatto, del suo abbraccio.

 

 

16. Io sono l'offerta rituale, Io sono il sacrificio, Io sono l'oblazione agli antenati, Io sono l'erba che dà il fuoco, Io sono l'inno sacro[445], Io sono il burro chiarificato[446], Io sono il fuoco e l'offerta.

 

La via delle opere, anch'essa, si cambia in adorazione, in devozione mediante il dono di sé, in quanto diviene il sacrificio totale della volontà e delle sue attività all'unico Purushottama. Il rito vedico, nel suo aspetto esteriore, è un simbolo la cui efficace e possente azione tende verso scopi meno elevati, anche se celesti; il vero sacrificio è l'oblazione interiore dove il divino Tutto diviene l'atto rituale, il sacrificio e ognuna delle circostanze particolari al sacrificio.

 

 

17, lo sono il padre di questo universo, Io sono la madre, colui che lo sostiene e il suo grande antenato; Io sono il purificatore e il solo oggetto della conoscenza; Io sono la sillaba AUM[447], il Rik, il Sàma e lo Yajur[448].

 

Per l'anima che conosce, che adora e che, con la più grande sommissione, offre all'Eterno le sue opere, il Divino è tutto e tutto è il Divino. Essa conosce Dio come il Padre di questo mondo, che nutre, ama i suoi figli e veglia su di loro. Essa conosce Dio come Madre divina, che li porta nel suo seno, che prodiga loro la dolcezza del suo amore e riempie l'universo delle sue forme di bellezza. Essa lo conosce come il supremo Creatore che ha fatto nascere tutto ciò che è stato creato e diffuso nello spazio e nel tempo. Essa lo conosce come il Signore e l'Ordinatore che distribuisce e dispensa all'universo e all'individuo.

 

 

18. Io sono la via, il sostegno, il signore, il testimone, la dimora, il rifugio, l'amico; Io sono l'origine e la dissoluzione [dell'universo] e la sua base; lo sono il seme [degli esseri] che non può perire e il [loro] luogo di riposo.

 

Il mondo, il destino, l'incertezza delle eventualità non atterriscono chi è sottomesso all'Eterno, e nemmeno la sofferenza e il male potrebbero smarrirlo. Per l'anima che vede, Dio è la via e la meta del gran viaggio - un cammino su cui non ci si può smarrire e una meta verso la quale i nostri passi, saggiamente guidati, ci conducono con sicurezza.

 

 

19. Io riscaldo; Io trattengo o invio la pioggia; Io sono l'immortalità[449] e anche la morte; Io sono l'essere e il nonessere[450], o Arjuna.

 

20. Coloro che conoscono i tre Veda[451], che bevono il Soma[452] e che, purificati dal peccato, Mi offrono sacrifici e pregano richiedendo la via del cielo, quelli giungono al celeste mondo di Indra[453] e godono in cielo i divini piaceri degli dèi.

 

21. Avendo esaurito in questo-mondo celeste dai grandi godimenti i meriti [delle loro azioni][454], ritornano nel mondo dei mortali. Seguendo i doveri[455] imposti dai tre Veda, desiderosi[456] di godere, ottengono la nascita e la morte[457].

 

L'antico ritualista vedico imparava solo il senso essoterico del triplice Veda, si purificava dal peccato, beveva il vino della comunione con gli dèi e cercava, mediante il sacrificio e le buone azioni, la ricompensa del cielo. Questo modo di credere nell'Aldilà e questa ricerca di un mondo divino assicurano, all'anima che abbandona la vita, la forza di raggiungere quelle gioie del cielo su cui si concentrano la sua fede e la sua ricerca. Ma il ritorno alla vita mortale diviene allora indispensabile, perché lo scopo di questa vita non è stato scoperto e raggiunto.

 

 

22. Agli uomini in costante yoga che Mi adorano senza pensare ad altro, apporto sicurezza e protezione[458].

 

Su questa terra e non fuori di essa dev'essere trovata la suprema Divinità; è qui che la natura divina dell'anima dev'essere sviluppata partendo dall'imperfetta natura fisica umana per scoprire, mediante l'unità col Divino, l'uomo, l'universo e l'intera verità dell'essere, per essere vissuta e farne una visibile meraviglia. In tal modo si completa il lungo ciclo del nostro divenire e si giunge allo scopo supremo. Questa è l'occasione che la nascita umana offre all'uomo senza possibilità di sosta, finchè il risultato finale non sia raggiunto.

Non vedere altro che il Divino, essere ad ogni momento in unione con Lui, amarlo in tutte le sue creature, trovare in tutto la felicità divina, è la natura dell'esistenza spirituale dell'amante di Dio. La visione che ha del Signore non lo separa dalla vita, non gli manca nulla della pienezza dell'esistenza, poiché lo stesso Dio diviene lo spontaneo dispensatore di ogni bene, di tutto ciò che egli riceve dalla vita, tanto interiormente quanto esteriormente. La gioia della terra e la gioia del cielo non sono che pallidi riflessi di ciò che può ottenere, in quanto, man mano che aumenta di statura spirituale, il Divino riversa su di lui tutta la sua luce, tutto il suo potere e tutta la gioia di un'esistenza infinita.

 

 

23. Anche coloro che adorano altri dèi[459] e offrono loro, con fede, il sacrificio, essi proprio a Me sacrificano, o figlio di Kunti, benché non secondo la regola prescritta[460].

 

24. In verità sono lo colui che riceve con gioia[461] tutti i sacrifici e ne è il Signore[462]; ma [questi devoti] non conoscono la Mia essenza, e per questo si perdono.

 

Ogni credo e ogni pratica religiosa, svolta sinceramente, è veramente una ricerca del Divino unico, supremo e universale. Lui è il solo Signore del sacrificio e dell'ascesi, Lui che riceve e accoglie lo sforzo dell'uomo e la sua aspirazione. Per quanto piccola e bassa possa essere la forma d'adorazione, per quanto limitata l'idea della divinità, limitati il dono di sé, la fede e lo sforzo per superare le barriere imposte dalla natura materiale e passare dietro il velo creato dall'adorazione del proprio ego, il filo che unisce l'anima umana a quella universale si forma ugualmente e la risposta viene. Tuttavia la risposta, frutto dell'adorazione e dell'offerta, rimane proporzionata alla conoscenza, alla fede, al lavoro e non può andare oltre le loro limitazioni. Di conseguenza, paragonandola alla più grande conoscenza di Dio, la sola capace di scoprire l'intera verità dell'essere e del divenire, questa inferiore offerta sacrificale non è fatta seguendo la legge suprema del sacrificio. Essa non è fondata sulla conoscenza della Divinità suprema secondo la sua integrale esistenza né sui veri principi della sua manifestazione, ma aderisce a incomplete esperienze esteriori. Lo scopo del sacrificio risulta limitato perché i moventi sono egoistici, l'azione e il dono di sé incompleti ed erronei. La visione totale del Divino è la condizione indispensabile per un cosciente e totale dono di sé. Qualsiasi altro modo di ricerca raggiunge solo risultati mediocri e parziali, obbligandoci ad arretrare per ripartire sulla base di una ricerca più ampia e verso una più grande esperienza di Dio.

 

 

25. Coloro che adorano gli dèi vanno agli dèi[463]; coloro che adorano gli antenati vanno agli antenati[464]; agli spiriti della natura vanno coloro che sacrificano a questi spiriti[465], ma coloro che sacrificano a Me, vengono a Me.

 

Cercare la Divinità suprema e universale, unicamente e interamente, significa raggiungere tutta la conoscenza e il risultato che offrono le altre vie, senza essere limitati da nessun aspetto, ma percependo in tutti gli aspetti la verità divina in essi contenuta. Questa ricerca, nella sua progressione verso il Purushottama, abbraccia tutte le forme dell'Essere divino.

 

 

26. Anche se con devozione Mi si offre una foglia, un fiore o dell'acqua, accetto quest'offerta d'amore venuta da un'anima piena di zelo.

 

La minima, la più piccola fra le circostanze della vita, il dono più insignificante di ciò che si è o di ciò che si ha, l'atto più trascurabile, rivestono un divino significato e divengono offerte accettabili. La Divinità le trasforma in un mezzo per entrare in possesso dell'anima della vita del suo devoto.

 

 

27. Qualunque cosa tu faccia, mangi, offra in sacrificio, ,qualunque cosa dia, qualunque austerità t'imponga, o glio di Kunti, famMene un'offerta.

 

28. In tal modo sarai liberato dai vincoli delle azioni che producono i risultati buoni e cattivi; con l'anima unita [al Divino] mediante lo yoga della rinuncia[466], tu sarai libero e verrai a Me.

 

È così che spariscono le distinzioni create dal desiderio e dall'ego. Dato che non vi è ricerca ansiosa di un felice risultato dell'azione, o l’apprensione per un risultato sfavorevole, e che tutte le opere e i loro risultati vengono abbandonati e rimessi al Supremo, a cui appartengono il lavoro e i frutti del mondo, non esiste più schiavitù. Mediane a questo dono di sé assoluto, ogni desiderio sparisce dal cuore e l'unione fra il Divino e l'anima individuale diviene perfetta grazie alla rinuncia interiore dell'anima a una vita separata. Ogni volontà, ogni azione, ogni risultato, divengono quelli del Divino, agiscono divinamente attraverso la natura purificata e illuminata e cessano di appartenere al limitato ego personale. La natura finita che riesce a compiere questo dono di sé diviene un libero canale dell'Infinito; l’anima che si è elevata spiritualmente sopra l'ignoranza e la limitazione ritorna alla sua unità con l'Eterno.

 

 

29. Io sono identico[467] per tutti gli esseri; nessuno Mi è caro, nessuno mi è odioso; ma coloro che Mi adorano[468] con devozione sono in Me e Io sono in loro.

 

L'Eterno è il Divino abitante di tutte le creature.... Egli non è né il nemico ne l'amico parziale di nessuna di esse; nessuno ha mai rifiutato, nessuno eternamente condannato, ne' arbitrariamente favorito; ma tutti finiscono per andare a Lui attraverso i meandri dell'Ignoranza. Però è solo la perfetta adorazione che può rendere cosciente questa esistenza interiore di Dio nell'uomo e dell'uomo in Dio, e fare di quest'unione una cosa assoluta e perfetta. L'amore dell'Altissimo e il dono totale di sé sono la via rapida e diretta che conduce a questa divina unità.

 

 

30. Se un uomo di spregevole condotta si volge verso di Me in un'adorazione solo a Me diretta[469], deve essere ritenuto un uomo giusto[470], poiché giusta è la sua risoluzione.

 

31. Egli diviene un'anima retta[471] e raggiunge l'eterna pace; puoi essere certo, o figlio di Kunti, che questo Mio devoto[472] giammai perirà.

 

La volontà del completo dono di sé spalanca le porte dello spirito e porta in risposta all'essere umano la discesa e il dono completi del Divino; tutto in noi riveste allora una nuova forma, tutto si assimila alla legge della divina esistenza mediante una rapida trasformazione della natura inferiore in natura spirituale. La volontà di darsi lacera il velo esistente tra Dio e l'uomo: essa distrugge l'errore e abbatte ogni ostacolo. Chi affida invece l'aspirazione alla forza umana e procede con lo sforzo di una laboriosa disciplina, progredisce verso l'Eterno, verso la conoscenza e la virtù con grandi difficoltà e immerso nella pena. Quando l'anima abbandona il suo ego e i suoi atti al Divino, lo stesso Dio viene a noi e assume la responsabilità del nostro fardello. All'ignorante concede la luce della divina conoscenza, al debole la forza della divina volontà, al peccatore la liberazione della divina purezza, a colui che soffre la gioia spirituale senza fine e l'ananda. La debolezza e i barcollamenti della nostra forza umana cessano di avere importanza.

 

 

32. Anche se nati nel peccato[473], o donne, o vaishya[474] o shudra[475], chiunque prenda rifugio in Me raggiunge la meta suprema.

 

Lo sforzo preliminare e la preparazione, la purezza e la santità del bramino, l'illuminata forza del rishi regale (vedi versetto seguente), grande nelle opere e nella conoscenza, tutto ciò ha valore, perché per-mette più facilmente alla creatura umana imperfetta di accedere a questa vasta visione, a questo ampio dono di sé. Ma, anche senza questa preparazione, tutti coloro che prendono rifugio in questo divino Amico dell'uomo vedono aprirsi davanti a loro le porte divine: il vaishya preoccupato di accumulare ricchezze e dalla cura della propria produzione, lo shudra impastoiato da mille penose restrizioni, la donna limitata nel suo sviluppo dalle restrizioni impostele dalla società, e anche coloro, "nati da un ventre impuro", a cui il karma passato ha imposto la peggiore delle nascite, i fuori casta, i paria. Nella vita spirituale, tutte te distinzioni esteriori a cui gli uomini concedono tanta importanza - perché la loro forza oppressiva piace tanto alla mente rivolta verso l'esteriore - si dileguano davanti all'uguaglianza della Luce divina e all'onnipotente Forza imparziale.

 

 

33. Quanto più facilmente allora per i santi bramini e i devoti rajarshi[476]! Tu che sei venuto in questo effimero mondo senza gioia, amaMi e volgiti verso di Me[477].

 

Il mondo terrestre, preoccupato dagli opposti e vincolato alle relazioni immediate e transitorie dell'ora e del momento, rappresenta per 1'uomo finché rimane attaccato a queste cose e accetta come legge della sua vita quello che esse gli impongono, un mondo di lotta, di Sofferenza e di afflizione. La via della liberazione ci è data dal rivolgersi non più verso l'apparenza creata dalla vita materiale che grava col suo fardello la niente e la imprigiona nelle abitudini della vita e del corpo, ma verso la divina. Realtà che attende di potersi manifestare nella libertà dello Spirito.

 

 

34. Fissa su di Me la tua mente e divieni Mio devoto; e onorandoMi, a Me sacrificando, a Me unito, avendo Me come supremo [scopo][478], tu verrai a Me.

 

Una volta che la Divinità interiore sia stata riconosciuta e accettata, l'intero essere e la vita si eleveranno in una meravigliosa trasmutazione. Invece di vedere ovunque l'ignoranza della Natura inferiore assorta nelle opere esteriori e nelle apparenze, gli occhi vedranno Dio ovunque e si apriranno all'unità e all'universalità dello Spirito, L'infelicità e il dolore del mondo spariranno nella beatitudine di Colui che è tutto felicità; la nostra debolezza, i nostri errori e i nostri peccati si cambieranno nella forza, nella purezza e nella verità divine che tutto trasformano.

Unire la mente alla coscienza divina, fare della nostra natura emotiva un amore unico di Dio ovunque, fare delle nostre opere un sacrificio unico al Signore dei mondi, e della nostra adorazione e aspirazione una sola adorazione e un dono di noi stessi a Lui solo, dirigendo l'intero essere verso Dio in una totale unione, è il mezzo per uscire dall'esistenza mondana (comune) per entrare in quella divina. È questo l'insegnamento della Gita, un insegnamento di devozione e d'amore divini, in cui la conoscenza, le opere e l'aspirazione del cuore si uniscono in una suprema unificazione, conciliando tutte le divergenze, allacciando tutti i fili in un vasto movimento di fusione e d'identificazione.

 


CANTO X

[a] LA SUPREMA PAROLA DELLA GITA

 

 

Il Beato Signore disse:

1. Ascolta, o Guerriero dal braccio possente, la suprema parola, quella che ti dirò affinché tu possa trovare in Me la tua gioia, in Me che desidero il bene [della tua anima].

 

Questa gioia del cuore in Dio costituisce la vera bhakti, la sua essenza (X, 10). Rappresenta la condizione previa a quanto il Divino incarnato dirà al suo strumento umano, Arjuna, dandogli l'ordine di agire.

 

 

2. La Mia nascita[479] non conoscono né gli déi[480] né i grandi rishi[481], perché, in verità, Io sono in tutti i sensi possibili l'origine[482] degli dèi e dei rishi.

 

La Gita armonizza e concilia gli elementi panteistici e teistici, che tra-scendono le vette più elevate della nostra esperienza e della nostra concezione spirituale. Il Divino è l'Eterno non-nato, l'Essere trascendente che non ha origine, senza essere per questo né una negazione né un Assoluto privo di rapporti con l'universo. È un Supremo positivo da cui derivano tutte le relazioni cosmiche; tutti gli esseri creati ritornano a Lui e in Lui solo trovano la loro vera e infinita esistenza.

Gli dèi sono potenze imperiture, personalità immortali che animano, costituiscono e dirigono consapevolmente le forze oggettive e soggettive del cosmo. Sono le forme spirituali del primigenio ed eterno Divino, e da Lui discendono nelle operazioni e nei processi cosmici. La loro intera esistenza, la loro natura, il loro potere e la loro azione procedono dalla verità dell'Ineffabile trascendente, Nulla è quaggiù creato in modo indipendente da questi agenti divini, e nulla trova in loro causa sufficiente; causa spirituale, ragione d'essere e volontà d'essere, tutto ha origine nella suprema e assoluta Divinità.

 

 

3. Colui che conosce in Me il senza-origine, il senza-nascita e il sovrano Signore dei mondi[483], egli, fra i mortali, non è fuorviato dall'illusione ed è liberato da ogni peccato.

 

Il Supremo che diviene l'intera creazione, ma che la supera infinita-mente, non è una causa senza volontà che si mantiene in disparte dalla propria creazione. Non è il testimone indifferente che attende impassibile che tutto si abolisca da solo o ritorni all'immutabile principio originale. È il potente Signore dei mondi e dei popoli che tutto governa, non solamente come forza interiore, ma come forza che dirige dall'alto, dalla sua suprema trascendenza. Il cosmo non può essere governato da un potere che non lo trascenda. La divina direzione implica un sovrano onnipotente e non la forza automatica o la legge meccanica di un divenire determinante, limitata dalla natura apparente del cosmo. Tale è la concezione teistica dell'universo.

Tutti i falsi passi dell'azione umana, le perplessità, l'insicurezza e l'afflizione dell'intelletto, della volontà, del senso morale, delle sollecitazioni vitali, delle emozioni e delle sensazioni, hanno origine dal modo esitante e incerto di conoscere e volere proprio della mente mortale, ottenebrata dai sensi. Ma quando l'uomo si accorge dell' origine divina di tutte le cose, quando il suo sguardo passa pacata-mente dall'apparenza cosmica alla realtà trascendente, e Inversamente da questa realtà all'apparenza, viene allora liberato dallo smarrimento della mente, della volontà, del cuore e dei sensi e può procedere in avanti luminoso e libero. Assegnando a ogni cosa il valore reale e supremo in essa contenuto, e non quello passeggero e apparente, come avviene nella maggiorana dei casi, scopre legami e rapporti occulti, orientando in piena coscienza la sua vita e il suo agire verso il loro scopo vero ed elevato, e governandoli mediante la luce e la forza che vengono dal Divino in lui. Nella conoscenza, nella reazione dell'intelligenza e della volontà, nei fenomeni sensori, percettivi o motori, sfugge all'errore che causa su questa terra il peccato, il male e la sofferenza.

 

 

4-5. L'intelligenza, la conoscenza, il liberarsi dall'illusione, l'impazienza, la verità, il dominio di sé e la serenità; il piacere e il dolore, l'esistenza e la non-esistenza, la paura e il coraggio, la non-violenza, l'equanimità, la soddisfazione, l'austerità, la carità, l'onore e la vergogna, sono i differenti stati [soggettivi][484] delle creature[485], e tutti sono i Miei divenire[486].

 

Osservando l'insistenza che esprime l'impiego di tre parole derivanti dal verbo bhu, divenire, bhavah, bhutàni, bhavanti, vediamo che tutte le creature sono i divenire del Divino, bhutani, tutti gli stati e movimenti soggettivi sono suoi, con i loro divenire psicologici, bhavah, e questi stati soggettivi secondari sono essi stessi, come i loro risultati apparenti e gli stati spirituali superiori, tutti divenire dell'Essere supremo, bhavanti matta eva.

Il teismo della Gita non è un teismo esitante e timido, spaventato dalle contraddizioni del mondo, ma un teismo per il quale Dio è l'Essere originale unico, onnisciente e onnipotente, che manifesta tutto in sé - bene e male, dolore c piacere, luce e tenebre - e forma con questi materiali la sua stessa esistenza, governando Lui stesso quello che in Sé stesso ha manifestato. Senza essere toccato da questi contrari o legato alla propria creazione, superando la Natura, ma tuttavia tenendosi in stretto rapporto con essa, è intimamente uno con tutte le creature; è il loro Spirito, il loro Sé, la loro Anima suprema, il loro Signore, il loro Amico, il loro Amante, il loro rifugio e sempre le conduce dall'alto e dalla profonda intimità dell'essere, attraverso le apparenze mortali dell'ignoranza, della sofferenza, del male e del peccato, verso la luce, la felicità, l'immortalità e la suprema trascendenza. Tale è la pienezza della conoscenza liberatrice, il cui carattere è segnato in questo canto da tre versetti pieni di promesse (3, 7 e 11).

 

 

6. I sette antichi grandi Rishi[487] e i quattro Manu[488] sono anche i Miei divenire[489], nati dalla Mia mente[490], e da essi procedono tutti gli esseri di questo mondo[491].

 

I grandi Rishi, chiamati qui come nei Veda i sette Antichi Veggenti, sono le Forze d'intelligenza di questa Saggezza divina che ha tutto sviluppato a partire della propria infinità cosciente, facendo loro scendere la scala dei sette principi della propria essenza[492]*.

A ciò si aggiungono i quattro Manu eterni, Padri spirituali dell'uomo, in quanto la Natura attiva della Divinità è quadruplice[493]** e l'umanità esprime questa Natura attraverso il suo quadruplice carattere. Anch'essi, come lo implica il loro nome, sono esseri mentali. Sono le creature di questa vita, il cui giuoco dipende dalla mente manifestata o latente; tutti gli esseri sono loro figli o discendenti.

 

 

7. Colui che conosce in essenza[494] questa Mia manifestazione[495] e questo Mio yoga, senza dubbio si unisce a Me in uno yoga senza errore.

 

La saggezza dell'uomo liberato non è, per la Gita, la coscienza di un'impersonalità astratta e senza rapporti, una quiete inattiva. La mente e l'anima di colui che ha raggiunto la liberazione sono in effetti profondamente imbevute dalla percezione integrale di un mondo penetrato dalla presenza animatrice e direttrice del divino Signore dell'universo. L'uomo liberato è cosciente della trascendenza del suo spirito nei confronti dell'ordine cosmico, ma mediante lo yoga divino diviene anche cosciente della sua unità con quest'ordine. Vede ogni aspetto dell'esistenza trascendente, cosmica e individuale nel giusto rapporto con la suprema verità e mette tutto nel posto che gli compete in seno all'unità dello yoga divino.

Mediante questo yoga, una volta divenuto perfetto, stabile e senza oscillazioni, è capace di stabilirsi in qualsiasi equilibrio della Natura, di assumere qualsiasi condizione umana, di adempiere nel mondo qualunque azione senza mai separarsi dalla sua unità con il divino Sé, senza nulla perdere della sua costante comunione col Maestro dell'esistenza.

 

 

8. Io sono l'origine[496] di tutto, da Me tutto procede e si sviluppa; ciò conoscendo, i saggi[497] Mi adorano[498] con fervore e devozione[499].

 

Dio non crea nulla dal nulla, dal vuoto, da una matrice di sogni senza sostanza. Egli crea prendendo dal proprio essere, in Lui resta il creato, tutto è nel suo essere e tutto proviene dal suo essere. Questa verità ammette e supera la visione panteistica delle cose. "Vàsudeva è tutto" (VII, 19); ma Vàsudeva è tutto ciò che appare nel cosmo Perché è anche quello che ne] cosmo non appare e tutto ciò che mai si manifesterà....

Questa conoscenza, trasposta sul piano affettivo ed emotivo sul piano del temperamento, diviene un amore calmo e un'intensa adorazione del Divino primigenio e trascendente, sopra di noi, del Signore sempre presente fra noi, del Dio nell'uomo e nella Natura. È una saggezza dell'intelligenza che si accompagna a uno stato di emozione spiritualizzata della Natura affettiva, bhava.

 

 

9. Il loro pensiero[500] è a Me rivolto, la loro vita[501] a Me consacrata, non parlano che di Me e reciprocamente svegliandosi [alla conoscenza], sono felici e pieni di gioia.

 

10. A coloro che in tal modo sono costantemente uniti [a Me] e Mi adorano di amore intenso[502], concedo lo yoga dell'intelligenza[503], grazie al quale vengono a Me.

 

Questo cambiamento del cuore e della mente è l'inizio di un cambiamento totale nella natura. Una nuova nascita, una nuova crescita interiore ci prepara all'unità con l'oggetto supremo del nostro amore e della nostra adorazione. L'anima trova un'intensa delizia d'amore, priti, nella grandezza, nella bellezza e nella perfezione dell'Essere divino, che vede ormai dovunque nel mondo e sopra il mondo. Questa profonda estasi sostituisce il piacere esteriore e distratto che la mente ha nella vita; o piuttosto attira a sé una gioia completa-mente diversa e trasforma, mediante una meravigliosa alchimia, i sentimenti della mente e del cuore e tutti i moti dei sensi.

Mediante lo yoga della volontà e dell'intelligenza, fondato sull' unione illuminata delle opere e delta conoscenza, la transizione si effettua nel passaggio dalle torbide regioni della nostra mente inferiore all'immutabile calma dell'Anima-testimone sopra la natura attiva. Ma ecco che mediante questo più grande yoga dell'intelligenza, fondato sull'unione illuminata dell'amore e dell'adorazione e in possesso di una conoscenza che tutto abbraccia, l'anima si eleva in una vasta estasi sino a raggiungere l'intera verità trascendente del Divino assoluto, origine di tutto. L'Eterno trova il suo compimento nello spirito e nella natura individuali; lo spirito indi-e si esalta, dalla nascita nel tempo sino alle infinite distese dell'Eterno.

 

 

11. Per pura compassione verso costoro, dimorando in loro[504], dissipo le tenebre che sorgono dall'ignoranza[505], mediante la splendente lampada della conoscenza[506].

 

Non appena questo stato interiore incomincia, sia pure nelle condizioni più imperfette, il Divino lo conferma mediante la perfezione dello yoga della volontà e dell'intelligenza. Ci illumina con la conoscenza, distrugge l'ignoranza della mente e della volontà che separano .e dividono, e si rivela allo spirito umano.


 

[b] IL DIVINO POTERE DI TRASFORMAZIONE

 

 

Arjuna disse:

12. Tu sei il supremo Brahman, il supremo rifugio, la suprema purezza; Tu sei l'Eterno, il divino Purusha, la Divinità primigenia[507], il Non-nato, l'Onnipresente[508].

 

Arjuna accetta l'insegnamento impartitogli dal divino Maestro. La sua mente si vede liberata dai dubbi e dalle ansiose ricerche; il suo cuore, non più rivolto verso l'aspetto esteriore del mondo e la sua sconcertante apparenza, ma verso il significato della suprema origine e della realtà interiore, è già libero dal dolore e dall'afflizione, toccato dalla gioia ineffabile della divina rivelazione. Le parole impiegate da Arjuna per esprimere la sua accettazione insistono ancora sulla realtà profonda di questa conoscenza, sulla pienezza che tutto abbraccia. Riconosce l'Avatàr, il Divino che, nel suo aspetto umano, gli parla come Supremo Brahman, come il Tutto ultracosmico e l'Assoluto dell'esistenza, in cui l'anima può rifugiarsi quando esce da questa manifestazione e da questo imperfetto divenire per ritornare all'origine. Lo riconosce come la suprema purezza di un'esistenza sempre libera cui Si giunge mediante l'annullamento dell'ego nell' impersonalità immutabile del Sé, eternamente calma e serena. Lo riconosce come l'Unico Permanente, l'Anima eterna, il divino Purusha Acclama in Lui il Divino primigenio, adora il Senza-nascita, Signore di tutte le esistenze, che si diffonde, penetra e risiede nel cuore di tutti.

 

 

13. Tutti i rishi cosi dicono di Te, e anche il divino veggente Nàrada[509]; Asita, Dévala e Vyàsa[510] l'hanno anche proclamato, e Tu stesso me lo dici.

 

È una saggezza segreta che ci proviene dai veggenti, da coloro che hanno visto la faccia di questa verità, che hanno ascoltato la sua parola, e il cui spirito ed essere si sono uniti ad essa. Oppure si può riceverla dall'intimo, mediante una rivelazione, un'ispirazione della Divinità interiore che c'illumina con la splendente luce della conoscenza.

 

 

14. Ritengo verità tutto ciò che mi dici, o Keshava[511]. Né gli déi[512] né i titani[513], o Beato, comprendono la Tua manifestazione[514].

 

Una volta rivelata, questa conoscenza dev'essere ricevuta con l'assenso della mente, della volontà, e con la gioia e sommissione del cuore - i tre elementi della completa fede mentale, shraddha. Cosi Arjuna l'accetta. Ma nelle profondità del suo essere, uscendo dall'intimità dell'essere psichico, sussiste ancora il bisogno di un più profondo possesso; è l'aspirazione dell'anima che richiama a sé l’inesprimibile realizzazione permanente, di cui la fede mentale non e che il preludio o l'ombra, e senza la quale non può esserci unione completa con l'Eterno.

 

 

15- In verità, Tu conosci Te stesso mediante Te stesso, o Purushottama[515], Origine di tutti gli esseri[516], Signore delle creature, Dio degli dèi, Signore dell'universo.

 

Arjuna riconosce nell'Avatàr non solamente il Meraviglioso che è di là da tutte le possibilità d'espressione, che nulla può manifestare, ma anche il Signore delle creature, unica causa efficiente di tutti i divenire, il Dio degli dèi da cui tutte le divinità sono sorte, il Signore di quest'universo che manifesta e governa dall'alto mediante il potere della sua Natura suprema e della sua Natura universale.

 

 

16. DegnaTi di rivelarmi, senza nulla tralasciare, le Tue divine vibhuti[517] mediante le quali Tu penetri i mondi e dimori [in essi e oltre][518].

 

Arjuna riconosce in noi e intorno a noi che questo Vàsudeva è tutte le cose mediante il potere dirigente delle vibhuti, suoi divenire, che penetrano il mondo, costituiscono tutto e in tutto dimorano.

 

 

17. Come posso riconoscerTi, o Yogi, costantemente meditando? In quale dei Tuoi aspetti[519] devo pensare a Te, o Beato?

 

Anche se Arjuna può aprirsi all'idea della suprema Divinità, all' esperienza del Sé immutabile, alla percezione diretta del Divino immanente, al contatto dell'Essere universale cosciente, trova difficile vedere Dio in ciò che ci appare come la verità dell'esistenza, scoprirLo nella Natura e dietro il travestimento dei fenomeni dell'universale divenire, in quanto tutto qui si oppone alla sublimità di questa concezione unificatrice. Come accettare di vedere il Divino sotto l'apparenza dell'uomo e dell'animale, dell'oggetto inanimato, nel nobile e nel vile, nel soave e nel terribile, nel bene e nel male? Almeno qualche sommaria indicazione si rende necessaria, qualche legame e punto di passaggio, degli aiuti indispensabili per là sforzo verso l'unità. Arjuna richiede inoltre l'enumerazione completa e particolareggiata dei principali poteri del divino divenire; desidera che nulla manchi a questa evocazione, nulla che rimanga per sconcertarlo.

 

 

18. Parlami ancora del Tuo Yoga[520] e della Tua manifestazione[521], senza omettere particolari, o janàrdana[522]; la Tua parola è nettare d'immortalità[523] e mai mi stanco di udirla.

 

Arjuna accetta la rivelazione che il Divino è tutto e il suo cuore trabocca di gioia - le parole pronunciate dal Maestro sono per lui il nettare d'immortalità, amrita. La Gita fa qui allusione a un fatto che non esprime in modo esplicito, ma che si trova frequentemente nelle Upanishad, e che più tardi fu sviluppato con grande intensità di visione dal Vishnuismo e dallo Shaktismo: la possibilità per l'uomo di vivere la gioia del Divino nell'esistenza cosmica, nell'ananda universale, nel giuoco della Madre e nella dolce bellezza del divino.

 

 

Il Beato Signore rispose:

19. Ebbene, sì; ti esporrò le Mie divine manifestazioni[524], ma soltanto le fondamentali, o Migliore fra i Kuru[525], poiché, in verità, non vi è limite al Mio estendersi.

 

Il resto di questo canto ci fornisce la descrizione sommaria delle principali manifestazioni, dei segni più importanti della forza divina presente nelle cose e negli esseri dell'universo. Si riceve dapprima l'impressione che l'esposizione di Krishna sia fatta alla rinfusa, senza un ordine prestabilito, tuttavia la descrizione ci permette di scoprire un principio. Questo canto viene chiamato lo Yoga delle Vibhúti - uno yoga indispensabile! Difatti, quando dobbiamo identificarci imparzialmente col divino Divenire universale in tutta la sua estensione - bene e male, perfezione e imperfezione, luce e tenebre -, dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che in questo Divenire esiste un potere di evoluzione ascendente, una crescente intensità di rivelazione divina, il segreto della gerarchia delle cose, che ci eleva sopra le prime apparenze ingannatrici e ci conduce, attraverso forme sempre più elevate, alla vasta Natura ideale del Divino universale.

 

 

20. Io sono Colui[526] che risiede nel Cuore di tutte le creature[527], o Gudàkesha[528]; e di tutti gli esseri[529] Io sono il principio, il mezzo e la fine.

 

Questa sommaria enumerazione incomincia dal principio primordiale che serve di base alla manifestazione dell'universo. In ogni essere e in ogni cosa Dio dimora velato, ma può essere scoperto.... È il divino Sé interiore, nascosto alla mente e al cuore in cui abita, ospite dell' anima che il Divino ha proiettato nella Natura per rappresentarlo. Egli mette in movimento e dirige l'evoluzione della nostra personalità nel Tempo e della nostra esistenza sensoria nello Spazio - Spazio e Tempo che costituiscono l'estensione e i movimenti concettuali del Divino in noi.

 

 

21. Degli Aditya[530] sono Vishnu, delle luci il sole radiante, dei Marut[531] sono il Marici, e tra i corpi celesti la luna.

 

Di tutti questi esseri viventi, divinità cosmiche, creature sovrumane infraumane, e di tutte queste qualità, poteri e oggetti, il primo, il principale, il più grande in qualità è un potere speciale del divino Divenire - una vibhuti.

 

 

22. Tra i Veda Io sono il Sama Veda[532]; tra gli dèi sono Vàsava[533]; dei sensi sono la mente[534], e negli esseri viventi[535] la coscienza[536].

 

23. Dei Rudra[537] sono Shankara[538]; Vittesha sono tra gli Yaksha e i Ràkshasa[539]; dei Vasu[540] sono Pàvaka[541] e Meru[542] tra le alte montagne.

 

24. Dei preti familiari, o figlio di Prithà, sappi che Io sono il capo, Brihaspati; sono Skanda[543] tra i condottieri, e dei laghi sono l'oceano.

 

25. Sono Bhrigu tra i grandi rishi, e delle parole la sillaba AUM[544]; delle preghiere sono il japa[545], e delle cose immobili l'Imalaia.

 

26. Degli alberi Io sono l'ashvattha[546]; sono Nàrada[547] tra divini veggenti, Chitraratha dei Gandharva[548], e dei perfetti[549] il saggio Kapila[550].

 

27. Dei corsieri, sappi che Io sono Uchchaihshrayà, nato dal nettare[551], e Airàvata tra i maestosi elefanti; e degli uomini Io sono il re.

 

28. Delle armi Io sono la folgore; delle vacche sono la vacca Kàmadhuk[552]; sono Kandarpa[553] tra coloro che generano, e dei serpenti Vàsuki.

 

29. Dei nàga[554] sono Ananta[555], degli spiriti delle acque Varuna[556]; dei mani[557] sono Aryaman[558], e fra coloro che governano sono Yama[559].

 

30. Sono Prahlida tra i titani[560]; dei calcolatori Io sono il Tempo[561]; delle bestie selvagge sono il leone[562], e degli uccelli Vainateya[563].

 

31. Dei purificatori, Io sono il vento; dei guerrieri, Rama[564], e il gaviale[565] tra gli abitanti delle acque; dei fiumi, sono il Gange.

 

32. Delle creazioni Io sono il principio e la fine, e anche il mezzo, o Arjuna; delle scienze[566] sono la scienza del Sé[567], e dell'oratore la dialettica.

 

33. Delle lettere Io sono la lettera A, e delle regole grammaticali sono quella delle parole composte[568]; sono anche il Tempo[569] imperituro, e l'Ordinatore [di tutte le creature] che guarda da ogni parte[570].

 

Dio ò il Tempo imperituro, senza principio e senza fine, la più evidente forza del divenire e l'essenza di tutto il movimento universale. In questo movimento del Tempo e del Divenire, Dio appare alla nostra concezione e all'esperienza che di Lui abbiamo mediante l'evidenza delle opere, come il Potere divino che ordina tutto e pone ogni movimento nel posto che gli spetta. Sotto la forma di spazio, è Lui che vediamo in tutte le direzioni, con i suoi milioni di corpi e le sue miriadi di spiriti, manifestati in ogni creatura; è Lui stesso che vediamo in tutto ciò che ci circonda.

 

 

34. Io sono la morte che tutto divora e la nascita delle cose destinate ad essere; tra la parole femminili sono la gloria, la bellezza e la prosperità, la parola, la memoria, l'intelligenza, la costanza e la pazienza.

 

Nell'universo Dio ci appare anche come lo spirito universale di distruzione che sembra creare per poi distruggere. Tuttavia il suo Potere di divenire non cessa mai di agire, in quanto la rinascita e la forza di nuove creazioni vanno sempre di pari passo con la forza di morte e distruzione.

 

 

35. Tra gl'inni del Sàma, Io sono il Brihat-sama[571], dei metri sono Gayatri[572]; dei mesi màrgashirsha[573], e delle stagioni quella dei fiori.

 

36. Del giocatore[574] Io sono lo spirito del rischio, lo splendore dello splendido; sono la risolutezza e la vittoria, sono la forza[575] del forte[576].

 

37. Dei Vrishni[577] Io sono Vàsudeva, Dhananjaya tra i Pandava[578]; dei saggi sono Vyasa[579] e dei poeti il saggio Ushanà[580].

 

Lo stesso Krishna che, nel suo essere interiore e divino, rappresenta la divinità in forma umana, è, nel suo essere esteriore e umano, la guida del suo tempo, l'eroe dei Vrishni. L'avatàr è anche una vibhúti. La vibhúti umana è l'eroe della specie in lotta per il divino adempimento, l'eroe nel senso di Carlyle, un potere divino nell'uomo.

 

 

38. Sono lo scettro dei sovrani e la saggezza politica di coloro che cercano la vittoria; dei segreti lo sono il silenzio, e la conoscenza di coloro che sanno.

 

39. E anche il seme di tutti gli esistenti[581], quali che siano, o Arjuna, poiché nulla di animato o d'inanimato può esistere senza di Me.

 

Qualunque sia il grado di manifestazione, tutti gli esseri sono, a loro modo e secondo la loro natura, poteri della Divinità.... Il Divino è il seme di tutte le creature, e di questo seme esse sono i rami e i fiori. solamente ciò che esiste nel germe del loro essere può svilupparsi nella natura.

 

 

40. Le Mie divine manifestazioni[582] sono senza fine, o parantapa[583], e solo ti ho esposto qualche esempio della Mia gloria infinita[584].

 

41. Tutto ciò che esiste di glorioso[585], di bello, di possente, sappi che ha avuto origine da una particella del Mio splendore[586].

 

Tutte le categorie, i generi, le specie e tutti gl'individui, sono vibhúti dell'Unico, Ma dato che Egli diviene apparente grazie al suo potere, la sua evidenza ci appare in modo particolare in tutto ciò che ha un valore preminente o sembra agire con forza speciale. Di conseguenza, possiamo vederlo soprattutto in coloro in cui il naturale potere della specie raggiunge la più alta manifestazione e l'indirizzo più rivelatore. In un certo senso, sono questi delle vibhúti.

 

 

42. Ma quale bisogno hai di conoscere tutti questi particolari, o Arjuna? [Ricordati che] solo con una parte di Me stesso Io sostengo tutto questo Universo e [che in esso e oltre esso] Io dimoro[587].

 

Tuttavia il potere e la manifestazione più alti non sono ancora che minime rivelazioni dell'Infinito. Lo stesso intero universo non è animato che da una piccola parte della sua grandezza, illuminato da un solo raggio del suo splendore, glorioso grazie a un lieve tocco della sua bellezza e della sua gioia. Questo è il senso che i versetti di questo canto ci hanno esposto e che possiamo considerare come il centro del suo significato.


CANTO XI
LA VISIONE DELLO SPIRITO UNIVERSALE

[a] IL TEMPO, DISTRUTTORE DEI MONDI

 

 

Arjuna disse:

1. Il sublime segreto[588] di ciò che é chiamato il principio del Sé[589] , la Tua bontà me lo ha rivelato; le Tue parole hanno dissipato la mia illusione[590].

 

L'illusione che con tanta tenacia possiede i sensi e la mente dell'uomo - l'idea che le cose esistano per virtù propria, indipendente-mente da Dio, o che una cosa sottoposta alla Natura possa muoversi e dirigersi per virtù propria -, questa illusione che era la causa dei dubbi di Arjuna, del suo smarrimento e del suo rifiuto di agire, è dissipata.

 

 

2. Ti ho ascoltato parlare della nascita e della dissoluzione degli esseri, e della Tua imperitura grandezza, o Tu, dagli occhi quali petali di loto[591].

 

Arjuna conosce adesso il senso della nascita e della dissoluzione degli esseri. So che la grandezza dell'Anima divina cosciente è il segreto dell'esistenza. Tutto è lo yoga dell'eterno grande Spirito negli esseri e nelle cose, e ogni avvenimento, il risultato e l'espressione di questo yoga; l'intera Natura contiene velato il Divino e lavora attivamente a rivelarlo.

 

 

3. È certamente come hai detto di Te stesso, o supremo Signore[592], ma vorrei vederTi nella Tua forma sovrana[593], o Purushottama.

 

4. Se Tu pensi che questa visione mi sia possibile, o Signore[594], Maestro dello yoga[595], mostrami il Tuo imperituro Sé[596].

 

Arjuna vorrebbe vedere la forma e il corpo del Divino, se la cosa fosse possibile.... La visione del Purusha universale è uno dei passaggi più conosciuti e più potentemente poetici della Gita, ma il posto che le compete nel pensiero dell'opera non appare immediatamente. Questa visione è, nella sua intenzione, un simbolo poetico rivelatore; prima di poterne afferrare il senso, bisogna vedere come è condotta, quale ne è il disegno e scoprire anche ciò che rappresenta nei suoi aspetti più significativi. Arjuna la richiede spinto dal desiderio di contemplare l'immagine vivente, la grandezza visibile del Divino invisibile, l'incarnazione dello Spirito e del Potere che governano l'universo.... Ciò che chiede di vedere non è certamente il silenzio nella sua forma d'immutabilità inattiva, ma il Supremo da cui sono uscite tutte le energie e tutte le opere, Colui le cui forme sono travestimenti e che rivela la sua forza attraverso le vibhuti - il Signore delle opere, il Signore della conoscenza e dell'adorazione, il Signore della Natura e di tutte le creature. Questa visione universale e sublime, la richiede perché in tal modo deve ricevere, dallo Spirito che si rivela nell'universo, l'ordine di compiere la sua missione nell'azione cosmica.

 

 

Il Beato signore disse:

5. Osserva dunque, o figlio di Prithà, le centinaia, le migliaia di forme divine che rivesto, diverse in natura, forma e colore.

 

6. Guarda gli Aditya, i Vasu, i Rudra, i due Ashvin e anche i Marut[597]; guarda, o Bhàrata, le molte altre meraviglie che nessuno, prima d'ora, ha contemplato.

 

7. Osserva l'universo intero e tutto ciò che contiene d'animato e d'inanimato; eccolo qui unificato[598] nel Mio corpo, o Gudàkesha, con ogni altra cosa tu voglia vedere.

 

La nota dominante (della visione che si apre davanti ad Arjuna), il significato centrale, è la visione dell'Unico nel Molteplice, del Molteplice nell'Unico - tutti sono l'Uno. È ciò che, agli occhi dello yoga divino, libera, giustifica, spiega tutto ciò che è, che è stato e che sarà. Una volta percepita e ritenuta, questa visione colpisce con la scintillante scure divina la radice dei dubbi e delle perplessità, annullando tutti i rifiuti e tutte le opposizioni. È la visione che concilia e unifica. Se l'anima può giungere all'unità col Divino che questa visione rivela - Arjuna non l'ha ancora realizzato, e per questo è terrorizzato da ciò che vede - tutto perde nel mondo il suo orrore, anche la cosa più terribile. Percepiamo allora che anche l'orrido è un aspetto del Divino, e che una volta afferrato il divino significato, possiamo accettare la totalità dell'esistenza con coraggio e con una gioia che supera tutti gli ostacoli; possiamo camminare con passo sicuro verso l'opera che ci è stata assegnata e, dietro di questa, scorgere il supremo adempimento. L'anima ammessa alla divina conoscenza che abbraccia tutto con un solo sguardo - non mediane una visione parziale, divisa e di conseguenza conturbante e angosciosa - è capace di scoprire un nuovo mondo e "ogni altra cosa voglia vedere", e può, sulla base di questa visione che tutto unisce e unifica, avanzare di rivelazione in rivelazione.

 

 

8. Ma tu non puoi vederMi con l'occhio della tua condizione umana. Ricevi dunque la visione divina[599] e contempla il Mio supremo yoga[600].

 

L'occhio umano non può vedere che le apparenze esteriori delle cose e farne delle forme simboliche separate, capaci solo di rivelare qualche aspetto dell'eterno mistero.

 

 

Sanjaya disse:

9-11. Quando Hari[601], il Signore dello Yoga, ebbe così parlato, o re[602], svelò al figlio di Prithà la suprema forma divina dai numerosi e meravigliosi aspetti, dalle innumerevoli bocche e occhi, rivestita di ornamenti divini e provvista di armi divine pronte [a colpire], ornata di ghirlande e di abiti divini, unta con unguenti e profumi celesti, splendente di tutte queste meraviglie, senza limiti e col volto che guarda in tutte le direzioni[603].

 

12. Se improvvisamente si levasse nel cielo la luce di mille soli, sarebbe appena comparabile allo splendore di questo sublime Essere[604].

 

13. Il figlio di Pàndu contemplò allora l'intero universo, con le sue molteplici divisioni, unificato[605] nel corpo del Dio degli déi[606].

 

14. Allora, stupefatto e con brividi d'emozione[607], Dhananjaya si prosternò davanti alla Divinità e, con le mani giunte, parlò.

 

Arjuna disse:

15. Nel Tuo corpo, o Dio, vedo tutti gli dèi e la moltitudine dei vari esseri; Brahmà[608], il Signore[609], seduto sul fiore di loto; tutti i rishi e i serpenti celesti[610].

 

16. Da ogni parte vedo la Tua forma infinita[611], con innumerevoli braccia, ventri e occhi; Ti contemplo, o Signore dell'universo[612], in Te non vedo né principio, né termine, né parte di mezzo, o Signore di tutto e Forma universale[613].

 

17. Ti vedo cinto del diadema, tenendo la mazza e il disco[614], quale massa di luce[615] ovunque risplendente; il Tuo splendore[616] irradia da tutte le parti e nella Tua immensità abbagli i miei occhi come il fuoco e il sole.

 

18. Tu sei l'Immutabile[617], il supremo oggetto di conoscenza; Tu sei l'ultimo rifugio[618] di quest'universo; Tu sei il guardiano della legge[619] eterna, che non viene mai meno; Tu sei per me l'Anima primigenia[620].

 

19. lo Ti contemplo, o Potere[621] infinito, senza principio, senza parte di mezzo e senza fine, Tu dalle innumerevoli braccia, che hai per occhi il sole e la luna; io vedo nella Tua bocca incandescente il fuoco del sacrificio; la Tua energia[622] avvampa col suo splendore tutto quest'universo,

 

Nella grandezza di questa visione esiste anche l'immagine terrificante del Distruttore. Questo infinito Potere, senza né principio né fine, è Colui da cui tutto incomincia, in cui tutto esiste e finisce. Questo Divino abbraccia i mondi con le sue innumerevoli braccia e li distrugge con le sue innumerevoli mani.

 

 

20. Lo spazio fra la terra e il cielo è pieno di Te, o Essere sublime[623]; i tre mondi[624], alla vista della Tua forma meravigliosa e terribile, sono immersi nell'angoscia.

 

21. Ecco che in Te penetra la moltitudine degli dèi[625]; pieno di emozione qualcuno di essi giunge le mani e T'invoca; il coro dei perfetti[626] e dei grandi rishi[627] Ti saluta[628] e inneggia a Te con inni di splendida esaltazione.

 

22. I Rudra, gli Aditya, i Vasu e i Sàdhya, i Vishve-deva, gli Ashvin, i Marut e gli Ushmapà[629], le legioni dei gandharva[630], degli yaksha[631], degli asura[632] e dei siddha[633] Ti contemplano pieni di stupore.

 

30. Le Tue lingue di fiamma leccano i mondi da tutte le parti, divorandoli. I raggi della Tua energia riempiono quest'universo, o Vishnu; il loro ardore terrificante li consuma.

 

31. Dimmi chi sei, Tu dalla forma che ispira terrore. Io mi prosterno davanti a Te, suprema Divinità[634], siimi benevolo! Voglio conoscerTi, Tu, l'Essere primigenio, perché in verità non comprendo il Tuo modo di operare[635].

 

Quest'ultimo grido di Arjuna mette in evidenza il doppio significato della visione. Essa è l'immagine dell'Essere universale e supremo, dell'Antico dei Giorni, che esiste eternamente. Lui è l'eterno creatore, poiché Brahma, il creatore, è una delle divinità che si vedono nel suo corpo; Lui il preservatore dell'esistenza del mondo, perché guardiano delle eterne leggi; ma è anche Lui l'eterno distruttore, che distrugge per poter creare di nuovo. Lui il Tempo, la Morte, Rudra (Shiva), il danzatore dalla danza calma e terribile. Lui Kàli dalla ghirlanda di crani, nuda nella battaglia, che calpesta i corpi dei titani massacrati, spruzzata dal loro sangue. Lui il ciclone, l'incendio e il terremoto, il dolore, la carestia, la rivoluzione e la rovina, e l'oceano che inghiotte.

È un aspetto da cui lo spirito umano preferisce ritrarsi per non avere la visione del Terribile, come lo struzzo che nasconde la resta. La debolezza del cuore umano non desidera che verità gradevoli e confortanti o, in mancanza di queste, piacevoli favole. Non vuole la verità integrale in cui tante cose non sono né chiare né piacevoli, ma dure da comprendere e ancor più dure da sopportare.

La spiritualità indiana sa che Dio è Amore, Pace e calma Eternità. La Gita stessa, che ci presenta queste terribili immagini, parla del Divino che s'incarna in esse come dell'amico e dell'amante delle creature. Ma la divina direzione del mondo possiede anche un aspetto più severo, quello che abbiamo incontrato nelle prime pagine - l'aspetto di distruzione -, e trascurarlo significherebbe mancare in pieno la realtà dell'Amore divino, della Pace e della calma Eternità del Divino, e anche gettare su questi elementi un velo di parzialità e d'illusione, perché la forma esclusivamente gradevole, in cui vorremmo rinchiuderli, non sarebbe convalidata dalla natura del mondo in cui viviamo. Il mondo del nostro lavoro e delle nostre battaglie è un mondo violento, pericoloso, distruttore e divoratore, in cui la vita non esiste che allo stato di precarietà e dove il corpo e l'anima dell'uomo si muovono in mezzo a pericoli enormi, un mondo in cui, lo vogliamo o no, ogni passo in avanti schiaccia o spezza qualcosa, dove ogni soffio di vita è anche un soffio di morte.

Caricare sulle spalle di un diavolo semi-onnipotente la responsabilità di tutto ciò che ci sembra malvagio e terribile o metterlo da parte come una parte della Natura, creando in tal modo un'opposizione irriducibile fra la Natura universale e la Natura divina (quindi fra la Natura e Dio) - come se la Natura fosse indipendente da Dio! -, oppure gettare la responsabilità sull'uomo e i suoi peccati, come se quest'ultimo avesse una funzione preponderante nella costruzione del mondo o potesse creare qualcosa contro la volontà di Dio, sono sotterfugi comodi, ma malaccorti, ai quali il pensiero religioso dell'India non ha mai fatto ricorso. Bisogna guardare coraggiosamente la realtà e vedere che è Dio e nessun altro, che nel Suo essere ha creato il mondo e che l'ha fatto così come lo vediamo. Bisogna vedere che la Natura che divora i suoi figli, il Tempo che corrode la vita delle creature, la Morte universale e ineluttabile, la violenza delle forze di Rudra, nell'uomo e nella Natura, sono anche la suprema Divinità sotto uno dei suoi aspetti cosmici. Il tormento sul letto di dolore e d'infortunio su cui giacciamo torturati, è il suo tocco, come lo sono la felicità, la dolcezza e il piacere. Solamente quando potremo vedere con l'occhio della completa unione e potremo sentire questa verità nelle profondità del nostro essere, avremo la possibilità di scoprire completamente, dietro la maschera, il viso calmo e bello della Divinità tutta beatitudine e, nel Suo tocco che sonda le nostre imperfezioni, il contatto dell'amico che costruisce in noi lo Spirito. Le discordie del mondo sono le discordie di Dio e solamente accettandole e progredendo attraverso di esse potremo raggiungere i più grandi accordi della Sua suprema armonia, le sommità, le immensità vibranti del Suo ànanda cosmico e trascendente.

Qual è dunque il senso di questa fiamma creatrice e divorante rappresentata dall'esistenza mortale, di questa lotta che si estende sul mondo intero, di queste continue e disastrose rivoluzioni, di questi sforzi e di queste angosce, di questo doloroso parto e di questa estinzione delle creature? Arjuna formula la vecchia domanda ed esprime l'eterna preghiera.

 

 

Il Beato Signore disse:

32. Io sono il Tempo distruttore dei mondi, divenuto maturo e impegnato quaggiù nello sterminio di questi popoli. Anche senza di te questi guerrieri schierati in eserciti rivali cesseranno d'essere.

 

Certamente il Divino non vuole far capire che egli è solo lo Spirito del Tempo o che tutta l'essenza dello Spirito del Tempo è la distruzione. Ma è questo per il momento il piano delle sue opere.

La distruzione si muove sempre alla pari con la creazione - simultaneamente o in movimenti alternati - ed è mediante la distruzione e il rinnovo che il Signore della Vita assicura il lungo lavoro di preservazione. La distruzione è quindi la prima condizione del progresso. Interiormente, l'uomo che non distrugge le proprie formazioni inferiori non può elevarsi a un'esistenza più grande. Esteriormente, anche la nazione, la comunità o la razza che rifiuta troppo lungamente di distruggere le sue antiche forme di vita si vede distrutta, oppure invecchia e muore, e dalle sue macerie emergono nuove nazioni o razze.

 

 

33. Sorgi quindi, ottieni la gloria, trionfa sui tuoi nemici e godi di un opulento regno. Essi sono già stati da Me uccisi; sii semplicemente lo strumento [della loro perdita], o Abile arciere[636].

 

Il mio è un disegno lungimirante, risponde il Divino ad Arjuna, un disegno che realizzerò infallibilmente e che né la partecipazione né l'astensione di un qualunque essere umano può alterare o modificare, in quanto tutto è già da Me compiuto nell'occhio eterno della Mia volontà prima ancora che l'uomo sulla terra possa pensare ad intra-prenderlo. Io, come Tempo, devo distruggere le vecchie strutture e edificare un nuovo regno, splendido e potente. Tu, quale strumento umano del Potere e della Saggezza divini, in questa lotta che non puoi impedire, devi combattere per il diritto, uccidere e vincere i tuoi avversari. E come anima umana nella Natura, devi godere nella Natura i frutti che ti offro, l'impero del diritto e della giustizia. Ti basti avere l'anima unita a Dio, ricevere i Suoi ordini, compiere la Sua volontà, osservare con calma il disegno supremo compiersi nel Inondo L'uomo può andare oltre la lotta e la battaglia solo scoprendo la più alta legge della sua immortalità.

 

34. Drona, Bhishma, Jayadratha, Karna e tutti questi altri eroici guerrieri, sono già stati da Me uccisi; distruggili dunque e non affliggerti. Combatti, vincerai i tuoi avversari.

 

Questo è l'ordine finale e imperioso dato al protagonista della batta-glia del mondo. Il frutto di questo grande e terribile atto è promesso e annunciato ad Arjuna, non come un frutto da lui bramato - per questo frutto non deve esservi nessun desiderio -, ma come il risultato della volontà divina: la gloria e il successo nell'adempimento del compito che dev'esser portato a termine, la gloria che il Divino con-cede a sé stesso attraverso la sua vibhuti.

 


 

[b] IL DOPPIO ASPETTO

 

 

Sanjaya disse:

35. Avendo udito da Keshava[637] queste parole, Kiriti[638] con le mani congiunte, tremante di paura, rendendo nuovo omaggio, con voce mozza disse a Krishna:

 

Arjuna disse:

36. A ragione, o Hrishikesha[639], il mondo gode e trova piacere cantando il Tuo nome. I ràkshasa terrorizzati fuggono in tutti i sensi e la moltitudine dei perfetti s'inchina [in adorazione].

 

Mentre Arjuna è ancora sotto l'effetto terrificante della visione, le prime parole che pronuncia non appena il Divino cessa di parlare esprimono eloquentemente una realtà più grande che, dietro l'aspetto della morte e della distruzione, esalta e rassicura. Il nome e la presenza del Divino hanno qualcosa che riempie di gioia il cuore del mondo. È il senso profondo della visione. La tenebrosa faccia di Kali si rivela come il dolce viso della Madre, e nello stesso seno della distruzione si sentono le braccia protettrici dell'Amico delle creature; nel male la pura e inalterabile Benevolenza, e nella morte l'immoralità. I ràkshasa, gigantesche e feroci potenze di tenebra, terrorizzati dal Re dell'azione divina, fuggono disfatti, vinti, distrutti. Ma i siddha, i perfetti, i realizzati, coloro che sanno, cantano i nomi dell'Immortale e vivono nella verità del suo essere, si prosternano davanti alle sue forme perché conoscono di chi questa verità é l'altare e ciò che essa significa. Nessuno ha bisogno di aver paura, salvo ciò che dovrà essere distrutto: il male, l'ignoranza, coloro che tessono i veli della Notte, i poteri rakshasici. Ogni movimento, ogni azione di Rudra (nome vedico di Shiva) il Terribile ha come ultimo scopo la perfezione, la luce e la divina pienezza.

 

 

37. Perché non dovrebbero renderTi omaggio, o Spirito sublime[640], a Te Creatore delle origini, più grande dello stesso Brahmà? Essere infinito, Signore degli dèi[641], Rifugio dei mondi, Tu sei l'Imperituro, l'Essere e il Non-essere[642], e tutto Ciò che è oltre questi termini[643].

 

La creazione divina è eterna. Essa è l'Infinito che si manifesta eterna-te nelle cose finite, lo Spirito che si cela e si rivela nel numero infinito delle anime, nella meraviglia dei loro atti e nella bellezza delle forme. Ma oltre questa diversità esiste il Supremo che mantiene queste mutevoli cose nell'unica eternità del Tempo in cui tutto è eternamente presente.

 

 

38. Tu sei la Divinità primigenia[644], l'Anima non derivata[645], il luogo di riposo del mondo. Tu sei il conoscitore, l'oggetto di conoscenza e il supremo rifugio. Tu la forma infinita[646] da cui quest'universo si è diffuso.

 

È il Conoscitore che sviluppa nell'uomo la conoscenza di sé, la conoscenza del mondo e quella di Dio; Egli è l'unico Oggetto di conoscenza che si rivela nel cuore, nella mente e nell'anima dell'uomo, così perfettamente che ogni forma a cui si apre la nostra conoscenza rappresenta una delle sue parziali manifestazioni che si svolgono sino al culmine in cui Lo scopriamo e Lo vediamo nell'intimo, in profondità e integralmente.

 

 

39. Tu sei Vàyu, Yama, Agni, Varuna, Shashànka e Prajàpati[647], il grande Antenato. Ti saluto, mille volte Ti saluto, e ancora di nuovo Ti saluto!

 

Rappresenta gl'innumerevoli dèi, dal più piccolo al più grande; è il padre delle creature che formano il suo popolo. È l'origine di Brahmà, il padre dei divini creatori e di ogni specie di esseri viventi.

 

 

40. Mi prosterno davanti a Te, dietro a Te e da ogni parte, o Tutto. Dalla potenza infinita, senza limiti nell'azione, Tu penetri tutto - in verità, Tu sei la totalità e il singolo.

 

Su questa verità la Gita insiste costantemente. Essa ripete ancora e ancora che Egli è tutto e ognuno - sarvah. È l'Essere universale infinito, ciascuno degli esseri individuali e tutto ciò che esiste, la Forza unica e l'Essere unico in ciascuno di noi.

 

 

41-42. Se talvolta temerariamente Ti ho chiamato: “Krishna!” o "Figlio di Yadu![648]" oppure "Amico mio!"; se non sono stato capace di riconoscere la Tua grandezza per mancanza di attenzione o forse per affetto; se scherzando Ti ho offeso, o Incrollabile, sia giocando, stando seduto, a letto o a tavola, solo o in compagnia[649], degnaTi di concedermi il perdono, Tu che sei senza limiti.

 

Quest'Essere supremo e universale ha vissuto sulla terra, davanti ad Arjuna, con aspetto umano in un corpo mortale - Uomo divino, Divino incarnato, Avatàr - e Arjuna non l'ha riconosciuto. Non ne ha visto che l'aspetto esteriore e ha trattato il Divino come una semplice creatura umana. Non è stato capace di andare oltre il travestimento terrestre sino a percepire la Divinità di cui l'umano era il ricettacolo e il simbolo, e prega adesso questa Divinità di perdonare la sua cieca noncuranza e ignoranza negligente. Solo adesso ha potuto contemplare la formidabile Realtà, infinita, incommensurabile, che si nasconde dietro le apparenze, la Forma universale, senza limiti, che supera le forme individuali, di cui tuttavia ogni cosa, ogni essere, sono la dimora.

 

 

43. Tu sei il padre del mondo di ciò che si muove e di ciò che non si muove; Tu sei l'oggetto del suo culto e il Maestro venerando[650]. Nulla Ti uguaglia, e chi dunque potrebbe essere superiore [a Te] nei tre mondi[651], o Essere dalla potenza incomparabile?

 

44. Perciò m'inchino davanti a Te rendendoTi omaggio, Signore degno di lode, e invoco la Tua grazia. Sii indulgente, o Signore, come il padre verso il figlio, l'amico verso l'amico, l'amante verso l'amata.

 

Ciò che simbolizza la manifestazione umana e i rapporti umani è anche una realtà, Bisogna però vederne la trascendenza e l'aspetto cosmico, altrimenti i limiti dell'umanità non potrebbero essere superati. Tutto dev'essere incluso in questa unità unificatrice. Ma questa visione può creare un abisso fra lo Spirito trascendente e l'anima, cosi limitata e legata alla Natura inferiore. La presenza infinita, nel suo splendore senza veli, sarebbe troppo abbagliante per l'isolata insignificanza dell'uomo naturale e individuale. Diviene necessario un punto d'unione che permetta all'essere naturale e individuale dell'uomo di vedere nel Divino universale un essere a lui vicino, e non solamente un Divino onnipotente che tutto sostiene mediante un Potere universale e incommensurabile, Ha bisogno di un Divino che prenda forma umana e, in una relazione individuale e intima, lo sostenga e guidi sino all'unità.

Il Divino abita l'anima e il corpo umani, riveste la forma e la mente umane. Assume le relazioni umane nelle quali l'anima finge di sottomettersi al corpo mortale, e queste trovano in Dio il pieno significato e l'ultima realizzazione. Ciò che nella Gita si trova in embrione è la bhakti vishnuita, che doveva ulteriormente ricevere un'estensione più profonda, più significativa e più estatica.

 

 

45. Da quando ho visto ciò che nessuno ha mai visto, sono immerso nella gioia, ma il terrore turba ancora il mio spirito[652]. Mostrami ancora quella Tua altra forma, o Signore! Siimi benevolo, Signore degli dèi[653], rifugio del mondo[654].

 

46. Vorrei vederTi ancora col diadema, la mazza e il disco[655]. Riprendi la forma dalle quattro braccia[656], Tu che hai mille braccia e che assumi la forma dell'universo[657].

 

Per lo spirito liberato e forte, la forma dell'Essere universale e tra-scendente è un potente stimolo che incoraggia e fortifica, una sorgente di potere, una visione che sublima, che armonizza, che tutto giustifica; ma per l'uomo comune è orrida, terrificante, indescrivibile. Dal lato opposto esiste la gentile forma mediatrice del divino Nàràyana[658]*, il Dio vicino all'uomo e nell'uomo, l'Auriga[659]** nella battaglia e nel viaggio, con le quattro braccia di nume tutelare, simbolo umanizzato del Divino e non più universalizzato dai milioni di braccia. È l'aspetto mediatore che l'uomo deve avere costantemente davanti a sé per essere sostenuto. Questa figura di Nàràyana simbolizza la verità rassicurante. Essa rende vicina, viva, visibile e sensibile - alla vita e allo spirito interiori dell'uomo - la vasta gioia spirituale in cui si adempiono, in un meraviglioso e promettente slancio, e oltre un formidabile movimento ciclico di avanzamento e di regresso, la marcia e il progresso universali.

 

 

Il Beato Signore disse:

47. Per Mia grazia, o Arjuna, hai potuto vedere questa sublime e radiosa[660] forma, questa forma universale, primigenia, infinita. Te l'ho rivelata mediante il Mio yoga[661] e nessuno all'infuori di te l'ha mai contemplata.

 

È un'immagine del Mio proprio Sé, del Mio Spirito, dice il Signore, è la forma che il Supremo ha assunto nell'esistenza cosmica, e l'uomo che è in perfetta unione con Me la vede senza tremare, senza smarrimenti o confusione di spirito, perché discerne non solamente l'apparenza terribile e orrida di questa visione, ma anche il suo più elevato e, rassicurante significato.

 

 

48. Non per mezzo dei Veda, dei sacrifici e neppure attraverso i doni, i riti o le severe austerità posso essere visto dal mondo degli uomini in questa Mia forma. Solamente a te, o Eroe dei Kuru[662], è concesso vederMi.

 

49. Non angosciarti, non turbarti per aver visto questo Mio terrificante aspetto[663]. Rifiuta la paura e rallegra il tuo cuore; osserva di nuovo questa Mia altra forma.

 

Ma, dato che la tua natura inferiore non è ancora pronta per vedere questa forma suprema senza sgomentarsi, assumerò di nuovo per te l'aspetto di Nàràyana in cui lo spirito umano trova, isolate e adattate alla sua umanità, la calma, l'aiuto e la gioia di una Divinità amica.

 

 

Sanjaya disse:

50. Cosi, l'Essere sublime[664], avendo parlato ad Arjuna, riprese la sua forma di Vàsudeva[665] e il suo dolce viso riconfortò l'atterrito Arjuna.

 

Arjuna disse:

51. Adesso che ho rivisto la Tua bella forma umana, o Liberatore degli uomini, sono rientrato in possesso della ragione[666] ed ho ripreso possesso della mia [vera] natura.

 

Il Beato Signore disse:

52. Questa forma che hai contemplato è difficile da essere vista; gli dèi stessi[667] ne desiderano continuamente la visione[668].

 

53. Non è per mezzo dei Veda, né per le austerità, né mediante i doni o i sacrifici che è possibile farMi apparire come tu Mi hai visto.

 

54. Solo mediante la devozione assoluta[669] si può conoscerMi sotto questo aspetto, o Arjuna, vederMi nella Mia essenza e penetrare in Me, o Terrore dei nemici.

 

L'uomo, impiegando certi metodi, può conoscere questo o quell' aspetto dell'Esistenza unica, le sue forme individuali o cosmiche, ma non questa suprema Unità che concilia tuffi gli aspetti del Divino e in cui, in un solo e stesso istante, in una sola e stessa visione, tutto è manifestato, tutto consumato. Questa visione non può essere raggiunta che mediante l'adorazione assoluta, mediante l'amore e l'unità intima che corona l'adempimento della via delle opere e di quella della conoscenza. Esiste una suprema coscienza tramite cui è possibile entrare nella gloria del Trascendente e, in Lui, contenere il sé immutabile e la totalità del Divenire mutevole, essere uno con tutto e tuttavia sopra tutto, superare il mondo e tuttavia abbracciare la Natura cosmica e la Natura ultracosmica del Divino. Per l'uomo limitato, imprigionato dalla mente e dal corpo, raggiungere questa coscienza è difficile, ma nel versetto finale il Divino mostra la via.

 

 

55. Colui che agisce in Me[670], che Mi assume come supremo scopo[671], a Me devoto[672], libero da attaccamenti e puro di ogni inimicizia verso le creature, quegli viene a Me, o figlio di Pàndu.

 

In altre parole: il dominio della natura inferiore, l'unità con tutte le creature, l'unione col Divino cosmico e trascendente, l'identità di volontà col Divino nelle opere, l'amore assoluto per l'Uno e per Dio in tutti, sono la via che conduce a quest'assoluto superamento del sé spirituale, a questa inimmaginabile trasformazione.


CANTO XII

LO YOGA DELLA DEVOZIONE

 

 

Arjuna disse:

1. Fra questi devoti, quali hanno la più grande conoscenza dello yoga: coloro che Ti adorano, sempre a Te uniti[673], o coloro che ricercano l'Immutabile non manifestato[674]?

 

Il problema presentato da Arjuna verte sulla differenza fra la concezione vedantina corrente della libertà spirituale e quella più ampia offerta dalla Gita.... Lo yoga ortodosso della conoscenza aspira all'immersione totale e definitiva nell'infinita esistenza unica; solo questo stato è considerato come la totale liberazione. Per lo yoga dell'adorazione, la grande liberazione consiste nel vivere nel Divino o nell'essere a Lui vicini. Lo yoga delle opere conduce all'unità di natura e di forza d'essere. Ma la Gita, nella sua universalità, riunisce tutti questi yoga e li fonde in una sola libertà e perfezione divine più grandi e più ricche.

Arjuna ha ricevuto dapprima l'ingiunzione d'immergere la sua personalità separata nell'impersonalità calma del Sé unico, eterno e immutabile - insegnamento che si accordava con le nozioni da lui possedute e perciò senza sollevare obiezioni da parte sua. Ma ecco che viene subitamente messo di fronte a questo più vasto Divino cosmico, con l'ingiunzione di unirsi a Lui per ricercare l'unità mediante la via della conoscenza, quella delle opere e quella dell'adorazione.... Gli viene richiesto di unire il suo intero essere al Divino che si mani-festa nell'universo e nelle creature, e che, grazie al suo poderoso yoga cosmico, è seduto sul trono come Signore delle opere nel mondo e nei nostri cuori. Ma cosa avviene allora dell'Immutabile che mai si manifesta, aksharam avyaktam, che mai riveste forma e si mantiene staccato dietro tutte le azioni, senza rapporti né con l'uni-verso né con nulla nell'universo, eternamente silenzioso, immobile, unico?

Secondo tutte le nozioni, l'eterno Sé rappresenta il più alto Principio, e il Divino manifestato un'immagine inferiore; l'eterno Spirito è il non-manifestato, non il manifestato. Com'è quindi possibile che un'unione che ammetta la manifestazione, ciò che è minore, possa essere la più grande conoscenza yoghica? A questa domanda Krishna dà una risposta perentoria.

 

 

Il Beato Signore disse:

2. Coloro che in Me fissano il loro spirito[675] e che, posseduti da una fede suprema, Mi adorano in un'unione costante[676], quelli Io considero i più perfetti nello yoga[677].

 

La fede suprema vede Dio in tutto e, per essa, manifestazione e non-manifestazione sono espressioni del Divino unico. L'unione perfetta è quella che riconosce a ogni istante il Divino, in ogni azione e con tutta l'integralità della natura.

Il Divino, a cui l'anima dell'uomo deve unirsi strettamente, è, nella sua condizione suprema - parabrahman -, un Impensabile trascendente troppo vasto per potersi manifestare. Ma allo stesso tempo Egli è in tutto l'anima vivente, purushottama, il supremo Signore, il Signore delle opere e della Natura universale, parameshvara. Egli è il Sé di tutte le creature, paramatman, e in tal modo dimora in esse e allo stesso tempo supera la loro anima, la loro mente e il loro corpo. E sotto tutti questi aspetti è sempre Io stesso Divino, eterno e unico. Il risveglio a questa conoscenza integrale e conciliatrice apre largamente le porte alla totale liberazione dell’anima e ad una perfezione inimmaginabile della Natura.

 

 

3-4. Coloro che adorano l'immutabile non manifestato onnipresente, indefinibile, inconcepibile, imperturbabile le, immobile, eterno, e che, dominando i sensi, si votano alla felicità di tutti gli esseri[678] e vedono tutto con equanime intelligenza, anch'essi vengono a Me.

 

Essi non errano nello scopo da raggiungere, ma seguono un cammino più difficile, meno completo, meno perfetto.... L'Immutabile non offre presa alla mente, può essere conquistato solo mediante un'immobile e silenziosa impersonalità spirituale. Coloro che lo cercano devono limitare le attività della mente e dei sensi o anche sospenderle totalmente.

 

 

5. Tuttavia, è più grande la difficoltà che incontrano coloro che fissano il loro spirito[679] sul [Brahman] non manifestato. In verità, è arduo da raggiungere per le anime incarnate[680].

 

Il Brahman non manifestato, nella sua indefinibile unità, non può essere raggiunto che mediante una continua mortificazione e una sofferenza degli elementi repressi, un'austera pena e un'angoscia di tutta la natura.... Neppure si deve pensare che quanto più il procedimento sia arduo, tanto più sia efficace. La via più facile della Gita conduce più naturalmente, più normalmente e più rapidamente alla stessa liberazione assoluta. Colui che pratica esclusivamente lo yoga della conoscenza s'impone una lotta dolorosa contro le molte esigenze della sua natura; rifiuta perfino di accordarle le più alte soddisfazioni e ripudia i più nobili impulsi dello spirito se implicano rapporti o non hanno per scopo un assoluto di negazione. La via della Gita, piena di vita, si afferra, al contrario, alla più intensa tendenza esaltante del nostro essere e, la dirige verso Dio, utilizzando in tal modo, come ali poderose per il volo verso la liberazione: conoscenza, volontà, sentimento, e istinto di perfezione.

 

 

6-7. Coloro che in Me ripongono[681] le loro opere, assumendoMi come scopo supremo[682], che Mi adorano e meditano su di Me in uno yoga totale[683] e il cui spirito[684] è stabilmente fissato in Me, essi Io salvo senza indugio dall'oceano dell'esistenza mortale[685], o figlio di Prithà.

 

L'Uno indefinibile accoglie tutti coloro che vanno verso di Lui, ma non offre nessun appiglio allo scalatore, nessun gesto d'amicizia. Tutto deve essere fatto mediante una severa austerità e uno sforzo individuale solitario e arduo. Completamente diversa è la condizione di coloro che cercano il Purushottama mediante la via della Gita. Quando meditano su di Lui in uno yoga che vede Vàsudeva ovunque e di conseguenza non vedono che Lui (VII, 19), Egli si unisce a loro a ogni passo, a ogni istante, sotto forme e aspetti innumerevoli. Accende la fiaccola della conoscenza (X, 11) e inonda la loro esistenza con la gioia della sua divina luce.... L'altro difficile metodo - la calma assoluta sprovvista di rapporti - obbliga l'uomo ad astenersi da ogni azione, anche se ciò è praticamente impossibile per una creatura incarnata. Nella via della Gita, l'agire è rimesso al supremo Signore delle opere, e Lui, suprema Volontà, si unisce alla volontà di sacrificio, l'alleggerisce del suo fardello e prende su di Sé il peso delle opere di natura divina. E quando il devoto di Colui che e l'Amante e l'Amico dell'uomo e di tutte le creature, acceso da una grande passione, depone davanti a Lui, quale pegno d'amore, il cuore della sua coscienza e la sete di beatitudine, allora, rapidamente, il Supremo gli va incontro come salvatore e liberatore e, stringendo gioiosamente la sua mente, il suo cuore e il suo corpo, lo innalza sopra le onde dell'oceano della morte - della sua natura mortale - Per sempre in sicurezza nel seno dell'Eterno. questa la via più rapida e più ampia - la via suprema.

 

 

8. Solo in Me fissa la tua mente[686], solo in Me la tua intelligenza[687], e, senza dubbio, dimorerai in Me.

 

9. Se tuttavia non puoi ancora fissare su di Me il pensiero[688], allora, o Conquistatore di tesori, mediante uno yoga perseverante[689], cerca di raggiungerMi.

 

Anche questa via presenta senza dubbio le sue difficoltà, poiché la natura inferiore è presente con la sua forza d'attrazione verso il basso, violenta o inerte, che resiste al movimento ascendente e lotta contro di esso, che paralizza le ali dell'esaltazione, il rapimento dell'ascesa. Vi sono notti di lungo esilio lontano dalla Luce; vi sono ore di dubbio e di disfatta o moti di ribellione. Tuttavia, mediante la pratica dell' unione e la continua ripetizione dell'esperienza, la coscienza divina cresce nell'essere e, infine, prende possesso della natura in modo permanente.

 

 

10. Se neppure ti senti capace di uno sforzo perseverante[690], assumi come supremo scopo il compiere le Mie opere[691], poiché compiendo le opere [con amore] per Me[692], raggiungerai la perfezione[693].

 

Se questo sforzo perseverante è troppo difficile a causa della forza e della persistenza del movimento mentale attirato verso l'esterno, scegli allora la via più semplice. Compi tutti i tuoi atti per amore del Signore delle opere, in modo che ogni movimento della mente verso l'esterno sia associato alla verità interiore dell'essere e, durante il periodo in cui l'azione si compie, mantenuto verso l'eterna realtà e unito alla sua origine. Allora, la presenza del Purushottama si diffonderà nell'uomo sino a riempirlo totalmente e sino a unire l'anima umana alla suprema Esistenza.

 

 

11. E se anche ciò - questo ricorso al Mio yoga - rimane sopra le tue forze, allora [almeno] rinuncia ai frutti delle opere[694] e agisci completamente padrone di te stesso.

 

La mente limitata, nel suo oblio, si fissa sull'azione e sull'oggetto esteriore; non pensa a volgersi verso l'intimo e a deporre ognuno dei suoi movimenti sul divino altare dello Spirito. Quindi, la via da seguire è quella di dominare il sé inferiore nell'atto che si compie, svolgendolo senza desiderarne i frutti. Si deve rinunciare a ogni frutto, bisogna abbandonarlo al Potere che dirige l'azione, senza tuttavia cessare di compiere ciò che esso impone alla nostra natura. In questo modo l'ostacolo diminuisce di grandezza sino a sparire completamente, la mente diviene libera di rivolgersi verso il Signore e di stabilirsi nella libertà della coscienza divina.

 

12. La conoscenza[695] è, in verità, migliore della pratica[696]; migliore della conoscenza è la meditazione[697]; migliore della meditazione è la rinuncia ai frutti dell'azione[698]; dalla rinuncia viene immediatamente la pace[699].

 

In questo versetto la Gita dà una scala ascendente delle efficienze; e allo yoga delle azioni senza desiderio concede la palma dell'eccellenza.

Abhyasa, la pratica di un metodo, la ripetizione di uno sforzo e di un'esperienza, è cosa grande e poderosa; ma sopra la pratica sta la conoscenza, il pensiero che sì dirige luminosamente e direttamente verso la Verità che sta dietro le cose. Questa conoscenza mentale è superata a sua volta da una completa e silenziosa concentrazione sulla Verità, in modo che la coscienza viva in questa Verità e sia sempre ad essa unita. Ma ancora più possente è l'abbandono dei frutti dell'azione, perché distrugge immediatamente ogni causa di turbamento, apportando e preservando automaticamente la pace e la calma interiori. La coscienza è allora a suo agio e può stabilirsi gioiosamente nel Divino ed elevarsi con calma verso la perfezione....

Quale sarà allora la natura divina, quale sarà il più alto stato di coscienza e d'essere del bhakta che ha seguito questa via e si è volto verso l'adorazione dell'Eterno? Nel versetto seguente la Gita enuncia più chiaramente le varianti dell'esigenza fondamentale ch'essa ha esposto sino da principio con tanta insistenza: equanimità, assenza di desiderio, libertà di spirito.

 

 

13-14. Colui che non concepisce odio verso alcun essere vivente, che non nutre inimicizia ed è compassionevole, che manca del senso dell’’io’ e del ‘mio[700], equanime nel piacere e nel dolore, paziente e misericordioso, lo yogi che è sempre contento e che domina sé stesso[701], saldo nelle sue risoluzioni e la cui mente e intelligenza Mi sono consacrate, quello, Mio devoto[702], Mi è caro.

 

15. Colui che non causa turbamento al mondo e che dal mondo non è turbato, libero[703] dalla gioia e dal risenti-mento, dal timore e dall'ansietà, anche quello Mi è caro.

 

16. Colui che nulla si aspetta, che è puro, abile [nell' azione], distaccato da tutto[704], non agitato, che ha rinunciato a ogni iniziativa[705], quello, Mio devoto, Mi è caro.

 

Si tratti di un atto esteriore o di un atto interiore, ha scacciato lontano da sé ogni iniziativa egoistica, personale e mentale, colui che lascia scorrere attraverso di sé il fiotto della divina conoscenza e della divina volontà, senza che le proprie risoluzioni, le proprie preferenze e propri desideri possano sviarlo. Tuttavia, e per questa stessa ragione, è rapido e abile in tutte le opere della sua natura, perché questa unità senza macchia con la volontà suprema, questo puro stato di strumento, è la condizione della più grande abilità nelle opere (II, 50).

 

 

17, Colui che non si rallegra e non odia, che non desidera e non rimpiange, che ha rinunciato al bene e al male[706], pieno di devozione[707], quello Mi è caro.

 

18-19. Colui la cui condotta non varia[708] né verso l'amico né verso il nemico, equanime nella buona e cattiva reputazione, inalterabile nel freddo e nel caldo, nel piacere e nel dolore, libero da ogni attaccamento, che non vede differenza fra la lode e il biasimo, che rimane silenzioso e contento di tutto, senza fissa dimora[709], con lo spirito saldo e pieno di devozione, Mi è caro.

 

20. E coloro che, pieni di fede, seguono il dharma d'immortalità[710] qui insegnato e fanno di Me il loro [scopo] supremo[711], quei devoti Mi sono cari in modo particolare.

 

Dharma, nel linguaggio della Gita, significa la legge innata dell'essere e delle sue opere, e l'azione causata e determinata dalla natura interiore, svabhava (VII, 7c, 8c). Nella coscienza inferiore d'ignoranza della mente, della vita e del corpo, vi sono numerosi dharma, molte regole, diversi criteri e leggi, perché nella natura mentale, vitale e fisica esistono molte determinazioni e parecchi tipi. Il dharma immortale è uno: quello della suprema coscienza spirituale, della coscienza divina, para prakriti, e dei suoi poteri. Va oltre i tre guna e, per raggiungerlo, bisogna abbandonare tutti i dharma inferiori (XVIII, 66). Questa coscienza, questo eterno potere dell'Eterno, unificatore e liberatore, deve sostituirli e divenire l'origine unica e infinita del nostro agire, il suo modello, la causa determinante e l'immagine esemplare. Elevarsi sopra il nostro egoismo personale inferiore, entrare nella calma impersonale e invariabile dell'eterno, akshara purusha, immutabile e onnipresente, e dopo aver raggiunto questa calma, aspirare a un dono perfetto di tutta la nostra natura e di tutta la nostra esistenza a ciò che va oltre l'Akshara, è la prima necessità di questo yoga. Mediante la forza di questa aspirazione possiamo ascendere sino al dharma immortale. Là, divenuti uno in essere, coscienza e felicità divina, col supremo Purusha, uttama purusha, divenuti uno con la Natura-forza dinamica e suprema, sva prakriti, lo spirito liberato può conoscere l'infinito, amare senza limiti, agire senza errore nell'autentico potere di un'immortalità suprema e dì una perfetta libertà. Il seguito della Gita ha per scopo di gettare luce su questo dharma immortale.


 

CANTO XIII

IL CAMPO E IL CONOSCITORE DEL CAMPO

 

 

Arjuna disse:

1. Prakriti e Purusha[712], il Campo e il Conoscitore del Campo[713], la conoscenza e l'oggetto della conoscenza[714], ecco ciò che vorrei comprendere, o Keshava.

 

Per guidare, mediante una conoscenza chiara e completa, il cammino dell'anima che si eleva sopra la Natura inferiore per raggiungere quella divina, la Gita, negli ultimi sei canti, espone di nuovo, sotto diverse forme, ciò che l'Istruttore ha già rivelato ad Arjuna. Essenzialmente, è la stessa conoscenza, ma certi particolari, certi rapporti sono messi in maggiore evidenza e ricevono il loro intero significato; pensieri e verità che erano stati appena toccati si sviluppano nel loro pieno valore sotto la luce di una nuova intenzione.

 

 

Il Reato Signore disse:

2. Il corpo, o figlio di Kunti, è chiamato il Campo; colui che lo conosce è chiamato dai saggi[715] il Conoscitore del Campo.

 

Per spiegare la parola kshetra, la Gita incomincia a dire che il corpo è chiamato il Campo dello Spirito, e che in questo corpo esiste qualcuno che prende conoscenza del Campo, kshetrajna, il Conoscitore della natura.

Appare evidente che, secondo le definizioni che seguono, non è il corpo in sé che rappresenta il Campo, ma tutto quello di cui il corpo è la base: giuoco della natura, funzionamento mentale, attività naturali, soggettive e oggettive, del nostro essere[716]*.

 

 

3. Sappi che, in tutti i Campi, Io sono il Conoscitore del Campo, o Bhàrata. La conoscenza che abbraccia a un tempo il Campo e il Conoscitore del Campo è la vera conoscenza.

 

Ma questo corpo, anche se si estende grandemente, è solo il campo individuale; per il Conoscitore, esiste un corpo più grande, universale, cosmico, un Campo cosmico. In ogni creatura incarnata risiede questo solo e unico Conoscitore....

Il mondo esiste per noi come la nostra mente lo vede, ma anche così la coscienza incarnata, per quanto limitata possa essere, può ampliarsi sino a contenere tutto l'universo (IV, 35; VI, 29). Ma essa è fisicamente un microcosmo nel macrocosmo, e questo stesso macrocosmo, il vasto mondo, è anch'esso un corpo e un Campo abitati dallo stesso Conoscitore spirituale.

 

 

4. Ciò che il Campo rappresenta, la sua natura, la sua origine e le sue variazioni, e ciò che è il Conoscitore del Campo, quali sono i suoi poteri, Io ti dirò brevemente.

 

Dalla descrizione che segue risulta chiaramente che la parola kshetra vuole indicare il giuoco della Prakriti inferiore. Questa totalità è il campo d'azione dello Spirito incarnato in noi, il Campo di cui questo spirito prende conoscenza.

 

 

5 I rishi l'hanno glorificato in diversi modi e nei loro numerosi inni[717]; [l'hanno spiegato] anche in maniera razionale e concludente negli aforismi del Brahma-Sùtra[718].

 

Per avere una conoscenza particolareggiata di tutto questo mondo della Natura, nella sua azione essenziale considerata dal punto di vista spirituale, la Gita ci rimanda ai Veda, alle Upanishad e al Brahma-Sútra, accontentandosi di una breve esposizione pratica della natura inferiore del nostro essere secondo la terminologia dei pensatori Sànkhya.

 

 

6. Il non-manifestato[719], l'intelligenza[720], il senso dell'ego[721] i [cinque] grandi elementi[722], i dieci sensi[723] l'altro [senso][724], e i cinque oggetti dei sensi[725].

 

7. Coscienza[726], associazione[727], persistenza[728], desiderio e avversione, piacere e dolore, così è descritto in breve il Campo con le sue variazioni.

 

Esiste una coscienza generale che dapprima anima l'Energia, poi illumina le sue attività; esiste una facoltà di coscienza mediante la quale l'Energia stabilisce e mantiene fra loro le relazioni degli oggetti; esiste infine una continuità, una persistenza di relazioni soggettive e oggettive della nostra coscienza con gli oggetti. Tali sono i poteri necessari al Campo; sono poteri universali comuni alla Natura mentale, vitale e fisica.

Si può dire che il piacere e il dolore siano le deformazioni sensorie e vitali che l'energia inferiore fa subire all'ananda, la delizia spontanea dello Spirito, una volta messa in contatto con le attività di questa energia. Si può dire anche che il desiderio e l'avversione siano le deformazioni mentali corrispondenti, inflitte dall'energia inferiore alla volontà reattiva dello Spirito che determina la risposta ai contatti con questa energia. Questi opposti sono i termini, positivi e negativi, mediante i quali l'anima-ego della Natura inferiore gode dell'universo. I termini negativi, dolore, avversione, pena, ripulsione e tutto il resto, sono le risposte pervertite o almeno invertite, rovesciate; i termini positivi, piacere, gioia, desiderio, attrazione, sono le risposte mal dirette o almeno insufficienti e di un carattere inferiore, paragonate a quelle che provocano l'autentica esperienza spirituale.

Tutte queste cose prese nel loro insieme costituiscono il carattere essenziale dei rapporti fondamentali che abbiamo col mondo della Natura, senza che rappresentino l'intera descrizione del nostro essere. Rimane, al di là, qualcosa da conoscere, jneya, che diviene noto solo quando il Conoscitore del Campo distoglie la sua attenzione dal Campo per conoscere qualcosa di sé stesso nell'intimo del Campo, e qualcosa di ciò che esiste dietro le apparenze del Campo. Solamente allora incomincia la vera conoscenza, jnana, che comprende la conoscenza del Campo e quella del Conoscitore.... Anima e Natura, l'una e l'altra, sono il Brahman; ma la verità della Natura non può essere scoperta che dal saggio liberato che possiede anche la libertà dello Spirito. Il Brahman unico, la realtà unica nel Sé e nella Natura, sono lo scopo di ogni conoscenza.

La Gita ci spiega allora il significato della conoscenza spirituale - o piuttosto quali sono le condizioni della conoscenza, le indicazioni, i segni con cui si può riconoscere un uomo la cui anima è volta verso la saggezza interiore. Sono i segni riconosciuti e tradizionali del saggio. In primo luogo devono essere presenti una certa disposizione morale e un controllo sattvico dell'essere inferiore.

 

 

8. L'assenza d'orgoglio e d'arroganza, la non-violenza[729] una tollerante benevolenza, la purezza dello spirito e del corpo, la fermezza e la rettitudine, il dominio di sé, la venerazione verso il Maestro[730].

 

L'adorazione del cuore offerta al divino Maestro che risiede nel cuore di ognuno, o al Maestro umano in cui la divina saggezza si è incarnata, rappresenta la venerazione offerta al guru.

Viene poi un atteggiamento nobile e libero, fatto di equanimità e di distacco.

 

 

9-10. L'indifferenza[731] per l'oggetto dei sensi, l'assenza di egoismo e di attaccamento alla proprietà, il distacco nei riguardi della famiglia[732] e della casa, la comprensione acuta del carattere doloroso e imperfetto della vita soggetta alla nascita, alla malattia, alla vecchiaia e alla morte, un'invariabile equanimità davanti agli avvenimenti piacevoli o spiacevoli.

 

L'anima risiede in noi, inaccessibile agli urti degli avvenimenti esteriori. Viene infine un possente orientamento interiore verso ciò che realmente importa.

 

 

11-12. Il disgusto per la folla e la ricerca dei luoghi soli-tari, la diretta percezione[733] del vero senso dei principi [dell'esistenza], la perseveranza nel voler conoscere ciò che concerne l'anima[734], la devozione senza cedimenti verso di Me, grazie a un'unione esclusiva; - ecco ciò che si chiama conoscenza[735]; tutto ciò che differisce è ignoranza[736].

 

13. Ti descriverò l'oggetto della conoscenza, conoscendo il quale si gode l'immortalità[737]: il supremo Brahman[738]: senza principio, che non si può chiamare né essere[739] né non-essere[740].

 

L'anima, quando consente alla tirannia delle apparenze naturali, ignora sé stessa e si lascia trascinare nel giro delle nascite e delle morti dei corpi in cui dimora. Seguendo in tal modo con passione la successione delle sue personalità e dei loro interessi, non riesce a riprendere possesso della sua vera esistenza, eterna e impersonale. Quando trova la capacità di farlo, ritrova sé stessa e ricupera il suo vero essere, quello che si riveste di personalità, ma che non perisce quando periscono le forme. Godere dell'eternità, di cui la nascita e la vita non sono che circostanze esteriori, rappresenta l'immortalità e la vera trascendenza dell'anima. Questo Eterno o questa Eternità è il Brahman. Brahman è il trascendente e l'universale, è il libero Spirito che sostiene sulla scena il giuoco dell'anima con la Natura e assicura sullo sfondo la loro imperitura unità; è ad un tempo il mutevole e l'immutabile, il Tutto che è l'Uno.

 

 

14. Dappertutto sono le sue mani e i suoi piedi; dovunque i suoi occhi, le sue teste e i suoi volti, dovunque le sue orecchie; Egli risiede nel mondo, tutto avvolgendo.

 

Nella suprema condizione ultracosmica, Brahman un'Eternità trascendentale senza origine e senza mutamenti, sopra le opposizioni fenomeniche --- esistenza e non-esistenza, permanenza e non-permanenza --- fra le quali si muove il mondo esteriore. Ma una volta che il mondo è stato visto alla luce e nella sostanza di questa i Eternità, diviene diverso da ciò che appariva alla mente e ai sensi, in quanto sparisce nell'universo il turbinio della mente, della vita e della materia o la massa di forme determinate dall'energia e dalla sostanza. Non si vede altro che Brahman.

 

 

15. Senza possedere sensi[741] appare in tutte le funzioni dei sensi; senza attaccamento, pertanto tutto sostiene; senza qualità, gode di tutte le qualità[742].

 

Tutti i rapporti fra l'anima e la Natura sono circostanze nell'eternità di Brahman; i nostri sensi e le qualità delle cose, che riflettono e costituiscono questi rapporti, sono i mezzi mediante i quali l'Anima suprema (Brahman) presenta le operazioni che la sua energia nelle cose libera e mette in attività ad ogni istante. È Lui stesso di là dalle limitazioni dei sensi; senza occhi fisici vede tutto, senza orecchie materiali tutto ode e senza la mente limitatrice, che non può veramente conoscere, di tutto è consapevole.

 

 

16. All'esterno e nell'intimo di tutti gli esseri, si muove senza muoversi; troppo sottile per essere conosciuto, è lontano e vicino a un tempo.

 

17. Indiviso, sembra tuttavia diviso negli esseri in cui risiede; sostiene le creature, le assorbe e di nuovo le crea [ciclicamente].

 

18. Luce dei corpi luminosi, lo si dice oltre le tenebre[743]. [A un tempo] conoscenza e oggetto della conoscenza, Egli ha sede nel cuore di ogni cosa creata.

 

La conoscenza spirituale della Supermente, che inonda e trasfigura la mente illuminata, è la manifestazione sotto forma di luce di questo Spirito, per raggiungere l'anima che ha proiettato nell'azione della Natura e che si trova offuscata dal giuoco delle forze. Questa eterna Luce ha sede nel cuore di ogni essere; essa è il Conoscitore del Campo, kshetrajna; essa domina sovrana nel cuore delle cose in ,questo regno e in tutti i regni manifestati dalla sua azione e dal suo divenire.

 

 

19. Brevemente ti ha parlato del Campo, della conoscenza e dell'oggetto della conoscenza. Quando il Mio devoto ha compreso questo, raggiunge la Mia natura[744].

 

Quando l'uomo vede in lui l'eterna e universale Divinità, quando diviene cosciente dell'Anima in tutte le cose e scopre lo Spirito nella Natura, quando sente l'universo come un'onda che sale verso questa Eternità, e tutto ciò che esiste come l'unica esistenza, riveste la luce della Divinità e si eleva libero fra i mondi della Natura. Possedere la divina conoscenza e volgersi in adorazione verso questo Divino è il segreto della grande liberazione spirituale. La libertà, l'amore e la conoscenza spirituale ci innalzano dalla natura mortale sino all'essere immortale.

 

 

20. Sappi che Prakriti e Purusha sono l'una e l'altro senza principio; sappi anche che le variazioni [del Campo] e le qualità[745] hanno origine in Prakriti.

 

L'anima e la Natura non sono che due aspetti dell'eterno Brahman, un dualismo apparente che serve di base alle operazioni della sua esistenza universale.... Le operazioni dei modi o qualità della Natura e le loro forme derivate cambiano costantemente, e sembra che anche l'anima e la Natura cambino, ma nel loro intimo questi due poteri sono eterni e immutabili.

 

 

21. Prakriti è detta l'origine[746] della causa[747], dell'effetto[748] e del senso di agire[749]; Purusha è detto l'origine dell'esperienza[750], del piacere e del dolore.

 

La Natura crea e agisce; l'anima gode di questa creazione e dì questa agire. Ma nella forma inferiore della sua attività, la Natura trasforma la felicità in immagini opache e meschine di piacere e di dolore.

 

 

22. Purusha, impegnato in Prakriti, gode delle qualità che nascono da Prakriti. L'attaccamento[751] a queste qualità è la causa[752] della nascita dell'anima in matrici buone o cattive.

 

L'anima, il Purusha individuale, è attirato con forza dalle attività delle qualità della Natura, e questa attrazione trascina persistentemente l'anima verso ogni tipo di nascita. Essa prova la varietà e le vicissitudini - il bene e il male della nascita nella Natura – e ne gioisce.

 

 

23. Testimone [del giuoco della Natura], Colui che è consenziente [al giuoco], che lo sostiene e ne gioisce[753], Signore onnipotente[754] e supremo Sé[755], è detto anche l'Anima suprema[756] che risiede nel corpo[757].

 

Il versetto che precede quest'ultimo, non descrive che l'esperienza esteriore dell'anima quando si trova impegnata nella Natura mutevole e identificata a essa. Profonda nel corpo risiede la suprema Divinità, ad un tempo supremo Sé, parama-atman, Anima suprema, para-purusha, e supremo Signore della Natura, che osserva l'azione di questa Natura, ne sancisce le operazioni, sostiene ciò che essa compie, comanda alla sua infinitamente variata creazione e gioisce di una delizia universale nel giuoco delle forme di cui lo stesso essere del Signore si riveste.

Tale è la conoscenza a cui si deve abituate il pensiero prima di percepire che siamo realmente un'eterna particella dell'Eterno.

 

 

24. Colui che così conosce il Purusha e la Prakriti con le sue qualità[758], in qualunque modo egli viva e agisca, non rinascerà.

 

Una volta assicurata questa conoscenza, poco importa il modo esteriore di comportarsi dell'anima nei suoi rapporti con la Natura, ciò che fa o l'aspetto della sua personalità, della forza attiva o dell'ego incarnato che sembra rivestire; essa è libera e non più legata alla nascita perché, attraverso l'impersonalità del Sé, è una con Io Spirito interiore non nato. Questa impersonalità è ciò che ci unisce al Sé supremo e senza ego di tutto quello che esiste nel cosmo.

 

 

25. Alcuni percepiscono il Sé mediante il Sé[759] nel sé[760] grazie alla meditazione[761]; altri mediante lo yoga del Sànkhya; altri ancora mediante lo yoga delle opere[762].

 

Lo yoga del Sànkhya mira alla separazione dell'anima dalla Natura; nello yoga delle opere, la nostra volontà personale si dissolve quando apriamo al Signore la nostra mente, il nostro cuore, tutte le forze attive, ed Egli assume la responsabilità delle nostre opere nella Natura.

 

 

26. Certi, invece, che ignoravano [queste vie dello yoga], avendo sentito parlare [del Brahman] da altri, gli votano un culto; superano anch'essi la morte grazie alla consacrazione a ciò che hanno sentito.

 

27. Sappi, o Migliore dei Bharata, che ogni essere[763], sia esso animato o inanimato, nasce dall'unione[764] del Campo col Conoscitore del Campo.

 

L'esistenza dev'essere considerata come il Campo in cui l'anima agisce e costruisce in seno alla Natura.

 

 

28. Senza estinguersi quando essi si estinguono, il supremo Signore[765] dimora[766] ugualmente[767] in tutti gli esseri[768]; colui che così vede, realmente vede!

 

29. Colui che vede il Signore ugualmente presente ovunque, non distrugge il Sé mediante il sé[769], e così raggiunge il supremo destino[770].

 

La conoscenza ci mostra, molto sopra i mutevoli rapporti dell'anima con la natura mortale, il nostro Sé superiore, Signore supremo delle opere di questa natura, uno e uguale in tutte le cose e in tutte le creature, che non nasce quando prende un corpo e non è soggetto alla morte quando questi corpi muoiono. Questa è la vera visione, la visione di ciò che in noi è eterno e immortale. A misura che diveniamo consapevoli di questo spirito in tutto invariabile, entriamo nell'equanimità dello spirito; a misura che viviamo in quest'essere universale, diveniamo noi stessi esseri universali; a misura che diveniamo consapevoli di questa eternità, rivestiamo la nostra eternità e diveniamo eterni. C'identifichiamo con l'eternità del Sé e non più con le limitazioni e l'angoscia della nostra ignoranza mentale e fisica.

 

 

30. Colui che vede la Natura[771] sempre in azione e il Sé[772] che non agisce[773], egli veramente vede.

 

Vediamo allora che tutte le opere sono un'evoluzione e un'operazione della Natura, e che il nostro vero Sé non è l'autore dell'azione, ma il libero testimone e il Signore che, senza attaccamenti, gioisce dell' azione.

 

 

31. Quando egli scorge che il divenire degli esseri individuali[774] riposa sull'Uno, diviene il Brahman.

 

L'intero movimento cosmico di superficie è il diversificato divenire delle creature della Natura nell'eterno Essere unico; tutto è diffuso, manifestato, spiegato dall'Energia universale a partire dalla essenza dell'Idea di questa energia, profondamente immersa nell'Essere eterno. Ma lo Spirito, anche quando adotta nel nostro corpo le attività dell'Energia e ne gode, non è toccato dal carattere mortale di questo corpo.

 

 

32. Anche se questo supremo Sé[775], imperituro, senza né principio né qualità, risiede nel corpo, o figlio di Kunti, non agisce e da nulla è toccato.

 

È inattivo anche quando agisce perché sostiene l'azione della Natura con una perfetta indipendenza spirituale; egli è, in verità, il promotore di ogni attività, senza essere in nessun modo toccato o modificato dal giuoco della Natura.

 

 

33. Come l'etere[776], che tutto pervade, non è toccato a causa della sua sottigliezza, nello stesso modo nulla colpisce il Sé presente in ogni corpo.

 

Nello stesso modo in cui l'etere non è né toccato né modificato dalle molteplici forme che assume e resta sempre la stessa sostanza originale, pura e sottile, lo spirito, dopo aver creato ed essere divenuto tutte le cose possibili, rimane la stessa essenza infinita, para gati (XIII, 29), l'essere divino e la divina natura, mad-bhava (XIII, 19), e chiunque pervenga alla conoscenza spirituale si innalza a questa suprema immortalità dell'Eterno.

 

 

34. Nello stesso modo in cui il sole illumina il mondo[777], il Signore del Campo[778] illumina il Campo intero, o Bhàrata.

 

Questo Brahman, eterno Conoscitore spirituale del Campo del proprio divenire naturale, questa Natura e la sua perpetua energia che si converte in questo Campo, questa immortalità dell'anima in una natura mortale, costituiscono la realtà della nostra esistenza. Quando ci volgiamo verso lo Spirito interiore, che illumina con l'irradiare della sua verità l'intero campo della Natura, alla luce di questo sole, l'occhio della conoscenza si apre in noi facendoci vivere nella verità e non più nell'ignoranza.

 

 

35. Coloro che mediante l'occhio della conoscenza[779] scorgono la distinzione fra il Campo e il Conoscitore del Campo, e sanno liberarsi dalla Natura inferiore[780], raggiungono il Supremo[781].

 

Se percepiamo che l'assoggettarsi alle limitazioni della natura umana attuale - mentale e fisica - costituisce un errore, ci liberiamo dalla legge della Prakriti inferiore - la legge della mente e del corpo - raggiungendo la natura suprema dello Spirito. Questa sublime trasformazione è l'ultimo divino e infinito divenire, Io spogliarsi della natura mortale per rivestire l'esistenza immortale.


 

CANTO XIV

OLTRE I GUNA

 

 

Il Beato Signore disse:

1. T'insegnerò adesso la conoscenza suprema, la più alta fra tutte le conoscenze, quella il cui possesso ha condotto i saggi[782] da qui[783] sino alla suprema perfezione[784].

 

La distinzione fra l'anima incarnata che, quando fruisce dei guna, qualità o modi della Natura, è sottoposta alla loro azione, e l'Anima suprema che, pur fruendo dei guna, rimane libera dal loro influsso, perché situata su un piano più alto, forma la base, insieme alle altre distinzioni fra Anima e Natura, abbozzate con qualche epiteto de-terminante nel tredicesimo canto, su cui la Gita appoggia tutta la concezione dell'essere liberato che diviene, nella legge cosciente della sua esistenza, uno col Divino. Di questa liberazione, di questa unità e questo accesso alla natura divina, sadharmya, ne fa l'essenza stessa della libertà spirituale e l'intero significato dell' immortalità.... É la conoscenza suprema, dice la Gita, perché conduce alla più alta perfezione e porta l'anima a crescere ad immagine del Divino. La suprema importanza accordata a sadharmya é un punto fondamentale dell'insegnamento della Gita.

 

 

2. Profittando di questa conoscenza, hanno acquisito una natura simile[785] alla Mia; nei giorni della creazione[786] essi non rinascono più e la dissoluzione finale[787] non li tocca.

 

Dobbiamo ricordare che in nessuna parte la Gita accenna alla dissoluzione dell'essere spirituale nel Brahman assoluto, non manifestato, indefinibile, come vero significato o condizione per l'immortalità, o come vero scopo dello yoga. Al contrario, la Gita descrive (VIII, 21; XII, 8; XV, 6) l'immortalità come il fatto di dimorare profondamente nella natura suprema dell'Ishvara, e la descrive qui con le parole para siddhi, sadharmya, la suprema perfezione e l'identificazione con la legge d'essere e con la natura del Supremo, pur continuando a esistere, consapevole del movimento universale, ma sopra di esso, nello stesso modo in cui esistono ancora i saggi, anche se non più legati alla nascita nella creazione o toccati dalla dissoluzione dei cicli....

Secondo l'antico insegnamento spirituale, l'immortalità non è mai consistita in una semplice sopravvivenza personale dopo la morte del corpo; tutti gli esseri sono immortali in questo senso, poiché solo le forme periscono. Le anime che non arrivano alla liberazione vivono durante i cicli che si succedono l'uno all'altro, e rimangono ripiegate o nascoste in Brahman nei periodi di dissoluzione dei mondi manifestati per rinascere all'apparire di un nuovo ciclo.

Vista nel suo senso profondo, l'immortalità è diversa dalla sopravvivenza dopo la morte e dal ritorno continuo alla nascita, L'immortalità è lo stato supremo in cui lo Spirito si riconosce superiore alla morte e alla nascita, non condizionato dalla natura della manifestazione, infinito, imperituro, eterno - immortale, perché non nascendo non può morire. Il divino Purushottama, Signore supremo e supremo Brahman, possiede per natura questa immortale eternità e non subisce l'influsso né del corpo che riveste, né delle forme o poteri cosmici che assume senza posa, perché esiste eternamente nella conoscenza di sé. La sua stessa natura è di essere immutabilmente consapevole della propria eternità; sa di essere senza né principio né fine. Qui, sulla terra, è l'Abitante di tutti i corpi, ma è in ogni corpo nella condizione di `non-nato', senza che la sua coscienza si senta limitata dalla manifestazione o identificata alla natura fisica che assume. Sono queste le circostanze minori nel giuoco universale della sua attività nell'esistenza.

Essere liberato e immortale, significa vivere nell'essere, eterno e immutabilmente cosciente, del Purushottama. Ma l'anima incarnata, per arrivare in questo mondo all'immortalità superiore, deve cessare di vivere secondo la legge della Natura inferiore; deve adottare la legge suprema dell'esistenza divina, che è per ogni anima la vera legge della propria eterna essenza. Nell'evoluzione spirituale del suo divenire, non meno che nel suo segreto essere originale, essa deve crescere a somiglianza del Divino....

Ma l'anima dell'uomo non potrebbe crescere sino a rassomigliare al Divino se, nella sua essenza segreta, non fosse a Lui eterna-mente unita e parte integrante della sua divinità; essa non potrebbe divenire immortale se fosse soltanto una creazione della Natura mentale, vitale e fisica. Ogni esistenza è la manifestazione dell'Esistenza divina, e ciò che risiede in noi è spirito dell'eterno Spirito.

 

 

3. Il Vasto Brahman[788] è la mia matrice[789]; in Lui depongo il germe[790] da cui nascono tutti gli esseri, o Bhàrata.

 

4. Dei corpi che prendono nascita in tutte le matrici, o figlio di Kunti, Brahman[791] è l'immensa matrice[792]; e Io sono il padre che fornisce il seme[793].

 

II Supremo è il Padre e la Madre dell'universo. Mahat-Brahman, la sostanza dell'Idea infinita (vijnana), è la matrice in cui getta il seme della propria concezione. Come Anima-Superiore, getta il seme; come Madre, Anima della Natura, Energia piena del suo Potere cosciente, lo riceve in questa infinita sostanza dell'Essere, fecondata dall'Idea senza limiti, ma che limita sé stessa. Egli lo riceve nell' Ampiezza della concezione di sé e sviluppa il divino embrione (garbha) in una forma d'esistenza mentale e fisica nata dall'atto originale di concezione creatrice. Tutto ciò che vediamo è uscito da quest' atto di creazione; ma ciò che nasce nel mondo non è che l'idea e la forma finita dei non-nato e dell'infinito.

Che cos'è che ne stabilisce la differenza? Che cosa costringe l'anima a rivestire le apparenze della nascita, della morte e della limitazione - poiché è certo che sono solo apparenze?

 

 

5. Sattva[794], rajas[795] tamas[796] sono, o Guerriero dal braccio possente, i guna[797] che nascono da Prakriti e che mantengono l'anima[798] imperitura legata al corpo.

 

Ciò che trascina l'anima nelle apparenze della nascita, della morte e della schiavitù, è un atto o uno stato di coscienza subordinato; è l'oblio di sè stessi, l'identificazione dell'anima ai modi della Natura nel giuoco limitato delle attività inferiori legate all'azione mentale, vitale e fisica, avvolto dal se, limitato dall'ego. Elevarci sopra i modi della Natura, essere trigunatita, diviene una necessità se vogliamo liberarci dai poteri ossessionanti delle attività inferiori, se togliamo ricuperare il nastro essere pienamente cosciente e rivestire la libera natura dello spirito e della sua immortalità. La Gita sviluppa nei versetti che seguono la nozione del sadharmya.

 

 

6. Dei guna, sattva, mediante la purità dalla sua natura, dà splendore e armonia; esso vincola [l'anima] unendola alla felicità[799] e alla conoscenza[800], o Senza-peccato.

 

Sattva vincola, come gli altri due guna, servendosi degli stessi veicoli, desiderio ed ego - un desiderio più nobile, un ego più puro, - ma finché desiderio ed ego, in qualsiasi forma siano presenti, possiedono l'essere, non vi è libertà. L'uomo di virtù e di conoscenza possiede l'ego di uomo virtuoso, o di uomo che persegue la conoscenza per soddisfare un ego sattvico; ed è per quest'ego che ricerca la virtù e la conoscenza. Soltanto quando cessiamo di soddisfare l'ego, di pensare e volere sotto il suo influsso, sotto l'influsso del piccolo sé limitato, c'è la vera libertà. In altre parole, la libertà e il dominio di sé incominciano quando, sopra il sé naturale, vediamo e afferriamo il supremo Sé, per il quale l'ego è un velo che ostruisce, un'ombra impenetrabile. E ciò non può prodursi che quando il nostro essere individuale si è unito a lui in essere e in coscienza, rimanendo nella sua individuale natura d'azione il puro strumento della suprema Volontà - la sola volontà realmente libera. Per ottenere ciò bisogna elevarsi oltre i guna, divenire trigunatita.

 

 

7. Rajas, sappilo, o figlio di Kunti, ha la natura della passione[801]; è all'origine della cupidigia e dell'attaccamento, e lega l'anima incatenandola all'azione.

 

8. Sappi che tamas, nato dall'ignoranza[802], fa smarrire tutte le anime incarnate[803], e lega l'anima mediante la negligenza, l'indolenza e il sonno, o Bhàrata.

 

 

9. Sattva incatena l'anima alla felicità, rajas all'azione, tamas vela dapprima la conoscenza, o Bhàrata, per poi incatenare [l'anima] alla negligenza.

 

L'anima, vincolata al godimento dei guna e ai suoi risultati, concentra la coscienza sulla Natura, sulle attività inferiori ed esteriori della vita, della mente e del corpo; essa s'imprigiona nelle loro forme e, ignara del libero potere e del libero dominio del Purusha liberatore, dimentica la sua più grande coscienza, che si tiene dietro queste forme nello spirito. Se vogliamo liberarci e divenire perfetti, dobbiamo abbandonare tale condizione, abbandonare i guna, e, elevandoci sopra di essi, ritrovare il potere della libera coscienza spirituale che domina la Natura.

Le tre qualità della Natura sono sempre presenti e attive in ogni essere umano, e nessuno può considerarsi interamente libero o privo dei tre guizzi.... Ma esse non sono costanti in ogni uomo nell'azione quantitativa della loro forza o nella combinazione dei loro elementi; esse sono variabili e nello stato di continuo urto fra di loro, di spostamento e d'interazione.... Dal predominio di una o dell'altra di queste qualità, si può dire che un uomo è per natura sattvico, rajasico o tamasico, ma nessuna descrizione generale può essere assoluta o esclusiva.

 

 

10. Talvolta è sattva che si sovrappone, dominando rajas e tamas, o Bhàrata, oppure è rajas che domina sattva e tamas, o tamas che domina sattva e rajas.

 

11. Quando da tutte le porte del corpo irradia la luce della conoscenza, si può capire che sattva è dominante.

 

L'intelligenza è sveglia e illuminata, i sensi più vivi, la mente soddisfatta e in pieno fulgore, l'essere nervoso calmo, pieno di luce e di gioia luminosa.... Conoscenza, tranquilla armonia, piacere e felicità, sono i risultati caratteristici di sattva.

 

12. La cupidigia[804], il bisogno di agire[805], l'iniziativa per l'azione[806], l'impazienza e il desiderio nascono quando rajas predomina, o Migliore fra i Bharata.

 

La forza di desiderio è il movente comune a tutte le iniziative per-sonali d'azione, a qualsiasi movimento della nostra natura - agitazione, impulso, ricerca - che ci spinge ad agire - pravritti. Rajas è quindi la forza cinetica[807]* dei modi della Natura. I suoi frutti sono la sete d'azione, l'afflizione, il dolore e la sofferenza di ogni specie, perché non è nel giusto possesso di ciò che desidera. Desiderio, infatti, implica non-possesso; ma quando il possesso si realizza, il piacere è instabile e turbato, perché rajas non possiede una conoscenza abbastanza chiara, perché non sa come possedere e non può trovare il segreto dell'accordo e del vero godimento. Tutta la ricerca ignorante e appassionata della vita appartiene al modo rajasico della natura.

 

 

13. L'oscurità[808], l'immobilismo, la negligenza e anche la confusione[809] sono, o Gioia dei Kuru, gli effetti di un predominio tamasico.

 

Sono le tenebre di tamas che oscurano la conoscenza e causano la confusione e lo smarrimento. Per questo tamas è l'opposto di sattva, la cui essenza è l'illuminazione, prakasha, mentre l'essenza di tamas è la mancanza di luce e di conoscenza, aprakasha. Ma, se tamas apporta l'incapacità e la negligenza che causano l'errore, la disattenzione, la falsa comprensione e l'incomprensione, produce anche l'incapacità e la negligenza nell'azione; indolenza, torpore e sonnolenza appartengono a questo guna. Perciò tamas è anche l'opposto di rajas; l'essenza di rajas è in effetti movimento, impulso e forza cinetica, pravritti, mentre l'essenza di tamas è inerzia, apravritti. Tamas, doppiamente negativo, è inerzia d'ignoranza e inerzia d'inazione.

 

 

14. Se l'anima incarnata[810] arriva alla dissoluzione[811] [del corpo] quando sattva predomina, passa nel mondo immacolato di coloro che conoscono il Supremo[812].

 

La nostra morte fisica è anche una pralaya: l'anima che sostiene il corpo, dehabhrit, arriva a una pralaya, a una disintegrazione di questa forma di materia che, identificata all'ignoranza, si dissolve nei suoi elementi naturali. Ma l'anima persiste e, dopo un intervallo, riprende, in un nuovo corpo formato da questi elementi, il ciclo delle nascite nello stesso modo in cui l'Essere universale riprende senza fine i cicli cosmici.

 

 

15. Se arriva alla dissoluzione quando predomina rajas, essa [ri]nasce fra coloro che sono vincolati all'azione, e, se si dissolve quando tamas prevale, [ri]nasce in una matrice d'incoscienza[813].

 

16. detto che il frutto dell'azione giusta[814] è puro e sattvico[815], mentre il frutto di rajas è il dolore e quello di tamas l'ignoranza.

 

Ogni azione naturale è fatta dalla Natura attraverso i suoi modi o qualità (guna). L'anima non può agire per virtù propria, può farlo solo attraverso la Natura e i suoi modi. E tuttavia la Gita, pur volendo che l'anima sia liberata dai guna, afferma la necessità dell'azione. Si comprende adesso l'insistenza nel prescrivere la rinuncia ai frutti dell'azione; essi sono la causa più forte della schiavitù dell'anima. Abbandonando il desiderio, diviene possibile di agire liberamente. L'ignoranza è il risultato dell'azione tamasica; il dolore, quello delle opere rajasiche - dolore dalle molteplici forme: reazione, disappunto, scontentezza, senso del transitorio -; ed è per questo che non si ottiene profitto alcuno attaccandosi ai frutti di questo genere di attività, seguiti come sono da immancabili e indesiderabili conseguenze. Ma, delle opere giustamente compiute, il frutto è puro e sattvico e il risultato è conoscenza e felicità. E tuttavia anche l'attaccamento a queste cause di piacere dev'essere totalmente abbandonato - da una parte, perché sono forme limitate e limitanti, e dall'altra, perché sattva, costantemente alla prese con tamas e rajas, che l'assediano e possono ad ogni momento dominarlo, non possiede in questi piaceri nessun genere di sicurezza.

Tuttavia, anche se si è liberi dall'attaccamento ai frutti, si può rimanere vincolati all'opera, sia per sé stessa - è l'essenza del legame rajasico -, sia per la molle sottomissione agli impulsi della natura - è il legame tamasico -, sia perché la cosa è corretta, giusta e attraente - causa del legame sattvico, potente per l'uomo di virtù o l'uomo di conoscenza. Bisogna allora ricorrere a questa ingiunzione della Gita: abbandonare l'azione nelle mani del Signore delle opere e convertirsi nello strumento della sua volontà, equanime e senza desideri (XIV, 19).

 

 

17. Da sattva procede la conoscenza e da rajas la cupidigia; la negligenza e la confusione[816] procedono da tamas allo stesso modo dell'ignoranza.

 

La Gita descrive i modi della Natura, sattva, rajas e tamas, seguendo la loro azione psicologica nell'uomo, o incidentalmente per la loro azione sulle cose - come il cibo - secondo l'effetto psicologico o vitale che queste producono sugli esseri umani. Se si cerca una definizione più generale, si potrà forse intravederla nell'idea simbolica dell'Induismo che attribuisce rispettivamente ognuno di questi modi a un membro della trinità cosmica - sattva a Vishnu, il preservatore, rajas a Brahmà, il creatore, tamas a Rudra (Shiva), il distruttore. Cercando dietro l'idea di questa triplice attribuzione, si potrebbero definire i tre modi o qualità nei termini di movimento dell'Energia universale, come tre poteri concomitanti e inseparabili della Natura: equilibrio, movimento, inerzia.... Tuttavia questa non è che un'apparenza da considerarsi secondo l'azione esteriore dell' Energia. Ma dato che la coscienza è sempre presente, anche come forza apparentemente incosciente, dobbiamo trovare in corrispondenza a ogni modo o qualità un potere psicologico che diriga l'azione esecutiva più esterna. Sotto il loro aspetto psicologico, i tre modi possono essere così definiti: tamas, il potere dell'ignoranza della Natura; rajas, il potere di ricerca attiva della sua ignoranza, illuminata dal desiderio e dall'impulso; sattva, il potere di conoscenza che possiede e armonizza.

 

 

18. Coloro che sono stabiliti in sattva si elevano; i rajasici[817] rimangono nelle regioni intermedie e i tamasici[818], che subiscono l'effetto del più basso dei guna, sprofondano.

 

L'anima umana prende piacere alle abituali vicissitudini della vita naturale. Poiché ne ha piacere, accetta il giuoco torbido della Natura inferiore; ed è per questo che il giuoco continua in eterno, in quanto Prakriti non agisce che per il piacere e con l'assentimento di Colui che l'ama e gioisce di essa, il Purusha. La gioia dell'anima nelle dualità è il segreto del piacere che la mente prende alla vita.

Richiedete alla mente di elevarsi sopra queste vicissitudini sino alla gioia pura della pura anima di felicità - sostegno continuo e segreto della sua forza nella lotta, il solo che renda possibile la continuazione della sua esistenza -, e avrà subito un indietreggiamento. La vera causa della ripugnanza mentale a seguire questa strada consiste nel fatto che le si chiede di elevarsi sopra la propria atmosfera e di respirare un'aria più pura e più rarefatta, i cui valori di felicità e potere non riesce ad afferrare - appena può concepire che sono reali - mentre la gioia della natura melmosa è per essa più familiare e tangibile. Questa soddisfazione di ordine inferiore non è in sé completamente nociva e senza profitto; è piuttosto la condizione evolutiva ascendente della natura umana che si eleva oltre l'ignoranza e l'inerzia tamasica a cui il nostro essere materiale è più attaccato. È la tappa rajasica della graduale ascesa dell' uomo verso il potere e la felicità supremi. Ma se rimaniamo adagiati su quel piano - le regioni intermedie della Gita - la nostra ascesa rimane incompiuta, l'evoluzione dell'anima incompleta. L'anima che sale verso la perfezione deve passare attraverso l'essere e la natura sattvica per raggiungere ciò che si trova oltre i tre guna.

 

 

19. Quando il veggente[819] percepisce che sono i guna ad agire e conosce Quello che è sopra[820] di essi, perviene alla Mia natura[821].

 

20. Quando l'anima incarnata[822] si eleva sopra i tre guna nati dall'incarnazione[823], si libera dalla nascita e dalla morte, dalla vecchiaia e dal dolore, e gioisce allora dell'immortalità[824].

 

Arjuna disse:

21. Signore[825], quali sono i segni di colui che si eleva oltre i guna? Come si comporta? Come giunge a liberarsi da essi?

 

Quali sono i segni che rivelano un simile uomo, quali i suoi atti e come può agire un essere situato oltre i guna? Il segno, dice Krishna, è l'equanimità di cui ti ho spesso parlato.

 

 

Il Beato Signore disse:

22-25. Figlio di Pàndu, colui che per l'illuminazione[826] [di sattva], per l'impulso all'azione[827] [di rajas] e per lo smarrimento[828] [di tamas] non prova né avversione quando si presentano né desiderio quando se ne vanno; colui che conosce che solo i guna agiscono e si mantiene separato senza esserne turbato, come se fosse stabilito sopra di essi[829]; colui che, raccolto in sé stesso[830], immutabile davanti al piacere o davanti al dolore, considera allo stesso modo la zolla di terra, la pietra e l'oro; che rimane impassibile e conserva il proprio equilibrio davanti a ciò che è gradevole e a ciò che è sgradevole, davanti alla lode e al biasimo, davanti all'onore e all'obbrobrio, davanti all'amicizia e all'inimicizia; colui che abbandona ogni iniziativa[831] - di esso si dice che si è elevato sopra i guna[832].

 

Egli dimora nella luce cosciente di un principio diverso da quello dei tre guna, e questa più grande coscienza rimane fermamente stabilita in lui, sopra i tre modi, senza essere scossa dai loro movimenti non più di quanto lo sia il sole sopra le nubi per colui che si eleva sino a quell'altezza. Da quel punto, vede che l'azione procede dai guna e che le loro tempeste e i loro stati di calma non sono lui stesso, ma un movimento di Prakriti; il suo Sé è al di sopra, impassibile, e il suo spirito non partecipa all'incostante movimento delle cose instabili. È l'impersonalità dello stato di Brahman (II, 69-72), in quanto questo principio superiore, questa più grande, vasta ed elevata coscienza, è l'immutabile Brahman.

Ma anche qui esiste un doppio stato; l'essere si scinde in due opposti principi, akshara e kshara: uno spirito liberato nel Sé - nel Brahman immutabile - che osserva l'azione di una Natura non liberata e mutevole. Non esiste una più elevata condizione? Lo scopo dello voga non è forse di abbandonare la Natura mutevole e i guna nati dall'incarnazione nella Natura, per scomparire nell'impersonalità e nella pace senza fine del Brahman?

Sembra che ci sia un'altra cosa: la Gita ne fa allusione alla fine del canto, riservando come sempre la sua insistenza per la nota finale.

 

 

26. Colui che, senza vacillare, consacra a Me il suo servizio in uno yoga di devozione[833], si eleva [anche] oltre i guna; egli è pronto a divenire il Brahman.

 

27. Perché Io sono in verità la dimora[834] del Brahman immortale[835] e immutabile[836], dell'eterno dharma[837] e della felicità perfetta[838].

 

Esiste quindi uno stato più elevato della pace da cui l'akshara osserva, immutabile, il conflitto dei guna. Esiste un'esperienza spirituale e una base di spiritualità superiore all'immutabilità del Brahman; un eterno dharma più grande dell'impulso rajasico per le opere, pravritti; esiste una gioia assoluta, una felicità sattvica e che non è alterata dal dolore rajasico - tutto ciò può essere trovato, posseduto, stabilendo la dimora nell'essere e nel potere del Purushottama. Dato che tutto ciò dev'essere acquisito mediante la bhakti, non può essere altro che la delizia divina dell'ananda, in cui si realizza la fusione dell'amore totale e dell'unità che possiede, il coronamento della bhakti. Salire sino a questo ananda, a questa inesprimibile unità, è il compimento della perfezione spirituale e quello dell' eterno dharma, che dà l'immortalità.


 

CANTO XV

l TRE PURUSHA

 

 

Il Beato Signore disse:

1. L'ashvatta[839], che ha in alto le radici[840] e in basso i rami[841], è detto imperituro. Le sue foglie sono il ritmo degli inni[842] [del Veda). Colui che lo conosce, conosce il Veda.

 

Si ha dapprima una descrizione dell'esistenza cosmica secondo l'immagine vedantina dell'albero ashvatta.

 

 

2. I suoi rami, nutriti dai guna, si stendono in basso e in alto; l'oggetto dei sensi è il suo germogliare; le sue radici si prolungano, legate alle azioni, nel mondo degli uomini.

 

I rami di quest'albero cosmico si stendono verso il basso e verso l'alto; in basso sul piano materiale, in alto sui piani ultrafisici. Sono nutriti dai guna della Natura. Perciò, finché l'uomo gode del giuoco dei guna e rimane attaccato al desiderio, rimane prigioniero di pravritti, l'impulso verso la nascita e l'azione, ed erra continuamente fra la terra, i piani intermedi e il cielo, incapace di raggiungere le sue infinità spirituali. I saggi, avendo capito questa verità, per ottenere la liberazione totale hanno seguito il sentiero di nivritti - il rifiuto all'impulso dell'azione -, che porta alla cessazione delle nascite e al raggiungimento di uno stato trascendente nella più alta regione dell'Eterno, oltre il cosmo. Ma per raggiungere questo fine bisogna tagliare con la spada del distacco le radici profondamente infisse del desiderio.

 

 

3-4. Non è qui possibile scoprire la sua base, la sua forma, il suo principio o la sua fine. Dopo aver abbattuto con l'inflessibile arma del distacco[843] l'ashvatta dalle robuste radici, l'uomo deve cercare il soggiorno[844] da cui più non ritornano indietro coloro che l'hanno raggiunto[845], dicendo: "Io ricerco solo il Purusha primigenio[846] da cui è partito il primo impulso all'azione[847]".

 

5. Coloro che, senza orgoglio o smarrimento[848] [nello spirito], hanno vinto l'attaccamento[849] e, liberati dal dualismo del piacere e del dolore, hanno abbandonato il desiderio[850], essi sono fermamente stabiliti in Me[851] e si avviano verso l'eterno soggiorno[852].

 

6. Questo luogo non riceve la luce del sole e nemmeno la luce della luna e del fuoco; esso è la Mia suprema dimora[853] e coloro che la raggiungono più non ritornano[854].

 

La quiete del distacco ascetico, sannyàsa, sembrerebbe quindi la via più diretta per raggiungere questo scopo; e il cammino che s'impone sarebbe quindi quello che conduce all'akshara, la totale rinuncia alle opere e alla vita, l'inazione, la reclusione ascetica. Ma allora dove inserire l'ingiunzione ad agire, o almeno dove ce n'è il bisogno, la necessità? E che rapporto ha tutto questo col mantenere l'esistenza cosmica, lokasangraha (III, 20 e 21), il massacro di Kurukshetra, le vie dello Spirito nel tempo, la visione del Signore dai milioni di corpi e il suo ordine imperioso: "Sorgi, uccidi i tuoi nemici, e godi di un opulento regno" (XI, 33)? Cos'è quindi l'anima nella Natura, kshara?

La risposta della Gita è che questo spirito, kshara, che gode della nostra mutevole esistenza, è anche il Purushottama: Lui stesso nella sua eterna molteplicità.

 

 

7. Un eterno[855] frammento di Me stesso[856] diviene il jiva[857] nel mondo dei jiva[858]; attira a sé[859], dal riposo di Prakriti, i [cinque] sensi e la mente[860].

 

È un'affermazione di portata e di conseguenze immense. Ciò vuoi dire che ogni anima, ogni essere nella sua realtà spirituale, è lo stesso Divino, per quanto piccola possa essere l'attuale sua manifestazione nella Natura. E significa anche, se le parole hanno un senso, che ogni spirito manifestato, ogni elemento della molteplicità, è un individuo eterno, un eterno potere - non nato e immortale - dell'unica Esistenza. Questo spirito manifestato viene chiamato jiva, perché appare come una creatura vivente nel mondo dei viventi, e noi parliamo di questo spirito nell'uomo come dell'anima umana e pensiamo a lui solo dal punto di vista umano. Ma in verità è ben più grande della sua apparenza e non è limitato alla sua umanità - era nel passato una manifestazione minore dell'uomo e può darsi che nell'avvenire divenga qualcosa di più grande della creatura mentale che è l'uomo. E quando quest'anima si eleva sopra tutte le manifestazioni dell'ignoranza, si riveste della sua natura divina, di cui l'umanità non é che un velo temporaneo, un'espressione parziale e incompleta. Lo spirito individuale esiste ed è sempre esistito nell'al di là, nell'Eterno, perché è infinito, sanàtana. Evidentemente è questa concezione dell'eternità dell'individuo che conduce la Gita a evitare qualsiasi allusione a una totale dissoluzione, laya, e a parlare piuttosto dello stato supremo dell'anima come di una dimora nel Purushottama (XV, 6).

 

 

8. Quando il Signore[861] assume un corpo[862] o l'abbandona, [egli] prende i sensi e la mente e va, simile al vento che porta via i profumi dal luogo ove stanno.

 

L'individuo eterno non è altro che il divino Purusha; in realtà non esiste la minima diversità. Lo stesso Signore, l'Ishvara, in virtù dell'eterna molteplicità della sua unità, esiste eternamente in noi quale anima immortale; è Lui che riveste questo corpo, che esce da questa effimera cornice, rifiutandola e lasciando che si dissolva negli elementi della Natura.... Ma l'identità del Signore e dell'anima nella Natura mutevole ci è velata dalle apparenze esteriori, e si perde nel brulicare degli inganni esteriori di questa Natura. E coloro che si lasciano condurre dalle forme esteriori, dalla forma umana o da qualsiasi altra forma, non vedranno mai questa identità, ma ignoreranno e disprezzeranno il Divino che dimora nel corpo umano (IX, 11).

 

 

9. Si serve dell'orecchio, dell'occhio, degli organi del tatto, del gusto e dell'odorato, e anche della mente[863], per godere gli oggetti sensibili.

 

10. Coloro che si sono smarriti nelle apparenze[864] non lo vedono quando se ne va, quando resta o quando gode[865] possedendo i guna; ma coloro che hanno l'occhio della conoscenza[866] lo vedono.

 

Gli stupidi e gl'ignoranti vedono soltanto ciò che è visibile alla mente e ai sensi, non la più grande verità che solo può esser vista dall'occhio della conoscenza.

 

 

11. Gli yogi che si tendono in uno sforzo lo vedono come avente sede in loro stessi[867], ma gli ignoranti[868], il cui sé non è ancora formato[869], per quanto si sforzino non riescono a vederlo.

 

Coloro che non intendono, non possono scorgerlo, anche se si sforzano, finché non abbiano imparato a rifiutare le limitazioni della coscienza esteriore, a edificare in sé stessi il loro essere spirituale, creando per esso, per così dire, una forma nella Natura. Per conoscere sé stesso l'uomo dev'essere kritatma, aver ricevuto la forma completa nel mondo spirituale ed essere stato illuminato dalla visione spirituale. Gli yogi che hanno quest'occhio di conoscenza vedono nella loro realtà senza fine, nella loro eternità di spirito, l'Essere divino che dimora in ciascuno di noi. Illuminati, vedono in sé stessi il Signore e sono liberi dalle grossolane limitazioni materiali, da quelle che si attaccano a una personalità mentale e a una vita effimera; immortali, risiedono nella verità del Sé e dello Spirito. Vedono il Signore non soltanto in loro stessi, ma nel cosmo intero.

 

 

12. La luce[870] che irradia dal sole e illumina tutto il mondo, quella che brilla nella luna e nel fuoco, sappi che é il Mio splendore.

 

13. Penetrando la terra, sostengo gli esseri[871] con la mia energia[872]; e, divenuto il soma[873], la cui forma è la linfa, Io nutro le piante.

 

14. Divenuto fiamma di vita[874], penetro il corpo[875] degli esseri che respirano[876] e, unendomi al loro respiro vitale[877], digerisco le quattro specie di alimenti[878].

 

In altre parole, il Divino è l'Anima della materia, l'Anima della vita, l'Anima della niente e anche l'Anima della luce supermentale, situata oltre la mente e la sua intelligenza ragionante limitata[879]*.

 

 

15. Io dimoro nei cuore[880] di tutto; da Me nascono la memoria[881] e la conoscenza[882], e anche il ragionamento. In verità sono Io che tutti i Veda devono far conoscere; Io sono Colui che conosce i Veda e l'autore del Vedànta.

 

16. Vi sono due Purusha nel mondo[883], lo kshara[884] e l'akshara[885]. Kshara è [l'insieme di] tutti gli esseri. Ciò che si trova imperturbabile sopra è chiamato akshara.

 

Questi due Purusha sono i due spiriti che vediamo nel mondo. L'uno emerge in primo piano mediante l'azione; l'altro rimane dietro, stabile nel perpetuo silenzio da cui l'azione scaturisce e in cui tutte le azioni hanno termine e spariscono nell'essere fuori del tempo, nirvana.

La difficoltà che sconcerta la nostra intelligenza è che questi due Purusha sembrano opposti inconciliabili, senza una vera relazione fra di loro, senz'altro passaggio dall'uno all'altro a meno di un intollerante movimento di separazione. Lo kshara agisce isolatamente nell'akshara, o almeno ne motiva l'azione; l'akshara si mantiene separato, rivolto verso sé stesso e, nella sua inattività, distinto dallo kshara.... È forse possibile che i due siano una sola e stessa rosa quando sembrano, non soltanto di opposta natura, ma di difficile unione nell' esperienza? In effetti, quando viviamo nella mobilità del divenire, possiamo essere coscienti dell'immortalità dell'esistenza in sé, fuori del tempo; ma come potremmo vivere in essa? E quando fissiamo l'essere fuori del tempo, il tempo, lo spazio e le circostanze cadono e si separano da noi, incominciano ad apparire come un turbato sogno nell'Infinito. La conclusione che sembrerebbe imporsi a prima vista, è che la mobilità dello spirito nella Natura sia un'illusione che di-viene reale quando viviamo in essa, ma non reale in essenza, perché quando rientriamo nel nostro Sé, essa si separa dalla nostra incorruttibile essenza. É il modo abituale di recidere il nodo dell'enigma brahma satyam, jaganmithya Brahman è vero, il mondo è illusione.

La Gita non si rifugia in questa spiegazione, che d'altra parte comporta grandi difficoltà, oltre al fatto di non riuscire a dar conto dell'illusione - essa si limita a dire che tutto è la misteriosa e incomprensibile maya, e si potrebbe benissimo anche dire che tutto è una misteriosa e incomprensibile doppia realtà, lo spirito che si sottrae allo spirito. La Gita parla di màyà, ma soltanto come coscienza parziale, che sconcerta e smarrisce perché perde contatto con la realtà completa, vive nel fenomeno della Natura mobile e non vede lo Spirito di cui è il potere attivo. Andando oltre màyà il mondo non scompare, ma cambia totalmente di significato. La visione spirituale arriva a prostrarci, ,non tanto che tutto ciò non esiste realmente, quanto che tutto ciò è, mi in un senso ben diverso dall'erroneo attuale modo d'interpretare: tutto è il Sé, l'Anima e la Natura del Divino, tutto è Vàsudeva. Per la Gita il mondo è reale, creazione del Signore, potere dell'Eterno, manifestazione del Parabrahman, e la Natura inferiore della triplice màyà é in sé stessa un potere derivato dalla suprema Natura divina.

Non 1possiamo neppure rifugiarci nella distinzione di una doppia realtà - una realtà inferiore, attiva e temporanea, e una realtà superiore, calma, immobile, eterna, oltre l'agire - e cercare la nostra liberazione passando da questa limitata visione a questa immensità, dall'azione al silenzio. La Gita insiste sul fatto che possiamo e dobbiamo, durante il periodo stesso in cui viviamo, rimanere coscienti nel Sé e nel suo silenzio, e tuttavia agire con forza nel mondo della Natura. E ci fornisce l'esempio dello stesso Divino, non legato alla necessità di nascere, libero e superiore al cosmo, che tuttavia si mantiene costantemente in azione (IX, 4-10). Sarà quindi rivestendo integralmente la somiglianza con la Natura divina che l'uomo potrà possedere interamente l'unità di questa doppia esperienza.

Ma qual è il principio di questa doppia unità?

La Gita lo trova nella suprema visione del Purushottama, in quanto questa visione è, secondo la sua dottrina, il tipo dell'esperienza completa, più elevata; è Ia conoscenza di coloro che conoscono il tutto, kritsna-vidah (III, 29).

 

 

17. Ma esiste un più alto[886] e diverso[887] Purusha, [diverso da questi due,] chiamato il Supremo Sé[888]. Egli è il Signore immutabile[889] che penetra i tre mondi[890] e li sostiene.

 

In questo versetto la Gita ci fornisce la chiave della conciliazione dei due aspetti apparentemente opposti della nostra esistenza.

 

 

18. Perché Io sono oltre lo kshara e anche oltre l'akshara e a questo superiore[891], Mi si glorifica nel mondo[892] e nel Veda sotto il nome di Purushottama[893].

 

L'akshara è supremo, para, in rapporto agli elementi e all'azione del-la Natura cosmica. È l'immutabile Sé di tutto, e l'immutabile Sé di tutto è il Purushottama... Tuttavia egli è più grande dell'akshara, perché, non limitato dallo stato supremo ed eterno del suo essere, param dhama (XV, 6), va oltre questa immutabilità. Ma, per arrivare a questo stato supremo, senza ritorno alla nascita, la sola condizione di liberazione che ricercavano i saggi del passato, si deve passare attraverso ciò che in noi è immutabile ed eterno. Ma quando la liberazione è ricercata attraverso il solo akshara, il tentativo diviene ricerca dell'Indefinibile, difficilissima per la nostra natura, incarnati come siamo nella materia. L'Indefinibile, verso cui l'akshara, il puro e intangibile Sé in noi, si eleva nel suo intenso bisogno di separazione, è un supremo non-manifestato (VIII, 20, 21), e questo supremo akshara non manifestato è ancora il Purushottama. Per questo, dice la Gita, anche coloro che ricercano l'Indefinibile vengono a Me, all'eterno Divino (XII, 3, 4). Tuttavia il Purushottama è più del supremo akshara non manifestato, più di ogni Assoluto negativo, neti neti, e si deve conoscerlo anche come supremo Purusha che diffonde quest'universo nella propria sostanza. Egli è un Tutto supremo e misterioso, un ineffabile e positivo Assoluto di tutte le cose di questo mondo. Nello kshara è il Signore; è il Purushottama non soltanto lassù, ma anche qui - il Signore, Ishvara - nel cuore di ogni creatura. E anche lassù, nel supremo stato di eternità, è il supremo Signore, parameshvara, non un Indefinibile appartato e senza relazione alcuna, ma l'origine, il padre e la madre, il fonda-mento, la base e la dimora attuale del sé e del Cosmo, il Signore di tutte le esistenze e Colui che accetta l'ascesi e il sacrificio. Riconoscendolo nello kshara e nell'akshara, riconoscendolo come il non-nato che si manifesta parzialmente in ogni nascita e discende nell'eterno Avatar, nella conoscenza della sua integralità, l'anima si trova facilmente liberata dalle apparenze della Natura inferiore e ritorna, mediante un'ampia e improvvisa crescita, un'incommensurabile ascesa, sino all'Essere divino e alla Natura suprema. La verità dello kshara è anche la verità del Purushottama. Il Purushottama è nel cuore di ogni creatura e si manifesta nelle innumerevoli vibhuti; il Purushottama è lo spirito cosmico nel tempo e colui che dà, allo spirito umano liberato, l'ordine di compiere l'azione divina....

Il Divino non è né interamente lo kshara né interamente l’akshara. Va oltre il Sé immutabile, oltre l'Anima delle cose mute-voli. Può essere l'uno e l'altro ad un tempo perché è differente da essi, anya; perché è il Purushottama sopra il cosmo e tuttavia diffuso nel mondo e nel Veda, sotto l'aspetto di conoscenza di sé e di esperienza cosmica.

 

 

19. Colui che, ripresosi dallo smarrimento[894], Mi riconosce come il Purushottama, conosce tutto[895] e Mi adora con l'amore[896] di tutto il suo essere[897], o Bhàrata.

 

La personalità è anche un attributo divino; essa trova nell'Infinito la sua verità e il suo significato spirituale. Ma nell'Infinito, la Persona non è la personalità egoistica, separativa e dimentica, che conosciamo nella Prakriti inferiore; essa possiede qualcosa di esaltato, di universale, di trascendente, d'immortale, di divino. Questo mistero della suprema Persona è il segreto dell'amore e della devozione. La persona spirituale, purusha, l'anima eterna in noi, si offre e offre tutto ciò che essa ha e tutto ciò che essa è, all'eterno Divino, alla suprema Persona, alla suprema Divinità di cui è un frammento, ansha. L'integralità della conoscenza si trova in questa offerta di sé, in questa elevazione della nostra natura personale mediante l'adorazione e l'amore del Signore ineffabile della nostra personalità e dei nostri atti; il sacrificio delle opere riceve allora il suo compimento e la sua perfetta sanzione.

 

 

20. Ti ho rivelato la più segreta[898] dottrina[899], o Eroe senza macchia. Chi la conosce diviene un saggio[900] e la sua opera è compiuta[901], o Bhàrata.

 

E dopo tutto non è forse il vero advaita[902]* ciò che non lascia nessuna falla nell'unica eterna Esistenza? Questo integrale ed estremo monismo vede l'unità anche nella molteplicità della Natura e sotto tutti i suoi aspetti, tanto nella realtà del sé e del cosmo quanto nella più grande realtà ultracosmica che, origine del Sé e verità del cosmo, non è tuttavia legata da nessuna affermazione del divenire universale da nessuna negazione universale e assoluta. Questo è l'advaita della Gita. È il più segreto shastra, dice l'istruttore di Arjuna; è il supremo insegnamento e la scienza che ci conduce sino al centro del più alto mistero dell'esistenza.


 

CANTO XVI

DEVA E ASURA

 

 

La Gita ha parlato dell'azione compiuta dall'uomo liberato (IX, 27 28) e ha insistito sulla necessità di non escludere nessuna azione, sarva-karmani (III, 26 e XVIII, 56), kritsna-krit (IV, 18). Ha dichiarato anche che, in qualsiasi modo viva e agisca il perfetto yogi, vive e agisce in Dio (VI, 31). Ma ciò è soltanto possibile se la natura dello yogi diviene divina nella sua dinamica e nel suo funzionamento, se essa si rivela un potere puro, intangibile, inviolato, imperturbabile, sempre immune dalle reazioni della Prakriti inferiore.

Come e mediante quali stadi si compie una così difficile trasformazione? Qual è l'ultimo segreto per la perfezione dell'anima?....

La qualità sattvica è il primo mediatore fra la natura superiore e quella inferiore. Senza dubbio, a un certo punto dovrà anch'essa trasformarsi, sfuggire a sé stessa, frantumarsi e dissolversi nella sua origine. Le sue derivazioni condizionate - una luce che cerca e un'azione attentamente elaborata - devono divenire la luce spontanea e l'attività diretta e libera dello spirito. Ma in attesa di questa trasformazione, un notevole aumento del potere sattvico ci libererà grandemente dall'incapacità tamasica e rajasica, e l'incapacità sattvica potrà essere più facilmente superata quando non saremo troppo trattenuti da rajas e tamas. Sviluppare sattva sino a che questo guna si riempia di calma e di felicità spirituale, è il primo stadio di questa disciplina preparatoria della natura.

 

È il tema degli ultimi canti della Gita. Ma essa fa precedere lo studio di questo movimento verso la luce da una distinzione fra due categorie d'esseri, i deva e gli asura. Se il deva è capace di un'alta azione sattvica trasformatrice dell'essere, l'asura ne è incapace.

Vediamo dunque l'oggetto di queste preliminari considerazioni e la portata esatta della distinzione. La natura di tutti gli esseri umani è la stessa: una mescolanza dei tre guna (XIV, 4-18), e sembra quindi che tutti dovrebbero avere la possibilità di sviluppare e di rinforzare l'elemento sattvico, dirigendolo verso le altezze della trasformazione divina. Che la nostra tendenza abituale sia in realtà quella di fare della nostra ragione e della nostra volontà i servi del nostro egoismo tamasico o rajasico - i ministri del nostro desiderio cinetico, agitato e male equilibrato, o della nostra compiacente indolenza o inerzia statica - non può essere, si potrà pensare, che un carattere temporaneo del nostro essere non completamente sviluppato, l'immaturità della sua imperfetta evoluzione che finirà quando la coscienza si elevi nella scala dei valori spirituali. Vediamo mediante l'esperienza che gli uomini - almeno quelli sopra un certo livello - si dividono generalmente in due categorie: da un lato, coloro la cui forza dominante è di natura sattvica, e che si orientano verso la conoscenza, il dominio di sé, il bene, la perfezione; dall'altro, coloro la cui forza dominante è di natura rajasica e che si orientano verso una grandezza egoistica, la soddisfazione del desiderio, l'attività senza freno di una forte volontà, di una forte personalità che cercano d'imporre al mondo, non per il servizio dell'uomo o del Divino, ma per il loro personale orgoglio, la loro gloria e il loro piacere. I primi sono i rappresentanti umani dei deva (X, 2c) e i secondi dei danava (X, 14) o asura (IX, 12); i primi degli dèi e i secondi dei titani...

Lo spirito degli antichi, più aperto del nostro alla verità nascosta dal velo fisico, vedeva, dietro la vita dell'uomo, grandi esseri, grandi poteri cosmici, che rappresentavano aspetti o gradi della Shakti universale: divini, titanici, giganteschi o demoniaci; e gli uomini che rappresentavano fortemente questi tipi della natura erano, essi stessi, considerati come deva, asura, rakshasa, pishacha[903]*. La Gita, peri suoi propri fini, riprende queste distinzioni ed espone la differenza fra le due categorie di esseri. Essa ha parlato precedentemente della natura asurica (IX, 12c) e rakshasica (XI, 36) che ostacola la conoscenza del Divino, la liberazione e la perfezione; essa oppone a queste nature quella devica, orientata verso tali adempimenti.

 

 

Il Beato Signore disse:

1-3. Intrepidità, purezza di natura, perseveranza nello yoga della conoscenza, carità, dominio di sé e sacrificio, studio delle Scritture, austerità e rettitudine, non-violenza, veracità, impassibilità, rinuncia, calma, benevolenza, compassione per tutti gli esseri, assenza di cupidigia, mansuetudine, modestia, stabilità, vigore, longanimità, persistenza, nettezza del corpo fisico, assenza di cattiveria e di amor proprio eccessivo, sono, o Bhàrata, le caratteristiche di colui che nasce con natura devica.

 

La benevolenza, l'abnegazione e il dominio di sé della natura dei Deva, sono liberi da ogni debolezza in quanto questa natura possiede l'energia, la solida risolutezza, l'intrepidità dell'anima che vive secondo la verità, la rettitudine, la giustizia e l'assenza di violenza. li temperamento e l'essere sono integralmente puri; l'uomo ricerca la conoscenza e vi si adatta, calmo e incrollabile.

 

 

4. L'ostentazione, l'arroganza, l'orgoglio, la collera, la durezza e l'ignoranza sono, o figlio di Prithà, le caratteristiche di colui che nasce con natura asurica.

 

5. È detto che le qualità deviche conducono alla libertà e le qualità asuriche alla schiavitù. Non ti affliggere, o figlio di Pàndu, tu sei nato con natura devica.

 

Arjuna non deve preoccuparsi e pensare che accettando la battaglia e il massacro ceda agli impulsi dell'asura. Quest'azione intorno a cui tutto si svolge, la battaglia che Arjuna deve combattere -- avendo quale auriga del carro di battaglia il Divino incarnato, e per l'ingiunzione del Maestro del mondo che ha preso la forma dello Spirito del Tempo - è una lotta per stabilire il regno del dharma, il regno della verità, del diritto e della giustizia. Arjuna è nato devico, ha sviluppato l'essere sattvico ed è giunto al punto in cui è capace di compiere la più alta trasformazione e liberarsi dai tre guna, e di conseguenza anche dalla natura sattvica.

 

 

6. Esistono due creazioni[904] di esseri[905] in questo mondo: quella dei deva e quella degli asura. La natura devica te l'ho descritta sino nei suoi minimi particolari; ascolta adesso, o figlio di Prithà, che cos'è la natura asurica.

 

La distinzione fra deva e asura non è valida per l'intera umanità e non può essere rigidamente applicata a tutti gl'individui; essa non è neppure ben definita e precisa a tutti gli stadi della storia morale e spirituale della specie umana o in tutte le fasi dell'evoluzione individuale. L'uomo tamasico, che forma una cosi gran parte dell' umanità, non entra in nessuna di queste categorie, anche se possono trovarsi in lui, in piccola dose, gli altri due elementi che serve senza calore. L'uomo normale è comunemente una mescolanza; ma l'una o l'altra tendenza predomina e tende a renderlo un'associazione di rajas e tamas o di sattva e tamas, preparandolo per la chiara supremazia del divino o per la turbolenza del titano. Si tratta quindi di una certa supremazia nell'evoluzione della natura qualitativa, come il testo dimostra chiaramente. Può esserci da una parte una sublimazione della qualità sattvica con l'esaltazione o la manifestazione del deva non nato; dall'altra una sublimazione della tendenza rajasica dell'anima nella Natura, la nascita completa dell'asura. L'una conduce al movimento di liberazione su cui la Gita si prepara a insistere, rendendo possibile l'esaltazione della qualità sattvica che va oltre sé stessa, e una trasformazione a somiglianza dell'essere Divino. L'altra allontana da questa universale possibilità e precipita l'asservimento all'ego. Tale è il punto essenziale della distinzione.

 

 

7. Gli esseri asurici non hanno né la [vera] conoscenza della via dell'azione[906] né quella dell'astensione dall'agire[907]; in essi non si trova verità, purezza o fedele osservanza.

 

8. "L'universo[908], essi dicono, è senza Dio[909], senza verità, senza base; si compone di fenomeni che si spingono l'uno contro l'altro[910], la sua causa è il desiderio[911] e null' altro."

 

9. Immersi in queste convinzioni, questi esseri poco intelligenti, anime perdute[912], commettono azioni crudeli[913] e si ergono quali nemici del mondo per distruggerlo.

 

10. Abbandonati ai loro desideri insaziabili, propensi all'ostentazione, all'orgoglio, all'arroganza, il loro smarrimento[914] li conduce a idee perverse e ispira loro risoluzioni impure.

 

11. Essi fanno della soddisfazione del desiderio[915] il loro [scopo] supremo e, persuasi che rappresenti tutto quanto è possibile fare e avere, divengono preda di affanni innumerevoli che hanno fine solo con la morte.

 

12. Incatenati da centinaia di vane speranze, abbandonati al desiderio e alla collera[916], si sforzano, attraverso la via dell'ingiustizia e per soddisfare i loro desideri[917], di accumulare tesori e ricchezze.

 

13-15. "Ecco, essi dicono, ciò che ho guadagnato oggi; potrò soddisfare quel desiderio. Questa ricchezza è mia e anche quest'altro bene sarà mio. Ho ucciso quel nemico e altri ne ucciderò. Io sono il Signore[918]! A me il godimento[919]? A me il successo, il potere e la felicità! Sono ricco e di nobile stirpe. Chi può a me paragonarsi? Offrirò sacrifici, farò doni e godrò." Così parlano, sviati dall'ignoranza[920].

 

16. Agitati da numerosi progetti[921] e presi nelle reti dell'illusione[922], appagano i loro desideri[923] e cadono in un sordido inferno[924].

 

17. Infatuati di sé stessi, ostinati, pieni dell'orgoglio e dell'arroganza della ricchezza, offrono sacrifici che lo sono soltanto di nome, con ostentazione e senza tener conto delle regole.

 

18. Abbandonandosi al loro egoismo, alla loro violenza, alla loro insolenza, alla loro lussuria e alla loro collera, disprezzano e odiano Me, che risiedo nei loro corpi come in quello degli altri.

 

19. Questi [uomini] crudeli che non sanno che odiare, i peggiori fra gli esseri umani, li getto senza interruzione nelle matrici asuriche del mondo della nascita e della morte[925].

 

20. Caduti in matrici asuriche, smarriti[926] di nascita in nascita, essi non vengono a Me, o figlio di Kunti, ma affondano nella più bassa condizione[927].

 

Se vogliamo dare a questa impressionante descrizione il pieno valore della distinzione che essa implica, non si deve andare oltre a ciò che realmente significa. Quando si dice che nel mondo materiale esistono due creazioni dì esseri, i deva e gli asura[928]*, non vuol dire che anime umane siano così state create da Dio sino dai primordi, ciascuna con la propria ineluttabile carriera nella Natura; non vuoi dire che esista una rigida predestinazione spirituale e che le anime rifiutate dal Divino vengano private del discernimento per essere precipitate nell'inferno impuro, condannate all'eterna perdizione. Tutte le anime sono eterni frammenti del Divino (XV, 7-10), tanto le asuriche quanto le deviche, e tutte possono raggiungere la salvezza; anche il più gran peccatore può volgersi verso il Divino. Ma l'evoluzione dell'anima nella Natura è un'avventura in cui lo svabhàva, il divenire stesso dell'anima (VII, 7c), e il karma governato dallo svabhàva, sono le eterne forze che dominano; e se un eccesso nella manifestazione dello svabhàva o un disordine del suo giuoco inclina la legge dal lato perverso, se le qualità rajasiche coltivate a detrimento di quelle sattviche prendono il sopravvento, allora la tendenza del karma e i suoi risultati finiranno necessariamente, non al livello sattvico capace di un movimento di liberazione, ma verso le più grandi perversità della natura inferiore. Se l'uomo non abbandona questa via dell'errore, vedrà nascere in lui un (vero) asura; e una volta separato a tal punto dalla luce e dalla verità, la stessa immensità della forza divina male impiegata gli impedirà di rovesciare la direzione della sua corsa fatale, sino a che non abbia sondato le profondità dell'abisso in cui è caduto e visto dove la sua condotta l'ha portato - il potere dissipato, esaurito, lui stesso sprofondato nello stato più basso in cui un'anima possa cadere: l'inferno. Soltanto quando capisce il suo errore e si volge verso la luce, interviene quest'altra verità della Gita: il più gran peccatore, il più impuro, il più violento e abbietto criminale è salvo nello stesso istante in cui si volge verso il Divino che è in lui, per adorarlo e seguirlo. Quindi, grazie a questo semplice cambiamento di rotta, entra rapidamente nella via sattvica che conduce alla perfezione e alla libertà.

 

21. L'inferno[929] ha tre porte attraverso le quali l'anima si perde: la voluttà[930], la collera[931], la cupidigia[932]. Che l'uomo vi rinunci dunque?

 

22. L'uomo che ha saputo sfuggire a queste tre porte delle tenebre[933], o figlio di Kunti, agisce per il bene della propria anima[934] e si dirige verso il supremo destino[935].

 

23. Ma l'uomo che si sottrae ai precetti delle Sacre Scritture[936], per seguire gli impulsi del desiderio[937], non raggiunge la perfezione[938], la felicità[939] o lo stato supremo[940].

 

24. Che le Scritture siano dunque per te l'autorità che decide ciò che dev'essere o non dev'esser fatto! Consapevole di ciò che le Scritture prescrivono, compi la tua opera qui sulla terra.

 

La vera regola della nostra natura non è di seguire la legge del desiderio; esiste un più alto e più giusto criterio per i nostri atti. Ma dove è stato formulato, dove trovarlo?

La specie umana è sempre stata alla ricerca di questa legge più alta e più giusta e tutto ciò che ha scoperto (nel passato), lo ha incorporato nel proprio shàstra (le Scritture sacre, la Legge scritta) - legge di conoscenza e di scienza, legge morale, religiosa, di migliore vita sociale, di migliori relazioni fra l'individuo e gli altri uomini, la Natura e Dio. Lo shàstra non è una massa di abitudini buone o cattive, seguite inintelligentemente dallo spirito abitudinario dell'uomo tamasico. Lo shàstra è la conoscenza e l'insegnamento apportati e trasmessi tramite l'intuizione, l'esperienza e la saggezza; è la scienza, l'arte e l'etica della vita, in breve, i migliori criteri di cui dispone la specie.

L'uomo, semi-sveglio, che abbandona l'osservanza. di questa regola per lasciarsi trasportare dai suoi istinti e desideri, può trovare il piacere, ma non la felicità - la felicità interiore non può venire che da una vita bene indirizzata -, non può avvicinarsi alla perfezione, non può raggiungere il supremo stato spirituale. La legge dell'istinto e del desiderio sembra dominare il mondo animale, ma ciò che nell'uomo è specificamente umano progredisce mediante la ricerca della verità, della religione, della conoscenza e della vita bene indirizzata. Lo shàstra, il Diritto riconosciuto, a cui l'uomo assegna il compito di governare i suoi clementi inferiori mediante la ragione e la volontà intelligente, dev'essere osservato, accettato come l'autorità direttrice della sua condotta e delle sue opere, che prescrive ciò che deve o non deve esser fatto, sino a che la natura di desiderio sia moderata, ridotta, disciplinata dall'abitudine del dominio di sé, e che l'uomo divenga pronto, dapprima a condurre sé stesso con intelligenza più lucida, e poi a seguire la più alta legge - la legge e la libertà suprema della Natura spirituale....

Lo shàstra si appoggia su di un certo numero di condizioni basilari, di dharma; è un mezzo, non un fine. Lo scopo supremo è la libertà dello spirito che l'anima scopre quando, abbandonati tutti i dharma, si volge verso Dio per trovare in Lui la sola legge d'azione, e agisce mossa direttamente dalla volontà divina per vivere nella libertà della Natura divina, non secondo la legge,e ma secondo lo spirito. È la parte dell'insegnamento che prepara la prossima do-manda di Arjuna.


 

CANTO XVII

I GUNA, LA FEDE, LE OPERE

 

 

Arjuna disse:

1. Da dove viene, o Krishna, la consacrazione[941] di coloro che offrono il sacrificio secondo la pienezza della loro fede[942] ma rifiutano i precetti delle Sacre Scritture[943]? Da sattva, rajas o tamas?

 

La Gita distingue fra l'azione svolta secondo l'impulso del desiderio personale e quella secondo lo shastra.... L'azione diretta dallo shàstra è il frutto della cultura intellettuale, etica, estetica, sociale e religiosa (dell'epoca); essa rappresenta un tentativo di vita giusta, armoniosa e ordinata, e manifesta uno sforzo, più o meno riuscito secondo le circostanze, dell'elemento sattvico che nell'uomo tende a moderare, dominare o guidare il suo egoismo rajasico e tamasico, quando non sia possibile escluderlo.... Vediamo che esiste nell'uomo un'altra tendenza più libera, diversa dalla soggezione ai suoi desideri, diversa dalla sua volontà di accettare la legge, l'idea rigidamente stabilita, la sicura regola dello shàstra. Vediamo l'individuo e la comunità - il primo assai frequentemente, e l'altra in un momento qualsiasi nel corso della propria vita - abbandonare lo shàstra, non più tollerarla, perdere questa forma di volontà e di fede, e mettersi alla ricerca di un'altra legge che l'individuo e la comunità siano meglio disposti ad accettare come vera legge della vita, a considerare come una verità più elevata o più importante dell'esistenza. Ciò può avvenire quando lo shàstra abbia perduto vigore, quando degeneri o s'irrigidisca in una massa dì abitudini o di convenzionalismi, oppure si riveli imperfetto o non più utile al progresso che si deve compiere. Allora una nuova verità, una legge di vita più perfetta, diviene imperativa.

Questo movimento incomincia quando l'individuo, non più soddisfatto di una legge che non corrisponde più all'idea e all'esperienza più vasta e più intensa che ha di sé e dell'esistenza, non riesce a trovare in sé stesso la volontà di crederla e di seguirla. Questo movimento prende spesso la forma di una ribellione della natura egoistica e rajasica, che cerca di togliersi il giogo di qualcosa che la priva della libertà che ha scoperto e del libero adempimento di sé. Sino a un certo punto questa ribellione è legittima, perché si appoggia su una libertà e possiede una ragione valida per giustificarla....

Quale dev'essere allora la base sicura di un'azione che si sottragga alla direzione del desiderio e alle norme dello shastra?

La regola del desiderio possiede in sé un'autorità che non è per noi sicura e soddisfacente come lo è per l'animale o come forse lo fu per un'umanità primitiva, e che tuttavia, e sino a un certo punto, è fondata su una parte assai viva della nostra natura e rafforzata dalle salde indicazioni che ne riceviamo. La legge, lo shastra, ha dietro di sé tutta l'autorità e le sanzioni di una regola da lungo tempo stabilita, e l'efficacia di una sicura esperienza passata. Il nuovo movimento ha invece il carattere di un'affascinante avventura in zone inesplorate, di un audace sviluppo e di una nuova conquista. Quale sarà il filo conduttore, con quale luce rischiareremo il nostro cammino, su quale base ci appoggeremo?

La risposta è che il filo conduttore e il sostegno devono essere trovati nella fede dell'uomo, shraddha, nella sua volontà di credere e vivere ciò che vede e pensa essere la verità del suo essere e dell’esistenza. In altri termini, questo nuovo movimento è il richiamo che l'uomo indirizza a sé stesso o a qualcosa di potente e d'imperioso in lui o nell'esistenza universale, con Io scopo di scoprire la sua verità, la sua legge di vita, la sua via verso la pienezza e la perfezione. Tutto dipende dalla natura della sua Fede - in lui o nell'anima universale di cui è una parte o una manifestazione - e dall'oggetto verso cui la sua fede si dirige; tutto dipende dalla misura in cui essa lo avvicina al suo vero Sé e al Sé o vero Essere dell'universo.

 

 

Il Beato Signore disse:

2. La fede[944] negli uomini incarnati[945] è di tre specie. Secondo la natura di ciascuno[946] può essere sattvica, rajasica o tamasica. Ascolta bene ciò che sto per dire!

 

3. Per ciascuno, o Bhàrata, la fede è formata secondo l'essere profondo. L'anima[947] dell'uomo è fatta di fede[948]. Tale è la fede e tale l'uomo.

 

Se si osserva un po' più da vicino quest'idea feconda, si scopre che la seconda metà del versetto di cui sopra, contiene, in qualche parola piena di forza, quasi tutta la teoria della moderna prammatica. Se l'uomo, o l'anima dell'uomo, consiste nella fede che è in lui - intesa nel senso profondo -, ne consegue che la verità che vede e che vuol vivere è, per lui, la verità del suo essere, verità che ha creato o che sia creando; per lui non può esistere altra verità. Essa rientra nel possesso interiore ed esteriore delle sue azioni, appartiene al suo divenire, al dinamismo della sua anima e non a ciò che in lui è immutabile. L'uomo è oggi quello che è a causa della passata volontà della sua natura, sostenuta e continuata dalla volontà presente di conoscere, dì crescere e d'essere, nella sua intelligenza e nella sua forza vitale; e l'orientamento che prenderanno questa fede e volontà attive segnerà il suo divenire. Creiamo la nostra verità d'esistenza mediante l'azione nella mente e nella vita, il che significa creare il nostro essere foggiandolo con le nostre proprie mani.

Ma tutto ciò non è che un aspetto della verità.

 

 

4. Gli uomini sattvici offrono il sacrificio agli dèi[949]; i rajasici agli yaksha[950] e ai ràkshasa[951], e i tamasici agli spiriti della natura[952] e agli spettri[953].

 

L'uomo tamasico non offre il sacrificio agli dèi, ma ai poteri elementali inferiori o agli spiriti rozzi che, dietro il velo, si nutrono delle sue opere e dominano con le loro tenebre la sua vita. L'uomo rajasico offre il sacrificio alle divinità inferiori o ai poteri perversi degli yaksha, guardiani delle ricchezze, o alle forze asuriche e rakshasiche.... Il vero sacrificio è offerto, senza riserva alcuna, agli dèi, ed è interamente accettato dai Poteri divini mediante cui - sono essi le sue maschere e le sue personalità - il Signore dell'esistenza governa l'universo.

 

 

5-6. Coloro che s'impongono severe austerità[954], non prescritte dalle Scritture, sono vanitosi e troppo attaccati al loro ego[955], pieni di desiderio, di passione e di violenza, e, nella loro insensatezza, maltrattano l'insieme degli elementi che formano il corpo, e Me stesso che abito nell'intimo il corpo [sottile][956]. Sappi che questi uomini sono asurici nelle loro determinazioni.

 

Anche se l'azione possiede apparentemente un aspetto nobile e profondo, anche se la fede e la volontà sono di più elevata natura, sarà tuttavia una tapasya senza saggezza, una tapasyà asurica, rajasica o rajasica-tamasica, se un'ambizione personale o un possente desiderio si mescola all'ascesi e suscita qualche azione violenta, terribile e senza freni, contraria allo shàstra, opposta alla giusta legge della vita e delle opere e dannosa per sé stessi e gli altri; lo sarà ancora di più, se l'azione ha il carattere di una tortura verso sé stessi e ferisce elementi vitali, mentali e fisici, o fa violenza al Divino che risiede nel corpo sottile profondo.

 

 

7. Il cibo che ognuno preferisce è di tre specie, e così anche il sacrificio[957], l'ascesi[958] e il dono[959]. Ascolta bene la loro distinzione!

 

Nelle sue parti essenziali, ogni azione dinamica può ridursi a questi tre elementi. Ogni dinamismo, ogni movimento della natura presuppone un'ascesi, tapasya o tapas, volontaria o involontaria, un'attività dell'energia, una concentrazione delle nostre forze e delle nostre facoltà che ci aiuta a compiere, ad acquisire o a divenire qual-cosa. Ogni azione comporta un dono, dana, di ciò che siamo, di ciò che abbiamo, un onere che è il prezzo di questo adempimento, di questa acquisizione o di questo divenire. Ogni azione implica infine un sacrificio, yajna, a poteri elementali o universali, o al supremo Signore delle nostre opere. Il problema consiste nel sapere se facciamo le cose inconsciamente, passivamente, o al massimo con una volontà semicosciente, ignorante e inintelligente, oppure con un'energia cosciente senza saggezza o con una volontà cosciente e saggia, radicata nella conoscenza - in altre parole, se il nostro sacrificio, il nostro dono, Ia nostra ascesi sono di natura tamasica, rajasica o sattvica,

 

8. Gli alimenti saporiti, nutrienti, unti, gradevoli, che aumentano la vitalità, la purezza, la forza, la salute, il benessere e la gioia, piacciono agli uomini sattvici.

 

9. Gli uomini rajasici amano i cibi amari, acidi, salati, molto caldi, piccanti, aspri, che bruciano; tutti alimenti che producono dolore, pene e malattie.

 

10. Ciò che è corrotto, insipido, putrido, fermentato, fatto con rifiuti e impuro, è il cibo che piace agli uomini tamasici.

 

11. Il sacrificio offerto secondo la regola[960], da colui che non si aspetta frutto alcuno e pensa solo a ciò che deve compiere, è un sacrificio sattvico.

 

Il sacrificio sattvico è vicino all'ideale e conduce direttamente al tipo di azione voluta dalla Gita; ma non è ancora il più elevato, non è l'azione dell'uomo divenuto perfetto, che vive nella Natura divina. Questo sacrificio è compiuto come un dharma fisso, immutabile, ed è offerto agli déi, (ossia) a qualche potere a aspetto parziale del Divino manifestato in noi e nell'universo. L'opera svolta con disinteressata fede religiosa, o senza egoismo e per l'umanità, oppure impersonalmente e per devozione al diritto o alla verità, è di natura sattvica: una simile azione è necessaria alla nostra perfezione, in quanto puri-fica il nostro pensiero, la nostra volontà e la sostanza stessa della nostra natura. L'azione sattvica a cui dobbiamo giungere è di una portata più vasta e ancora più libera; è il più alto e l'ultimo sacrificio che possiamo offrire all'essere integrale del Signore supremo, con la ricerca del Purushottama o con la visione di Vàsudeva in tutto ciò che esiste; è l'azione compiuta impersonalmente, universalmente, per il bene del mondo e per il compimento della volontà divina nell' universo. Questa esaltazione porta l'azione sattvica a superare sé stessa e conduce al dharma immortale. Nasce allora una libertà in cui non esiste nessuna azione personale, nessuna regola sattvica del dharma, nessuna limitazione dovuta allo shàstra; la ragione e la volontà inferiori vengono superate e non sono più esse a guidare e a dettare l'azione o ad assegnare l'oggetto: è una più alta saggezza. Non si tratta di frutto personale, poiché non è la nostra volontà che agisce, ma una volontà suprema di cui la nostra anima è lo strumento. Non esiste né considerazione per il sé, né oblio del sé; il jiva, eterno frammento del Divino, è unito al più alto Sé dell'esistenza, lui e tutti sono uniti in questo Sé e in questo Spirito. Non c'è azione personale, in quanto tutte le azioni sono offerte al Signore delle nostre opere ed è Lui che compie l'azione attraverso la Prakriti divinizzata. Non esiste allora sacrificio - a meno che non diciamo che il Signore del sacrificio offre a sé stesso, alla sua forma cosmica, le opere della propria energia nel jiva. Tale è lo stato supremo del superamento di sé che si ottiene mediante l'azione offerta in sacrificio; è la perfezione dell'anima pervenuta alla piena coscienza della sua natura divina.

 

 

12. Ma il sacrificio offerto con mira al frutto o per ostentazione, sappi, o Migliore dei Bharata, che è un sacrificio rajasico.

 

13. Il sacrificio offerto fuori della norma[961], senza distribuzione di cibo, senza invocazione[962], senza offerta[963] [per il sacerdote], senza fede, è chiamato sacrificio tamasico.

 

Il sacrificio viene offerto senza la distribuzione di cibo che, nel rito indù, simbolizza l'elemento di carità inerente a ogni vero sacrificio - l'indispensabile dono ad altri, l'aiuto fecondo al prossimo, al mondo, senza il quale il nostro agire diviene totalmente egoistico e viola la vera legge universale di solidarietà e di scambio. Questo sacrificio viene offerto senza dakshina - il necessario dono (o dono di sé), fatto a colui che ha ordinato il sacrificio, sia questi la guida esteriore che ci aiuta negli atti da compiere o il Divino velato o manifestato in noi. Esso viene offerto senza il mantra - il pensiero o la parola di consacrazione che rappresenta il sacro corpo della volontà e della conoscenza, elevate dal nostro sacrificio sino alle divinità che serviamo....

La Gita descrive adesso tre forme di azione sattvica.

 

 

14. L'omaggio rituale[964] agli dèi[965], ai due volte nati[966], al guru[967] e ai saggi[968], la purezza, la rettitudine, la castità[969], la non-violenza[970], costituiscono ciò che l'uomo chiama ascesi[971] del corpo.

i

15- Un linguaggio che non causi eccitazione, che sia veridico, piacevole e salutare, costituisce, con lo studio e la recitazione regolare delle Sacre Scritture, ciò che viene chiamato l'ascesi[972] della parola.

 

16. La serenità[973] e il silenzio mentale, l'affabilità, il dominio di sé, la completa purezza della natura interiore[974], costituiscono ciò che viene chiamato l'ascesi[975] della mente.

 

17. Questa triplice ascesi, praticata con fede suprema[976] da uomini in unione [con il Sé][977], che non si aspettano nessun frutto, viene dichiarata sattvica.

 

È stato qui descritto tutto ciò che calma e disciplina la nostra natura rajasica ed egoistica, tutto ciò che la sostituisce mediante il principio felice e tranquillo del bene e della virtù. l l'ascesi del dharma sattvica, in così alta considerazione presso l'antica cultura indiana. Il suo culmine è necessariamente una grande purezza nella ragione e nella volontà, un'anima equa, una pace e una calma profonde, un'ampia simpatia che prepara l'unione, un riflesso della gioia divina dell'anima interiore nella mente, nella vita e nel corpo. A questo punto di elevazione, il tipo e il carattere etici si fondono nelle loro controparti spirituali. Questa esaltazione può essere portata a superarsi, sino a raggiungere una più alta e libera luce, e fondersi nella divina e invariabile energia della Natura suprema. Ciò che allora rimarrà, sarà il tapas[978]* immacolato dello spirito, una volontà suprema e una forza luminosa di tutti gli elementi dell'essere che agiscono in una vasta e inalterabile calma, in una gioia profonda, in una pura felicità spirituale, ananda. Allora non c'è più bisogno di ascesi, non c'è più tapasyà, perché tutto è naturalmente e, semplicemente divino, tutto è tapas. Non ci sarà più bisogno di lavoro separato di ordine inferiore, perché l'energia di Prakriti avrà trovato nella volontà trascendente del Purushottama la sua sorgente e la sua vera base. A causa della loro alta origine, gli atti di [aie energia procederanno naturalmente e spontaneamente anche sui piani inferiori, spinti da una volontà innata e perfetta sotto una perfetta direzione inerente. Non saranno limitati da alcun dharma del momento, in quanto sarà un'azione libera e molto sopra la natura rajasica e tamasica e i limiti troppo accurati e troppo r i 'retti della regola sattvica di azione.

 

 

18. L'ascesi, fatta con ostentazione per ottenere rispetto, onore e venerazione[979], è chiamata rajasica; in questo mondo è sempre mutevole e incostante.

 

19. Dell'ascesi che, nata da una risoluzione errata[980], viene praticata torturando sé stessi o con lo scopo di nuocere ad altri, si dice che è tamasica.

 

20. Il dono[981] fatto a tempo e luogo, a colui che ne è ?degno, con il sentimento che lo si deve fare e non per disobbligarsi, è ritenuto sattvico.

 

Come la tapasya, il dono può avere sia un carattere tamasico di ignoranza, sia un carattere rajasico di ostentazione, sia un carattere sattvico, illuminato e disinteressato....

Il culmine della via sattvica del dono sarà indicato dall'introduzione progressiva nell'azione dell'ampio dono di sé ad altri, al mondo e al Divino, atma-dàna, atma-samarpana, che è la consacrazione delle opere ordinata dalla Gita. La trascendenza sarà una perfetta pienezza, in seno alla Natura divina, dell'offerta di sé fondata sul significato più vasto dell'esistenza. L'intero universo è creato e mantenuto dal dono costante che Dio fa di Sé stesso e dei suoi poteri, mediante il riversarsi generoso del suo Sé e del suo Spirito in tutte le esistenze -"l'Essere universale, dice il Veda, è il sacrificio del Purusha." Nello stesso modo, l'azione dell'anima divenuta perfetta sarà pure un costante dono divino di sé stessa e dei suoi poteri, di tutto ciò che possiede nel Divino - conoscenza, luce, forza, amore, gioia, energia - e che diffonde, per influsso e comunicazione del Divino, su tutti gli esseri che la circondano, sul mondo intero e sulle sue creature. Tale sarà il risultato del dono totale dell'anima al Signore della nostra esistenza.

 

 

21. Il dono offerto controvoglia, per disobbligarsi o con la speranza di riceverne in cambio uno più vantaggioso, è detto di natura rajasica.

 

22. Il dono fatto agli indegni, in tempo e luogo inopportuni, oppure in modo offensivo e con disprezzo, è dichiarato tamasico.

 

23. AUM TAT SAT[982] è considerato come la triplice rappresentazione[983] del Brahman. Questa formula ha creato anticamente i Bràhmana[984], i Veda e i sacrifici.

 

TAT, “Quello”, indica l'Assoluto. SAT indica il principio dell'esistenza universale e suprema. AUM è il simbolo del triplice Brahman: il Purusha volto verso l'esterno, il Purusha sottile volto verso l'interno, e il Purusha sovracosciente o causale[985]*. Ognuna delle lettere, A, U, M, indica uno di questi tre principi nell'ordine ascendente, e la sillaba intera esprime il quarto stato, turiya, che si eleva sino all' Assoluto.

 

 

24. Per questa ragione coloro che dichiarano di essersi rivolti verso il Brahman[986] pronunciano [la sillaba] AUM quando incominciano gli atti di sacrificio, di carità o d'ascesi prescritti dalle regole.

 

Questo è per ricordarci che dobbiamo rendere la nostra opera l'espressione del triplice Divino nel nostro intimo, volgendola verso di Lui nell'idea e nel movente.

 

 

25. Pronunciando [la sillaba] TAT, senza aver mira su frutto alcuno, coloro che cercano la liberazione compiono i diversi atti di sacrificio, di carità o di ascesi.

 

26. Si usa la sillaba SAT nel senso di realtà[987] e di bontà[988]; e ugualmente, o figlio di Prithà, è usata nel senso di un' azione degna di elogio.

 

27. Riceve il nome di SAT anche la perseveranza nel sacrificio, nell'ascesi e nella carità, e gli atti che hanno tali fini sono ugualmente qualificati col nome di SAT.

 

28. Ma tutto ciò che è compiuto senza fede[989] - sacrificio, ascesi, carità o qualsiasi altra azione - viene chiamato ASAT[990], o figlio di Prithà, e nulla rappresenta in questo mondo e nell'altro.

 

Poiché la fede, shraddha, è il principio della nostra esistenza, ognuna di queste azioni, fatta senza fede, è falsa e priva di vero significato, di vera sostanza, su questa terra e nell'al di là; non ha realtà o potere di creare, né in questa vita né, dopo la vita mortale, nelle più vaste regioni del nostro spirito cosciente. La fede dell'anima - e non si tratta soltanto di una credenza intellettuale, ma della fede accompagnata dalla volontà concomitante di conoscere, di vedere, di credere, di agire e d'essere, secondo la sua visione e conoscenza - è citi che determina, mediante il proprio potere, la misura delle nostre possibilità di divenire. Questa fede, questa volontà rivolta - in tutto il nostro essere interiore e in quello esteriore, in tutta la nostra natura e il nostro agire - verso tutto ciò che esiste di più elevato, di più divino, di più eterno e vero, ci darà la capacità di raggiungere la suprema perfezione.


 

CANTO XVIII

[a] I GUNA, LA MENTE E LE OPERE

 

 

Arjuna disse:

1. Vorrei conoscere, o Guerriero dal braccio possente, il principio[991] della rinuncia[992] e del distacco[993], e in che cosa si differenziano, o Hrishikesha, Distruttore di Keshi[994].

 

Con questa domanda Arjuna chiede in che modo si può distinguere la rinuncia esteriore da quella interiore, sannyàsa e tyaga. L'insistenza della Gita su questa distinzione capitale è stata ampia-mente giustificata dallo svolgersi ulteriore della storia dello spirito indiano, particolarmente per la sua grande confusione fra queste due nozioni assolutamente diverse l'una dall'altra e per la sua tendenza a svalutare il genere di attività che propone la Gita -- facendone al massimo un semplice preliminare alla suprema inazione del sannyàsa. Infatti, quando oggi si parla di tyàga, ci si riferisce alla rinuncia materiale alla vita neI mondo. La Gita, al contrario, fissa le sue posizioni su concetti assolutamente opposti. Per essa la vera tyàga ha come base d'azione la vita nel mondo e non la fuga in un monastero, in una caverna o sulla vetta di una montagna. Il vero tyaga è l'azione accompagnata dalla rinuncia al desiderio - e cosi è anche il vero sannyàsa.

 

 

Il Beato Signore disse:

2. I veggenti hanno chiamato rinuncia[995] l'abbandono degli atti compiuti sotto la spinta del desiderio[996]; e i saggi hanno chiamato distacco[997] l'abbandono dei frutti delle opere.

 

In base a questa definizione, tyaga, e non sannyàsa, è la via migliore, in quanto non gli atti macchiati dal desiderio si devono rifiutare, ma il desiderio che li macchia. Può darsi che si ottenga il frutto delle proprie opere quale dono del Signore, ma il nostro egoismo non deve né esigerlo quale ricompensa, né farne la condizione del lavoro. Il frutto può anche non giungere, tuttavia l'opera va compiuta in quanto è un atto da compiersi, kartavyam karma, l'azione voluta dal Maestro interiore. Il successo e il fallimento sono fra le sue mani ed Egli li distribuirà secondo la sua volontà onnisciente e i suoi imperscrutabili disegni. L'agire dev'essere veramente abbandonato - non fisicamente per astensione, immobilità, inerzia, ma spiritualmente, ossia offerto al Maestro del nostro essere, il cui potere ci permette di compiere le opere. Si deve rinunciare all'idea falsa che noi siamo gli autori delle azioni, poiché in realtà è la Shakti universale che agisce attraverso la nostra personalità e il nostro ego. Il trasferimento spirituale di tutte le nostre opere al Signore e alla Shakti è, secondo la Gita, il vero sannyàsa.

 

 

3. "Si deve abbandonare l'agire perché porta con sé il male," dicono certi uomini istruiti[998]. "Non si devono abbandonare gli atti di sacrificio, di carità e di ascesi[999]," dicono altri.

 

4. Ascolta dunque, o Migliore dei Bharata, ciò che ho da dire sul distacco[1000], di cui è detto, o Valoroso fra gli uomini[1001], che se ne devono distinguere tre categorie.

 

Certuni vorrebbero bandire dalla nostra vita ogni genere di azione - come se ciò fosse possibile! Ma non è possibile finché siamo in un corpo vivente. La salvezza non consiste nel ridurre, mediante l'estasi, il nostro essere attivo all'immobilità della zolla di terra o della pietra. Il silenzio del samadhi non sopprime la difficoltà poiché, non appena si rientra nello stato normale, siamo di nuovo nell'azione, e ci accorgiamo di essere soltanto stati gettati, dalle altezze di salvezza che ricerchiamo, nell'assopimento spirituale. La vera salvezza, la liberazione ottenuta mediante la rinuncia interiore all'ego e l'unione col Purushottama, rimane stabile in ogni condizione, persiste in questo rnondo e fuori di esso, o in un qualsiasi altro mondo o fuori di ogni mondo; esiste in sé e non dipende dall'azione o dall'inazione. Quali sono dunque gli atti da compiere?

 

 

5. Non si deve rinunciare agli atti di sacrificio, di carità e di ascesi[1002]; essi devono essere compiuti, poiché sacrificio, carità e ascesi purificano l'uomo ponderato[1003].

 

6. Ma, anche questi atti devono essere compiuti abbandonando ogni attaccamento all'azione e ai frutti. Tale è, o figlio di Prithà, la Mia ultima e sicura conclusione.

 

La risposta interamente ascetica, che non è quella della Gita - non era probabilmente molto in uso in quell'epoca - potrebbe essere di non permettere, fra le azioni volontarie, che quelle di mendicare, mangiare e meditare, e fra le altre, quelle necessarie al corpo. Continuare le tre attività più sattviche - sacrifici, doni e ascesi - è una soluzione più liberale e più ampia. Questi atti vanno certamente compiuti poiché purificano il saggio.

 

 

7. In verità non si deve abbandonare l'azione prescritta[1004]. Un simile distacco, che nasce dallo smarrimento[1005], è detto tamasico.

 

In maniera più generale, includendo nel senso più ampio i sacrifici, i doni e l'ascesi, è l'azione prescritta, niyatam karma, che dev'essere compiuta - l'azione prescritta dallo shàstra, scienza e arte della retta conoscenza, del retto agire e del retto vivere; oppure prescritta dalla nostra natura essenziale, svabhàvanyatam karma; o infine, ed è la migliore, l'azione prescritta dalla volontà divina in noi e sopra di noi. Quest'ultima è la vera, la sola azione dell'uomo liberato, muktasya karma.

 

 

8. Colui che abbandona l'azione difficile per timore della sofferenza del corpo, dimostra distacco rajasico egli non raccoglie i frutti di questo abbandono.

 

9. Ma colui che compie, perché dev'essere fatto[1006], l'atto prescritto[1007], senza attaccamento all'azione e ai suoi frutti, dimostra, o Arjuna, un distacco sattvico.

 

Il principio sattvico della rinuncia non è l'astenersi dall'azione, ma dall'esigenza personale che rappresenta il fattore egoistico dietro di essa.... Si deve rinunciare completamente a ogni desiderio, ad o scelta e impulso egoistici, in cui l'ego si mette in primo piano, e infine anche all'egoismo più sottile della volontà che dice: "L'opera è mia, io ne sono l'autore", oppure: "L'opera è di Dio, ma io ne sono l'autore”.

 

 

10. L'uomo saggio e distaccato[1008], che ha dissipato il dubbio e gode di natura sattvica, non ha né ripulsione per l'atto spiacevole né attaccamento per quello piacevole.

 

Non si deve essere attaccati all'opera gradevole, desiderabile, lucrativa o coronata di successo, che non dev'essere fatta a ragione di :questa sua natura; ma bisogna farla con abnegazione e con l'assenso dello spirito - quando è l'azione voluta dall'alto e dall'intimo, artavyam karma. Non si deve avere avversione per l'opera o per l'azione sgradevole, poco desiderabile o poco profittevole, o per quella che si accompagna o può essere accompagnata dalla sofferenza, dal pericolo, da condizioni penose o da conseguenze funeste; anche questa dev'essere accettata - totalmente, con abnegazione, con la comprensione profonda della sua necessità e del suo significato quando è l'opera che dev'esser fatta, kartavyam karma.

 

 

11. È impossibile per un essere incarnato[1009] rinunciare interamente all'azione. Di colui che rinuncia ai frutti dell'azione si dice che ha raggiunto il distacco[1010].

 

12. Gradevole, sgradevole o mescolato, triplice è più tardi[1011] il frutto dell'azione per coloro che non hanno raggiunto il distacco[1012]; non vi è frutto per coloro che hanno raggiunto la [vera] rinuncia[1013].

 

Il lavoratore liberato che, mediante la rinuncia interiore, ha rimesso le opere a un Potere più grande di lui, è liberato dal karma (VIII, 6c). Compirà l'azione in quanto fa parte della legge divina della vita quale attività dinamica dello Spirito. L'essenza della rinuncia, il vero tyaga, il vero sannyasa, non è una regola empirica d'inazione; consiste nell'avere un'anima disinteressata e una mente senza egoismo, nella transizione dall'ego alla libertà della natura impersonale e spirituale.

 

 

13. Ti dirò adesso, o Guerriero dal braccio possente, quali sono - secondo il Sànkhya, che [mediante la conoscenza] mette fine all'azione[1014] - i cinque fattori[1015] che intervengono nel compimento[1016] di ogni azione.

 

14. Essi sono: la sede[1017] [dell'azione], l'agente[1018], i diversi strumenti[1019], le diverse forme dello sforzo[1020] e, al quinto posto, il destino[1021].

 

15. Tutte le azioni, giuste o ingiuste, che l'uomo intra-prende col corpo, la parola o il pensiero, procedono da queste cinque cause[1022].

 

16. In tal modo, l'uomo dall'intelligenza rozza e dallo spirito perverso, che si considera come l'unico autore [dei suoi atti], non scorge la verità.

 

17. Ma, anche se uccide questi uomini[1023], colui che è libero dal senso dell'io che agisce[1024] e la cui ragione non è offuscata, non uccide e non rimane sottoposto alle conseguenze del suo atto.

 

Generalmente supponiamo che l'autore dei nostri atti sia l'ego per-sonale e superficiale; ma è l'idea falsa di una comprensione che non ha raggiunto la conoscenza. L'ego è l'autore apparente, ma l'ego e la sua volontà sono creazioni e strumenti della Natura, con cui l'ignorante modo d'intendere identifica a torto il nostro vero sé. Ego e volontà non sono d'altra parte i soli a determinare l'azione umana; ancora meno la dirigono e ne causano le conseguenze.

Quando ci liberiamo dall'ego, il nostro vero Sé, impersonale e universale, passa in primo piano e, nella visione che ha della sua unità con lo Spirito universale, vede che la Natura universale è l'au-tore dell'azione, e nella divina Volontà nascosta vede il Maestro della Natura universale. Finché non abbiamo questa conoscenza siamo legati al carattere dell'ego; pensiamo che l'ego con la sua volontà sia l'autore dell'azione, che siamo noi gli autori del bene e del male e noi a raccogliere le soddisfazioni della nostra natura tamasica, rajasica e sattvica. Ma non appena incominciamo a vivere secondo questa più grande conoscenza, il carattere e le conseguenze dell'azione si rivelano senza importanza per la libertà dello spirito. Esteriormente l'opera può essere un'azione terribile, come la grande battaglia e il massacro di Kurukshetra; ma anche se l'uomo liberato prende parte alla lotta, anche se uccide "tutti questi uomini", non uccide nessuno e non è legato dal suo agire, perché l'opera è quella del Maestro dei Mondi, ed è Lui, con tutta la sua poderosa Volontà, che ha ucciso questi eserciti. Il lavoro di distruzione era necessario affinché l'umanità potesse muoversi più speditamente verso una nuova creazione e un nuovo fine, per poterla sbarazzare del suo passato, karma, d'iniquità e farla avanzare verso il regno del dharma.

L'uomo liberato compie l'opera che gli è stata assegnata quale strumento vivente dello Spirito universale, uno in lui. Sapendo che tutto ciò deve avvenire, andando oltre le apparenze esteriori, non agisce per sé stesso, ma per il Divino e per l'uomo, per l'ordine umano e l'ordine cosmico[1025]*; infatti non è lui che agisce, ma è consapevole della presenza e del potere della Forza divina nei suoi atti e risultati. Egli sa che la Shakti suprema, sola autrice, adempie in lui - nel suo corpo mentale, vitale e fisico, adhishthana - l'azione assegnata da un Destino che in verità non è il Destino, dispensatore meccanico, ma la saggia Volontà che tutto vede, all'opera dietro il karma umano. Questa "azione terribile" intorno alla quale gira tutto l'insegnamento della Gita, è l'esempio estremo di un'azione in apparenza funesta, ma che dietro a queste apparenze nasconde tuttavia un gran bene. L'uomo chiamato ad adempiere questa funzione deve compierla impersonalmente per mantenere la coesione del mondo, loka-sangraha-artham, senza scopo o desiderio personale, ma perché è la missione assegnatagli.

 

 

18. La conoscenza, l'oggetto della conoscenza e colui che conosce[1026], formano l'incitamento[1027] all'azione; l'agente, l'atto e lo strumento[1028] le danno la coesione[1029].

 

19. Si distinguono tre specie di conoscenza, di atti e di agenti secondo il guna {che domina]. È ciò che insegna la scienza dei guna[1030]; ascolta di che si tratta esattamente.

 

Secondo quello che precede risulta chiaro che l'opera non è la sola; cosa che importi: la conoscenza secondo la quale la compiamo costituisce, dal punto di vista spirituale, l'immensa differenza.... Nella conoscenza intervengono i guna, ed è l'elemento sottomesso ai guna che introduce la differenza nella nostra visione della cosa conosciuta e nello spirito con cui realizziamo l'opera.

 

 

20. La conoscenza mediante la quale si vede in tutti gli esseri[1031] l'Esistenza[1032] unica, imperitura, indivisibile in seno alla divisione, sappi che è di natura sattvica.

 

21. La conoscenza che vede come separate le diverse nature[1033] degli esseri, a motivo di questa distinzione, sappi che è rajasica.

 

22. Ma quella limitata, che si attacca a un effetto[1034] particolare come se fosse un tutto[1035], incapace di vederne la causa e di afferrarne il significato essenziale[1036], devi considerarla tamasica.

 

La mente tamasica non ricerca la causa o l'effetto reali, ma si assorbe in un solo movimento, in una sola abitudine, e vi si attacca ostinata-mente; davanti ai suoi occhi non può esserci che una piccola zona di attività personale. In verità non sa quello che fa, ma lascia al cieco impulso naturale produrre, attraverso la sua azione, risultati che non ha né concepito né previsto né intelligentemente compreso.

La conoscenza rajasica è incapace di scoprire un vero principio di unità dietro la molteplicità delle cose e la varietà delle operazioni naturali; essa non riesce a coordinare correttamente la sua volontà e la sua azione, ma segue la dipendenza dell'ego e del desiderio, l'attività dalle molteplici vie della vira egoistica e i vari e complessi moventi che rispondono alle sollecitazioni degli impulsi e delle forze tanto interne quanto esterne.

La conoscenza sattvica, al contrario, vede, sotto tutte le divisioni, l'esistenza come un tutto indivisibile, come un essere imperituro in lutti i divenire; essa domina il principio del suo agire e il rapporto fra l'azione particolare e lo scopo totale dell'esistenza; essa mette al giusto posto ogni stadio dell'intero processo. Nella vetta più elevata della conoscenza, questa visione diviene la conoscenza dello Spirito unico nel mondo, unico nelle innumerevoli creature, l'unica conoscenza del Signore di tutte le opere, quella della forza del cosmo quale espressione divina, quella dell'opera stessa quale giuoco della volontà e della saggezza suprema nell'uomo, e nella natura essenziale e nella vita dell'uomo.

 

 

23. L'azione prescritta[1037], compiuta senza attaccamento[1038], senza attrazione o ripulsione[1039], da chi non ne desidera i frutti, si dice che è sattvica.

 

L'azione sattvica è quella che l'uomo intraprende con calma, alla chiara luce della ragione e della conoscenza, con un senso impersonale del diritto e del dovere, o spinto dall'esigenza di un ideale, come la cosa che dev'esser fatta, qualunque ne possa essere il risultato per lui in questo mondo o in un altro. Al culmine di sattva, essa si trasforma e diviene una suprema azione, impersonale, dettata dallo spirito in noi e non più dall'intelligenza, qualcosa di determinato dalla più alta legge della natura, liberata dall'ego inferiore e dal suo fardello pesante o leggero che sia, liberata da tutte le limitazioni, anche da quelle che creano le migliori opinioni, i più nobili desideri, la più pura volontà personale o il più elevato ideale della mente. Non vi sono più ostacoli dì questo genere; al loro posto opera una chiara conoscenza di sé e un'illuminazione spirituale, un senso intimo e imperioso di un'infallibile potere che agisce e dell'opera che deve compiersi per il mondo e per il Maestro del mondo.

 

 

24. Ma l'azione che si compie per soddisfare i propri desideri, spinti dall'egoismo del sé, oppure con grande sforzo, è detta rajasica.

 

25. L'azione intrapresa nell'accecamento[1040], senza pensare alle conseguenze, alle perdite e al male inflitto ad altri, senza tener conto delle proprie capacità, è detta tamasica.

 

26. Dell'uomo che non dice una parola che si riferisca a lui personalmente[1041], liberato dall'attaccamento, risoluto, entusiasta, indifferente al successo e al fallimento, si dice che agisce[1042] in sattva.

 

L'uomo che agisce sattvicamente non si inebria per il successo e non resta depresso per l'insuccesso; è mosso da una calma risoluzione, zelo impersonale, un entusiasmo puro e disinteressato per l'azione che deve compiere. Quando sattva è al suo apogeo, questa risoluzione, questo zelo, questo entusiasmo divengono l'espressione .spontanea del tapas spirituale, ed infine la suprema forza d'anima, il diretto potere del Divino, il movimento ampio e potente dell'energia divina attraverso lo strumento umano, l'avanzare sicuro della volontà del veggente, l'intelligenza gnostica e, con ciò, la vasta felicità dello spirito libero nelle opere della natura liberata.

 

 

27. Dell'uomo appassionato, avido dei frutti della -propria azione, pronto alla violenza, cupido, impuro, sensibile al piacere e al dolore, si dice che agisce in rajas.

 

28. Dell'uomo sempre in continua dispersione[1043], volgare, ostinato, disonesto, malevolo, pigro, che si scoraggia facilmente e tutto rimanda a più tardi, si dice che agisce in tamas.

 

29. Ascolta adesso, o Conquistatore di tesori, il triplice modo di definire il carattere dell'intelligenza[1044] e della volontà[1045] secondo il guna [che domina]; te lo dirò senza nulla trascurare.

 

Nella natura dell'uomo, la facoltà di comprensione, buddhi, sceglie l'opera per lui; più spesso non fa che approvare e sancire l'una o :sa della numerose suggestioni provenienti dai suoi istinti, impulsi, e desideri. Buddhi determina per l'uomo ciò che è bene e ciò e male, ciò che si deve o che non si deve fare, dharma o a-darma, volontà, dhriti, è la forza continua e persistente della natura mentale che sostiene l'azione, che le dà coerenza e continuità. Anche qui i guna intervengono.

 

 

30. É sattvica, o figlio di Prithà, l'intelligenza che conosce ciò che incita all'azione[1046] o che rifiuta l'azione[1047], ciò che si deve o non si deve fare, ciò che si deve o non si deve temere, ciò che lega[1048] l'anima e ciò che la rende libera[1049].

 

Si arriva alla vetta dell'intelligenza sattvica mediante un'aspirazione elevata e persistente di buddhi, quando questa si fissa su ciò che va oltre la ragione comune e la volontà, si dirige verso le sommità e si applica a una solide padronanza dei sensi e della vita, sempre in yoga col Sé supremo dell'uomo, il Divino universale, lo Spirito trascendente. Una volta raggiunto questo punto, si può quindi andare oltre i guna, oltre le limitazioni della mente, della volontà e dell' intelligenza mentali, e lo stesso sattva può scomparire in Colui che è di là dai guna e dalla natura strumentale. Lì, situata sopra un altare di luce, l'anima riceve la consacrazione dell'unione invariabile col Sé, lo Spirito, il Divino. Colui che è pervenuto a questa vetta può lasciare il Supremo guidare la sua natura in tutti gli elementi del suo essere e nella libera spontaneità di un'azione divina. Li, non esiste azione falsa o confusa, non più elementi erronei o impotenti per offuscare o deformare la perfezione e il potere luminosi dello Spirito. Tutte le condizioni inferiori - leggi, dharma - non hanno più presa su di noi. L'Infinito agisce nell'uomo liberato, e non esiste altra legge che la verità e il diritto dello spirito libero - non più karma, non più schiavitù.

 

 

31. È rajasica l'intelligenza che comprende incorrettamente il bene[1050] e il male[1051], e ciò che si deve o non si deve fare, o figlio di Prithà.

 

32. L'intelligenza avvolta nelle tenebre[1052], che prende il male[1053] per il bene[1054] e perverte tutti i valori, è tamasica, o figlio di Prithà.

 

33. È sattvica, o figlio di Prithà, la volontà[1055] perseverante, mediante la quale, con lo yoga, si dirigono le attività della mente, del soffio vitale e dei sensi.

 

34. Ma è rajasica, Arjuna, la volontà desiderosa dei frutti [dell'azione], e che tiene fermamente al proprio dovere[1056], desiderio[1057] o interesse[1058], secondo le occasioni.

 

La volontà rajasica fissa la propria attenzione sulla soddisfazione dei desideri e degli attaccamenti appassionati, sulla ricerca dei propri interessi e piaceri, sviluppandosi in ciò che essa crede - o desidera credere - essere il diritto e la giustizia, dharma. È sempre capace di costruire su questi elementi ciò che potrà meglio soddisfare e giustificare i suoi desideri, incline anche a ritenere giusti e legittimi i mezzi che l'aiuteranno a ottenere i frutti del proprio lavoro e del proprio sforzo. È la causa dei tre quarti degli errori e dei danni prodotti dalla ragione e dalla volontà umane. Rajas, col suo veemente dominio sull'ego vitale, è il gran peccatore e seduttore.

 

 

35. La volontà inintelligente che impedisce di disfarsi del sonno[1059], della paura, della pena, dello scoraggiamento e dell'arroganza, è tamasica, o figlio di Prithà.

 

36-37. Adesso, o Migliore dei Bharata, impara da Me le tre specie di felicità[1060]. La felicità dell'uomo che raggiunge la gioia mediante la disciplina del sé[1061] e mette fine al dolore[1062] assomiglia al principio a un veleno e alla fine a un nettare[1063]; questa felicità, chiamata sattvica, nasce dalla chiara serenità[1064] dell'intelligenza rivolta verso di Me.

 

38. La felicità che nasce dall'unione dei sensi[1065] con gli oggetti, che al principio è dolce come il nettare[1066] e alla fine amara come il veleno, è detta rajasica.

 

39. II piacere che nasce dal sonno[1067], dalla pigrizia e dalla negligenza, che smarrisce l'anima dall'inizio alla fine[1068], è detto tamasico.

 

In verità la felicità è l'unico oggetto della ricerca universale, diretta o indiretta, della natura umana - la felicità o ciò che la evoca o la imita: piacere, godimento, soddisfazione mentale, della volontà, delle passioni, del corpo. Il dolore è un'esperienza che la natura deve accettare quando si presenta, senza averlo voluto, come una necessità, un incidente inevitabile nel giuoco della Natura universale; possiamo anche accettarlo volontariamente, come mezzo per raggiungere uno scopo, ma non come oggetto di per sé desiderato - eccezione fatta quando talvolta la sofferenza è ricercata dalla perversione con un ardente entusiasmo, dovuto al tocco del piacere crudele che essa apporta o alla forza intensa che genera. Esistono però diversi tipi di felicità e di piacere, a seconda che la natura sia dominata da un guna o dall'altro. Allo stesso modo la mente tamasica può restare soddisfatta nella sua indolenza e inerzia, nel suo torpore e sonno, nel suo accecamento e errore.... Esiste una felicità tamasica fondata sull' inerzia e sull'ignoranza. La mente dell'uomo rajasico beve a una coppa più infiammata e più inebriante; il piacere dei sensi e del corpo, vivo, acuto, incostante, la volontà e l'intelligenza febbrilmente attive, rappresentano per lui tutta la gioia della vita e il senso stesso dell'esistenza. La natura sattvica ricerca invece la soddisfazione della mente superiore e dello spirito; da questo vasto scopo, una volta raggiunto, possono nascere una chiara e pura felicità dell'anima, uno stato di pienezza, di distensione e di pace durevoli. Questa felicità non dipende dalle cose esteriori, dipende solo da noi, dall' affiorare di quanto abbiamo di meglio, del più intimo in noi. Ma non è da principio in nostro normale possesso; dobbiamo conquistarla mediante una disciplina personale, il lavoro dell'anima, lo sforzo eroico e arduo. All'inizio, rappresenta molti piaceri perduti, molte lotte e sofferenze, un veleno nato dall'abbrutimento della nostra natura, un doloroso conflitto di forze, una rivolta e una resistenza al cambiamento, dovute alla cattiva volontà delle parti dell'essere o all' ostinazione degli elementi vitali. Man mano che ci eleviamo verso la natura spirituale, il nettare d'immortalità finisce per sostituire questa amarezza; raggiungiamo la fine del dolore, l'eutanasia delle afflizioni e della pena. Tale è la felicità senza pari che scende su di noi nel momento in cui si raggiunge la vetta della disciplina sattvica.

Il superamento della natura di sattva sì produce allorché andiamo oltre il piacere sattvico - nobile senza dubbio, ma tuttavia inferiore -, oltre i piaceri della conoscenza mentale, della virtù e della pace, e che raggiungiamo l'eterna calma del Sé e l'estasi spirituale della divina Unità. Questa gioia spirituale non è più la felicità sattvica, sukha, ma l'ananda assoluto. L'ànanda è la gioia segreta, la felicità da cui tutto nasce, mediante cui tutto è mantenuto nell'esistenza e a cui tutto può elevarsi in una culminazione spirituale. Ma questa condizione può essere posseduta solo dall'uomo liberato, liberato dall'ego e dal desiderio, e che infine vive unito al supremo Sé, uno con tutti gli esseri e uno con Dio nell'assoluta beatitudine dello Spirito.

 


 

[b] SVABHAVA E SVADHARMA

 

 

40. Non esiste essere[1069] sulla terra o in cielo fra gli dèi[1070], che sia libero dai tre guna nati da Prakriti.

 

41. Le attività[1071] dei bramini, degli kshatriya, dei vaishya e degli shùdra[1072] vengono distinte, o Terrore dei nemici, secondo il guna proprio alla loro natura essenziale[1073].

 

42. La serenità, la padronanza di sé, l'austerità, la purezza, la longanimità, la rettitudine, la conoscenza integrale[1074], la pietà, sono gli attributi[1075] del bramino[1076], che emergono dalla sua stessa natura[1077].

 

43 L'eroismo, l'energia, la fermezza, l'abilità, l'intrepidità nel combattimento, la generosità e la dignità del capo[1078], sono gli attributi dello kshatriya[1079], che emergono dalla sua stessa natura[1080].

 

44. L'agricoltura, l'allevamento, il commercio, sono gli attributi del vaishya[1081], che emergono dalla sua stessa natura. [lnfine,] l'azione che ha il carattere del servizio è propria dello shùdra[1082], nata anche dalla sua natura.

 

Questi versetti, insieme a qualcuno dei precedenti, hanno servito ad alimentare le controversie attuali sulla questione delle caste. Alcuni li hanno interpretati come la giustificazione al sistema attuale, altri ne hanno visto un argomento contro l'ereditarietà delle caste. In realtà, i versetti della Gita non si riferiscono al sistema attuale di caste[1083]*, che differisce di molto dall'antico ideale sociale del chaturvarna, i quattro ordini chiaramente definiti dalla comunità ariana. Secondo questa classificazione, l'agricoltura, l'allevamento del bestiame e il commercio, sotto qualsiasi forma, sono considerati dalla Gita come compito del vaishya, mentre, nel sistema che si è sviluppato più tardi, la maggioranza di coloro che si occupano del commercio e dell'allevamento, i piccoli artigiani, ecc., vengono classificati come shudra - quando non vengono respinti fra i fuori casta. Salvo qual-che eccezione, solo i mercanti - e neppure in tutta l'India - vengo-no classificati come vaishya. Gli agricoltori, i funzionari del governo e coloro che si dedicano al servizio degli altri, appartengono oggi a tutte le caste, dai bramini agli shùdra. E dato che la suddivisione delle funzioni economiche ha provocato una confusione ormai impossibile da frenare, la legge dei guna - delle qualità - fa ancora meno parte del sistema attuale. Tutto oggi è rigido, senza rapporti con i bisogni della natura individuale.

Se, inoltre, esaminiamo l'aspetto religioso degli argomenti di coloro che parteggiano per il sistema attuale, non possiamo certamente dare alle parole della Gita il senso assurdo che avrebbe per l'uomo la legge della nascita, senza prendere in considerazione le sue tendenze e le sue capacità personali, la professione, la famiglia o i suoi antenati vicini o lontani - i figli del lattaio rimarrebbero lattai, quelli di un medico, medici, i discendenti di un calzolaio, calzolai sino alla fine dei tempi. Ancora meno possiamo pensare che agendo in tal modo - mediante la ripetizione meccanica e inintelligente della legge naturale di un uomo, senza considerazioni per la sua vocazione individuale e le qualità che lo distinguono - una per-sona potrebbe avanzare verso la perfezione e raggiungere la libertà spirituale.

Le parole della Gita si riferiscono all'antico sistema del chaturvarna, come esisteva o si suppone fosse esistito nella sua ideale purezza ciò si presta alla questione controversa di sapere se fosse stato qualcosa d'altro che un ideale, una norma generale più o meno seguita nella pratica -, ed è cosi che deve essere considerato.

 

 

45. L'uomo che si consacra al proprio compito[1084], qualunque esso sia, raggiunge la perfezione[1085]. Ascolta in che modo può raggiungerla.

 

46. L'uomo[1086] trova la perfezione dedicandosi al suo compito in adorazione di Colui che ha creato questo universo[1087] e da cui tutti gli esseri procedono.

 

Secondo la filosofia della Gita, tutto procede dalla divina Esistenza, dallo Spirito trascendente e universale; tutto è la manifestazione velata della Divinità. Svelare l'Immortale in noi e nel mondo, vivere uniti all'Anima dell'universo, elevarsi sino all'unità col Supremo, coscientemente, in piena conoscenza, con volontà, con amore, in piena felicità spirituale, vivere nella più alta Natura dello spirito, - l'essere individuale naturale, liberato dalle sue limitazioni, diviene, per le opere della Shakti divina, uno strumento cosciente -, tale è la condizione d'immortalità e di libertà, e anche la perfezione di cui l'umanità è capace. Ma come è possibile tutto ciò quando siamo avvolti nella naturale ignoranza, con l'anima rinchiusa nella prigione dell'ego, tormentata, colpita e limitata dall' ambiente in cui viviamo, quando siamo trascinati dal meccanismo della natura, tagliati fuori da ogni possibilità di presa sulla realtà della nostra segreta forza spirituale? La risposta è questa, che l'azione naturale, attualmente avvolta in un'attività velata e contraria, contiene tuttavia il principio della propria evoluzione verso la libertà e la perfezione. Il Divino risiede nel cuore di ognuno, il Divino, Signore dell'azione misteriosa della natura. Ed anche se Io Spirito dell'universo, l'Uno che è il tutto, sembra farci girare sulla ruota del mondo rappresentata dalla forza della sua màyà, come se fossimo seduti su di una macchina (XVIII, 6t), e mediante un qualche principio meccanico, ci foggia nella nostra ignoranza come un vaso nelle mani di un vasaio o la stoffa in quelle del tessitore, lo Spirito è sempre il nostro supremo Sé. Secondo l'idea reale, la verità del nostro essere, secondo ciò che in noi si sviluppa e trova sempre nuove e più adeguate forme per esprimersi, nascita dopo nascita, nella nostra vita animale, umana e per ultimo divina - in ciò che eravamo, siamo e saremo -, in accordo con questa intima verità dell'anima, questo Spirito in noi ci forma progressivamente seguendo la sua onnipotente saggezza, come scopriranno i nostri occhi, una volta aperti. Il meccanismo dell'ego, la complessità confusa dei guna e di tutto il resto: mente, corpo, vita, emozioni, desideri, lotte, pensieri, aspirazioni, sforzi, azione reciproca che agisce in un circolo chiuso, dolore e piacere, peccato e virtù, sforzo, successo e fallimento, anima e ambiente, sé stessi e gli altri, tutto ciò non è che la forma esteriore e imperfetta, assunta nell'uomo dalla più alta Forza spirituale, che cerca di esprimere progressivamente, attraverso le vicissitudini, Ia realtà e la grandezza divine, che egli è segretamente in spirito, e che si manifesteranno nella sua natura. Una simile azione contiene in sé il principio del proprio coronamento: il doppio principio dello svabhava e dello svadharma (vedere versetto seguente).

 

 

47. E meglio seguire la propria legge[1088] anche se mediocre[1089], che quella degli altri anche se migliore[1090]. Colui che compie il lavoro prescritto dalla propria natura essenziale[1091] non commette peccato.

 

Il jiva è una parte della manifestazione del Purushottama. Rappresenta nella Natura il potere dello Spirito supremo e, nella sua personalità, è questo stesso Potere; egli manifesta in un essere individuale la potenzialità dell'Anima dell'universo. Il jiva stesso è spirito, non l'ego formato dalla Natura; lo spirito - e non l'ego - è la nostra realtà e il principio interiore della nostra anima. È da questo alto Potere spirituale che procede la vera forza di ciò che siamo e possiamo essere. La maya meccanica dei tre guna non è la verità profonda e fondamentale dei movimenti di questo Potere, non è altro che l'energia esecutiva in atto --- un comodo meccanismo per le attività inferiori, una sistemazione per l'esercizio esteriore e la pratica. La Natura spirituale, para prakriti, che nell'universo è divenuta la personalità molteplice (VII, 5, 7), è la sostanza fondamentale della nostra esistenza; tutto il resto non è che una formazione inferiore ed esteriore, derivata da questa più alta attività nascosta dello Spirito. In questa Natura, ciascuno di noi possiede un principio, una volontà che dirige il suo divenire; ogni anima è una forza di coscienza che esprime l'idea che il Divino ha collocato in essa, che guida i suoi atti e la sua evoluzione, la progressiva rivelazione di sé, l'espressione di sé in costante evoluzione, la sua crescita apparentemente incerta ma segretamente ineluttabile, sino alla pienezza. È questa la nostra vera natura individuale - il nostro svabhava (VII, 7c, 8c), la verità del nostro essere che non riesce a trovare attualmente in questo mondo che un'espressione sempre parziale nei nostri diversi divenire. La legge d'azione determinata da questo svabhàva è il nostro svadharma, la vera e giusta legge della nostra formazione, della nostra funzione e del nostro funzionamento.

 

 

48. Non si deve rinunciare al compito che ci è stato assegnato[1092] anche se imperfetto[1093], o figlio di Kunti, in quanto tutto ciò che l'uomo compie[1094] è avvolto dall'imperfezione[1095] come il fuoco dal fumo.

 

Nei tempi andati, l'eredità divenne la base pratica dell'ordine sociale. Certamente, all'origine, le funzioni e la situazione sociali di un uomo erano determinate dall'ambiente, dal caso, dalla nascita e dalla particolare inclinazione, come lo sono ancora nelle comunità più libere, strettamente ordinate. Ma quando le funzioni e la situazione si fissarono seguendo una stratificazione più rigida, il rango venne determinato soprattutto o soltanto dalla nascita. Nel sistema di caste che si sviluppò più tardi, la nascita divenne la sola legge della condizione sociale. Il figlio del bramino non poteva essere che di condizione bramina, anche se non possedeva nulla del carattere e delle qualità proprie al suo stato - formazione intellettuale, esperienza spirituale, valore e conoscenza religiosa -, anche se nulla lo legava alla vera funzione di questa casta, alla sua attività e alla sua natura. Fu un'evoluzione inevitabile, perché in un ordine sociale che diveniva ad ogni istante più meccanico, più complesso e più convenzionale, la condizione fissata in base alla nascita era comoda e facilmente determinabile. Durante un certo tempo, la disparità tra il carattere ereditario fittizio e il vero carattere e l'attitudine innata dell'individuo, fu compensata o attenuata dall'educazione e dalla formazione. Ma questo sforzo si mitigò e la convenzione dell'ereditarietà regnò assoluta. Gli antichi legislatori, pur riconoscendo la consuetudine dell'eredità, hanno insistito sul fatto che la qualità, il carattere, l'attitudine erano le vere e solide basi, e che senza di esse la condizione ereditaria era una menzogna contraria allo spirito perché perdeva il suo vero senso. La Gita, come sempre, fonda anche il suo pensiero sul significato interiore. È vero che nel versetto precedente parla del lavoro nato con l'uomo, sahaja karma; ma ciò non implica una base ereditaria. Secondo la teoria indiana della reincarnazione, che la Gita accetta, la natura innata nell'uomo e il corso della sua vita sono essenzialmente determinati dalle vite passate; egli rappresenta il grado di sviluppo raggiunto grazie agli atti passati, a tutta la sua evoluzione mentale e spirituale, e non possono dipendere unicamente dal fattore materiale - ascendenza, Parentela, nascita fisica - che può rivestire solo un'importanza subordinata, segno effettivo forse, ma non principio dominante. La parola sahaja significa ciò che nasce con l'essere, tutto ciò che è naturale, innato; in tutti gli altri passaggi ha per equivalente svabhavaja. Il compito e la funzione di un uomo sono determinati dalle sue qualità: il karma è determinato dai guna; è l'attività nata dal suo svabhava-svabhavajam karma (XVIII, 42s) -, prescritta e regolata da esso - svabhava-niyatam karma (XVIII, 47). Questa insistenza su una qualità e uno spirito interiori che trovano la loro espressione nel compito, nella funzione e nell'azione, dà tutto il senso possibile alla nozione di karma contenuta nella Gita. Dall'insistenza sulla verità interiore e non sulla forma esteriore, derivano il significato e il potere spirituali che la Gita assegna all'osservanza dello svadharma. È il senso realmente importante del passaggio.

È assolutamente vero che nella vita, nella gran maggioranza, gli uomini appartengono all'uno o all'altro dei quattro tipi: uomini di conoscenza, di potere, di azione produttrice vitale, uomini dal rude lavoro e servitori. Non sono certamente distinzioni fondamentali, ma tappe dello sviluppo umano in noi.... Esiste sempre nella natura umana un elemento di ciascuna di queste quattro personalità, sviluppato o no, ampio o limitato, represso o visibile in superficie. Ma nella maggioranza degli uomini, l'una o l'altra tende a predominare e sembra talvolta occupare tutto il campo d'azione della natura. E in ogni società i quattro tipi devono necessariamente esistere. Se per esempio si viene a creare una società puramente produttrice e commerciale, come si tenta di fare nei tempi moderni, oppure una società shùdra di lavoratori, di proletari, come quella che attira lo spirito moderno più recente e che si tenta di edificare in una parte dell'Europa[1096]*, mentre la si annuncia in altre parti, anche in questi casi vi saranno pensatori alla ricerca della legge, della verità e della regola direttrice dell'intero movimento; vi saranno capi e capitani d'industria che faranno di tutta questa attività produttrice una scusa per soddisfare il loro bisogno di avventura, di lotta, d'autorità e di dominio; vi saranno molti uomini del tipo puramente produttivo e dati al guadagno; vi saranno infine gli operai medi, soddisfatti loro modesto lavoro e del salario che viene loro corrisposto. Ma s cose assolutamente esteriori e, se non ci fosse altro, questa economia di tipi umani non avrebbe senso spirituale. Potrebbe significare, al massimo, come talvolta si sostiene in India, che dobbiamo attraversare queste tappe di sviluppo nel corso delle nascite successive; che dobbiamo inevitabilmente e progressivamente passare attraverso la natura tamasica, quella rajasica-tamasica, rajasica o rajasica-sattvica, per arrivare alla natura sattvica; che dobbiamo ascendere e stabilirci in uno stato brahmico interiore e, partendo da questa base, cercare la liberazione. Ma sarebbe logico allora affermare, con la Gita, che anche lo shùdra o il fuori casta può, consacrandosi al Divino, andare direttamente verso la libertà e la perfezione spirituali.

Il fatto è che la verità fondamentale non è la cosa esteriore che c'immaginiamo, ma una forza attiva del nostro essere interiore: verità del quadruplice potere in movimento della natura spirituale. Ogni jiva possiede nella sua natura spirituale questi quattro aspetti; è a un tempo anima di conoscenza, anima di forza e potere, anima di scambi mutui, di lavoro e di servizio. Ma l'uno o l'altro di questi aspetti predomina nell'azione e nello spirito dell'espressione, e colora in tal modo le relazioni dell'anima con la sua natura incarnata; e quest'aspetto, questo potere dirige gli altri, li marca col suo segno e li incorpora nella sua principale linea d'azione, di tendenza e di esperienza. Lo svabhava segue allora la legge di questa tendenza - non nel modo rigido e rozzo che osserviamo nelle demarcazioni sociali, ma con flessibilità e con sottigliezza - e, sviluppando questa legge, si sviluppano contemporaneamente gli altri tre poteri. In tal modo, seguendo l'impulso al lavoro e al servizio, si sviluppa la conoscenza, si accresce il potere, si acquisisce l'intimità e l'equilibrio negli scambi, nell'ordine e nel metodo delle relazioni. Ogni quadruplice aspetto del Divino progredisce verso la perfezione totale mediante l'ampliarsi di un principio dominante della propria natura e l'arricchirsi dei tre altri. Questo sviluppo è sottoposto alla legge dei tre guna. In tal modo esiste la possibilità di seguire, mediante un cammino tamasico o rajasico, il dharma dell'anima della conoscenza, e anche quella di seguire, mediante un cammino brutalmente tamasico o altamente sattvico, il dharma del potere; ne esiste ancora un'altra che è quella di seguire, mediante un vigoroso cammino rajasico o una bella e nobile via sattvica, il dharma delle opere e del servizio. Giungere alla forma sattvica dello svadharma individuale interiore, e delle opere verso le quali questo svadharma ci dirige sul cammino della vita, è la condizione preliminare alla perfezione. Si può infine notare che lo svadharma interiore non è legato ad alcuna forma esteriore d'azione, sociale o altra, di impiego e di funzione. L'anima di lavoro, o l'elemento che in noi le corrisponde e si accontenta di servire, può, per esempio, fare di una vita di lotta e di potere o di una vita di aiuto reciproco, di produzione o di scambio, un mezzo per soddisfare l'impulso divino per il lavoro e il servizio.

La Gita ci ingiunge di adorare il Divino mediante l'esecuzione dei compiti assegnatici, il nostro lavoro, sva-karma; ciò sta a significare che quello che facciamo deve accordarsi con la verità in noi; è qual-cosa che non può risultare da un compromesso con le esigenze esteriori e artificiali; dev'essere l'espressione viva e sincera dell'anima e dei suoi poteri innati.... Possiamo quindi fare dell'azione retta dal nostro un'adorazione della Divinità interiore, dello Spirito universale, del Purushottama trascendente, e abbandonare in definitiva tutta l'azione fra le sue mani, mayi sannyasya karmàni (XVIII, 57).... Adorare l'Altissimo mediante tutte le nostre attività interiori ed esteriori, fare della nostra vita il sacrificio delle opere a Lui offerte, significa prepararci a divenire con tutta la nostra volontà, la nostra sostanza, la nostra natura, uno con Lui. Seguire in tal modo, nella nostra presente natura, la verità vivente e intima dell'anima, ci aiuterà infine a raggiungere la verità immortale della stessa anima in ciò che è attualmente Natura suprema e sovracosciente.... Allora, andando oltre le limitazioni dei tre guna, andremo anche oltre la divisione dell'ordine quadruplice e oltre le limitazioni di ogni dharma specifico, sarva-dharmàn parityajya (XVIII, 66).... In questa suprema Natura, potremo vivere in unità con Dio, col nostro vero Sé, con tutti gli esseri e, divenuti perfetti, diventare lo strumento senza errori dell'azione divina nella libertà del dharma immortale.

 


 

[c] VERSO IL SUPREMO SEGRETO

 

 

L'Istruttore ha dato praticamente tutto il suo insegnamento; ha esposto tutti i principi centrali del suo messaggio, presentato tutte le suggestioni e le implicazioni fondamentali, chiarito i principali dubbi e i quesiti di maggiore importanza che potevano sorgere; gli rimane ora da esprimere in parole decisive, penetranti, l'essenza stessa del suo messaggio, del suo vangelo. Vedremo che quest'ultima parola, questo coronamento, non è soltanto l'essenza di tutto ciò che è stato detto, non soltanto una descrizione condensata della disciplina necessaria - la sadhana - e della grande coscienza spirituale che rappresenterà il risultato di tutti i nostri sforzi e della nostra ascesi. La sua ultima parola raggiunge orizzonti molto più lontani e spazza via, per cosi dire, distrugge o rovescia ogni limite e ogni regola, ogni canone e ogni formula, aprendoci a una vasta verità spirituale, illimitata, con significati pieni d'infinite possibilità. È il segno della profondità della Gita, della vasta portata e dell'elevazione spirituale del suo insegnamento....

La Gita riprende dapprima il suo messaggio, ne riassume le grandi linee e l'essenza nel corto spazio di quindici versetti, brevi e concentrati nell'espressione e nel senso, che non omettono nulla di ciò che è fondamentale e lo presentano in formule di precisione e chiarezza perfettamente limpide. Questi versetti devono essere letti  con cura, sondandone il senso profondo alla luce di tutto ciò che li precede, perché evidentemente sono destinati a far scaturire ciò che la Gita stessa considera come il significato centrale del suo insegnamento.

L'esposizione incomincia dal punto di partenza originale del pensiero del libro: l'enigma dell'azione umana, la difficoltà appa-rentemente insormontabile di vivere nel Sé e nello Spirito supremi pur continuando a vivere nel mondo. La più facile soluzione è di Considerare il problema insolubile, di abbandonare la vita e l'azione considerandole un'illusione e un movimento inferiore dell'esistenza, che devono essere lasciati non appena possibile, svincolandoci dall'errore del mondo per elevarci alla verità dell'essere spirituale. È la soluzione ascetica - se tuttavia può essere chiamata una soluzione. Non si può negare che non sia un mezzo decisivo ed efficace per sfuggire all'enigma, un mezzo a cui il più alto e meditativo pensiero indiano dei tempi passati aveva accordato una preferenza sempre più grande, non appena aveva incominciato a scivolare lungo la ripida china che l'allontanava dalla prima ampia e libera sintesi. La Gita, come il Tantra, e come, in un certo modo, le ulteriori religioni indiane, tenta di preservare l'antico equilibrio, mantenendo la sostanza e il fondamento della sintesi originale, ma rinnovandone la forma alla luce di un'esperienza spirituale in continuo sviluppo. Il suo insegnamento non evita il difficile problema di conciliare la vita pienamente attiva dell'uomo con la sua vita interiore nel Sé e nello Spirito supremo, e propone ciò che essa crede essere la vera soluzione. Non nega l'efficacia della rinuncia ascetica alla vita in favore dello scopo particolare che persegue, ma vede che tale soluzione taglia il nodo anziché scioglierlo; ed è per questo che la considera un metodo inferiore e dà la preferenza al proprio. Le due vie ci conducono fuori dall'abituale natura ignorante per portarci alla pura coscienza spirituale e, fino a quel punto, dobbiamo considerarle tutte e due valide e nella loro essenza come una sola; ma, mentre una si arresta e ritorna sui propri passi, l'altra avanza con ferma sottigliezza e gran coraggio, aprendoci una porta su orizzonti inesplorati; essa perfeziona l'uomo in Dio, unisce e riconcilia nello Spirito l'anima e la Natura.

Per questo, nei primi cinque versetti che seguono, la Gita si esprime in formule che possono essere applicate alle due vie - quella della rinuncia interiore e quella della rinuncia esteriore -, esprimendosi tuttavia in modo tale che basta assegnare, a qualcuna delle espressioni in comune, un senso più profondo per raggiungere il pensiero e il significato del metodo che la Gita preferisce.

 

 

49. Colui che ha separato' da tutto la propria intelligenza, che ha conquistato il sé' e abbandonato il desiderio, raggiunge, mediante la rinuncia", la suprema perfezione4 del non-agire'.

asakta-buddhi.

jita-àtma (VI, 7).

sannyasa.

siddhi.

naishkarmya, lo stato del non-agire (III, 4).

 

L'ideale della rinuncia, di una calma acquisita mediante il dominio di sé, di una passività spirituale e del rifiuto del desiderio, si ritrova in tutta l'antica saggezza. La Gita ne dà la base psicologica con una chiarezza e un'integralità mai superate. L'esperienza, comune a tutti coloro che cercano di conoscere sé stessi, c'insegna che esistono in noi due nature diverse e, se si può dire, due “sé”. Il sé inferiore dell'oscura Natura mentale, vitale e fisica, legata all'ignoranza e all'inerzia nella sostanza stessa della sua coscienza, e particolarmente nella base materiale, che la forza di vita rende cinetica e vitale, ma che manca del potere di dominarsi e di conoscersi nell'azione; questa Natura raggiunge certamente qualche conoscenza e qualche armonia mentale, ma a prezzo di sforzi difficili e mediante una lotta continua contro le proprie insufficienze. Vi sono, inoltre, la Natura e il Sé superiori del nostro essere spirituale, che loro stessi si possiedono e si illuminano, ma che sono inaccessibili all'esperienza della nostra comune mentalità. Ci giungono a volte lampi di questa “Cosa” più grande che è in noi, ma di cui non siamo coscienti perché non viviamo nella sua luce, nella sua calma, nel suo splendore senza limiti. La prima di queste due Nature, ben distinte, è ciò che la Gita chiama la Natura dei tre guna. La sua visione è concentrata nel senso dell'ego, il suo principio d'azione è il desiderio nato dall'ego, e il nodo dell'ego è l'attaccamento agli scopi della mente, dei sensi e del desiderio vitale. Da tutto ciò deriva un risultato costante e inevitabile: la schiavitù, la soggezione permanente a un dominio inferiore, l'assenza della padronanza di sé stessi, della conoscenza di sé. L'altra - il grande potere, la grande presenza - è Natura e puro Essere-Spirito, che non dipende dall'ego - ciò che la filosofia indiana chiama il Sé e il Brahman impersonale. Il suo principio è un'esistenza infinita e impersonale, immobile e immutabile perché è senza ego, senza qualità che la condizioni, senza desiderio, senza necessità o impulsi; eternamente uguale, osserva e sostiene l'azione dell'universo senza parteciparvi, senza esserne la causa. L'anima, quando si precipita nell'attività della Natura (inferiore), è lo kshara della Gita, il Purusha mobile e mutevole; la stessa anima, raccolta e ritirata nel Sé puro e silenzioso, nello Spirito essenziale, è l'akshara, il Purusha immobile e immutabile.

La rinuncia è la via della suprema perfezione, e l'uomo che ha rinunciato interiormente a tutto è descritto dalla Gita come il vero sannyasi. Ma dato che questa parola implica abitualmente anche la rinuncia esteriore e talvolta solo quella, il Maestro impiega un'altra parola, tyaga, per indicare in modo specifico la rinuncia interiore, e dice che tyàga è preferibile a sannyasa. L'asceta ama la rinuncia per quello che rappresenta in sé stessa e insiste sull'abbandono esteriore della vita e dell'azione per raggiungere la quiete completa dell' anima e della natura. Questa rinuncia, risponde la Gita, non è interamente possibile finché viviamo in un corpo. Nei limiti delle possibilità, è lecita, ma una così rigorosa diminuzione delle opere non è indispensabile e, normalmente, neppure consigliabile. La sola cosa necessaria è una completa quiete interiore, ed è questa la totalità del senso che la Gita attribuisce alla parola naishkarmya.

Ma perché cedere all'impulso dinamico, quando il nostro scopo è quello di divenire il puro Sé c che questo puro Sé è presentato come inattivo, akarta? La risposta è che questa inattività, questo divorzio del Sé dalla Natura, non costituisce tutta la verità della liberazione spirituale. Il Sé e la Natura sono, a conti fatti, una sola cosa; una spiritualità totale e perfetta unifica il Sé e la Natura nel Divino. Entrare nel Sé di eterno silenzio, divenire il Brahman, brahma-bhúya (XVIII, 53), non è il nostro solo punto di arrivo; non è che l'immensa base necessaria per un divenire più grande e più meravigliosamente divino, mad-bhava (XIII, 19). E per raggiungere questa più grande perfezione spirituale, dobbiamo divenire, in tutte le parti del nostro essere, immobili nel Sé silenzioso, ma continuare ad agire secondo il potere dello Spirito - Shakti, Prakriti -, secondo Ia sua alta e vera forza. E se ci domandiamo come è possibile la simultaneità di ciò che sembra essere in opposizione, la risposta è che questa è appunto la natura di un essere spirituale completo, egli contiene in sé il doppio equilibrio dell'infinito....

Una volta ammesso che l'assoluta quiete interiore è il mezzo necessario per riuscire a vivere nel puro Sé impersonale, un nuovo quesito si presenta: in che modo questo mezzo conduce, in pratica, a tale risultato?

 

 

50. In che modo, dopo aver ottenuto questa perfezione[1097], egli raggiunge il Brahman, imparalo brevemente da Me, o figlio di Kunti. È la suprema consacrazione[1098] della conoscenza[1099].

 

La conoscenza di cui qui si parla è quella dello yoga dei sankhyani - lo yoga della pura conoscenza, jnanayogena sankhyanam (III, 3), che la Gita accetta nella misura in cui è uno col proprio voga e che comprende anche la via delle opere degli yogi, karma-yogena yoginam. Per il momento non si tratta delle opere, in quanto per Brahman s'intende qui il Silenzioso, l'Impersonale, l'Immutabile. Veramente, per la Gita, come per le Upanishad, il Brahman non è soltanto un Infinito impersonale, un assoluto impensabile e incomunicabile, achintyam avyavaharyam; è tutto ciò che possiede essere, vita e movimento. "Tutto ciò è Brahman," dice ''Upanishad; "Tutto è Vàsudeva," dice la Gita. Il supremo Brahman è tutto ciò che si muove e tutto ciò che è immobile; le sue mani, i suoi piedi, i suoi occhi, le sue teste sono intorno a noi. Tuttavia, questo Tutto ha due aspetti: un Sé immutabile, eterno, che sostiene l'esistenza, e un Sé di potere attivo che si muove ovunque nel movimento del mondo. Soltanto quando perdiamo la limi-tata personalità del nostro ego nell'impersonalità del Sé, otteniamo l'unità calma e libera, mediante la quale si rende possibile l'unità vera con il potere universale del Divino nel suo movimento cosmico.

L'impersonalità nega ogni limitazione, ogni divisione, e il culto dell' impersonalità è lo stato naturale dell'esistenza vera, l'indispensabile preludio alla conoscenza vera e la condizione preliminare dell'azione vera. Risulta chiaro che non è insistendo sulla personalità del nostro ego che possiamo divenire uno col tutto o con lo Spirito universale e con la sua vasta conoscenza di sé, con la sua complessa volontà e il suo ampio disegno cosmico, in quanto questa personalità limitata ci separa dal resto e fa di ciascuno di noi un essere in catene, concentrato su sé stesso nella sua visione e nella sua volontà d'azione. Imprigionati nella personalità, non possiamo avere che una limitata unione con gli altri, mediante la simpatia oppure adattandoci relativamente al loro punto di vista, ai loro sentimenti e volontà. Per essere uno con tutti, e col Divino e la sua volontà nel cosmo, dobbiamo dapprima divenire impersonali e liberarci dall'ego, dalle sue esigenze e dal suo modo di vedere - di vederci e di vedere il mondo e gli altri. E non potremo giungervi se nel nostro essere non esiste qual-cosa d'altro che la personalità e l'ego: un Sé impersonale uno con tutte le creature. È la ragione per cui, perdere l'ego ed essere questo Sé impersonale, divenire il Brahman impersonale, è il primo movimento di questo yoga.

 

 

51-53. Unificando l'intelligenza purificata[1100] [con la pura sostanza spirituale in lui], dominando l'intero essere[1101] con ferma e stabile volontà, ritirandosi dagli affetti e dall' avversione[1102], distaccato dal suono[1103] e dagli oggetti dei sensi, vivendo nella solitudine e nella sobrietà, padrone del suo pensiero[1104], della sua parola e del suo corpo, sempre impegnato nello yoga della meditazione[1105], rifiutando il desiderio, l'attaccamento[1106], e in tal modo libero dal senso dell'ego[1107], dalla violenza, dall'arroganza, dal desiderio, dalla collera[1108], senza nulla possedere e senza egoismo[1109], in pace[1110], un tale uomo è pronto a divenire il Brahman[1111].

 

Il continuo ricorso alla meditazione è un mezzo sperimentato, attraverso il quale l'anima può realizzare il suo Sé di potere e il suo Sé di silenzio. Tuttavia l'uomo non deve abbandonare la vita attiva per un cammino di pura meditazione; egli deve agire sempre, compiendo l'azione quale offerta, in sacrificio allo Spirito supremo. Il ritirarsi del sannyasi prepara l'annullamento dell'individuo nell'Eterno, e la rinuncia all'azione e alla vita nel mondo è una tappa indispensabile del procedimento. Ma nella via del tyaga, indicata dalla Gita, vi è piuttosto una preparazione alla trasformazione dell'intera vita e di tutti gli atti in un'unione integrale con l'essere, con la coscienza e con la volontà del Divino; precede lo svincolarsi dell'anima dalla soggezione all'ego inferiore e le permette l'ascesa completa e definitiva verso la perfezione. inesprimibile della suprema Natura spirituale, parti prakriti.

Questa svolta decisiva nel pensiero della Gita è indicata nei due versetti che seguono; l'ordine delle idee che vengono espresse nel primo di questi, è di grande importanza.

 

 

54. Chi è divenuto il Brahman[1112] e che, nella serenità del suo sé[1113], né si affligge né desidera, uguale[1114] verso tutti gli esseri, ottiene l'amore e la devozione supremi[1115] per Me.

 

Nella stretta via della conoscenza, la devozione per la Divinità personale, bhakti, non può essere che un movimento inferiore e preliminare; il punto finale, il risultato, è dato dalla scomparsa della personalità in un'ineffabile unità col Brahman impersonale, unità in cui la bhakti non può aver posto, perché non vi è più né adoratore né adorato tutto il resto si perde nell'identità silenziosa e immobile del jiva e dell'atman. Qui (nello yoga della Gita) ci viene offerto qualcosa di più alto dell'Impersonale: vi troviamo il supremo Sé che è anche il supremo Ishvara; vi troviamo l'Anima suprema e la suprema Natura; vi troviamo il Purushottama che è situato oltre il Personale e l'Impersonale e che tutto armonizza sulle sue eterne sommità. La personalità dell'ego scompare ancora nel silenzio dell'Impersonale, ma allo stesso tempo, con il silenzio come fondo, sussiste l'azione di un supremo Sé, più grande dell'Impersonale. L'azione inferiore, cieca e zoppicante dell'ego e dei tre guna, non esiste più; al suo posto si svolge il vasto movimento che risulta dall'autodeterminazione di una forza spirituale infinita, di una Shakti libera e fuori da tutte le dimensioni umane. L'intera natura diviene il Potere del Divino unico; ogni azione diviene la sua azione e si compie con l'individuo quale canale e strumento. Al posto dell'ego, il vero individuo spirituale passa in primo piano, cosciente e manifesto, con la libertà della sua vera natura, con il potere del suo stato supremo, con la maestà e lo splendore della sua eterna identità di natura col Divino, particella imperitura della Divinità suprema, potere indistruttibile della suprema Prakriti.

 

 

55. Mediante la devozione[1116] egli conosce la Mia unica realtà[1117], la Mia molteplicità[1118] e i Miei principi[1119]; conoscendoMi nei Miei principi, entra immediatamente in Me[1120].

 

L'Uno che diviene eternamente il Molteplice, il quale, apparente-mente diviso, rimane eternamente uno, l'Altissimo che svolge in noi questo segreto, questo mistero dell'esistenza, che non è né disperso dalla sua molteplicità né limitato dalla sua unità, è l'esperienza conciliatrice, la conoscenza integrale che rende l'uomo capace di un' azione libera, muktasya karma (VI, 16-23).

Questa conoscenza ci viene, dice la Gita, dalla bhakti suprema. La otteniamo quando la mente supera sé stessa in una visione super-mentale, in un'alta visione spirituale delle cose, e quando anche il cuore si eleva simultaneamente oltre le nostre forme mentali, che ignorano l'amore c la devozione, sino all'amore calmo, profondo e luminoso di una vasta conoscenza, sino alla felicità suprema in Dio, all'adorazione che nulla può limitare, all'estasi che nulla può turbare - l'ananda spirituale. Quando l'anima, spogliata dalla personalità separatrice, è divenuta Brahman, allora, ma allora soltanto, può vivere nella vera Persona, può raggiungere le supreme rivelazioni della bhakti dirette verso il Purushottama, può giungere a conoscerLo perfettamente mediante il potere di questa devozione, di quest'amore profondo e, di questa conoscenza del cuore....

L'anima dell'uomo liberato entra in tal modo nel Purushottama grazie alla conoscenza riconciliatrice; penetra in Lui mediante la perfetta felicità simultanea del Divino trascendente, del Divino nell' individuo e del Divino nell'universo, mam vishate tad-anantaram. L'uomo diviene uno con Lui nell'esperienza e nella conoscenza che ha di sé stesso, uno con Lui nel suo essere, nella sua coscienza, nella sua volontà, nella sua conoscenza del mondo e dell'impulso del mondo in lui, uno con Lui nell'universo e nell'unità con tutte le creature dell'universo, e uno con Lui oltre l'universo e l'individuo nella trascendenza dell'eterno Infinito, shashvatam padam avyayam (XVIII, 56). È il vertice della bhakti suprema, il cuore stesso della suprema conoscenza.

Vediamo adesso chiaramente in che modo il continuare l'azione ogni specie di azione -, senza diminuire o abbandonare alcuna attività della vita, può non soltanto essere perfettamente compatibile con l'esperienza spirituale suprema, ma divenire anche un mezzo, un mezzo tanto potente, per raggiungere il supremo stato spirituale, quanto lo sono l'amore e la devozione. Non può farsi affermazione più categorica di quanto lo faccia qui la Gita.

 

 

56. Continuando ad agire[1121], dimorando in Me[1122], la Mia grazia gli farà raggiungere l'indistruttibile eterna dimora[1123].

 

Quest'azione liberatrice possiede il carattere delle opere fatte nella profonda unione della volontà e di tutte le parti dinamiche della nostra natura con il Divino in noi e con il Divino nel cosmo. Dapprima è compiuta come un sacrificio, con l'idea che il sé ne sia l'autore. Poi viene compiuta senza questa idea, con la percezione di Prakriti quale solo autore. Viene compiuta infine con la conoscenza che Prakriti è il supremo Potere del Divino e con la rinuncia e l'abbandono al Divino di tutte le azioni, l'individuo essendo solo un canale e uno strumento. Le nostre opere procedono allora diretta-mente dal Sé e dal Divino in noi; esse fanno parte dell'indivisibile azione universale, vengono affrontate e compiute non da noi, ma dalla Shakti trascendente e senza limiti. Allora, tutto ciò che facciamo è fatto per amore del Signore che risiede nel cuore di tutti, per il Divino nell'individuo e per il compiersi della sua volontà in noi, per l'amore del Divino nel mondo, per il bene di tutti gli esseri, per il compimento dell'azione e dell'intenzione cosmiche, in una parola, per l'amore del supremo Purusha. il Purushottama, Colui che realmente opera attraverso la sua Shakti universale. Queste opere divine non sono un legame, qualunque possa essere la forma o il carattere esteriore; sono piuttosto un potente mezzo di elevazione oltre la Prakriti inferiore dei tre guna sino alla perfezione della Natura suprema, divina e spirituale. Svincolati dai dharma confusi e limitati, ci rifugiamo nel dharma immortale, che si rivela a noi quando diveniamo uno col Purushottama, in tutta la nostra coscienza e in tutte le nostre azioni. Questa unità, realizzata qui sulla terra, ci dà il potere di elevarci lassù, nell'immortalità oltre il tempo. Là, esisteremo nell'eterna trascendenza.

 


 

[d] IL SEGRETO SUPREMO

 

 

L'essenza dell'insegnamento e dello yoga è in tal modo rivelata da Krishna al discepolo sul campo di battaglia - il campo della sua battaglia, del compito che gli è stato assegnato - e il divino Istruttore la sta applicando alla sua azione in modo da renderla valevole per tutte le azioni. Le parole che pronuncia, perché legate a un esempio fatidico, perché dette al protagonista della grande battaglia di Kurukshetra, hanno una portata molto più vasta e un significato molto più universale; esse divengono una regola di condotta per tutti coloro che sono pronti a elevarsi sopra la comune mentalità, per vivere e agire nella più alta coscienza spirituale.

 

 

57. AssumendoMi quale supremo scopo[1124], abbandona coscientemente[1125] a Me[1126] tutti i tuoi atti e, ricorrendo allo yoga della volontà e dell'intelligenza[1127], mantieni il tuo cuore e la tua coscienza[1128] stabilmente fissi in Me.

 

Questi versi racchiudono l'essenza stessa dello yoga della Gita e conducono all'esperienza che ne è il coronamento; dobbiamo comprenderli nel loro spirito più profondo e in tutta l'immensità della loro alta vetta di esperienza. Le parole esprimono il più completo rapporto, il più intimo, il più vivo che possa esistere fra Dio e l'uomo; sono animate dalla forza concentrata del sentimento religioso che scaturisce dall'essere umano in adorazione assoluta, dal perfetto dono di sé, senza riserve, fatto al Divino universale e trascendente da cui l'uomo procede e in cui vive. L'insistenza di cui questo senti-mento è l'oggetto si accorda interamente con l'importante posto che la Gita assegna alla bhakti, l'amore per Dio, l'adorazione dell' Altissimo, quale spirito e movente interiore dell'azione suprema, quale coronamento e cuore stesso della suprema conoscenza. Le formule impiegate, tutte vibranti di emozione spirituale, sembrano accordare la più grande importanza, la più alta preminenza alla verità e alla presenza personale della Divinità. Non è l'Assoluto astratto dei filosofi, non la Presenza impersonale e indifferente e neppure un ineffabile Silenzio che non tollera relazione alcuna, ai quali possiamo abbandonare completamente le nostre opere e con cui l'intima, stretta unione, in tutte le parti della nostra esistenza cosciente, possa essere imposta quale condizione e legge della nostra perfezione, o di cui l'intervento, la protezione e la liberazione divini siano la promessa. Solo il Maestro delle nostre opere, l'Amico, l'Amante della nostra anima, lo Spirito intimo della nostra vita, il Signore che dimora in noi e sopra la nostra natura e il nostro sé personale e impersonale, può pronunciare per noi questo messaggio vicino e commovente.

 

58. Se ad ogni istante il tuo cuore e la tua coscienza sono fermamente stabiliti in Me[1129], la Mia Grazia[1130] ti farà superare tutti i passaggi difficili e pericolosi; ma se a causa del tuo ego[1131] rifiuti di ascoltare, cadrai nella perdizione.

 

Mediante una stretta e perpetua intimità di tutta la nostra coscienza - coscienza del cuore, mentale e totale - con l'Eterno, otterremo la più vasta, la più profonda e integrale esperienza dell'unione con Lui. Una stretta unità in tutto l'essere - sempre profondamente individuale nella sua passione divina, anche in seno all'universalità, anche nelle più elevate sommità della trascendenza - è il mezzo proposto all'anima umana per raggiungere l'Altissimo e possedere la perfezione e la coscienza divine a cui la propria natura la chiama come spirito. L'intelligenza e la volontà devono volgere la loro intera esistenza verso l'ishvara, verso il Sé divino, il divino Maestro di tutte le esistenze. I sensi spiritualizzati devono vederlo, ascoltarlo e sentirlo ovunque; la vita non dev'essere che la sua vita nel jiva; tutte le azioni devono procedere dalla sua sola iniziativa, dal suo solo potere nella volontà, nella conoscenza, negli organi di azione, nei sensi, nelle parti vitali dell'essere e nel corpo. Questa via è profonda-mente impersonale perché il separatismo dell'ego è abolito e l'anima universalizzata ricupera la sua trascendenza. E tuttavia è una via intimamente personale perché si eleva a una passione e a un potere trascendenti d'interiorità e di unità. Un'estinzione che non lasci tracce è forse ciò che la logica mentale esige nel perseguire l'annulla-mento del sé, ma non è l'ultima parola del supremo mistero, rahasyam uttamam.

Non è mediante il nirvana, inteso come esclusione ed estinzione negativa di tutto ciò che siamo quaggiù, che quest'ultima perfezione, questa liberazione nello spirito, può venire; ma è mediante il nirvana, inteso come esclusione ed estinzione dell'ignoranza e dell'ego,

e mediante tutto ciò che ne risulta: con la pienezza ineffabile della nostra conoscenza, della nostra volontà e dell'aspirazione del nostro cuore, elevate e vissute senza limiti nel Divino, con una trasfigurazione, un trasferimento di tutta la nostra coscienza a un più alto stato interiore.

Il nodo del problema spirituale - il carattere di questa transizione di cui la mente comune può così difficilmente afferrare il vero senso - riposa interamente sulla distinzione capitale fra la vita ignorante dell'ego nella natura inferiore e l'esistenza vasta e luminosa del jiva nella sua vera natura spirituale. La rinuncia alla prima dev'essere completa, il passaggio alla seconda assoluto. Su questa distinzione la Gita si appoggia con tutta l'insistenza possibile. Da una parte, la povera condizione di una coscienza egoistica, trepidante e pretenziosa, la limitazione paralizzante di una piccola personalità separativa, impotente, che abitualmente c'impone i nostri modi di pensare e di agire, di sentire e di reagire nei contatti con l'esistenza; dall'altra, le vaste distese spirituali in cui regnano la pienezza, la felicità e la conoscenza immortali, e dove siamo ammessi all'unione con l'Essere divino, che da quel momento esprimiamo e manifestiamo nella luce eterna, invece di travestirlo mediante l'oscurità della nostra natura egoistica.

 

 

59. Ti nascondi dietro il tuo egoismo[1132] e dici: "Non combatterò." La tua risoluzione è vana, la tua natura ti costringerà.

 

60. Ciò che, nella tua confusione[1133], non vuoi fare, o figlio di Kunti, lo farai tuo malgrado, trascinato dagli stessi atti nati dalla tua natura essenziale[1134].

 

Il rifiuto di Arjuna, di perseverare nel compito che il Divino gli ha assegnato, proviene dal suo ego, ahankàra. Dietro questo rifiuto agisce una mescolanza, una confusione e un aggrovigliarsi d'idee e d'impulsi dell'ego sattvico, rajasico e tamasico - la natura vitale che teme il peccato e le conseguenze personali, il cuore che cede davanti alla sofferenza e all'afflizione individuali, la ragione offuscata che ricopre gli impulsi egoistici mediante argomenti speciosi e illusori sul diritto e la virtù, la natura ignorante che rifiuta le vie del Signore perché le sembrano diverse da quelle degli uomini e perché impongono al suo essere emotivo e nervoso e alla sua intelligenza azioni terribili e penose. Adesso che una verità più alta, uno spirito più grande nell'azione gli sono stati rivelati, se, persistendo ancora nel suo egoismo, Arjuna mantenesse un impossibile e vano rifiuto, le conseguenze spirituali sarebbero per lui infinitamente più gravi di prima. Questo rifiuto è una vana risoluzione, un futile indietreggiamento, in quanto proviene da un abbandono momentaneo della propria forza, da un'aberrazione passeggera, anche se poderosa, del principio di energia del suo profondo carattere, che non risponde alla vera volontà, al vero indirizzo della sua natura. Se in quel momento getta le armi, sarà ugualmente costretto dalla sua natura a riprenderle quando vedrà la battaglia e il massacro continuare senza di lui e la sua rinuncia causare la disfatta di tutto ciò per cui ha vissuto sino a quel momento, e la causa che è venuto a servire su questa terra indebolirsi e vacillare per colpa della sua inattività per l'assalto cinico e senza scrupoli dei campioni dell'ingiustizia e della slealtà egoistica. E nel suo voltafaccia non vi sarà nessuna virtù spirituale. È la confusione d'idee e di sentimenti che proviene dalla mente egoistica che lo spinge verso il rifiuto; ciò che lo condurrebbe ad annullare questo rifiuto sarebbe ancora il ristabilirsi delle idee e dei sentimenti caratteristici di questa stessa mente egoistica. Qualunque sia la decisione, la persistenza dell'assoggettamento all'ego significherebbe un rifiuto spirituale peggiore ed ancor più funesto - la perdizione; in quanto sarebbe cadere definitivamente da una verità più elevata di quella sino ad ora seguita, nell'ignoranza della sua natura inferiore. È stato ammesso a partecipare a una coscienza più alta, a una nuova realizzazione; gli è stata mostrata la possibilità di un'azione divina al posto di una egoistica; gli sono state aperte le porte di una vita spirituale e divina, affinché abbandoni la vita soltanto intellettuale, emotiva, sensuale c vitale. È chiamato ad essere non più uno strumento cieco, ma un'anima cosciente e un potere illuminato - un veicolo della Divinità.

 

 

61. Il Signore[1135], o Arjuna, risiede nel cuore di tutti gli esseri; mediante la sua màyà[1136] li fa muovere in circolo come se fossero seduti su di una macchina[1137].

 

Quando penetriamo nel più profondo Sé della nostra esistenza, scopriamo che in noi e in tutto risiede lo Spirito unico, la Divinità che tutta la Natura serve e manifesta; che noi stessi siamo anima di quest'Anima, spirito di questo Spirito; che il nostro corpo è l'immagine che ci ha affidato di Lui stesso, la nostra vita un movimento del suo ritmo di vita, la nostra mente un involucro della sua coscienza, i nostri sensi í suoi strumenti, le nostre sensazioni e le nostre emozioni la ricerca della sua gioia d'essere, le nostre azioni un mezzo per adempiere i suoi disegni, la nostra libertà soltanto un'ombra, un'impressione, un lampo, finché viviamo nell'ignoranza, ma quando Lo conosciamo e conosciamo noi stessi, un prolungamento, un canale effettivo della sua libertà immortale. Il dominio che abbiamo di noi stessi è il riflesso del suo potere all'opera; la nostra più chiara conoscenza, una parte della sua luce di conoscenza; la più poderosa e più alta volontà del nostro spirito, una proiezione, una delegazione della volontà del suo Spirito in tutto, Signore e Anima dell'universo. Il Signore che risiede nel cuore di ogni creatura, per tutta la durata della nostra ignoranza, in ogni atto interiore ed esteriore, ci ha fatto muovere come se fossimo montati su di una macchina, sulla ruota della màyà della Natura inferiore. E per Lui in noi, e per Lui nel mondo esistiamo, oscuramente nell'ignoranza o luminosamente nella conoscenza. Vivere consciamente e integralmente in questa conoscenza e in questa verità significa liberarsi dall'ego e sfuggire alla màyà. Gli altri dharma, anche i più elevati, non sono che una preparazione per questo fine, ogni yoga non è che il mezzo per permetterci di raggiungere un abbozzo di unione per poi, alla fine, se abbiamo la piena luce, condurci all' unione integrale col Signore, con l'Anima e col Sé supremi della nostra esistenza.

 

 

62. Rifugia[1138] tutto il tuo essere[1139] in Lui, o Bhàrata. La sua grazia ti condurrà alla pace suprema[1140] e all'eterna dimora[1141].

 

Raggiungere le alte sommità dello yoga significa rifugiarsi lontano dalle perplessità e dalle difficoltà della nostra natura, nel Signore che dimora nell'intimo della Natura, rivolgersi a Lui con tutto il nostro essere - vita, corpo, sensi, mente, cuore e intendimento - e dedicare a Lui la nostra conoscenza, la nostra volontà e tutto il nostro agire, in tutte le vie del nostro sé cosciente e dello strumento che è la nostra natura. E quando vi possiamo accedere ad ogni istante e totalmente, la Luce, l'Amore e il Potere divini prendono possesso di noi, riempiono il sé e i suoi strumenti e ci fanno attraversare senza danno i dubbi, le difficoltà, le perplessità, i pericoli che assediano la nostra anima é la nostra vita, per condurci alla pace suprema e alla libertà spirituale del nostro stato immortale ed eterno.

 

 

63. Ti ho così rivelato la conoscenza[1142] più segreta di tutti i segreti[1143]. Considerala senza nulla omettere e agisci secondo la tua scelta.

 

64. Ascolta ancora la Mia parola suprema[1144], la più segreta di tutte. Tu sei profondamente[1145] il mio amato[1146], e per questo parlerò per il tuo bene.

 

Dopo aver dato tutte le leggi, tutti i dharma del suo yoga e averne esposto la più profonda essenza, dopo avere affermato che, oltre tutti i segreti rivelati alla mente dalla luce trasformatrice della conoscenza spirituale, esiste una verità più profonda e più segreta ancora, la Gita dichiara improvvisamente che rimane tuttavia da rivelare la parola suprema, un'altra verità, la più segreta di tutte. Questo segreto dei segreti, l'Istruttore lo rivelerà ad Arjuna come il dono più grande che possa concedergli, perché egli è l'anima prescelta e l'amato. Come l'ha detto l'Upanishad[1147]*, solo il raro essere a cui lo Spirito decide di svelarsi integralmente, sino nella sua forma fisica, tanum svàm, può essere ammesso a questo mistero[1148]**, perché lui solo è nel suo cuore, nella sua mente e nella sua vita, così vicino al Divino da poter rispondere interamente al mistero che gli viene svelato e vivere in esso. L'ultima parola della Gita, l'ultima e sublime parola che contiene il più alto mistero, è data in due brevi versetti, semplici e diretti, lasciati senza né sviluppo né commento, affinché possano penetrare nella mente e rivelare la pienezza del loro significato attraverso l'esperienza dell'anima. Solo l'esperienza interiore in continuo sviluppo può rendere manifesta l'eterna ricchezza del senso e delle parole in apparenza così leggere e semplici. Una volta pronunciate, sentiamo che era per farle capire che il Maestro aveva preparata, tutto quel tempo, l'anima del discepolo, mentre il resto non era che disciplina e dottrina, per aiutarla e illuminarla.

Ecco il mistero dei misteri, il più alto e il più diretto messaggio dell'Ishvara:

 

 

65. Col tuo pensiero[1149] costantemente rivolto a Me, sii il Mio devoto[1150]; offriMi i tuoi sacrifici[1151] e prostèrnati davanti Me[1152]. In tal modo tu verrai a Me; la Mia promessa è solenne, perché Mi sei caro.

 

66. Abbandona tutti i dharma[1153] e rifúgiati[1154] in Me solo. Ti libererò da ogni peccato[1155], non ti crucciare.

 

La Gita si dilunga con insistenza su di una disciplina ampia e ben costruita dello yoga, su di un sistema filosofico, comprensivo e chiaramente tracciato, sullo svabhava e svadharma, su di una regola di vita sattvica che superi sé stessa, che esalti e raggiunga il libero dharma di una vasta coscienza immortale e si diffonda nello spazio oltre i limiti di sattva, il più alto dei guna - su molte regole, mezzi, ingiunzioni e condizioni di perfezione. Improvvisamente, sembra sfuggire alla propria strutturazione, quando dice all'anima umana: "Abbandona tutti i dharma, datti al Divino solo, alla suprema Divinità che sta in alto, intorno e dentro di te; è ciò di cui hai bisogno, la via più vera, la più grande, la reale liberazione." Il Signore dei mondi, sotto la forma del divino Auriga e Maestro di Kurukshetra, ha rivelato all'uomo le magnifiche qualità di Dio, del Sé e dello Spirito, la complessità della natura nel mondo e il vero rapporto fra lo Spirito e la mente, la vita, il cuore e i sensi dell'uomo, e i mezzi mediante i quali la disciplina e lo sforzo spirituali possono permettergli di elevarsi vittoriosamente dalla condizione mortale all'immortalità, di superare la propria mente limitata per entrare nell'esistenza spirituale e infinita. E adesso, Spirito e Divinità nell'uomo e in tutto, gli dice: "Alla fine potrai fare a meno di tutto questo sforzo personale e di questa disciplina; potrai smettere di osservare e di limitarti a qualsiasi regola e dharma, rifiutandoli come un fardello e un ingombro, a condizione che tu riesca ad abbandonarti interamente a Me, a dipendere soltanto dallo Spirito, dalla Divinità in te e in tutto e ad aver fiducia in Essa come sola guida. Volgi la tua mente verso di Me e occupala soltanto col Mio pensiero e con la Mia presenza. Volgi il tuo cuore verso di Me, famMi il sacrificio e l'offerta di tutti i tuoi atti, quali che siano. Ciò fatto, abbandona alla Mia volontà la tua vita, la tua anima e la tua azione; non affliggerti, non preoccuparti del modo in cui tratto la tua mente, il tuo cuore, la tua vita e le tue opere, e non turbarti se ti sembra che ciò non segua le regole e i dharma che l'uomo s'impone per guidare la sua volontà e intelligenza limitate. Le mie vie sono le vie di una saggezza, di un potere e di un amore perfetti che tutto conoscono e che combinano tutti i loro movimenti in vista di un perfetto risultato a venire - in quanto affinano e tessono i numerosi fili di una perfezione integrale. Sono qui vicino a te sul carro di battaglia. Mi sono rivelato Maestro della tua esistenza e di tutte le esistenze, e torno a darti l'assicurazione formale, l'infallibile promessa di condurti a Me attraverso e oltre ogni dolore e ogni male. Quali che siano le difficoltà e le perplessità che sorgeranno, stai certo che ti condurrò verso una completa vita divina nello Spirito universale e ad un'esistenza immortale nello Spirito trascendente."

Ma affinché tutto ciò possa realizzarsi pienamente, c'è bisogno, specifica la Gita, di un abbandono senza riserve. Il nostro yoga, la nostra vita, il nostro stato interiore devono essere liberamente determinati da questo Infinito vivente, e non predeterminati dall'insistenza mentale su tale o talaltro dharma, o anche dall'idea che sia necessario seguire un dharma. Allora il divino Maestro dello yoga, yogeshvara krishna (XVIII, 75), prenderà lui stesso la responsabilità del nostro yoga e ci eleverà alla più alta perfezione di cui siamo capaci, non alla perfezione di un modello esteriore, di una norma mentale o di una regola limitata, ma ad una perfezione vasta e totale, inaccessibile alla mente. Sarà la perfezione sviluppata da una Saggezza che abbraccia tutto secondo una completa verità, perfezione del nostro svabhàva umano dapprima, e subito dopo perfezione di una cosa più grande sulla quale essa si aprirà: spirito e potere senza limiti, liberi, che tutto trasmutano, luce e splendore di un'infinita natura divina.

Ecco dunque la parola suprema, la più segreta di tutte: lo Spirito, il Divino è un Infinito libero da tutti i dharma, e benché conduca il mondo secondo leggi fisse, e l'uomo mediante i dharma umani dell'ignoranza e della conoscenza, dei vizi e delle virtù, della giustizia e dell'ingiustizia, dell'attrazione, della ripulsione e dell'indifferenza, del piacere e del dolore, della gioia e della sofferenza, e anche tramite i] rifiuto di tutte queste opposizioni, mediante le regole, le forme, le norme fisiche e vitali, intellettuali ed emotive, morali e spirituali, tuttavia Io Spirito, il Divino trascende tutto ciò; e se noi pure riusciamo a rifiutare la dipendenza da un qualsiasi dharma, ad abbandonarci a questo Spirito eternamente libero, e se, attenti soltanto a mantenerci aperti esclusivamente a Lui, giungiamo a fidarci della luce, del potere e della gioia del Divino in noi e, senza timore né rimpianto, ad accettare la sua sola direzione, allora per noi è la vera, la grande liberazione, e la perfezione assoluta del nostro sé e della nostra natura seguirà inevitabilmente. Tale è la via offerta agli eletti dello Spirito, a coloro in cui Egli trova la più grande gioia, perché molto vicini a Lui e capaci di unirsi e di essere simili a Lui (IX, 11c) - di dare il loro accordo e il loro concorsa alla natura nel suo movimento e nel suo potere più elevati, di essere universali nella loro coscienza d'anima, trascendenti nel loro spirito.

 

 

67. Mai devi ripetere queste parole a chi conduce una vita senza austerità[1156] o senza devozione[1157], a chi non si consacra a servire; e neppure a chi Mi disprezza o Mi abbassa [Io che dimoro nel corpo umano].

 

68. Colui che, con la più grande devozione per Me, diffonderà fra i Miei devoti[1158] questo supremo segreto[1159], senza dubbio alcuno verrà a Me.

 

69. In quanto nessuno può fare più di lui ciò che Mi è grato, e nessuno sulla terra Mi sarà più caro[1160].

 

70. Chi studierà questa sacra[1161] conversazione Mi offrirà [ciò mediante] il sacrificio della conoscenza[1162].

 

71. Colui che pieno di fede[1163] l'ascolterà senza vana critica[1164], raggiungerà, liberato[1165], il mondo radioso[1166] dei giusti[1167].

 

72. Figlio di Prithà, hai tu ascoltato le Mie parole con attenzione concentrata[1168]? La confusione [del tuo spirito], nata dall'ignoranza[1169], si è dissipata, o Conquistatore di Tesori?

 

Arjuna disse:

73. La confusione[1170] è sparita, o Incrollabile, e, mediante la Tua grazia[1171], ho ricuperato la memoria[1172]. Eccomi qui, deciso, l'incertezza mi ha abbandonato, agirò secondo la Tua parola.

 

L'intero yoga è stato rivelato, l'ultima parola dell'insegnamento pronunciata. Arjuna, l'anima umana eletta, si è di nuovo rivolto verso l'azione divina, non più questa volta con la sua mente egoistica, ma con la più grande conoscenza di sé che ha potuto acquisire. Potere del Divino, vibhuti, egli è pronto a vivere una vita divina in seno alla vita umana; spirito cosciente, è pronto a eseguire l'opera dell'anima liberata, muktasya karma. L'illusione che turbava la sua mente si è dissipata; l'anima ha ricuperato la memoria del suo Sé e della sua verità, da tanto tempo velati dalle apparenze e dalle forme ingannevoli della vita umana, assimilandoli alla sua coscienza normale; liberata dai dubbi e dalle perplessità, essa può dedicarsi all'esecuzione dell'ordine ricevuto e compiere fedelmente, per Dio e per il mondo, ogni opera che le assegnerà e prescriverà il Maestro del suo essere - lo Spirito, il Divino che realizza Sé stesso nell'universo e nel tempo.

 

 

Sanjaya disse:

74. In tal modo, mentre Vàsudeva[1173] e Pàrtha[1174], il magnanimo[1175], parlavano, ascoltavo la sublime conversazione rabbrividendo d'emozione[1176].

 

75. Grazie a Vyàsa[1177], ho sentito la rivelazione del supremo segreto[1178] dello yoga, direttamente da Krishna, il divino Maestro dello yoga[1179]. Lui stesso l'ha proclamato.

 

76. O Re, ricordandomi, ricordandomi senza posa questo sublime, sacro[1180] dialogo fra Arjuna e il Dio dai lunghi capelli[1181], la mia gioia cresce e cresce ancora.

 

77. Ricordandomi, ricordandomi anche di quella prodigiosa forma[1182] di Hari[1183], grande, o Re, è la mia meraviglia, e la mia gioia cresce e cresce ancora.

 

78. Là dov'è Krishna, il Maestro dello yoga, là dov'è Pàrtha, l'arciere, immancabili sono la gloria, la vittoria e la prosperità e anche l'immutabile legge della giustizia.

 

Il segreto dell'azione - cosi si potrebbe riassumere il messaggio della Gita - è identico al segreto della vita e dell'esistenza. L'esistenza non è un semplice meccanismo della Natura, un ingranaggio di leggi in cui l'anima si trova presa per un attimo o per intere epoche - è la continua manifestazione dello Spirito. La vita non esiste per solo amore della vita, ma per Dio, e l'anima vivente dell'uomo è un eterno frammento della Divinità. L'azione non esiste soltanto per i suoi frutti apparenti, esteriori, nel presente e nell'avvenire; essa ha un senso che è la scoperta di sé, il compimento di sé, la realizzazione di sé. Le cose hanno un significato e una legge interiori che riposano sulla natura suprema del Sé e sulla sua natura manifestata; la vera verità delle opere si trova precisamente lì, e le forme apparenti ed esteriori della mente e dell'azione non possono rappresentarla che incidentalmente, imperfettamente e con le deviazioni proprie dell' ignoranza. La suprema legge d'azione, la più vasta delle leggi, senza difetto, non è quindi quella di seguire una norma, un dharma esteriore, ma di scoprire la più alta e la più profonda verità della nostra stessa esistenza e di vivere in essa. Fino a quel momento, necessariamente, tutta la vita, tutta l'azione è difficoltà, lotta, problema. Solo quando avrete scoperto il vostro vero Sé e vivrete secondo la sua vera verità, la sua reale realtà, potrete risolvere il problema, superare la difficoltà e la lotta, e fare della vostra azione, resa perfetta nella sicurezza del Sé e dello Spirito così scoperti, un' autentica azione divina.

"Conoscete quindi il vostro Sé, sappiate che il vostro vero Sé è Dio e uno con il Sé di tutti; sappiate che la vostra anima è una particella di Dio. Vivete allora ciò che conoscete, vivete nel Sé, vivete nella vostra suprema natura spirituale, siate uno con Dio e simili a Dio. Dapprima, offrite tutte le vostre azioni in sacrificio al Supremo e all'Uno in voi, al Supremo e all'Uno nel mondo; subito dopo rimettete fra le sue mani tutto ciò che siete e che fate, affinché lo Spirito supremo compia attraverso di voi la sua volontà e le sue opere nel mondo. Tale è la soluzione che vi propongo, e vedrete che, in definitiva, non ve ne sono altre."

 

 

 

 

QUI FINISCE LA BHAGAVAD GÌTA.

GLORIA A SRI KRISHNA! CHE TUTTI SIANO FELICI!

 

 



[1] Bankim Chandra Chatterji (1838-1894). Scrittore bengalese, autore di romanzi storici e del Banda Mataram, l'inno rivoluzionario indiano. Ha esercitato una grande influenza per il risveglio nazionale del popolo indiano.

[2] (Lokmanya) Bel Gangadhar Tilak (1856-1920). Patriota marathi, ardente capo rivoluzionario degli estremisti; si è trovato al fianco dì Sri Aurobindo nei moti per l'indipendenza indiana del primo decennio del secolo. Ha scritto, tra l'altro un ampio commento alla Bhagavad Gita.

[3] Il potere mantrico della Gita.

[4] Romain Rolland.

[5] Pron.: Ghita.

[6] Albin Michel - Paris.

[7] Le Yoga de la Bhagavad Gita, Tchou - Paris, 1969.

[8] Fra il 1966 e il febbraio del 1973 era uscito a puntate sulla pubblicazione trimestrale domani, Sri Aurobindo Ashram - Pondicherry.

[9] Una leggenda narra (Bhishma-parva, cap. I) che Vyasa, il presunto autore del `Mahàbharata', incontrandosi col re cieco Dhritaràshtra poco prima dello scoppio delle ostilità, gli chiese se volesse riavere la vista, Per vedere coi propri occhi l'andamento della battaglia. Dhritaràshtra rifiutò perché non si sentiva capace di assistere a una simile carneficina. Pregò Vyasa di fare in modo che gli avvenimenti gli fossero fedelmente riportati. Vyasa accettò e conferì assaggiai a un potere di visione superiore al normale, ordinandogli di riferire al vecchio re tutti i particolari del combattimento. Rivolgendosi poi via di trascinar tra gli disse: "O Re, Sanjaya ti dirà tutto ciò che concerne questa guerra. Egli saprà tutto, tutto ciò che è visibile e ciò che è segreto, ciò che avviene di notte e ciò che avviene di giorno; saprà anche leggere i pensieri nella mente; le armi non lo feriranno e la fatica non l'offuscherà".

[10] ' Bisogna rammentarsi che tutta la tradizione dei Purana attinge dal Tantra la ricchezza del suo contenuto.

[11] 2 Si dice che Chaitanya, l'avatàr di Nadiyà, sia cosi stato posseduto, in modo parziale e saltuario, dalla coscienza e forza divine.

 

[12] 2 Gli asura sono i titani della mitologia indiana, coloro che lottano contro gli dèi (sura). La loro caratteristica è il potere, un potere violento e diretto verso fini egoistici.

 

[13] Disciplina spirituale.

[14] Significa, letteralmente, ciò cui ci si può afferrare e che mantiene le cose unite; la legge, la norma, la regola naturale di vita, la regola di condotta e di vita.

[15] Yoga.

[16] La coscienza di Brahman, la coscienza che racchiude in sé la cono¬scenza per identità della Realtà suprema.

[17] Il dharma dello yuga (età, ciclo) attuale.

[18] kshara, che è mutevole, soggetto a cambiamento.

[19] akshara, immutabile, immobile, che è sopra ogni cambiamento.

[20] Oltre i guna.

[21] Rudra, il Violento, il Terribile, in opposizione all'aspetto benevolente di Shiva (N. d. T.).

[22] ahimsa, non-violenza.

[23] Si tratta qui della Trinità: Brahma, Vishnu, Shiva (Maheshvara), Creatore, Preservatore, Distruttore (N. d. T.).

[24] Scritto alla fine del conflitto mondiale 1914-1918 (N. d. T.)

[25] Ahimsa.

[26] Guna.

[27] Sankhya, Yoga, Vedanta sono i nomi di tre sistemi filosofici classici dell'India. Tuttavia, nell'epoca in cui la Gità fu redatta, questi sistemi esi¬stevano come idee e tendenze, piuttosto che come teorie definite e scuole filosofiche organizzare. Tale precisazione intellettuale si verificò soltanto in epoche posteriori.

[28] Le altre due sono, da una parte, le Upanishad, dall'altra, il Brahma-Sutra.

[29] È forse interessante notare che la scienza moderna distingue cinque stati della materia: solide, liquida, gassoso, ionizzato (plasma), energia radiante (onde e corpuscoli) (N. d. T.).

 

[30] Nella Mundaka Upanishad, II, cap. I, II: "Anche se l'akshara è supremo, vi è un Purusha divino che gli è superiore."

 

[31] Lett., "un frammento di me stesso", XV, 7.

[32] Il vecchio e cieco re dei Kaurava chiede al suo auriga, Sanjaya, di narrargli cosa avviene sul campo di battaglia.

[33] Il campo dei Kuru.

[34] Il dharma è la legge profonda che determina le azioni e i rapporti fra gli individui e i popoli; dharmakshetra, il campo del dharma, può esser preso nel senso proprio — il campo dove i Kuru celebravano i loro riti religiosi — e dharma significa in tal caso la legge religiosa e sociale; ma l'espressione può ricevere un senso più profondo e profetico, ed essere allora interpretata come la grande battaglia che sta per scatenarsi, da cui dipende l'avvenire dell'India. Sri Aurobindo insiste su questo senso.

[35] I Kaurava, i cento figli di Dhritarashtra e i loro alleati.

[36] I cinque figli di Pandu, Arjuna e i suoi quattro fratelli.

[37] Figlio di Dhritarashtra e usurpatore del trono.

[38] Drona, che aveva insegnato l'arte della guerra ai principi dell'uno e l'altro campo.

[39] Maestro.

[40] Drupada è il re di Panchala, suo figlio è Dhrishtadyumna e la figlia Draupadi, la sposa in comune dei cinque Pandava.

[41] Fratello di Arjuna.

[42] L'attuale Benares.

[43] La moglie di Arjuna; il figlio è Abhimanyu.

[44] In tal modo vengono chiamati gli appartenenti alle tre più alte caste: bramini, kshatriya, vaishya. Sono stati iniziati alla vita dello Spirito.

[45] Il vecchio guerriero pieno di saggezza che istruì Dhritaràshtra Pàndu, suoi nipoti.

[46] Fratellastro di Arjuna.

[47] Cognato di Drona.

[48] Figlio di Drona.

[49] Bhishma.

[50] Strumento ricavato da una grossa conchiglia, dal suono grave e potente, ancora in uso nei templi dell'India.

[51] Sposo di Lakshmi, uno dei nomi di Vishnu, applicato qui a Krishna, il suo Avatàr.

[52] Figlio di Pàndu, Arjuna.

[53] Che domina i sensi, Krishna.

[54] La Potentissima; lett., che risuonò nei cinque mondi (o stati d'essere); gli antichi davano volentieri un nome alle loro armi (la spada Durandal di Orlando) ed anche ad altri oggetti del loro equipaggiamento guerresco.

[55] Conquistatore di tesori, Arjuna.

[56] Ventre di lupo, soprannome dato a Bhima (allusione al suo appetito); Yudhishthira, Bhima, Nakula e Sahadeva, sono i quattro fratelli di Arjuna.

[57] Hanumàn.

[58] Incrollabile, uno dei nomi di Vishnu; dato a Krishna.

[59] Duryodhana.

[60] Che domina il sonno, Arjuna.

[61] Discendente di Bharata, Dhritaràshtra. Bharata è un avo in comune dei Kaurava e dei Pàndava, che ha dato il nome all'India, Bhàrata.

[62] Prithà è uno dei nomi di Kunti, la madre di Arjuna.

[63] L'arco di Arjuna.

[64] Dai lunghi capelli, Krishna.

[65] Possessore di vacche o Che possiede la luce, Che dà l'illuminazione, Krishna; secondo il doppio senso della parola vedica, in cui go significa vacca e luce.

[66] Uccisore di :Madhu; si ritiene che Krishna abbia vinto e ucciso l'asura Madhu.

[67] Terra, mondo intermedio, cielo.

[68] Liberatore di uomini, Krishna.

[69] kula-dharma, il dharma della famiglia o del clan. La parola dharma significa in questo caso: dovere, regola di vita, di condotta, legge morale, sociale o religiosa. È il senso più esteriore.

[70] a-dharma, l'assenza di doveri, di regola di vita, la licenziosità, il disordine. Arjuna, nella sua ignoranza, considera assolute ed eterne le leggi, i costumi e le convenzioni sociali, morali o religiose del suo tempo. In realtà esse sono contingenti e temporali, e non possono essere una guida sicura nelle grandi crisi dell'anima.

[71] I Vrishni erano un clan dell'epoca; Krishna.

[72] Il sanscrito varna viene generalmente tradotto con casta; ma in India il sistema attuale delle caste è una degenerescenza dell'antico chaturvarna, il quadruplice ordine della comunità ariana che assegnava ad ogni casta — almeno in teoria — un compito conforme alla profonda natura individuale. Le donne avevano il compito di conservare le abi¬tudini e le tradizioni familiari. Dalla loro integrità dipendeva la stabi¬lità dell'ordine sociale.

[73] L'inferno indù, naraka, non è eterno.

[74] Le offerte rituali di riso e d'acqua, come gli stessi riti funebri, hanno come scopo di aiutare gli antenati defunti (pitri) nell'ascesa verso il loro nuovo soggiorno (pitriloka). Secondo un punto di vista più generale, le offerte e i sacrifici sono il simbolo dell'unione fra le diverse genera¬zioni, dell'interdipendenza di tutti gli esseri, vivi o morti, dei, uomini o animali.

[75] Il dharma della razza, jàti-dharma.

[76] Dono degli dèi per il fatidico avvenimento.

[77] Forza ostile del mondo mentale.

[78] Terrore dei nemici. Nome dato ad Arjuna. Lett., colui che consuma i nemici.

[79] Distruttore dei nemici. Nome dato a Krishna.

[80] guru.

[81] il senso del bene e del male, dharma.

[82] sura.

[83] Krishna (I- 15 e 32).

[84] Krishna

[85] Arjuna (I-24)).

[86] Sanjaya si rivolge sempre a Dhritaràshtra.

[87] Parole che sembrano sagge, ma a cui manca il senso profondo della saggezza.

[88] dehi: lett., che ha o che possiede un corpo, l'abitante del corpo, l'anima incarnata.

[89] Arjuna

[90] Discendente di Bharata, In questo caso, Arjuna.

[91] Arjuna,

[92] tat, `Quello', designa iI Brahman immutabile, in opposizione a idam, 'questo', l'universo manifestato.

[93] Figlio di Pritha, Arjuna.

[94] L'anima incarnata (II, 13).

[95] Lo si dice: nella Scrittura rivelata, shruti; i Veda e le Upanishad.

[96] a-vyakta, non-manifestato, inespresso.

[97] Segno di potere, epiteto assegnato ad Arjuna.

[98] bhutani, pl. di bhúta, etimologicamnte, `divenire'; designa gli esseri, le creature.

[99] dharma, conforme al dharma, giusto, legittimo.

[100] svadharma, la legge d'azione propria di ciascuno.

[101] Conforme al dharma.

[102] svadharma.

[103] buddhi (f.): intelligenza, intendimento, conoscenza razionale; principale facoltà dell'uomo normale; in questo senso ha due funzioni: conoscenza e volontà; Sri Aurobindo la chiama talvolta la volontà intelligente (si veda Gloss.).

[104] Sànkhya e Yoga: all'epoca della Gita rappresentavano piuttosto correnti di pensiero filosofico che sistemi bene stabiliti (si veda Gloss.).

[105] karma: l'azione (con tutte le sue conseguenze), le opere.

[106] La pratica di questo yoga, anche se solo in parte.

[107] Arjuna.

[108] I partigiani del vedavada, della stretta osservanza alle prescrizioni vediche.

[109] Lett., nella nascita.

[110] buddhi.

[111] samadhi, concentrazione della volontà e del pensiero, spinta fino all'identificazione assoluta con il Sé.

[112] I tre guna, modi o qualità della natura: tamas, rajas, sama (si veda Gloss. sotto la parola guna).

[113] Le coppie: piacere e dolore, perdita e guadagno, eccetera.

[114] Lett., "sii il possessore del Sé - àtmavan".

[115] Brahmana, nome della più alta delle quattro caste, quella dei sacerdoti e degli insegnanti.

[116] L'unione col sé superiore, il Brahman.

[117] buddhi-yukta; può anche essere tradotto come "colui che mediante l'intelligenza ha raggiunto l'unità (unendosi al Sé)".

[118] moha; particolarmente la credenza che un certo numero di formule o di regole, date una volta per sempre, possano contenere a racchiudere l'eterna verità (il dharma immortale).

[119] Chiara allusione alle Scritture rivelate, shruti, lett., "quello che si è udito".

[120] La perfetta contemplazione (II, 44).

[121] sthitaprajna; prajna, saggezza, comprensione luminosa.

[122] manas, la mente sensoria, che fa la Sintesi delle sensazioni e le trasforma in percezioni; diversa da buddhi, l'intelligenza.

[123] atman.

[124] L'abitante del corpo, l'anima incarnata.

[125] rasa, sapore, gusto o disgusto.

[126] panini drishtvà , quando il Supremo è visto.

[127] O, Mi sia interamente consacrato. Il lettore dovrà distinguere d'ora in poi i due sensi che vengono dati alla parola sé: il sé inferiore, o ego, formazione passeggera della Natura; il Sé (generalmente con l'articolo), Sé superiore o vero Sé, eterno, unico, immutabile, impersonale, illimitato, atman; quando Krishna dice, lo, Me, Mi (con maiuscola), significa il Divino, il Supremo che parla attraverso la bocca dell' Avatar.

[128] yukta.

[129] Lett., "che desidera il desiderio".

[130] brahmi sthiti, lo stato, la condizione brahmica, lo stato di stabilità in Brahman.

[131] buddhi, l'intelligenza (II, 39).

[132] Arjuna.

[133] naishkarmya; non è l'inazione, ma uno stato in cui non si subiscono le conseguenze dell'azione che si è compiuta.

[134] sannyàsa, generalmente interpretata (secondo il sànkhya) come la rinuncia alla vita del mondo e delle opere.

[135] siddhi:, perfezione, realizzazione dell'unione divina, scopo delle yoga.

[136] Prakriti.

[137] * Vedi Gloss, alla parola Tuona; gli shakta sono gli adoratori di Shakti.

[138] Accanto ai cinque sensi, organi di conoscenza, la fisiologia indiana mette cinque organi d'azione, le cui funzioni sono: l'afferrare, la locomozione, l'assimilazione, l'escrezione, la procreazione.

[139] karma-yoga.

[140] niyatam karma, l'azione prescritta. Sri Aurobindo non accetta l'interpretazione corrente, seconda la quale si tratta dell'azione prescritta dallo sinistra (Scritture sacre), e in modo specifico del regolare compi-mento dei sacrifici, delle cerimonie e dei doveri familiari e sociali della vita vedica; per lui il senso di questo versetto si ricollega ai versetti precedenti. L'espressione niyatam karma viene ripresa al capitolo XVIII, che ne chiarisce completamente il significato.

[141] sharira yàtrà; la frase significa che anche per mantenere la vita fisica si esige l'azione.

[142] Brahmà.

[143] Prajapati, il Creatore, mitica vacca di Indra da cui si può mungere tutto ció che si desidera.

[144] bhavaya, tradotto di solito con nutrire, possiede anche il senso di voler bene, aiutare, proteggere ed anche quello di mantenere, accrescere e nutrire.

[145]deva.

[146] Sotto l'aspetto di kshara, ossia come creatore e promotore delle opere della Natura.

[147] akshara, il Brahman immutabile, immobile, silenzioso 'samam ara amai' .

[148] karya karma, fatto per il bene del mondo, come viene chiaramente indicato nel versetto seguente.

[149] Re di Mithilà (città o regno nella valle del Gange); padre di Sità, la sposa di Rama. Egli governò con grande saggezza, libero dalla condizione in cui l'agire è un fatto personale.

[150] loka-sangraha significa il mantenimento dei popoli in un tutto coerente, allo scopo di evitare che, cedendo alla confusione e alla discordia, giungano alla distruzione. Loka vuol dire popolo(i) o mondo(i).

[151] Fisico, vitale e mentale, compresi i più alti mondi mentali.

[152] * Il Signore, il supremo Brahman, il supremo Sé, che possiede a un tempo l'immutabile unitá e la mutevole molteplicità.

[153] vidvan, colui che ha la conoscenza.

[154] loka-sangraha (III, 20).

[155] Lett., che non in conoscono il tutto.

[156] adhyatma.

[157] “A Me, Krishna, il Supremo”.

[158] svadharma.

[159] Varslmeya, uno dei soprannomi di Krishna (l, 41).

[160] Kama.

[161] krodha.

[162] L'attività, la passione, uno dei tre guna.

[163] papma, che spinge verso il peccato.

[164] jnana.

[165] kàma-rupa

[166] manas, la mente sensoria.

[167] Buddhi.

[168] L'abitante del corpo.

[169] Bharata (al plurale), il popolo discendente da Bharata, i Bharata.

[170] jnana-vijnàna.

[171] Il sé naturale inferiore, l'ego.

[172] Il vero Sé, l'àtman, Purusha; la distinzione dei due sé è data III, 29c.

[173] Il Dio-Sole.

[174] Il Padre e legislatore degli uomini.

[175] Capo della dinastia solare.

[176] rajarshii, rishi (saggi o veggenti) della casta degli kshatriya.

[177] bbakta, adoratore, devoto; colui che segue la via della devozione.

[178] uttama rahasya.

[179] Ishvara.

[180] Prakriti.

[181] maya, potere di manifestazione e di creazione delle forme; si tratta qui di un'azione cosciente (vidyà-mayd) del Divino nella manifestazione fenomenica.

[182] dharma, legge, ordine, giustizia.

[183] adharma, anarchia, disordine, ingiustizia.

[184] bhava, stato d'essere, coscienza o natura interiori.

[185] * Nella tradizione buddista, il nome della madre del Buddha – Màyà - rende chiaro il simbolismo; nella tradizione cristiana, il simbolo sembra essersi attaccato, attraverso un procedimento comune nella creazione dei miti, alla madre umana di Gesù di Nazaret.

[186] bhajami; il verbo bhaj implica la presenza di un forte elemento emotivo: amore, fervore, gioia.

[187] Questa universalità verrà espressa ancora più esplicitamente (IX, 23-29).

[188] siddhi, riuscita, compimento, perfezione.

[189] I deva o devata sono forme e personalità dell'unica Divinità.

[190] karma, nel senso di attività, compito, funzione, dovere.

[191] kartà, colui che fa, che agisce. a-karta.

[192] vedi la spiegazione di naishkarmya, III, 4.

[193] moksha.

[194] karma.

[195] a-karma.

[196] Fatta male, fuori luogo.

[197] yukta.

[198] buddha, risvegliato, cosciente, saggio.

[199] yata-chitta-atma; china, la sostanza del pensiero, la coscienza mentale; atman, il sé (inferiore), l'anima (di desiderio), il cuore.

[200] chetas, più specialmente la coscienza mentale.

[201] La cosa offerta.

[202] In colui che offre il sacrificio.

[203] Il fuoco del sacrificio, agni.

[204] samadhi, una concentrazione spinta sino all'identificazione.

[205] I deva, forme e aspetti dell'Unico, come Indra e altre divinità vediche; il sacrificio è fatto in questo caso per rendere propizi gli dèi.

[206] Il fuoco del sacrificio; l'antico rito è allora compiuto con diverso motivo, come offerta all'unico Divino.

[207] samyama, padronanza di se, disciplina interiore.

[208] Prana

[209] tapas, la concentrazione delle energie dell'anima su di uno scopo spirituale.

[210] Come il pranayama, il dominio del respiro e dell'energia vitale.

[211] pranayama.

[212] prana.

[213] apana.

[214] prana, corrente d'energia vitale, suddivisione e ramificazione del soffio vitale.

[215] amrita (v. III, 13c).

[216] Il sacrificio, secondo la concezione della Gita, sia quello della conoscenza o qualsiasi altro, non è rinuncia, non riduzione, ma compimento. Offrendo al Divino l'opera che si compie strettamente uniti a Lui, permettiamo alla coscienza e all'energia divine di darle il pieno senso e il posto che le compete nell'opera cosmica.

[217] Non una conoscenza inferiore, ma la conoscenza del Sé, del Brahman.

[218] la conoscenza.

[219] La sottomissione al guru, i servizi che gli si rendono a casa sua e le domande che gli si sottopongono, sono le tre occupazioni principali del discepolo.

[220] tattva, principio, essenza.

[221] moha, illusione, confusione.

[222] Atman

[223] Cioè in Krishna, l'incarnazione del Supremo

[224] bhuta, esseri, creature, esistenze; etimologicamente, i divenire.

[225] tat-para.

[226] diman; in questo caso, anima inferiore, anima di desiderio.

[227] karma-sannyàsa.

[228] karma yoga.

[229] Colui che ha fatto voto di rinuncia sannyasa), monaco asceta errante.

[230] yoga yukta = yogena yukta.

[231] Gli organi di percezione e gli organi d'azione.

[232] Lett., per la purificazione del sé (inferiore).

[233] vukta.

[234] dehi, [abitante del corpo II, 13)

[235] Cioè interiormente e non esteriormente.

[236] Il corpo, che ha sette aperture nella testa e due nella parte inferiore; si i spesso alla parola purusha l'etimologia di: colui che risiede nella città.

[237] Prabhu, il Brahman in quanto Signore di tutto.

[238] sva-bhava, la natura individuale, propria di ciascuno.

[239] Vibhu, il Brahman personale, che pervade tutto l'essere.

[240] Vedi commento al versetto seguente.

[241] atma jnana.

[242] tat-para.

[243] Tat, `Quello', il Brahman impersonale e senza attributi (II, 17).

[244] Il fuoricasta, l'intoccabile, il paria.

[245] In questa vita.

[246] samam, uguale, identico (in tutto e verso tutto).

[247] sukha, gioia, felicità.

[248] sukha, gioia, felicità.

[249] budha, l'uomo dall'intelligenza sveglia.

[250] brahma-bhuta.

[251] brahma-nirvana (II, 72c).

[252] rishi, colui che vede la verità, il veggente, il saggio.

[253] yati, coloro che praticano il dominio di sé tramite lo voga e l'austerità.

[254] chetas, coscienza mentale.

[255] Lett., è tutt'attorno.

[256] pràna e apana (IV, 29, 30).

[257] moksha, liberazione dall'ignoranza e da tutte le sue conseguenze, in particolare, dal ciclo delle rinascite.

[258] mukta.

[259] Maheshvara, grande signore.

[260] tapasya o tapas

[261] L'interpretazione tradizionale di sannyasa è la rinuncia alla società alle opere; il sannyasi, che ha fatto voto di sannyàsa, e quindi esente dal dovere di compiere il sacrificio e di seguire i riti.

[262] karyam-karma, il lavoro da svolgere.

[263] sankalpa, facoltà di decisione, risoluzione.

[264] karana.

[265] shama, la calma serena.

[266] sankalpa (VI, 2n).

[267] Nel testo originale, i due sé dell'uomo - il sé inferiore o ego, e il se superiore o Sé (III, 29c) - vengono designati con lo stesso termine sanscrito, atman, ciò che dà a questo versetto e a quello che segue l'apparenza di un enigma.

[268] Il sé è nemico del sé se seguiamo l'impulso del desiderio e mettiamo in avanti la nostra volontà egoistica; egli diviene invece amico se cerchiamo di dominarlo e di unirci al Divino.

[269] parama-atma.

[270] In samadhi.

[271] jnana-vijnana (III, 41).

[272] yukta, che ha raggiunto l'unione col Divino.

[273] sama (V, 18-20).

[274] chitta, la sostanza mentale, la sostanza del pensiero.

[275] kusha, erba utilizzata in diversi riti vedici.

[276] chitta.

[277] Lett., per la purificazione del sé (inferiore)

[278] Fissare lo sguardo sulla punta del naso provoca una autoipnosi che facilita la concentrazione e la meditazione.

[279] o brahmacharya, così definito: assenza di relazioni sessuali nel pensiero, nella parola e nell'azione. In tutte le discipline spirituali la castità è indispensabile in quanto l'energia sessuale è una specializzazione, rivolta verso il basso, dell'energia universale (Shakti) per il fine della procreazione materiale. Quando viene diretta verso l'alto, diviene nello yoga una corrente attiva e conduce alta liberazione spirituale.

[280] yukta.

[281] Lett., assumendoMi come supremo scopo.

[282] In Me, in Krishna, il Supremo.

[283] yukta, unificato, unito, equilibrato.

[284] chitta, la sostanza mentale, la coscienza mentale.

[285] yukta, unito al Sé.

[286] yoga.

[287] La cessazione dell'attività mentale, il silenzio mentale.

[288] ukham atyantikam, la felicità innata descritta nel IV, 20c.

[289] buddhi.

[290] tattva.

[291] sankalpa (VI, 2n).

[292] Brahma-bhúta (V, 24).

[293] yoga-yukta-atma (V, 6-8, 21).

[294] V, 18-20.

[295] Qui, Mi, Me, si riferiscono a Krishna, l'Avatar, il Supremo (II, 61n).

[296] bhajati; il verbo bhaj implica un movimento d'intensa devozione e di amore (IV, 11).

[297] parama.

[298] Arjuna.

[299] abhyasa, esercizio regolare.

[300] vairagya, distacco, rifiuto delle passioni, indifferenza verso la vita e il mondo.

[301] yoga-samsiddhi, la perfezione totale nello yoga

[302] In questo caso, Krishna.

[303] Lett., decaduto dalle due parti; in altre parole: non ha forse perduto la vita mentale e quella dell'attività umana, che ha abbandonato per perseguire la coscienza brahmica a cui aspirava e che non ha potuto raggiungere?

[304] buddhi-samyoga (II, 50).

[305] shabda-brahman, la Rivelazione, specialmente i Veda; l'impulso interiore è cosi forte che lo yogi non ha più bisogno dell'aiuto della parola scritta.

[306] tapasvi. , colui che pratica austerità.

[307] jnani, colui che possiede la conoscenza.

[308] karmi.

[309] bhajati (VI, 31n).

[310] shraddha.

[311] yutra.

[312] jnana-vijnana

[313] I cinque elementi, condizioni o stati della materia.

[314] manas, la mente sensoria.

[315] buddhi (II, 39).

[316] ahankàra, il senso dell'ego.

[317]  (III, 42C).

[318] apara (prakriti).

[319] parà prakriti.

[320] jiva-bhutà, che diviene il jiva; jiva, jivàtman, la vera anima individuale, il Sé individuale.

[321] bhuta, divenire, esseri, creature.

[322] prabhava, manifestazione, nascita.

[323] pralaya, riassorbimento, dissoluzione.

[324] Ciascuno dei cinque sensi corrisponde a uno dei cinque elementi.

[325] pranava, la sillaba sacra, simbolo del Brahman (XVII, 23).

[326] bhuta.

[327] Rapasvi

[328] tapas.

[329] bija, germe, semenza.

[330] tejas.

[331] bhàva, tradotto qui per `divenire', designa la natura individuale di un essere, specialmente la sua natura soggettiva, il suo temperamento; bhàva designa anche i moti passeggeri di coscienza, gli stati d'animo o di spirito, le reazioni dell'intelligenza, del senso morale, del sentimento, degli stessi sensi - in breve, ogni divenire soggettivo di un mondo in perpetuo divenire; i bhàva vengono generati dalla mutua azione dei tre guna, modi o qualità della natura - e possono essere classificati secondo il guna che in essi predomina.

[332] mohita, sperduto, disorientato, illuso.

[333] bhava (vedi nota al versetto precedente).

[334] Potere di creazione, forza d'illusione (vedi commento al versetto precedente).

[335] Illusione (VII, 13 e 14).

[336] asuram bhavam; gli usura sono esseri del mondo invisibile, ostili agli dei e al progresso spirituale dell'uomo.

[337] sukriti, virtuosi, morali.

[338] bhajante (VI, 31).

[339] jnani, il saggio.

[340] jnani, colui che ha la conoscenze.

[341] jnani.

[342] jnanavan

[343] mahatma mahà-atma.

[344] Vasudevah sarvam, Vàsudeva è tutto (l'universo). Vàsudeva si applica a Krishna c significa figlio di Vasudeva; Vasudeva, il padre storico di Krishna, era un piccolo sovrano, capo di clan. Vàsudeva è quindi un altro nome del Divino incarnato,

[345] I devata o deva, forme o aspetti del Divino ;IV, 25).

[346] tanu, vedi nota al versetto precedente e IV, 32.

[347] bhakta, chi ha la devozione, adoratore, devoto (IV, 3).

[348] avyakta.

[349] Lett., sono arrivato (entrato) nella manifestazione (vyakti).

[350] para bhava

[351] yoga-maya, la forza creatrice dello yoga (cfr. con IV, 6 et VII. 14).

[352] dvandva, le coppie piacere c dolore, gioia c affanno, ecc. (VII, 15c).

[353] punya-karmanam.

[354] papa.

[355] dvandva-moha.

[356] tad-brahman.

[357] adhyatma.

[358] karma.

[359] adhibhuta.

[360] adhidaiva.

[361] adhiyajna.

[362] chetas.

[363] Per la prima volta Arjuna chiama Krishna col nome di Purushottama = purusha-uttama, Purusha supremo.

[364] Lett., uccisore di Madhu.

[365] aksharam brahman paramam

[366] adhyatma

[367] svabhava (VII, 7c).

[368] visarga.

[369] bhutra-bhàva, la Prakriti inferiore (aparà) (VII, 12-14).

[370] * Riferirsi all'impiego di tat, 'Quello', per designare il Brahman immutabile, in opposizione a 'questo', l'universo manifestato (II, 17). (N.d.T.)

[371] ksharo bhavah.

[372] adhibhúta.

[373] adhidaiva.

[374] adhiyajna.

[375] Arjuna.

[376] mad-bhava; bhava, divenire soggettivo, stato d'essere, natura profonda.

[377] cheta.

[378] kavi (senso originale); sensi derivati: veggente, saggio, poeta.

[379] purana, antico.

[380] prana.

[381] pada, passo, posto ove poggiare il piede, scalino, condizione.

[382] akshara.

[383] yati (V, 26).

[384] brahmacharya, che osserva la castità.

[385] prana.

[386] dharana.

[387] Lett., il Brahman

[388] gati, sentiero, via, scopo

[389] chetas.

[390] Mahatma

[391] Samsiddhi

[392] Il Dio creatore che fa parte della trinità Brahma, Vishnu e Shiva non va confuso con Brahman, la Realtà suprema e unica.

[393] Vedi nota al versetto precedente.

[394] yuga; un giorno di Brahmà, o kalpa, vale mille yuga.

[395] Di Brahmà.

[396] vyakti.

[397] avyakta.

[398] Di Brahmà.

[399] bhuta-grama: lett., quest'insieme di divenire.

[400] avyakta.

[401] bhava.

[402] sanàtana.

[403] avyakto'ksharah = avyaktah aksharah.

[404] gati (VIII, 13n).

[405] dhàma.

[406] para.

[407] bhuta, i divenire oggettivi.

[408] sarvam idam tatam (II, 17).

[409] Brahma-vid.

[410] È detto che gli antenati vivono nel mondo lunare restandovi fino al loro ritorno sulla terra. I versetti dal 23 al 27 s'ispirano alla Chandogya Upanishad (V, 10).

[411] gati (VIII, 13n); queste due vie vengono chiamate dalle Upanishad la via degli déi e la zia degli antenati.

[412] yoga-yukta yogena yukta, unito (al Divino) mediante lo yoga.

[413] Che possiede tutta la conoscenza esposta nei precedenti versetti.

[414] param sthanam adyam; sthana, luogo, località, paese.

[415] jnana, conoscenza essenziale, e vijnana, la conoscenza comprensiva (VII, 2).

[416] pratyaksha, la conoscenza intuitiva, l'esperienza spirituale diretta.

[417] dharmya: lett., conforme al dharma, alla legge.

[418] Purusha.

[419] dharma.

[420] samsara, il mondo delle apparenze cangianti, sottoposto alla nascita e alla morte.

[421] avyakta-murti.

[422] bhuta.

[423] mat-sthani, risiedono in Me.

[424] Si deve leggere: ma Io non dimoro ( interamente) in loro.

[425] Na mat-sthani (vedi nota del versetto precedente), Bisogna interpretare: gli esseri non dimorano che in una parte di Me, non nella Mia totalità (X, 16 e 42).

[426] mama atma,

[427] Leggere: non dimora (interamente) in essi, non è da essi contenuto.

[428] akasha, l'etere, lo spazio, il più sottile dei cinque elementi.

[429] kalpa: il calcolo degli astronomi dell'antica India conduceva ad attribuire al kalpa (o giorno di Brahma) la durata di 4 miliardi e 320 milioni di anni (VIII, 17).

[430] Prakriti.

[431] Lett., premendo, appoggiando sulla Mia Natura (confrontare con VII, 5-6.)

[432] bhúta-grama.

[433] Lett., senza forza sotto la forza della Natura (inferiore).

[434] udàsinavat asina.

[435] manushim tanum ashritam.

[436] Para bhava.

[437] bhuta-maheshvara.

[438] mohini prakriti.

[439] Gli asura sono esseri ostili del mondo mentale, e i ràkshasa del mondo vitale.

[440] mahatma.

[441] daini prakriti, la natura divina in opposizione alla natura ingannevole, mohini prakriti, del versetto precedente.

[442] nitya yukta.

[443] jnana-yajna; sul senso di questa espressione, vedi IV, 33.

[444] vishvatomukha: lett., dalla faccia rivolta da ogni Iato (X, 33)

[445] mantra.

[446] Offerto nel fuoco del sacrificio.o

[447] Vedi VII, 8c.

[448] Gli antichi testi sacri indiani non parlano che di tre Veda; il quarto, l'Atharva Veda, è stato aggiunto molto più tardi.

[449] amrita.

[450] sat e asat.

[451] IX, 17n.

[452] Bevanda che faceva parte del rito vedico.

[453] Il re degli dèi vedici.

[454] Lett., essendosi avvizziti i loro meriti.

[455] dharma.

[456] kàma-kamah: lett., desiderano il desiderio.

[457] ata-àgata: lett., andata e venuta.

[458] yoga-kshema: lett., acquisizione e conservazione (dei beni materiali e spirituali). Colui che si è interamente consacrato al Divino e rimette a Lui la sua vita materiale e spirituale viene spontaneamente preso sotto la responsabilità dello stesso Divino e riceve da Lui tutto ciò di cui ha bisogno per le sue necessità materiali e per il suo avanzamento spirituale.

[459] Lett., i devoti di altri dèi.

[460] avidhi-purvakam: ossia, anche se in modo indiretto.

[461] Lett., che gioisce di tutti i sacrifici.

[462] Prabhu (V, 14).

[463] Deva

[464] pitri

[465] bhuta, elementali - gli spiriti dei cinque elementi.

[466] sannyasa-yoga.

[467] sama, equanime, invariabile in tutto e verso tutto (V, 19).

[468] bhajanti (VI, 31).

[469] ananya-bhak: lett., con una devozione senza altro scopo.

[470] sadhu, buono, giusto.

[471] dharma-àtma.

[472] me bhaktah, colui che Mi ama, che ha per Me amore e devozione.

[473] Lett., da un ventre peccatore.

[474] Membri della terza casta: mercanti, agricoltori, artigiani.

[475] Membri della quarta casta: quella degli operai e dei servi.

[476] I rishi regali appartengono alla casta degli kshatriya (guerrieri), a cui appartiene Arjuna.

[477] bhajasva mam (VI, 31).

[478] bhakta (IX, 31).

[479] prabhava (VII, 6).

[480] sura, altro nome degli dèi.

[481] maharshi, veggenti e saggi dei tempi vedici (V, 25).

[482] àdi, principio.

[483] loka-maheshvara.

[484] bhavah (pl. di bhava), divenire soggettivi, stati e movimenti psicologici (VII, 112-14).

[485] bhutani, gli esseri creati che sono anche dei divenire.

[486] bhavanti matta eva.

[487] maharshi (X, 2n).

[488] I padri spirituali dell'umanità.

[489] bhàva.

[490] manas, ha qui il senso d'intelletto divino.

[491] praja: lett., progenitura, esseri animati.

[492] * Corrisponde ai sette mondi della manifestazione cosmica. I tre mondi inferiori vengono nominati nel mantra vedico, "OM bhur bhuvar svar", e sono rispettivamente il mondo fisico, il mondo vitale o intermedio, il mondo mentale, la cui più elevata sommità è rappresentata dal mondo celeste degli dèi. I Veda parlano anche di un quarto, brihat o ritam brihat, e di tre mondi supremi che non nominano. A questi ultimi i Puràna attribuiscono ulteriormente i nomi: jnana, tapas e sa:ya. Il Vedànta fa corrispondere a questi sette mondi, sette forme d'esistenza, sette principi psicologici: anna, prana, manas, vijnana, ananda, chit e sat (cfr. Sri Aurobindo, Il Segreto dei Veda). (N. d. T.)

[493] ** Nei suoi attributi di saggezza e di conoscenza, di potere e d'energia, d'armonia e di bellezza, di abilità e perfezione, che corrispondono ai quattro grandi aspetti o personalità della Madre divina: Maheshvari, Mahakali, Mahàlakshmi e Mahasarasvati (cfr. Sri Aurobindo, La Madre, Cap. VI). (N. d. T.)

[494] tattva.

[495] vibhúti, potenza e sovranità divine manifestate nel mondo.

[496] prabhava (VII, 6).

[497] budha, sveglio, cosciente.

[498] bhajante.

[499] bhàva-samanvita, in un movimento intenso e concentrato della natura emotiva.

[500] chitta, la sostanza mentale, sede del pensiero.

[501] prana, soffio, forza vitale.

[502] bhajatam: priti-púrvakam.

[503] buddhi yoga (II, 49).

[504] atma-bhava-stha, mantenendoMi nella natura (soggettiva) di costoro.

[505] a-jnana.

[506] janana-dipa.

[507] adi-deva, il primo degli dèi.

[508] vibhu, il Divino immanente che tutto penetra.

[509] devarshi Nàrada, uno dei rishi divini, messaggero degli dèi.

[510] Il presunto autore del Mahabharata.

[511] Dai lunghi capelli.

[512] deva.

[513] danava, titani della mitologia indù, una categoria di asura.

[514] vyakti.

[515] Purusha supremo, Essere supremo.

[516] bhuta-bhavana.

[517] Le potenze direttrici del divino manifestarsi in tutti gli esseri, coloro in cui i divini poteri (forza, bellezza, conoscenza, amore, ecc.) si manifestano con maggiore evidenza: una specie di protòtipo o modello. Sono manifestazioni parzialmente consapevoli della loro origine divina, mentre l'avatar è una manifestazione completa, pienamente cosciente del Supremo. Vibhuti (f.) viene tradotto generalmente come forza, potere, manifestazione, gloria.

[518] Vuol dire che il Divino non è per intero in questa sua manifestazione (IX, 4-61).

[519] bhava (VII, 12).

[520] IX, 5c.

[521] vibhuti.

[522] Liberatore degli uomini; lett., che mette fine alle nascite.

[523] amrita, la bevanda degli dèi, simbolo dell'Ananda, felicità e gioia divine.

[524] Vibhuti.

[525] Nome di un clan di cui un re ne aveva portato il nome.

[526] atman.

[527] bhuta.

[528] Colui che ha dominato il sonno.

[529] bhuta.

[530] Una categoria di dei vedici.

[531] Divinità del vento.

[532] menzionato a causa della sua bellezza musicale.

[533] Uno dei nomi di Indra.

[534] manas, la mente sensoria che compie Ia sintesi delle sensazioni e le trasforma in percezioni; chiamata anche seno interiore.

[535] bhuta, divenire oggettivo.

[536] chetana.

[537] Dèi vedici.

[538] Shiva.

[539] Esseri del mondo vitale (IX, 12); Vittesha o Kubera è il Signore delle ricchezze.

[540] Dèi vedici.

[541] Il purificatore, ossia Agni, il fuoco,

[542] La montagna mitica che segna il centro del mondo.

[543] Dio della guerra, figIio di Shiva e Pàrvati.

[544] La sillaba sacra (VII, 8c).

[545] Ripetizione continua di un nome sacro o di un mantra.

[546] Albero sacro (ficus religiosa) che ha un posto in molte delle leggende indiane. È sotto un ashvattha che Buddha ricevette l'illuminazione.

[547] X, 13.

[548] Musici celesti.

[549] siddha, colui che ha raggiunto la siddhi, la perfezione.

[550] muni, saggio; Kapila è il fondatore della filosofia Sànkhya.

[551] Nel momento della creazione del mondo, i cura e gli usura sbatterono l'oceano per ottenere la bevanda d'immortalità (amrita), altri tesori ne uscirono, fra questi il cavallo Uchchaihshrava, l'elefante bianco Airàvata e la vacca dell'abbondanza (vedi versetto seguente).

[552] Vacca dell'abbondanza (III, 10).

[553] Dio dell'amore.

[554] Cobra leggendari.

[555] Cobra mitico dalle mille teste che veglia su Vishnu nel suo riposo cosmico.

[556] Dio vedico delle acque.

[557] I pitri, defunti, antenati.

[558] Dio vedico, Signore del Sacrificio.

[559] Signore della morte, guardiano del dharma.

[560] I daitya (X, 14n).

[561] Principio della numerazione (vedi versetto 33).

[562] Lett., il signore delle bestie.

[563] Garuda, l'uccello, veicolo di Vishnu.

[564] Incarnazione dì Vishnu e eroe del Ramayana.

[565] Coccodrillo dell'India.

[566] vidya

[567] adhyatma-vidva (VII, 30; VIII, 1).

[568] dvandva, una delle regole per la formazione delle parole composte in sanscrito.

[569] kala.

[570] vishvatmukha (IX, 15).

[571] Uno dei grandi inni del Sàma Veda.

[572] Il mantra sacro, la cui conoscenza è data al bramino nel momento della sua iniziazione (upanayana).

[573] Corrispondente ai mesi di novembre-dicembre.

[574] Lett., il giuoco dei dadi.

[575] sattva.

[576] sattvavat.

[577] I Vrishni sono un clan, di cui Krishna (Vàsudeva) è membro (I, 41).

[578] I Pàndava sono i cinque figli di Pandu, e Arjuna (Dhananjaya) è uno di essi.

[579] Un rishi, il presunto autore della Bhagavad Gita.

[580] Precettore degli asura, rinomato per la sua saggezza.

[581] sarva-bhutani, tutti i divenire.

[582] Le vibhuti.

[583] Distruttore di nemici; lett., consumatore di nemici.

[584] vibhúti.

[585] vibhuti.

[586] tejas.

[587] X, 16n.

[588] paraman guhyam.

[589] adlayànna (VIII, 3c).

[590] moha, smarrimento (VII, 27; a8).

[591] Krishna.

[592] parameshvara = parama-ishvara.

[593] rúpam aishvaram.

[594] Prabhu (V, 14).

[595] yogesvara = yoga-Ishvara.

[596] atman.

[597] Nomi di dèi vedici (X, 21, 23).

[598] ekastha, mantenendosi uno.

[599] Lett., l'occhio divino.

[600] IX, 5.

[601] Uno dei nomi di Vishnu, di cui Krishna è l'Avatàr.

[602] Sanjaya si rivolge sempre, nella sua descrizione, al re Dhritaràshtra.

[603] vishvatomukha (X, 33c).

[604] mahàtmà, grande anima.

[605] ekastha (XI, 7).

[606] deva-deva.

[607] Lett., con i peli irti di gioia (I, 28).

[608] Il Dio creatore (VIII, 16n).

[609] Isha.

[610] Esseri mitici della cosmogonia indiana con testa umana e corpo di serpente (X, 29).

[611] ananta-rupa.

[612] vishveshvara = vishva-Ishvara.

[613] vishva-rupa.

[614] Il diadema è un attributo di Vishnu, la mazza e il disco sono le sue armi.

[615] tejas, luce, energia, splendore.

[616] dyuti, splendore, gloria, fulgore.

[617] akshara

[618] nidhana.

[619] dharma.

[620] sanàtana purusha.

[621] ananta-virya.

[622] sva-tejas

[623] mahatma.

[624] La terra, il ciclo e il mando intermedia (X, 6c).

[625] sura.

[626] siddha, coloro che hanno raggiunta la perfezione nello voga.

[627] maharshi.

[628] Dicendo: "svasti su-asti", benedizione, augurio di pace e di felicità. Lett., che egli stia bene.

[629] Gli Ushmapa sono i mani o gli antenati defunti, gli altri sono divinitá Vediche (X. 21, 23)

[630] Musici celesti.

[631] Entità del mondo vitale.

[632] IX, 12

[633] I perfetti (XI, 21n)

[634] deva-vara.

[635] pravritti.

[636] Lett., che ti servi (anche) della mano sinistra, Arjuna.

[637] Dai lunghi capelli, Krishna (I, 30).

[638] Ornato del diadema, Arjuna.

[639] Colui che domina i sensi, Krishna.

[640] mahatma

[641] devesha = deva-isha.

[642] sat-asat

[643] tat-param yat.

[644] adi-deva.

[645] purusha-purana.

[646] ananta-rupa.

[647] Vayu, Agni e Varuna sono gli dèi vedici dell'aria, del fuoco e delle acque. Yama è il Signore della morte, guardiano del Dharma; Shashànka è la luna e Brahma Prajàpati è il Creatore, Padre di tutte le creature.

[648] Yadava: gli Yadu erano un clan di cui Krishna era il capo.

[649] Un'altra versione dice: in Tua presenza.

[650] guru.

[651] XI, 20.

[652] manas.

[653] devesha - deva-isha.

[654] jagat-nivasa.

[655] Attributi di Vishnu

[656] La forma abituale di Vishnu, di cui Krishna è l'incarnazione, che Arjuna chiede di rivedere.

[657] vishva-murti.

[658] * Un aspetto di Vishnu.

[659] ** Krishna, incarnazione di Vishnu.

[660] tejo-maya, fatta di luce, d'energia.

[661] atma-yogat (IX, 5c).

[662] kuru-pravira, Arjuna.

[663] rupam-ghoram.

[664] mahatma.

[665] Krishna, l'avatàr, figlio di Vasudeva.

[666] chetas.

[667] deva.

[668] Gli stessi dèi non hanno accesso a questa visione.

[669] bhaktyà ananyaya (IX, 30).

[670] mat-karma-krit, che compie le mie azioni. Il mezzo per giungere a questa identità di volontà nell'azione è compiere tutti gli atti offrendoli al Supremo (IX, 27, 28 e 34).

[671] mat-parama.

[672] mad-bhakta.

[673] satata-yukta, sempre uniti (al Sé).

[674] aksharam: avyaktam (VIII, 20 e 21).

[675] manas.

[676] nitya-yukta.

[677] yuktatama, i più perfettamente uniti.

[678] V, 25; cfr, con III, 20 e 21.

[679] chetas, coscienza.

[680] deha-van, che possiede un corpo; cfr. con dehi (II, 13, 22s).

[681] mayi sannyasya, che tutto rinuncia in Me.

[682] mat-para.

[683] ananya yoga, cfr. IX, 30.

[684] chetas, coscienza.

[685] mrityu-samsara.

[686] manas.

[687] buddhi.

[688] chitta, la sostanza mentale.

[689] abhyasa-yogena, mediante lo yoga pratico.

[690] abhyàsa, la pratica regolare.

[691] mat-karma-paramo bhava: lett., sii colui per cui le Mie opere rappresentano il supremo (scopo) (XI. 55).

[692] mad-artham.

[693] siddhi (III, 4).

[694] sarva-karma-phala-tyaga.

[695] jnàna.

[696] abhyàsa, la pratica costante.

[697] dhyana.

[698] karma-phala-tyaga.

[699] shanti.

[700] II, 71, 72c.

[701] yata-atma.

[702] mad-bhakta.

[703] mukta.

[704] udasina, stabilito sopra, staccato.

[705] sarva-arambha-parityagi.

[706] shubha-ashubha-parityagi (II, 50; VII, 15c).

[707] bhakti-man.

[708] sama (V, 19).

[709] a-niketa.

[710] dharmya-amritam, il nettare d'immortalità in conformità col dharma (IV, 31n).

[711] mat-parama.

[712] La Natura e l'Anima (III, 29c).

[713] kshetra e kshetra-jna.

[714] jnana jneya.

[715] tad-vidah, coloro che conoscono Quello (il Brahman).

[716] * Le Upanishad parlano di un quintuplice corpo, di un corpo dai cinque involucri - fisico, vitale, mentale, ideale e divino - che può essere considerato come la totalità del Campo, kshetra. (Nota di Sri Aurobindo.)

[717] chhanda, inni o canti ritmati dei Veda.

[718] Uno dei testi fondamentali del Vedànta.

[719] avyakta vuoi dire in questo caso la Prakriti non manifestata, mula-prakriti, il primo dei tattva.

[720] buddhi.

[721] ahankara.

[722] maha-bhuta, terra, acqua, aria, fuoco, etere (spazio) (VII, 4).

[723] Cinque sensi di percezione e cinque di azione (III, 6n).

[724] manas, la mente sensoria, chiamata talvolta il senso interiore.

[725] Lett., i pascoli dei sensi.

[726] chetana.

[727] sanghata. associazione, legame, unione.

[728] dhriti.

[729] ahimsa.

[730] acharya

[731] vairagya.

[732] Lett., del figlio e della sposa.

[733] darshana, vista, percezione diretta.

[734] adhyatma (VIII, 1-4).

[735] ananya-yoga (XII, 6-7).

[736] a-jnana.

[737] amrita.

[738] para-brahman.

[739] sat.

[740] a-sat.

[741] Gli organi percezione e di azione.

[742] guna, qualità o modi della Natura.

[743] Le tenebre (tamas) della nostra ignoranza.

[744] mad-bhava: bhava, condizione, stato d'essere, natura soggettiva.

[745] guna.

[746] hetu, causa, ragione d'essere, origine.

[747] karuna, causa.

[748] karya.

[749] kartritva, lo stato di ciò (o di colui) che agisce.

[750] bhoktritva, lo stato di ciò (e di colui) che gioisce.

[751] sanga.

[752] karana.

[753] upadrasha, anumanta, bharta, bhokta.

[754] maheshvara (maha-ishvara).

[755] parama-atman.

[756] para-purusha.

[757] deha.

[758] guna.

[759] È il Conoscitore che conosce sé stesso (XIII, 7c; cfr, con VI, 20).

[760] Cioè in sé stesso, nel piccolo sé personale.

[761] dhyana.

[762] karma-yoga.

[763] sattva.

[764] Sam-yoga.

[765] Parameshvara = parama-Ishvara.

[766] Il verbo stha, che ricorre con tanta frequenza, viene anche tradotto diversamente con: risiedere, abitare, stare.

[767] sama

[768] bhuta

[769] Il Sé è indistruttibile, ma può essere ignorato, dimenticato, nascosto dall'ego (III, 29c; VI, 5-7).

[770] parà gati (VIII, 13n).

[771] prakriti.

[772] atman.

[773] a-karta (IV, 13).

[774] bhuta-prithak-bhavam: bhava, divenire nel senso di esistenza (VII, 2n); prithak, separato, diverso.

[775] parama-atman.

[776] akasha, l'etere, lo spazio.

[777] loka.

[778] kshetri, possessore, abitante del Campo.

[779] jnana-chaksnu.

[780] bhúta-prakriti-moksha: bhuta-prakriti, la prakriti dei divenire, La Natura inferiore.

[781] para.

[782] muni.

[783] A partire dai legami dell'ignoranza.

[784] para siddhi.

[785] sadharmya, il fatta di avere una stessa natura, una stessa legge d'essere (dharma ).

[786] sorga, creazione, mondo creato; al principio di un nuovo ciclo di manifestazione.

[787] pralaya.

[788] Mahat-Brahman, il Grande, il Vasto Brahman; le Upanishad [Gli oggetti dei sensi sono superiori ai sensi, manas (la mente sensoria) superiore agli oggetti, buddhi (l'intelligenza) superiore a manas, mahat o mahat-atman (l'anima cosmica) superiore a buddhi, avyakta (il non-manifestato'' superiore a mahat, e purusha o atman superiore al non-manifestato (secondo la Katha Upanishad, III, 10-11)] parlano di un principio cosmico, mahat (il Vasto) o mahat-atman (l'Anima cosmica), che corrisponde al quarto mondo; brihat (il Vasto) dei Veda (vedi X, 6, nota del commento) ha la sua corrispondenza nel principio di vijnana, la coscienza di verità, l'Idea reale (Sri Aurobindo, The Secret of the Veda).

[789] yoni.

[790] garbha, seme, germe, embrione.

[791] Vedi nota precedente.

[792] yoni.

[793] bija.

[794] Equilibrio o ritmo, armonia.

[795] Attività, passione.

[796] Inerzia, torpore, oscurità.

[797] Qualità o modi della Natura prakriti

[798] dehi, che abita il corpo, l'anima incarnata.

[799] sukha.

[800] jnana.

[801] raga

[802] ajnana

[803] dehi; vedi II, 13, 22s, in cui l'anima è rappresentata senza né nascita né decadenza, immutabile, stabile, senza cambiamenti. lo che modo può essere quindi legata o incatenata a qualcosa che faccia parte della Prakriti dei tre guna? La soluzione di questa antinomia è chiaramente esposta da Sri Aurobindo (III, 29c): nello stesso modo in cui ci sono due sè, il vero Sé e il sé-ego apparente, esistono due anime, l'anima vera o Purusha, eternamente libera e non limitata da Prakriti e dai guna, e l'anima apparente o anima di desiderio, riflesso del Purusha nelle opere di Prakriti, interamente costituita e determinata dai guna.

[804] lobha.

[805] pravritti, l'impulso all'azione.

[806] àrambhah karmanam (XII, 16).

[807] * La forza quale causa del movimento, del cambiamento. (N. d. T.)

[808] a-prakasha, l'assenza di luce, di splendore.

[809] moha, illusione, aberrazione.

[810] dehabhrit, ciò che ha rivestito un corpo e che lo sostiene.

[811] pralaya, dissoluzione (generalmente dissoluzione cosmica).

[812] uttama-vid.

[813] mudha, smarrito, incosciente o semi-cosciente.

[814] sukrita, azione ben fatta, corretta, giusta.

[815] Che ha il carattere di sana o deriva da sattva.

[816] moha (XIV, 13n).

[817] rajasah.

[818] tamasah.

[819] drashtà, colui dalla visione interiore risvegliata.

[820] para.

[821] mad-bhàva (XIII, 19n).

[822] dehi.

[823] Sri Aurobindo lo spiega con: nati dall'incarnazione nella Natura (XIV, 25c).

[824] amrita (XIII, 13).

[825] Prabhu (V, 14, 16c).

[826] prakàsha, luce, splendore.

[827] pravritti (XIV, 12).

[828] moha.

[829] udasinavat, come seduto sopra.

[830] sva-stha, stabilito in sé stesso.

[831] sarva-arambha-parityagi (XII, 16).

[832] guna-atita.

[833] Bakti-yoga.

[834] base, fondamento, dimora.

[835] amrita.

[836] avyava.

[837] shashvata dharma (XII, 20)

[838] aikantika sukha.

[839] L'albero chiamato in hindi pipal (ficus religiosa ); sotto un ashvatta ricevette l'illuminazione il Buddha.

[840] Il Supremo.

[841] Il mondo manifestato.

[842] chhanda (XIII, 5).

[843] a-sanga.

[844] pada, luogo, stazione, posizione.

[845] Cioè, non rinascono più sulla terra.

[846] adya.

[847] pravritti purani; pravritti ha qui il senso di potere di espansione, impulso cosmico all'azione; é il karma (visarga) di VIII, 5.

[848] Moha

[849] sanga.

[850] kama

[851] adhyatma VIII. 1-4.

[852] pada.

[853] dhama paramam mama.

[854] Cioè: non rinascono più sulla terra.

[855] sanatana.

[856] mamaivansha = mama-eva-ansha.

[857] jiva-bhùta; jiva ha il senso corrente di creatura vivente; più filosoficamente, soprattutto sotto la forma di jivatman, significa l'anima individuale, l'individuo spirituale.

[858] jiva-loka.

[859] Nel momento di formare la personalità psichica.

[860] Manas, la mente sensoria.

[861] Ishvara.

[862] sharira.

[863] manas.

[864] vimudha

[865] bhunjana: lett., che prende piacere o interesse.

[866] jnana-chakshu.

[867] atmani avasthitam.

[868] a-chetas, ignorante, non intelligente.

[869] a-kritatma.

[870] rajas, energia, luce, splendore (XI, 17, 19).

[871] bhuta.

[872] ojas.

[873] Bevanda fatta con il succo di una pianta; simbolizza in questo caso l'energia della vita vegetale.

[874] vaishvanara: lett., il fuoco della vita.

[875] deham ashritam, cfr. cori IX, 11.

[876] praninam, di coloro che sono dotati di respiro.

[877] pràna e apana (IV, 29, 30),

[878] Quello che si mastica, quello che si succhia, quello che si lecca e quello che si beve.

[879] *Si può vedere nei versetti dal l2 al 15 un'allusione all'evoluzione della coscienza.

[880] hrid.

[881] smriti.

[882] jnana.

[883] loka.

[884] Mutevole, soggetto a cambiamento.

[885] Immobile, immutabile, sopra ogni cambiamento.

[886] uttama.

[887] anya.

[888] paramatman

[889] aryaya ishvara; aryaya: imperituro, indistruttibile.

[890] X, 6c.

[891] uttama, più alto, superiore, supremo.

[892] loka.

[893] purusha-uttama, il supremo Purusha. XIV, 26, 27.

[894] Smarrimento creato dall'illusione (moha).

[895] sarva-vid.

[896] bhajati.

[897] sarva-bhavena: lett., con tutti i moti della sua natura interiore (VII, 12-14).

[898] guhyatama.

[899] shàstra.

[900] buddhi-man: lett., che possiede l'intelligenza.

[901] krit-kritya: lett., che ha fatto quello che doveva fare.

[902] * Non-dualismo, principale scuola del Vedànta.

[903] * In questo canto, consacrato a certe categorie di esseri umani, conserveremo i termini sanscriti sopra indicati e gli aggettivi che ne derivano: devico, asurico, ecc., piuttosto che tradurli come dèi, diavoli o démoni, divi-no o demoniaco, che evocano altre associazioni. (N. d. T.)

[904] esarga.

[905] bhuta.

[906] Pravritti, l'impulso all'azione (XV, 2c, 4).

[907] nivritti, il rifiuto all'impulso ad agire (XV, 2c).

[908] jagat.

[909] an-ishvaram, senza Signore, senza Dio personale.

[910] Senza né ordine né ragione; a caso.

[911] kama.

[912] nashta-àtmanah.

[913] ugra, crudele, terribile.

[914] moha.

[915] kama-upabhoga.

[916] kama-krodha.

[917] kama-bhoga-artham: lett., avente come scopo il godimento del desiderio.

[918] Ishvara.

[919] Lett., io sono il gaudente (bhogi).

[920] ajnana-ivimohitan.

[921] chitta.

[922] moha.

[923] kama-bhoga.

[924] naraka.

[925] samsara.

[926] múdha.

[927] gati.

[928] * La distinzione fra i due tipi di creature ha piena conferma sui piani ultrafisici, in cui la legge dell'evoluzione spirituale non ha valore. Vi sono mondi di deva e mondi di asura, e, in questi mondi situati dietro il nostra, esistono tipi permanenti di esseri che sostengono il completo giuoco divino indispensabile all'avanzamento dell'universo, e che esercitano Ia loro influenza sulla terra, sulla vita e la natura dell'uomo. (Nota di Sri Aurobindo.)

[929] naraka.

[930] kàma, desiderio, specialmente concupiscenza.

[931] kradhao.

[932] lobha, brama, cupidigia.

[933] tamas.

[934] atman.

[935] para gati.

[936] shàstra, le Scritture sacre, la Legge scritta.

[937] kafma-kara.

[938] siddhi.

[939] sukha.

[940] para gati.

[941] nishtha, fede, consacrazione, volontà concentrata di devozione.

[942] shraddha.

[943] shàstra (XVI, 23,24).

[944] shraddha.

[945] dehi.

[946] svabhava (VII, 7C).

[947] purusha.

[948] shraddhà-maya.

[949] deva.

[950] Entità del mondo vitale (X, 23).

[951] Entità del mondo vitale (X, 23).

[952] bhúta, spiriti dei cinque elementi.

[953] preta, spettri o fantasmi; clementi vitali dei morti in via di disgregazione: un uomo tamasico o rajasico può pensare che sacrifica a un dio, ma in realtà il suo sacrificio e la sua preghiera, per la loro stessa qualità, non vanno oltre le entità inferiori dei mondi invisibili.

[954] tapas.

[955] Lett., uniti alla vanità e al senso dell'ego.

[956] antah-sharira-sthram.

[957] yajna.

[958] rapar, concentrazione della volontà spirituale, ascesi.

[959] dana, dono, carità.

[960] Delle Scritture sacre.

[961] Dello shàstra.

[962] mantra.

[963] dakshina, offerta, in denaro o in natura, che si fa al guru quando si va a rendergli omaggio o a consultarlo e al sacerdote in occasione di una cerimonia.

[964] púja.

[965] deva.

[966] dvi-ja; con questa parola s'intendono le tre caste superiori: bramini, kshatriya e vaishya.

[967] Maestro spirituale.

[968] prajna.

[969] brahmacharya (VI, 13 e 14).

[970] ahimsa.

[971] tapas.

[972] Tapas

[973] prasada, una gioia chiara e calma

[974] bhava-samshuddhi

[975] tapas.

[976] para-shraddhà

[977] vukta (VI, 17).

[978] * Sri Aurobindo distingue tapas da tapasya, applicando al primo l'idea di una concentrazione della volontà spirituale per uno scopo determinato, e alla seconda quella di una disciplina austera e rigorosa. Nella pratica le due parole sono spesso considerate come sinomini. (N. d. 'F.)

[979] pujà, omaggio rituale, culto.

[980] mudha-graha.

[981] dana, carità, dono.

[982] Frase, formula o mantra dei Veda (sulla sillaba AUM, cfr. VII, 8c).

[983] nirdesha, definizione, rappresentazione o simbolo.

[984] Testi sacri complementari dei Veda; questa parola può anche designare i bramini, i preti.

[985] * Questi tre Purusha concordano con i tre stati di coscienza enumerati dalla psicologia indiana: lo stato di veglia, jagrat, quello di sonno con sogni, svapna, lo stato di sonno profondo senza sogni, sushupti. (N. d. T.)

[986] brahma-vadi.

[987] sat-bhava.

[988] sadhu-bhava.

[989] a-shraddha.

[990] a-sat, falso, senza realtà.

[991] tattva, principio, essenza, verità essenziale.

[992] sannyasa, rinuncia esteriore alla vita e al mondo.

[993] tyaga, rinuncia interiore, distacco, abbandono.

[994] Keshinishudana: che ha ucciso Keshi (un asura).

[995] sannyasa.

[996] kamya karma; in questo abbandono devono esser compresi anche i sacrifici imposti dagli shàstra e che abbiano scopi egoistici.

[997] tyaga.

[998] manishi, uomo istruito, che sa riflettere.

[999] XVII, 7s, 25-28.

[1000] tyaga.

[1001] Lett., tigre fra gli uomini - Arjuna.

[1002] XVII, 7s, 25-28.

[1003] manishi.

[1004] niyatam karma.

[1005] moha.

[1006] karya.

[1007] niyatam karma.

[1008] tyagi.

[1009] deha-bhrit (XIV, 14).

[1010] che è tyagi

[1011] pretya: lett., essendo partito; è presa comunemente nel senso di "avendo abbandonato questo mondo, dopo la morte". Sri Aurobindo interpreta in senso più ampio: "in questa vita o in un'altra, in questo mondo o in un altro".

[1012] Gli a-tyagi.

[1013] I sannyàsi.

[1014] kritanta; è detto che tutte le opere trovano il loro scopo ultimo nella conoscenza (IV 33).

[1015] karana, causa.

[1016] siddhi, perfezione, successo, realizzazione.

[1017] adhishthana, base o sostegno dell'anima nella natura, che comprende il corpo fisico, la vita e la mente.

[1018] kartà, quello o colui che agisce; si trova su questo punto grande divergenza fra i commentatori: seconda Shankara, il Purusha è un testimone inattivo, l'agente e il sé fenomenico che si crede l'autore dell'azione; secondo Ràmànuja, il Purusha (jivàtman) sancisce le attività di Prakriti, e dev'essere incluso fra le cause determinanti; secondo Madhva, l'agente è Vishnu, il Signore (vedremo nel XVIII, 17c, in che modo Sri Aurobindo concilia questi diversi punti di vista).

[1019] karana, gli organi di sensazione e d'azione (III, 6n).

[1020] cheshta, la messa in giuoco delle energie fisiche e sottili.

[1021] daiva, il fattore extra-umano che interviene nello sforzo degli uomini, lo dirige e ne dispone i frutti secondo l'ordine degli atti e delle loro conseguenze.

[1022] hetu.

[1023] lokan, questi popoli, ossia i guerrieri riuniti sul campo di battaglia di Kurukshetra.

[1024] ahamkrita bhava,

[1025] Si tratta qui dell'ordine cosmico, perché il trionfo dell'asura nell'umanità significa, sino a un certo limite, il trionfo dell'asura nell'equilibrio delle forze del mondo. (Nota di Sri Aurobimdo.)

[1026] jnana, jneya e parijnata.

[1027] chodana, impulso, indirizzo.

[1028] karta, karma e karana.

[1029] sangraha.

[1030] guna-sankhyanam; esiste a questo proposito l'opera del saggio Kapila; si attribuisce a questo trattato l'origine del Sankhya.

[1031] bhuta, divenire (oggettivo), creatura.

[1032] bhava, divenire (soggettivo), stato d'essere.

[1033] bhava.

[1034] karya.

[1035] kritsnavat.

[1036] tattva.

 

[1037] niyata.

[1038] sanga.

[1039] raga-dvesha.

[1040] mohàt, sotto il dominio dell'illusione.

[1041] anahamvadi: lett., che non dice mai `io'.

[1042] karta, ciò (o colui) che agisce.

[1043] avrukta.

[1044] buddhi, intelligenza, comprensione.

[1045] dhriti, risoluzione, volontà calma e persistente.

[1046] pravritti e nivritti (XV, 2C).

[1047] pravritti e nivritti (XV, 2C).

[1048] bandha, il servaggio.

[1049] moksha, la liberazione.

[1050] dharma, dovere, bene, giustizia.

[1051] adharma, male, ingiustizia.

[1052] tamas,

[1053] adharma.

[1054] dharma.

[1055] dhriti.

[1056] dharma.

[1057] kama.

[1058] artha; questi tre, associati a moksha, la liberazione, comprendono, secondo la tradizione, tutti i motivi dell'azione umana.

[1059] svapua.

[1060] sukha, piacere, felicità.

[1061] abhyasa, pratica regolare.

[1062] duhkha.

[1063] amrita (IV, 31n).

[1064] prasada.

[1065] indriyàni, i dieci sensi: cinque organi di percezione e cinque di azione (III, 6n).

[1066] amrita (IV, 31n).

[1067] nidrà.

[1068] Lett., nelle sue conseguenze.

[1069] sattva, essere, entità.

[1070] deva.

[1071] karma, azione, lavoro, attività; prende qui il senso di compito da svolgere.

[1072] Le quattro caste.

[1073] svabhava-prabhavaih: lett., prodotte dal loro svabhava (VII, 7c, 8c).

[1074] jnana-vijnana, la conoscenza essenziale e la conoscenza comprensiva {VII, 2).

[1075] karma.

[1076] La casta dei preti e degli insegnanti.

[1077] svabhava-ja.

[1078] ishvara-bhava.

[1079] La casta dei guerrieri e dei capi.

[1080] svabhava-ja.

[1081] La casta dei commercianti, artigiani e agricoltori.

[1082] La casta dei servitori.

[1083] Parole di Sri Aurobindo, anteriori alla Costituzione dell'India indipendente. che nel 1947 abolì ufficialmente il sistema delle caste. (N. d. T.)

[1084] sva-karma.

[1085] samshiddi.

[1086] manava, discendente di Manu - l'uomo nella sua qualità di essere mentale.

[1087] sarvam idam tatam (VIII, 22).

[1088] svadharma.

[1089] vi-guna, senza merito.

[1090] Questa prima metà del versetto è una ripetizione del III, 35.

[1091] svabhava-niyatam karma (XVIII, 7c).

[1092] saha-ja, nato con sé, naturale, innato; interpretato spesso come ereditario.

[1093] sa-dosha.

[1094] arambha, impresa, iniziativa.

[1095] Dosha, difetto, imperfezione.

[1096] * Scritto fra il 1916 e il 1920. (N. d. T.)

[1097] siddhi.

[1098] nishta (XVII, 1).

[1099] jnana.

[1100] buddhya vishuddhaya yukta.

[1101] atmanam niyamya.

[1102] raga-dvesha, attrazione e ripulsione (III, 34).

[1103] shabda, il suono, preso come tipo degli oggetti (dei sensi), vishaya.

[1104] manas.

[1105] dhyana-yoga-para.

[1106] vairagya

[1107] ahankara.

[1108] kama krodha.

[1109] nirmama.

[1110] shanta.

[1111] brahma-bhuyaya.

[1112] brahma-bhúta.

[1113] prasanna-atma.

[1114] sama.

[1115] mad-bhaktirn param.

[1116] bhakti.

[1117] yashchàsmi. lett., chi io sono.

[1118] yavan: lett., quanto io seme.

[1119] tattvatah

[1120] tad-anantaram, subito dopo,

[1121] sarva-karmani.

[1122] mad-vyapashraya.

[1123] shashvatam padam avyayam.

[1124] mat-para.

[1125] chetas.

[1126] mayi sannyasya.

[1127] buddhi-yoga.

[1128] chitta.

[1129] mat-chitta.

[1130] asat-prasadàt.

[1131] ahankàra.

[1132] ahankàra.

[1133] moha.

[1134] svabhàva-ja (XVIII, 42s).

[1135] Ishvara.

[1136] Il potere di manifestazione e, in un certo senso, d'illusione (IV, 6, 14C).

[1137] yantra.

[1138] sharanam.

[1139] sarva-bhavena (XV, 19).

[1140] param shantim

[1141] sthanam shashvatam.

[1142] jnana.

[1143] guhyat guhyataram.

[1144] paramam vachah.

[1145] dridham iti, fortemente.

[1146] ishta.

[1147] * Katha Upanishad, I. cap. 11, 23.

[1148] ** Esiste nel linguaggio esoterico una distinzione fra segreto e mistero: si tratta di segreto quando si nasconde qualcosa d'accessibile alla percezione e alla comprensione di colui a cui viene nascosto; il mistero è invece una conoscenza che si trova sopra il livello di comprensione di colui che vuole afferrarla e che esige da lui uno sforzo orientato verso il proprio sviluppo spirituale per raggiungere un adeguato livello di coscienza. (N. d. T.)

[1149] man-mana.

[1150] mad-bhakta.

[1151] mad-yaji.

[1152] mam namas-kuru.

[1153] sarva-dharman-parityajya.

[1154] sharanam.

[1155] papa.

[1156] a-tapaskaya.

[1157] a-bhakta.

[1158] bhakta.

[1159] paramam ,guhyam.

[1160] priya.

[1161] dharmya: lett., conforme al dharma.

[1162] jnana-yajna (IV, 33).

[1163] shraddhavan.

[1164] anasùya.

[1165] ukta.

[1166] shubhan lokan.

[1167] punyakarmanam: lett., di quelli le cui azioni sono meritorie.

[1168] ekagrena chetasa: lett., con il pensiero stabilito in un solo punto.

[1169] ajnana-sammoha.

[1170] moha.

[1171] tvat-prasadat.

[1172] smriti, in questo caso, la memoria della mia vera natura e del mio dharma (II, 7).

[1173] Krishna (VII, 19n).

[1174] Il figlio di Prithà, Arjuna.

[1175] mahatma.

[1176] XI, 14.

[1177] Sanjaya aveva ricevuto dal grande saggio Vyàsa il potere occulto di vedere e sentire a distanza tutto ciò che avveniva sul campo di battaglia di Kurukshetra, per riferirlo a Dhritaràshtra, il re cieco. È il motivo iniziale della Gita e l'autore ne fa una nuova allusione.

[1178] guhyam param.

[1179] yogeshvara Krishna.

[1180] punyaa.

[1181] Krishna.

[1182] rupam atyabdhutam, la Forma universale, vishva-rúpa, di cui il capitolo XI descrive la visione.

[1183] Uno dei nomi di Vishnu (XI, 9).