[E' VIETATO RIPRODURRE QUESTO TESTO PER MOTIVI COMMERCIALI,  L'UNICO

USO CONSENTITO E' LA LETTURA PRIVATA. IL TESTO E' PROTETTO CONTRO LA

RIPRODUZIONE NON AUTORIZZATA, PARZIALE O TOTALE]

 

=======================================================================

 

(attenzione, questa versione è mancante delle note a piè di pagina e

delle immagini che si trovano nella versione integrale)

 

=======================================================================

 

       David Donnini

 

       P A L E S T I N A,   P A L E S T I N A ....

 

       Appunti di viaggio fra i drammi e i misteri storici di Israele.

       (dedicato al premio Nobel Dario Fo, che del problema religioso

       è sempre stato un attento ed acuto studioso)

 

 

SOMMARIO

 

PREMESSA.

INTRODUZIONE.

PRIMO IMPATTO CON ISRAELE.

ALL'UNIVERSITÀ DI TEL AVIV.

GERUSALEMME.

LE AVVENTURE POLITICHE DELLA CITTÀ.

GERUSALEMME EBRAICA.

SHRINE OF THE BOOK.

MEAH SHEARIM.

GERUSALEMME ARABA.

GERUSALEMME CRISTIANA.

IL MONTE DEGLI ULIVI.

BETANIA.

GERUSALEMME ISRAELIANA.

BETLEMME.

IL MAR MORTO E IL DESERTO DI GIUDA.

KHIRBET QUMRAN.

EN GEDI.

MASADA.

CESAREA.

NAZARETH.

GOLAN.

DAMASCO?

UN MESSAGGIO DALLA TERRA DI GIUDA.

SULLA VIA DEL RITORNO.

POST SCRIPTUM.

 

 

PREMESSA.

 

Lo scrittore russo Michail Bulgakov, nel suo famoso romanzo "Il

Maestro e Margherita", ha descritto una sceneggiatura immaginaria del

processo che Gesù avrebbe subito di fronte a Ponzio Pilato, e ha inserito nel

dialogo fra i due alcuni strani particolari che già una ventina d'anni fa avevano

attirato la mia attenzione. Ecco il brano in questione:

""Nome?" ... "Jeshua" rispose rapido l'accusato.

"Hai un soprannome?"

"Hanozri"

"Di dove sei?"

"Della città di Gamala" rispose l'arrestato indicando con un movimento della

testa che laggiù, lontano, alla sua destra, verso nord, esisteva una città

chiamata Gamala.

"Di che sangue sei?"

"Non lo so di preciso" rispose pronto l'arrestato, "non ricordo i miei genitori.

Mi dicevano che mio padre era siriano" ..." (M.Bulgakov, Il Maestro e

Margherita, Einaudi, 1967).

      Fino a quel momento, cioè nella seconda metà degli anni settanta,

non avevo mai sentito parlare di una città chiamata Gamala né, tanto meno,

dell'ipotesi che qui potesse essere nato Gesù, da un padre siriano. La mia

prima impressione, a quel tempo, fu quella che il simpatico scrittore russo

avesse dato libero sfogo alla sua creatività: semplice fiction, e nient'altro. Se

non che, alcuni anni dopo, quando ero già seriamente impegnato negli studi

sulle origini storiche del cristianesimo, mi capitarono sotto gli occhi alcuni

scritti in inglese dello studioso E.B.Szekely, il quale sosteneva con grande

convinzione l'idea che la città natale di Cristo non sia stata né Betlemme, né

Nazareth, ma Gamala, un villaggio localizzato a poca distanza dalla sponda

orientale del lago di Tiberiade.

      A questo punto non potei che ricordare il dialogo fra Gesù e Pilato,

così come Bulgakov lo aveva descritto, e domandarmi con estremo stupore se

mi trovassi di fronte ad una curiosa coincidenza, forse fra le allucinazioni di

due persone che amano lavorare di fantasia, oppure a qualcosa di più

circostanziato, che nasce da basi serie e non casuali.

      Da allora, per una dozzina d'anni, ho indagato la questione

dell'attendibilità storica del racconto evangelico, pubblicando un paio di libri e

un visitatissimo documento on-line, sulla rete Internet; ma solo un mese fa, nel

luglio del 1997, ho visitato di persona la Palestina e ho potuto trascorrere due

giornate nel sito archeologico della città di Gamala, che gli israeliani chiamano

Gamla, sotto le evoluzioni degli avvoltoi che popolano il cielo delle stupende

alture del Golan.

      Il presente libro, che nasce soprattutto dagli impatti ricevuti nel corso

della visita a Israele, vuole essere, tra le altre cose, un resoconto di come

sono giunto alla convinzione che Bulgakov e Szekely abbiano avuto una

visione molto prossima alla verità, e che i ruderi della vecchia città golanita

potrebbero nascondere il mistero delle origini storiche del cristianesimo.

 

 

INTRODUZIONE.

 

Durante l'estate del 1987, mi trovavo a trascorrere le vacanze estive

nell'isola di Creta, insieme con mia moglie e i miei due bambini. Eravamo

alloggiati in un piccolo hotel nello stupendo paesetto di Paleochora, dove le

rocce delle più alte montagne cretesi si gettano a picco nell'azzurro e

selvaggio mare di Libia.

      Guardando l'orizzonte mi sembrava di sentire, diritta davanti a me, la

presenza dell'Africa, confermata dal fatto che l'autoradio riusciva a captare

soltanto stazioni in lingua araba.

      In quel periodo, nel quale mi dedicavo già intensamente allo studio

delle origini del cristianesimo, venni a sapere che alcune navi greche, in

partenza dal porto di Iraklion, raggiungevano il porto israeliano di Haifa,

trasportando anche auto e passeggeri per pochi soldi.

      Decisi allora di approfittare di questa occasione, per dare finalmente

un'occhiata ai luoghi su cui tanto avevo letto e studiato, e per scattare

numerose fotografie. Avrei visitato le località descritte nei Vangeli: Cesarea, la

città ove risiedevano i procuratori romani, fra cui Ponzio Pilato; Qumran, il

suggestivo ritrovo degli Esseni, sulle rive del Mar Morto. Avrei forse risolto

quello che per me, da alcuni anni, era un profondo e affascinante mistero

personale: l'enigmatica città di Gamala, sulle alture del Golan, che nasconde

probabilmente il segreto del cristianesimo primitivo.

      Non avevo fatto i conti con la fortuna, la quale non era dalla mia parte;

infatti proprio quando ero sul punto di acquistare i biglietti, venni a sapere che

un commando di terroristi palestinesi aveva seminato la morte su una nave

greca in partenza dal Pireo. Fu abbastanza per scoraggiarmi. Le nostre ferie

sarebbero continuate così come erano iniziate: una vacanza balneare sulle

quiete spiagge del mediterraneo. Per questa volta niente viaggio in quella che

molti definiscono terra santa, ma che appare come una terra tormentata,

incapace di trovare il suo agognato equilibrio politico, da sempre... e, forse, per

sempre.

      L'evento tragico che mi aveva impedito di imbarcarmi sulla nave diretta

verso la Palestina, e che aveva il suo movente nelle tensioni sociali di Israele,

apparve subito ai miei occhi come una straordinaria ripetizione storica. Il fatto

è che, proprio in quel periodo, ero intensamente impegnato a scrivere il mio

primo lavoro sulle origini del cristianesimo , e tutti i giorni leggevo e studiavo

qualcosa che riguardava il dramma storico del popolo di Israele, vittima in casa

propria di plurisecolari dominazioni straniere. In particolare il mio interesse

riguardava l'epoca in cui i vessilli imperiali di Roma sventolavano sulla terra di

Gesù, e le contrade di Palestina, e di tutto il mediterraneo, erano insanguinate

dal fervore patriottico e religioso degli intransigenti zeloti: i partigiani del malkut

elohim .

      Oggi, a duemila anni di distanza, lo stesso fervore patriottico e

religioso continua a versare sangue per una causa di liberazione della

medesima terra; col mitra e con le bombe invece che col pugnale o con la

spada. Ma non è questa l'unica differenza; la situazione si è praticamente

ribaltata nei confronti degli ebrei, i quali hanno ingenuamente creduto di poter

tornare dopo venti secoli, e di ritrovare la stessa patria da cui erano stati

barbaramente scacciati, ed hanno trovato invece una terra che a loro è

diventata straniera, in cui sono irreversibilmente radicate, da secoli, genti

arabe e musulmane.

      E così Israele, il popolo degli antichi zeloti, combattenti e martiri di

Yahweh e della libertà, è diventato il dominatore contro cui è diretto l'odio

politico e religioso dei nuovi intransigenti ribelli: i combattenti e, amaramente,

anche i martiri di Allah.

      Adesso sono passati esattamente dieci anni dalla vacanza che

trascorsi a Creta e dall'episodio dell'attentato palestinese sulla nave greca che

mi scoraggiò dal partire per Israele; dieci anni nei quali sembra che le cose

non siano assolutamente migliorate nella situazione medio-orientale; dieci anni

nei quali sono successe cose di estrema importanza e gravità. La popolazione

israeliana è fortemente aumentata di numero e ha continuato a insiedarsi nei

territori palestinesi. La guerra del golfo ha imperversato col suo accento di

pericolosa minaccia su tutto il mondo, il quale ha assistito in diretta televisiva

alla pioggia dei missili scud di Saddam HussEn e alle acrobazie dei

contromissili patriot, in una sorta di "war game" mozzafiato, con vere vittime e

veri contendenti. L'intifada e la "guerra dei sassi" hanno fatto parlare di sé. Gli

attentati palestinesi hanno continuato a colpire gli inermi e gli innocenti e si è

sviluppato il fenomeno dei bomber kamikaze. Rabin ha dato inizio ad un

tentativo di dialogo e di pacificazione, è nata così la Palestinian Authority,

sotto la guida del leader Yasser Arafat. Ma Rabin è stato assassinato, sotto

gli occhi del suo popolo e del pubblico televisivo planetario, da un esponente

fanatico della ortodossia ebraica, intollerante verso ogni forma di dialogo coi

palestinesi. Il popolo degli israeliani, chiamato alle urne, ha scelto la destra e

ha eletto il falco Netanyahu, iniziando a stracciare così gli accordi del

precedente incontro di Oslo.

      Quest'anno ho finalmente coronato il mio sogno di visitare la Palestina

e, proprio una settimana fa, il giorno 30 Luglio 1997, mi è capitato di trovarmi a

Gerusalemme quando due bombe umane, esplose con soli venti secondi di

intervallo l'una dall'altra, hanno nuovamente seminato morte e terrore nel

mercato di Mahaneh Yehuda, facendo volare tutt'intorno frammenti di

cocomero e brandelli umani, a soli trecento metri dall'immancabile Mc

Donald's in cui ero solito recarmi.

Se è vero che queste esperienze dirette, con la loro drammatica

carica emotiva, hanno il potere di turbare profondamente, è anche vero che

esse possono fornire ottimi spunti di comprensione della situazione che,

duemila anni fa, caratterizzava la lotta fra ebrei e romani e costituiva l'ambiente

storico-politico in cui ha avuto origine il cristianesimo primitivo. Infatti sono

proprio questi sviluppi recenti del conflitto arabo-israeliano, nonché certi aspetti

culturali della crisi medio-orientale, che possono offrire preziosi elementi di

interpretazione a chi si occupa, come me, di comprendere in chiave storica

quel misterioso ed affascinante processo da cui ebbe origine il cristianesimo.

E' vero che tante cose sono cambiate, ma è anche vero che alcune condizioni

umane sono rimaste invariate

      Si rifletta per esempio sul modo di combattere di certi gruppi

palestinesi moderni: da un lato essi esibiscono un incontenibile odio

sanguinario, segno di una ben stagionata esasperazione, dall'altro una

incredibile vocazione suicida assai poco occidentale, segno di uno connubio

indelebile fra la fede politica e quella religiosa.

      Duemila anni fa, i sicari e gli zeloti insanguinavano la terra di Palestina

con le loro azioni violente, simili alle azioni dei commandos Palestinesi, se

non per le tecniche di guerriglia adeguate ai tempi, colpendo non solo il

nemico imperiale, ma anche tutti quegli ebrei nei quali era riconosciuta una

attitudine di connivenza coi romani, o anche semplicemente una mancata

partecipazione attiva alla lotta per la liberazione politica e religiosa di Israele.

Insomma, a colui che si aggirava per le strade della Gerusalemme dei tempi

del secondo tempio , fra guardie armate e posti di blocco, proprio come oggi,

poteva capitare benissimo, sempre come oggi, di trovarsi coinvolto in un

attentato o in una azione di guerriglia compiuta in nome di Dio. Con la

differenza che allora si trattava di Yahweh, non di Allah.

      Credo che il concetto della guerra santa e dell'eroismo religioso-

militare sia molto più semitico che indo-europeo, almeno al giorno d'oggi, e

che, tutto sommato, nemmeno lo spirito dei crociati possa lontanamente

essere messo a confronto con quello degli antichi zeloti o dei moderni fedain.

Le basi culturali dell'idea teocratica che osserviamo in Israele e nell'Islam non

sono ariane; i cristiani occidentali, i popoli che scrivono da sinistra a destra,

sono figli della civiltà ellenica, madre del pensiero razionale, e di quella latina,

madre del diritto laico. Quand'anche il potere politico e quello religioso si sono

affiancati, nella storia dell'occidente, si è trattato solamente di una simbiosi

opportunistica, appartenente molto più al fare che al sentire.

      I figli di Yahweh e di Allah, invece, i popoli che scrivono da destra a

sinistra, si riconoscono tradizionalmente come tali nel rapporto profondo fra la

società umana e il suo creatore; non possono concepire, pertanto, un diritto e

una legge di natura esclusivamente laica.

      E' proprio per questo motivo che certi caratteri della crisi arabo-

israeliana possono illuminare colui che cerca di capire il contesto socio-

culturale in cui si svolsero i fatti che riguardano le origini del cristianesimo.

Infatti oggi abbiamo davanti agli occhi l'esempio vivente del medesimo spirito

che animava, duemila anni fa, certi conflitti. Uno spirito etnico-religioso che lo

studioso occidentale, cresciuto ed educato in ambiente cristiano, non può

ritrovare nella propria cultura.

      E' proprio questa distanza psicologica che produce, in occidente,

l'incapacità diffusa di comprendere e di interpretare storicamente il dramma

della setta cristiana primitiva. Ed è esattamente su questa difficoltà che ha

speculato la chiesa romana, facendo redigere ai propri scribi una storia delle

origini cristiane che ha revisionato completamente i fatti e il loro senso storico.

Potremmo individuare nella persona di Eusebio di Cesarea uno dei

rappresentanti emblematici della inclinazione a piegare tutte le verità in

funzione della verità ecclesiastica. Ed ecco che agli occhi del cristiano

moderno il Vangelo, gli Atti degli Apostoli, le persecuzioni, la conversione di

Costantino e tutti gli annessi e connessi storici della nascita e dello sviluppo

primitivo del cristianesimo, come sono normalmente conosciuti, per quanto

intrisi di distorsioni apologetiche e leggendarie, appaiono molto più verosimili di

quella che deve essere stata, invece, la realtà: una verità storica in netto ed

inconciliabile contrasto con la verità di fede.

      Il fatto è che in Europa, nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, gli

ideali di liberazione nazionale e popolare sono sempre stati associati ad una

visione rigorosamente laica della politica; era la chiesa romana, per la sua

alleanza col  potere dei sovrani e degli imperatori, che costituiva l'ostacolo alla

emancipazione dei popoli verso l'autodeterminazione e la democrazia

moderna. L'unità d'Italia fu fatta attraverso la breccia di Porta Pia, sparando

contro le milizie dello stato pontificio. Per non parlare poi degli ideali di

liberazione sociale ed economica, della rivoluzione del proletariato, ispirata al

materialismo storico di Marx e di Engels. La religione è l'oppio dei popoli, è

stato uno degli slogan dei rivoluzionari occidentali moderni. E così le più

recenti forme esasperate della lotta politica europea, tanto di destra quanto di

sinistra, non ci forniscono certo un'immagine paragonabile a quella della lotta

islamica: assoluto laicismo o convinto anticlericalismo da una parte, fanatismo

religioso dall'altra.

      Con quale attitudine allora un occidentale moderno, cresciuto in

ambiente cristiano, può accogliere l'idea che il movimento cristiano primitivo

potesse non essere un semplice gruppo formatosi intorno al pacifico "figlio di

Dio" per occuparsi di sola spiritualità, ma una intransigente comunità religioso-

militare, rappresentante di quella dissidenza ebraica che ha prodotto numerosi

aspiranti messia e che ha causato, col suo irriducibile zelo Yahwista, la

disfatta completa di Israele? Direi che tale idea, per l'impatto che essa

produce contro l'immagine abituale del cristianesimo e del suo presunto

fondatore, ha tutte le caratteristiche per confutarsi da sola e per coprirsi di un

automatico ridicolo.

      Ma, come spesso si verifica, la realtà è paradosso e ciò che è ovvio ed

evidente può non essere affatto vero. Come non è affatto vero, non ostante

l'evidente apparenza, che il sole ruoti intorno alla terra e che la tesi di Galileo

Galilei, al suo tempo automaticamente ridicola, fosse un delirio eretico contro

gli infallibili insegnamenti della Chiesa.

 

 

PRIMO IMPATTO CON ISRAELE.

 

Io e mia moglie abbiamo deciso di partire per Israele un mese fa, tre o

quattro giorni prima che ciò accadesse realmente. Tutto era già pronto: le

ferie, il passaporto, la carta di credito, i figli in vacanza per conto proprio.

Sebbene avesse da molto tempo un posto privilegiato nei miei

desideri, questo viaggio non è stato programmato; la decisione e l'attuazione

sono state improvvise. E così il pomeriggio del sabato 12 luglio 1997, quasi

inaspettatamente, ci siamo trovati all'aeroporto, ciascuno con un sacco da

montagna semivuoto sulle spalle. Avevamo portato solo un po' di biancheria,

un paio di camicie e di pantaloni, un maglione, una borraccia, gli effetti per

l'igiene personale, la macchina fotografica e i documenti, nient'altro. Una

piacevole brezza soffiava a Fiumicino mentre salivamo le scale dell'airbus

Alitalia che percorre il tratto Roma - Tel Aviv. I motori stavano già rombando e

dopo pochi minuti eravamo lanciati nel cielo, mentre dal finestrino appariva la

costa tirrenica della nostra penisola italiana.

Un veloce sguardo su Napoli e il suo golfo, era addirittura possibile

distinguere perfettamente, uno per uno, i faraglioni di Capri. Poco dopo uno

sguardo sulle montagne calabresi, sulle quali si innalzavano, come statue di

marmo, fieri cumuli bianchi, e poi la sconfinata distesa del mare Ionio. Non era

passato molto tempo che cominciarono ad apparire le tre dita del

Peloponneso, una dopo l'altra, e, in men che non si dica, l'isola di Creta, con

le sue montagne altissime. La luce radente del tramonto scolpiva il paesaggio

con eccezionale nitidezza. Poi il mare, nient'altro che il mare, e il progressivo

degradare dei colori del cielo, attraverso sfumature prima arancioni e poi

violette, verso il nero profondo della notte.

Sono occorse circa tre ore per giungere a Lod, dove si trova l'aeroporto

Ben Gurion, presso Tel Aviv, per proiettarsi dalla realtà della nostra vecchia,

bonacciona Italia, dove tutto viene preso non completamente sul serio, a quella

del giovanissimo stato di Israele, dove tutto viene preso, forse, un po' troppo

sul serio. Qui l'attraversamento della dogana e del check point non è stato

troppo complicato: una signorina ci ha chiesto semplicemente perché eravamo

venuti in Israele e dove avevamo intenzione di andare, poi ha timbrato il

passaporto, ha riempito il modulo di un semplicissimo visto e, con questo, ci

ha dato il benvenuto nella terra di Giuda, per un massimo di tre mesi. Niente

interrogatorio, niente fastidioso controllo dei bagagli, come qualcuno invece

aveva predetto.

      Tutto sembrava normale, come in qualsiasi altra città del mondo

occidentale, se non fosse stato per le scritte in ebraico che hanno un aspetto

irrimediabilmente illeggibile e ininterpretabile. Via vai di gente, turisti,

giapponesi, parenti che si abbracciano... In questo clima niente affatto

sorprendente ci siamo avviati verso l'esterno dell'aeroporto, cercando un

autobus che ci portasse verso il Top Hotel di Tel Aviv, in cui una camera

prenotata ci attendeva. Ma il primo impatto con la realtà israeliana non si è

fatto aspettare molto. Non solo la calura umida dell'aria estiva meridionale ci

ha aggrediti, densa come una pasta appiccicosa, ma una emblematica

circostanza che, senza mezzi termini, ci ha fatto capire in quale clima politico

ci trovavamo. Infatti, appena trovata la fermata del bus n  475 e appena

appoggiati in terra i nostri sacchi, un giovane alto e deciso si è avvicinato

correndo e ha gridato: - Take your bag and go back!  - e ancora: - Everybody

back! Go back!  -. A poca distanza, nel mezzo della strada sostava una

camionetta della security.

      Per farla breve, basterà dire che si trattava di un allarme bomba,

praticamente abituale in questo paese, una situazione con cui, purtroppo, la

gente di Israele deve convivere spesso. Il traffico si è fermato, la gente si è

rifugiata nell'aeroporto e dopo una quindicina di minuti tutto è tornato alla

normalità. L'allarme, anche per questa volta, era falso. Uno degli aspetti che ci

ha colpito di questa situazione è stato il comportamento di una signora sulla

quarantina, ebrea, molto distinta, che si è sentita in dovere di spiegarci, in un

inglese di facile comprensione, che questa circostanza non era affatto

inconsueta. Ci indicava i poliziotti che compivano il loro dovere ispezionando i

recipienti per la spazzatura e accompagnava il suo parlare con grandi sorrisi

mostrando, piuttosto che rabbia, disappunto o dolore, un certo

compiacimento. A noi, esattamente come ad una coppia di turisti danesi che

stavano al nostro fianco, ella dava l'impressione di essere sostanzialmente

orgogliosa della circostanza, come a voler lasciare intendere: "vedete come

sono cattivi i nostri nemici, ma noi siamo bravi e forti e non ci lasceremo

scoraggiare". Forse la gentile signora non si rendeva conto che, in realtà, a

qualunque turista straniero, che assiste ad un simile episodio, non può che

venire in mente una logica domanda: "cosa spinge i vostri nemici ad odiarvi

tanto?". Ed è proprio su questo aspetto che gli israeliani danno l'impressione

di essere stati educati ed abituati a non riflettere molto; come se a loro

spettasse soltanto di condannare le azioni del nemico nei loro confronti e non

di analizzarne le ragioni. La loro illusione è proprio quella che scoprire di avere

eventuali responsabilità nella genesi del conflitto non sarebbe né utile né

necessario al futuro del paese. E di questo sbaglio molti, specialmente gli

innocenti, pagheranno ancora il prezzo, purtroppo.

Dopo poco eravamo in albergo, ma il fatto, più del volo e del check

point, ci aveva dato la netta percezione che l'Italia era lontana, dietro le nostre

spalle, e che ci trovavamo in medio oriente.

      Era mezzanotte quando avevamo sistemato i nostri pochi averi nella

camera, ed avevamo anche già provveduto all'inevitabile "tutto bene" telefonico

ai parenti in patria, quando ci siamo guardati in faccia intuendo che entrambi ci

ponevamo la stessa domanda: "Hai voglia di fare quattro passi?". Dopo poco

eravamo per strada, con la tipica incertezza di chi non sa se lo aspettano le

insidie notturne di una buia e solitaria città, o che altro. Ma è bastato svoltare

un angolo per trovarsi sul lungomare di Tel Aviv, in pieno centro cittadino, su

una strada brulicante di folla, soprattutto giovani, in un'atmosfera che, ad un

primo impatto, ricorda il passeggio notturno riminese, fra locali, ristoranti,

bande di ragazzi allegri, persone che si esibiscono suonando e cantando...

      Anche se eravamo totalmente inesperti della realtà ebraica abbiamo

intuito che si trattava del clima di esaltazione e di euforia che segue,

specialmente nei mesi estivi, la fine dell'austero Shabbat, ovverosia del periodo

compreso fra il tramonto del venerdì e quello del sabato , in cui la legge

religiosa ebraica impone di osservare una serie molto complicata di obblighi e,

soprattutto, di restrizioni. L'avremmo scoperto una settimana dopo che cosa

significa lo Shabbat, quando le città ebree quasi si desertificano, il traffico

automobilistico si dirada, i mezzi pubblici scompaiono, i negozi e i ristoranti

sono rigorosamente chiusi, ed è persino disdicevole guardare la televisione,

accendere un tostapane, usare un telefono cellulare, maneggiare denaro;

anche premere un tasto per accendere la luce o chiamare l'ascensore è

vietato all'ebreo osservante. Tutto questo mentre i quartieri arabi, invece,

continuano indifferenti la loro vita movimentata e chiassona, coi ristoranti aperti

e la gente sulla porta dei negozi che ti invita insistentemente ad entrare per

dare un'occhiata.

      L'unico lato delle nottate estive sul lungomare di Tel Aviv, che non si

può ritrovare a Rimini, è il grande numero di persone, in divisa da soldato ma

anche in borghese, che portano a tracolla un enorme fucile mitragliatore,

mescolandosi con indifferenza alla folla e partecipando all'euforia collettiva.

Anche le ragazze, in genere alte, more e belle, indossano le divise e portano

queste armi minacciose. Basta poco per rendersi conto che il clima riminese è

solo un aspetto, il più superficiale, di questo ambiente. La recente esperienza

dell'allarme di fronte all'aeroporto e il gran pullulare di mitragliatori nelle mani di

questa bella gioventù ci faceva chiaramente percepire che la pace di Israele è

un equilibrio precario, sotto il quale si nasconde la tensione e il terrore e, non

di rado, anche il dramma.

 

 

ALL'UNIVERSITA' DI TEL AVIV.

 

      Il giorno successivo sono andato a trovare una persona che conoscevo

solo attraverso una precedente corrispondenza epistolare.

Sarà bene che spieghi il come e il perché di questa conoscenza.

Come ho già accennato, una breve sintesi dei miei studi sulle origini storiche

sul cristianesimo è stata pubblicata on-line ; si tratta di un documento che,

una volta stampato, occupa una trentina di pagine. In un primo tempo l'avevo

creato in italiano, con una versione inglese tradotta da me stesso che,

pertanto, doveva apparire grezza e piena di errori a coloro per i quali l'inglese è

la lingua madre. Un giorno, più di un anno fa, ho ricevuto nella mail-box un

messaggio elettronico da un certo professor Daniel Gershenson, ebreo di

origine americana, della facoltà di Studi Classici dell'Università di Tel Aviv, che

si complimentava per i contenuti del mio articolo e che si proponeva per

ritradurlo in un "decent english". Ovviamente ho accettato volentieri ed oggi il

documento è leggibile anche in inglese corretto.

Questo contatto non è rimasto isolato e fra me e il professore è

seguita una lunga corrispondenza, con scambi di opinioni. Poiché egli è un

conoscitore di problemi linguistici, relativi soprattutto alle lingue classiche

latina, greca, ebraica antica, aramaica, nonché della letteratura

neotestamentaria , ho approfittato per chiedere verifica di alcune delle mie

interpretazioni storiche sulla vicenda di Cristo ed ho avuto molta soddisfazione

nel constatare che Gershenson le ha sempre considerate molto interessanti e

verosimili. Al punto da utilizzare il mio articolo per una conferenza tenuta

all'università da una sua allieva, che ha sollevato un grande interesse e un

grande entusiasmo nel pubblico; ovviamente un pubblico di addetti ai lavori:

studenti e professori.

      Poco prima di partire per Israele avevo contattato nuovamente il

professore, sempre attraverso la posta elettronica, e lo avevo avvertito del mio

arrivo. Ed ecco che domenica 13 luglio (a Tel Aviv la domenica è un

normalissimo giorno lavorativo), io e mia moglie ci siamo recati all'università

per incontrarlo. Si tratta di un signore vicino alla sessantina, non molto alto e

con qualche chilo di peso in più, col suo kippa da ebreo osservante in testa,

che appena ci ha incontrati nel corridoio del Guilmal Humanities-Building, ci ha

immediatamente riconosciuti, anche senza averci mai visti prima, e accolti con

entusiasmo.

      Nel suo ufficio un impianto di condizionamento in funzione non si

limitava a mitigare il caldo umido, ma produceva una corrente gelida capace di

mettere a repentaglio le articolazioni sudate di chiunque fosse entrato nel

locale. Un vecchio rudimentale computer, di quelli che operano ancora sotto il

sistema DOS, occupava il lato destro della scrivania e la tastiera era piena di

caratteri ebraici, a fianco di quelli latini. Naturalmente, come si addice allo

studio di un letterato, le pareti erano nascoste da scaffali pieni di libri, che

diminuivano lo spazio già modesto della piccola stanza.

      Il professore ci ha raccontato di alcune sue avventure archeologiche e

degli studi sul ritrovamento di un cimitero canino presso Ashkelon, ovverosia di

un luogo dove gli antichi seppellivano i cani morti. Confesso di avere ascoltato

con un certo disinteresse. Più tardi ci ha portato a visitare un museo interno

dell'università, il Museo della Diaspora, dove ci siamo dovuti sorbire i modellini

di tutte le sinagoghe presenti nel mondo, fra cui non mancava quella di

Firenze, col suo aspetto familiare ai nostri occhi.

      Per me la parte più interessante dell'incontro con Gershenson è stata

il suo commento ai miei scritti, sostanzialmente positivo, che mi ha dato

l'impressione concreta di quanto sia importante, nel condurre un lavoro di

ricerca, non essere ideologicamente coinvolti in esso. Mi riferisco al fatto che,

all'interno di un paese cristiano, tutto il mondo accademico che si occupa

dell'indagine storica sulle origini del cristianesimo è rigorosamente legato ai

presupposti della fede e della dottrina religiosa, al punto che una visione

oggettivamente scientifica del problema può realizzarsi solo in ambiti ristretti,

inevitabilmente condannati all'emarginazione. Per il resto tutta la ricerca

cristiana ha carattere difensivo o apologetico e può difficilmente definirsi lavoro

scientifico.

      Per Gershenson, al contrario, parlare di Cristo ed esaminarne

criticamente la personalità storica, è esattamente come parlare di Gengis

Khan, o come sarebbe per un cattolico esaminare le personalità storiche di

Buddha e di Krishna, non incontrando alcun ostacolo pregiudiziale all'idea che

gli elementi storici, che emergono dalla documentazione disponibile, e quelli

leggendari, che emergono dalla dottrina, debbano assolutamente essere

separati. E' di questa separazione che mancano i presupposti nella ricerca

cristiana sulle origini del cristianesimo, e non credo affatto di affermare cosa

esagerata nel dire che la stragrande maggioranza degli studiosi cristiani

indaga più per trovare conferme che per trovare novità.

      Nel mio dialogo col professor Gershenson mi sono sentito in dovere di

scoprire se un'influenza del genere non si verificasse anche nel momento in

cui un ebreo è invitato a discutere della storia religiosa del suo popolo. E,

come potevo aspettarmi, ho constatato che è esattamente così. Nessuno,

specialmente gli accademici, può facilmente mettere in discussione i

presupposti della propria fede, o quelli del proprio entourage culturale.

      L'argomento che ho proposto allo scopo di indagare questo aspetto

era la personalità storica di Mosè, facendo riferimento ad un libro, "Mosè e il

Monoteismo", scritto da Sigmund Freud, ben noto per la sua appartenenza al

popolo ebraico, nel quale il fondatore della scienza psicoanalitica mette

seriamente in discussione la comune immagine storica del grande maestro di

Israele. Non è adesso che voglio entrare nel merito della questione relativa a

Mosè, lo farò più tardi, quando parlerò del deserto di Giuda; per ora desidero

semplicemente far notare che la reazione del professore alla mia osservazione

è stata emblematica: un sorriso, una alzata di spalle, un'espressione del tipo

"sciocchezze, Freud apparteneva ad una famiglia di ebrei particolari, con una

tradizione culturale non del tutto ortodossa". Naturalmente non sono state

queste le parole letterali, ma questo era il senso della risposta.

      Non credo che sarà mai uno studioso ebreo ortodosso a separare il

Mosè della storia da quello del mito e a illuminare il mondo sulla vera

personalità storica del profeta. Così come non sarà mai uno studioso cristiano

a rivelare il Cristo della storia.

 

GERUSALEMME.

 

      Quasi esattamente tremila anni fa, su un colle verdeggiante che

raggiunge l'altezza di oltre ottocento metri, al centro di quella regione che oggi

è chiamata Giudea, circondata a destra e a sinistra da terre desertiche,

Davide, della tribù di Giuda, unto re dal profeta Samuele, individuò il luogo

ideale per edificare la capitale del suo regno. Davide era riuscito a prendere il

posto di Shaul, primo re di Israele, che aveva esteso il suo potere su tre tribù

solamente: quella di Beniamino, a cui apparteneva, quella di Galaad, e quella

di Efraim. In un primo tempo Davide era stato eletto re di Giuda ma, a seguito

di complicati eventi, dopo la morte di Shaul era riuscito ad unificare Giuda ed

Israele creando un regno unico, che comprendeva tutte e dodici le tribù. Non

riusciremo mai a capire abbastanza quanto artificioso fosse questo

raggruppamento forzato di tribù, diverse probabilmente per lingue, abitudini e

per trascorsi religiosi. La presunta omogeneità e unicità del popolo ebraico,

così come la Bibbia ce lo rappresenta, ha un carattere dubbio: le vicende

storiche, mostrandoci un regno che, in due millenni di storia, ha saputo restare

unito per soli settantacinque anni , indicano come il popolo degli ebrei si sia

formato come un'entità eterogenea, figlia di operazioni politiche che risalgono

a tremila anni fa. Non si tratterebbe, pertanto, di una unicità testimoniata dalla

Bibbia, ma piuttosto di una unicità creata dalla Bibbia.

      Infatti il problema che si presentava, al tempo di Davide, per facilitare

l'accordo fra le numerose tribù e la stabilità del regno così costruito, era quello

di favorire il maggior numero di fattori di coesione: una capitale che non fosse

contestabile, una religione comune, una tradizione culturale unificante e,

eventualmente, un tempio. Ed è per questo che divenne urgente stabilire

un'autorevole capitale, in una buona posizione strategica e politica, nonché

comporre una serie di leggende a sfondo religioso, attraverso le quali il popolo

potesse superare le divergenze e le conflittualità tribali, potesse acquisire una

propria identità unitaria, potesse maturare un orgoglio del proprio essere.

L'operazione migliore, a questo fine, è senz'altro quella del conferimento di

una coscienza etnico-religiosa, valida a quel tempo ma, come possiamo

constatare anche oggi, validissima anche nel ventesimo secolo dopo Cristo.

Dunque, quella che oggi conosciamo come Bibbia trovò le primissime ragioni

della sua nascita in queste motivazioni.

Ed ecco che Davide si affrettò a individuare in Gerusalemme il luogo

adatto per la sua capitale. Gerusalemme (Yerushalayim), il cui nome (città

della pace) deriva dalla radice "ur", che significa città, e da quella  delle parole

"shalom" o "salam", che significano pace, era inizialmente una città cananea

indipendente. Era fortificata, terrazzata, circondata da antiche mura. Per di più

essa aveva il raro pregio di possedere una sorgente d'acqua, Ghicon. Il fatto di

non essere pregiudizialmente legata ad alcuna delle tribù del regno la rendeva,

oltre a tutte le sue altre numerose qualità, adattissima per fare da capitale. Qui

Davide fece costruire il suo palazzo ed espresse la sua ambizione principale,

destinata a rimanere frustrata almeno finché lui visse: edificare il tempio.

Ma, come abbiamo detto, le strutture geo-politiche non sono sufficienti

a creare l'unità del paese, sono necessarie anche e soprattutto quelle culturali

e religiose e, al tempo di Davide, iniziò sicuramente il processo di redazione

scritta di quelle tradizioni che servivano a far sentire il popolo degli ebrei uno,

fiero e forte. Dio stesso doveva avere scelto questo popolo come prediletto e

doveva avergli assegnato quella terra; solo così gli ebrei avrebbero sentito la

Palestina come indissolubilmente propria e avrebbero interpretato l'inimicizia e

la lotta contro gli altri popoli aspiranti a dimorarvi, o già insediati, non come un

semplice servizio ai propri interessi, ma come una santa missione divina (lo

stesso sentimento religioso che oggi fa inconsciamente percepire, all'anima

più profonda e ortodossa di Israele, la presenza palestinese come una

indesiderabile impurezza del paese di Yahweh, una condizione innaturale e,

forse, provvisoria).

      Gerusalemme, nei suoi millenni di vita, si è sviluppata portandosi

dietro tutta la sua eredità storica, ed aggiungendone via via, sino a diventare

quella che essa è oggi: il punto di incontro e di scontro fra popoli, culture e

religioni, dove solo la minaccia del mitragliatore può garantire, ma non sempre,

un tollerabile equilibrio quotidiano. Oggi, visitandola con lo sguardo attento e

con la mente libera, questa città è una esperienza sconvolgente, capace di

mettere improvvisamente a nudo molti aspetti segreti della cultura umana. In

nessun altro luogo del pianeta è possibile, nell'arco di pochi passi, trasferirsi

da un mondo all'altro e valicare confini profondi che separano civiltà antiche e

abissalmente lontane. E' come nei sogni, o nei racconti fantastici, in cui Alice

è proiettata improvvisamente dalla realtà al paese delle meraviglie; o come

nella fantascienza e nelle più estreme speculazioni della fisica nucleare, in cui

si parla di universi paralleli fra i quali si ipotizzano eccezionali tunnel di

comunicazione spazio-temporale.

      Eppure Gerusalemme non è né un sogno, né una fantasia, ma una

concretissima realtà, nella quale i mondi paralleli esistono e hanno i loro

tunnel di contatto. Per me uno di questi è stato la Porta di Damasco, sul lato

settentrionale delle mura della città vecchia.

Il fatto è che il mio arrivo a Gerusalemme è avvenuto verso

mezzogiorno, dopo un viaggio in autobus da Tel Aviv che sarebbe dovuto

durare una quarantina di minuti. Uso il condizionale perché, seguendo le

buone abitudini di quasi tutte le metropoli moderne, le superstrade di accesso

a Gerusalemme, sin dalla più lontana periferia, sono intasate dal traffico e il

solo ingresso in città richiede oltre mezzora. Tutto questo, nonché l'edilizia

recente, i negozi, i turisti, fanno di Gerusalemme, nei pressi della stazione dei

bus, una normale città occidentale, il cui aspetto è reso singolare solo dalla

elevata presenza di ebrei nel loro caratteristico costume hassidico, ossia coi

tipici cappotti e cappelli neri, con le folte barbe scure o rossicce e, talvolta,

anche coi lunghi riccioli intonsi che scendono dalle tempie fin sulle spalle.

      Sin qui l'impatto è, direi, normale. Se non che è capitato che qualcuno

ci abbia immediatamente consegnato un volantino pubblicitario di un certo

Youth Hostel molto economico, situato all'interno delle mura della città

vecchia, dicendoci che erano disponibili anche camere doppie. "Ok" ci siamo

detti "vedere non costa niente". E così abbiamo preso un altro autobus e

abbiamo raggiunto il capolinea, nei pressi della Porta di Damasco. E qui

comincia il bello.

      La Porta di Damasco è l'apertura settentrionale principale che

consente di attraversare le mura e di penetrare nella città vecchia dalla parte

del quartiere arabo. Vi si accede da un piazzale da cui una larga scalinata

scende verso il ponte sul fossato, che si infila direttamente nella Porta. In alto,

seduto sul davanzale in pietra di una finestrella, un militare israeliano, col suo

immancabile mitra, controlla pazientemente la confusione sottostante. Il nome

da mille e una notte non poteva essere più appropriato per questo passaggio.

Già sul pontile di accesso una indescrivibile, brulicante folla multicolore,

praticamente di soli arabi, maschi e femmine, nei loro tipici costumi orientali,

si agita, si accalca ed urla da tutte le parti. Il tutto fra bancarelle improvvisate,

mucchi di verdura, di melanzane, di zucchine, di peperoni, di pulcini pigolanti,

mentre alcune donne riescono, con un virtuosismo da giocolieri, a

destreggiarsi con enormi cesti in bilico sulla testa, in mezzo a questo caos

senza ritegno.

      In men che non si dica la calca ci ha inghiottiti con le sue fauci e noi

ci siamo scambiati un sorriso dietro al quale c'era più sgomento che

compiacimento. "Dove siamo finiti?" è stato il nostro pensiero di turisti in cerca

di alloggio, mentre la corrente umana ci trascinava sotto la porta. Qui,

all'ombra dell'arco, dove il passaggio, per motivi difensivi, è stato reso non

rettilineo, ma a doppio angolo retto, ci siamo sentiti ancora più inghiottiti,

perché alla morsa della folla si è aggiunto l'abbraccio delle possenti mura

oscure. Le voci si mescolavano alle musiche arabe: suoni che sembravano

provenire dal passato remoto, fatti di arabeschi melodici e di ritmi che invitano

senz'altro alla danza del ventre. Armonie che nessuno di noi occidentali

potrebbe mai imitare.

      In breve il passaggio era compiuto [figg. 1 e 2] e siamo spuntati nuovamente

all'aperto, sotto il sole, ma all'interno della città vecchia. Qui, agli occhi del

turista, si apre un paesaggio che, dopo un paio d'ore di autobus e svincoli

metropolitani, evoca veramente le sensazioni di Alice. Il mondo reale è

scomparso, l'occidente è improvvisamente lontano migliaia di chilometri e

decine di secoli. Su entrambi i lati della stradella si aprono botteghine da

bazaar, piene delle merci più varie, mentre al centro alcuni hanno steso i loro

cenci in terra e su di essi hanno appoggiato le loro mercanzie. Da una parte

giunge l'odore, forte come una droga, di spezie profumate, che dalle narici

raggiunge direttamente il cervello. Gli occhi sono abbagliati dai mille colori

delle merci e degli abiti: fucsia, rosso, verde, giallo... Le orecchie sono

saturate dalle grida e dalle musiche che riempiono lo spazio. A completare il

quadro ci pensano i numerosi carretti, spinti a mano, ricolmi di carichi

pesantissimi, che riescono miracolosamente a spostarsi veloci in mezzo alla

folla. E questa si spalanca al loro arrivo, come le acque del Mar Rosso devono

essersi spalancate al comando di Mosè. Guai a colui che non è pronto a farsi

improvvisamente da parte, una proverbiale mazzata nelle ossa degli stinchi gli

insegnerebbe senza dubbio a non indugiare alla prossima occasione.

      E così abbiamo raggiunto lo Youth Hostel, ma quando ci siamo

affacciati alla scalinata ripidissima, che si infilava come un oscuro budello

dentro un edificio d'altri tempi, lo sgomento ha preso il sopravvento e ce la

siamo data a gambe levate, ripercorrendo i nostri passi e precipitandoci

nuovamente alla porta di Damasco. Per tornare, quasi con un respiro di

sollievo, all'esterno, in cerca del mondo reale, non quello di Alice, dove, forse,

saremmo stati capaci di trovare quello che normalmente si intende per hotel.

      Dopo una mezzora avevamo la nostra camera all'Hotel Menorah,

modesto ma comodo e più che soddisfacente, nella centrale e moderna King

David Street, accanto all'omonimo e ricchissimo King David Hotel, dove

alloggiano i "vip" e gli aristocratici.

      La porta di Damasco è dunque uno dei punti di contatto fra i mondi

paralleli che coesistono a Gerusalemme, forse il più spettacolare, ma non è né

l'unico né il più significativo. In realtà, visitando la città nei particolari, ci si

accorge che essa è composta non solo da mondi, ma da mondi nei mondi,

come una sorta di complicatissima matrioshka , non pienamente

comprensibile da alcuno. All'interno della città vecchia, per esempio, si

possono subito distinguere tre realtà: il settore islamico, quello ebraico e

quello cristiano. Ma subito il settore cristiano rivela le sue suddivisioni:

dobbiamo parlare di un settore cristiano nel quadrante nord-ovest della

cittadella e di un settore armeno nel quadrante sud-ovest, anch'esso cristiano

ma distinto dall'altro. I seguaci del rito armeno, a loro volta, si suddividono in

due categorie: quelli cattolici, uniti alla chiesa di Roma, e quelli non cattolici,

separati dalla chiesa di Roma.

      Nel quadrante nord-occidentale, quello cosiddetto cristiano,

riconosciamo presenze cattoliche e ortodosse, le quali convivono e si

spartiscono precise aree di competenza; come nella Chiesa del Santo

Sepolcro, dove la tradizione vuole che si siano svolti gli eventi conclusivi della

passione di Cristo: la crocifissione, la sepoltura, la resurrezione. E,

naturalmente, io non sono in grado di riconoscere eventuali suddivisioni

esistenti nell'area ebraica e in quella musulmana, ma ho tutte le ragioni per

credere che anche lì ne esistano.

      Le impressioni che ho provato, nel veder circolare nello stesso luogo i

religiosi di tutte queste diverse confessioni, ognuno nel suo costume, sono

sostanzialmente due: la prima è dovuta al fatto che questi ministri del Signore,

in genere barbuti e corpulenti (la tipica statura è quella dell'uomo alto, robusto

e panciuto), sono tutti immancabilmente maschi, a ribadire il concetto che

solo il testosterone abiliterebbe l'essere umano a farsi rappresentante della

divinità e maestro di cose spirituali; la seconda impressione è lo sgomento di

chi osa chiedersi quale sarebbe, fra tutte le dottrine e le interpretazioni

teologiche che appartengono alle diverse religioni, quella veritiera.

Ovviamente, ad una domanda di tal genere, qualcuno potrebbe essere

portato ad osservare che non sia da porsi nemmeno, ma non è ben chiaro se

questa presunta sconvenienza del quesito sia dovuta al dare per scontato che

le religioni sono tutte vie parallele verso la medesima verità, o al fatto che

ciascuno dà per scontato che la sua è la dottrina corretta e le altre sono, in

qualche modo, incomplete e sbagliate.

      Com'è possibile, in realtà, non sentire la domanda nascere in modo

spontaneo nella mente, dopo che sullo stesso marciapiede, nell'arco di cinque

minuti, si sono visti passare, con la loro andatura generalmente decisa e fiera,

un rabbino col suo turbante hassidico, un frate con la sua toga di tela bruna,

un pastore evangelista col suo abito grigio, un pope col suo cilindro nero in

testa, un religioso musulmano, un sacerdote armeno, un cristiano copto con la

barbetta riccioluta che biancheggia sulla carnagione etiopica scura?

 

 

LE AVVENTURE POLITICHE DELLA CITTA'.

 

      Alla fine della seconda guerra mondiale Gerusalemme si trovava sotto

il controllo occidentale; infatti gli inglesi, nel 1917, avevano scacciato i turchi

dalla città, la quale, a partire dal 1920, era stata dichiarata capitale della

Palestina e posta sotto il mandato britannico. Essa era abitata

prevalentemente da arabi musulmani, ma non mancava una consistente

presenza ebraica. Nel resto della Palestina il rapporto demografico fra ebrei ed

arabi era decisamente a favore di questi ultimi; in pratica gli ebrei erano meno

del 10% della popolazione ed erano legittimi proprietari del 2% del territorio

complessivo.

      I continui dissidi fra le due etnie, nonché l'alto numero degli ebrei

profughi della seconda guerra mondiale, convinsero l'ONU a formulare, nel

1947, una risoluzione equa che spartiva il territorio palestinese fra arabi ed

ebrei, prevedendo la nascita di uno stato ebraico e di uno stato palestinese,

mentre la città di Gerusalemme sarebbe stata dichiarata territorio

internazionale. La cosa non piacque a nessuna delle parti interessate e la

situazione precipitò in aperto conflitto, alla fine del quale gli ebrei avevano

conquistato più territori di quelli previsti dalla risoluzione ONU, avevano

dichiarato la nascita dello stato di Israele (nel 1948), lo stato palestinese non

era nato ma il suo territorio era stato inglobato nella Giordania, e

Gerusalemme risultava divisa in due (la parte vecchia, a est, in territorio

Giordano, e la parte nuova, a ovest, in mano ebraica).

      Nel 1967, in seguito alla firma di un patto comune di difesa fra

numerosi stati arabi, Israele prese l'iniziativa di un improvviso attacco aereo

che distrusse le basi dell'aviazione egiziana, siriana, giordana ed irachena, per

poi proseguire con combattimenti terrestri. Si tratta della cosiddetta guerra dei

sei giorni, al termine della quale gli israeliani avevano invaso e inglobato nel

proprio stato il Sinai egiziano (successivamente restituito), la striscia di Gaza,

il Golan siriano, i territori palestinesi controllati dalla Giordania e la parte est di

Gerusalemme [fig. 3].

      Da allora i palestinesi, un tempo abitanti naturali di quelle terre, hanno

dovuto scegliere fra l'esilio, lo sfollamento nei campi profughi, o vivere come

sudditi invasi, esattamente come lo erano gli ebrei ai tempi della dominazione

romana, subendo le continue restrizioni di libertà imposte dal governo al potere

e l'affronto degli insediamenti abitativi che gli israeliani continuano tutt'oggi a

costruire nel cuore dei territori arabi occupati.

      Per questo motivo la Gerusalemme moderna è una città piena di posti

di blocco, che separano la parte est da quella ovest, ed è guardata a vista da

un'armata di giovani soldati, soldatesse e poliziotti, armati fino ai denti, che

cercano di tenere la situazione sotto controllo e dovrebbero impedire, con

scarso successo, il verificarsi di episodi di terrorismo [fig. 4].

      Negli ultimissimi anni, grazie soprattutto alla politica moderata di

Ytzakh Rabin, lo stato Israeliano ha intrapreso un via di conciliazione, sfociata

nel trattato di Oslo, che riconosce l'esistenza di una amministrazione

palestinese, sotto l'autorità del leader Yasser Arafat, e coinvolge entrambe le

parti in un serio impegno di pacificazione reciproca. Se non che, nel novembre

1995, la destra ebraica intransigente è riuscita ad eliminare Rabin, facendolo

assassinare a Tel Aviv, e, nelle successive elezioni, il popolo ha preferito il

falco Netanyahu al moderato Peresh, iniziando ad ignorare il precedente

trattato di Oslo.

      Da allora, negli ultimi venti mesi, la situazione è sempre andata

peggiorando, la tensione è costantemente in aumento, le azioni dei terroristi

sono riprese, l'agitazione nei territori palestinesi è cresciuta e le città ebraiche

vivono una pace apparente che nasconde un continuo clima di paura. Proprio

in questi giorni, mentre scrivo queste parole, i razzi katiusha raggiungono il

nord del paese e Israele compie spedizioni aeree punitive sul Libano

meridionale.

      Non esiste alcun presupposto perché Gerusalemme diventi quella città

di pace che sostiene di voler essere. Al contrario, il futuro è gravido di

minacce.

 

 

GERUSALEMME EBRAICA.

 

      La religione ebraica non è fondata su una complicata gerarchia

ecclesiastica e non ha qualcosa che possa essere il corrispondente di ciò che

per i cristiani cattolici è il Vaticano. La vera autorità religiosa per gli ebrei è

costituita dalla Bibbia, in special modo dalla Torah, e l'unico luogo di culto che

gode di una posizione di rilievo è costituito dai resti delle mura del secondo

tempio, a Gerusalemme [figg. 5 e 6].

      Infatti, una delle prime visite che il turista straniero compie in questa

città è senz'altro quella dell'area in cui si trova il cosiddetto "muro del pianto".

Per raggiungerlo bisogna entrare nella città vecchia, sul lato sud, attraverso la

Porta dei Magrebini o Dung Gate, oppure, da nord, percorrere un labirinto di

stradine nel quartiere arabo. In entrambi i casi arriva un momento in cui

occorre oltrepassare un autentico check point, simile a quello degli aeroporti.

Si passa attraverso un detector magnetico, i militari israeliani invitano i turisti

ad aprire le borse e a mostrarne il contenuto, verificando che nessuno

introduca ordigni esplosivi e armi.

      Ai tempi dei romani, in modo del tutto analogo, i soldati imperiali

controllavano la folla degli ebrei per evitare gli attentati dei sicari, i quali

colpivano improvvisamente coi loro pugnali nascosti sotto le tuniche,

uccidendo i romani o gli ebrei considerati collaborazionisti e, spesso,

riuscendo anche a dileguarsi senza lasciare traccia.

      All'interno del grande piazzale antistante il muro c'è sempre molta

folla, in parte di turisti ma principalmente di ebrei. Alcuni di questi indossano

semplicemente il kippa, il tipico copricapo, mentre molti sono vestiti nel

caratteristico abbigliamento costituito da un cappello nero, giacca e pantaloni

neri, camicia bianca, tzitzit o frange rituali bianche che scendono lungo i

fianchi. In questa zona ci sono anche moltissimi ebrei ortodossi che

indossano il costume hassidico: un cappotto nero lungo e stretto, pantaloni

neri che arrivano a metà polpaccio, calzettoni e scarpe nere, una camicia

bianca, un cappello particolare che sta ritto sulla sommità del capo, perché ha

una misura che si adatterebbe ad una testa molto più piccola, essi lasciano

scendere i riccioli intonsi dalle tempie fino alle spalle; durante lo Shabbat il

cappello è sostituito da uno speciale turbante di pelliccia nera. Qualche volta i

fedeli indossano gli scialli di tela bianca con righe scure e frange.

      Naturalmente mi riferisco agli uomini, perché il ruolo religioso delle

donne è molto meno importante, esse devono semplicemente indossare abiti

modesti, che coprano i gomiti e le ginocchia, le donne sposate devono coprirsi

la testa con un velo. Al centro del muro c'è una transenna che separa il lato

degli uomini, a sinistra, dal lato delle donne, a destra.

      Dinanzi al muro i fedeli recitano versetti della Bibbia, compiendo

movimenti alternati in avanti e indietro col busto, come ad inchinarsi

rispettosamente alle vecchie pietre; alcuni inseriscono bigliettini di carta

ripiegata nelle fessure della roccia, contenenti preghiere. Qualche volta si

formano dei gruppi di persone che si abbracciano o si tengono per mano e

cantano, quasi ballando al ritmo delle loro cantilene. Alcuni vecchi, con le loro

lunghe barbe bianche e intonse, sono seduti e profondamente concentrati nella

lettura dei testi sacri.

      Anche i turisti non ebrei possono avvicinarsi al muro, ciascuno

nell'area del proprio sesso, purché i maschi indossino un kippa che viene

fornito all'ingresso dell'area transennata e le donne si coprano bene le spalle,

anche questa volta con uno scialle nero che è fornito all'ingresso.

      Il muro guarda verso ovest-sud-ovest, per cui è totalmente in ombra

nelle ore del mattino, mentre nel pomeriggio prende il sole direttamente e,

specialmente in estate, crea un clima molto caldo. Subito oltre il muro si trova

l'area sacra ai musulmani e i due mondi, lontani e conflittuali, convivono a soli

pochi centimetri di distanza. A separarli ci pensano quelle vecchie pietre, delle

quali le più basse, facilmente riconoscibili perché più grandi e consumate,

sono esattamente quelle che Erode il Grande, nel 20 a.C., fece mettere nel

corso dei lavori di ricostruzione del tempio.

Si tratta del secondo tempio, perché il primo era stato edificato dal re

Salomone, che era riuscito a realizzare il grande sogno del padre Davide.

Salomone aveva utilizzato tutte le risorse del paese, in termini di forza lavoro e

di ricchezza, al punto che con la sua pressione fiscale aveva finito per creare i

presupposti per quella che, poco dopo, sarebbe stata la scissione del paese in

due regni, quello di Israele, con capitale Samaria, e quello di Giuda, con

capitale Gerusalemme. Evidentemente ai samaritani non era piaciuto di essere

spremuti come limoni per costruire un tempio che non li riguardava molto da

vicino. La separazione avvenne all'incirca nel 933 a.C., meno di un secolo

dopo che Davide aveva unificato il paese. Essi crearono un tempio alternativo

sul monte Garizim, anche se li attendeva, dopo poco più di cento anni, il triste

destino della sanguinaria dominazione assira.

Il tempio di Salomone durò circa 350 anni, perché nel 587 a. C. il re

babilonese Nabucodonosor espugnò Gerusalemme, mise a ferro e fuoco la

città, distrusse il tempio e trasse in esilio buona parte della popolazione. E'

una realtà storica che molti conoscono attraverso la rappresentazione

melodrammatica dell'opera di Verdi, il Nabucco.

Dopo la dominazione babilonese fu la volta di quella persiana, a partire

dal 539. Fu Ciro a sconfiggere i babilonesi, a permettere il rientro degli ebrei in

Palestina e a inglobare la loro terra nell'impero persiano.

Quando Alessandro il Macedone sconfisse i persiani nel 333 a.C. la

dominazione diventò ellenistica, con alterne vicende sotto la dinastia dei

Tolomei e poi dei Seleucidi.

I romani, infine, subentrarono nel dominio della Palestina quando, nel

63 a.C., Pompeo entrò in Gerusalemme. Allo scopo di governare meglio il

paese i romani scelsero inizialmente un re intermediario nella persona di

Erode, detto il Grande. In realtà non si trattava di un ebreo, ma di un idumeo, il

quale però fece il possibile, anche se inutilmente, per legittimare la sua

posizione di fronte agli ebrei ed accattivarsene la simpatia. Sposò Mariamme

apposta per questo, poiché ella era asmonea, ovverosia di nobile sangue

ebreo, e, sempre per lo stesso motivo, decise di erigere un tempio ebraico in

Gerusalemme, a replica di quello che Salomone aveva fatto costruire nove

secoli prima. Gli ebrei chiamano il tempio di Erode secondo tempio, i cui lavori

cominciarono nel 20 a.C. e terminarono nel 64 d.C., solo sei anni prima che

Tito, allora figlio dell'imperatore Vespasiano, lo distruggesse completamente!

      Di quella costruzione rimangono in piedi alcune grosse pietre del muro

occidentale, ed è proprio di fronte a quelle che oggi gli ebrei vengono a rendere

omaggio alla memoria del loro antico luogo santo. E' quello il tempio in cui

Gesù avrebbe rovesciato i tavoli dei cambiavalute e avrebbe arringato i

sacerdoti coi suoi fatidici "Guai a voi!".

      Perché i romani, i quali avevano lasciato che Erode desse inizio ai

lavori e che ne consentirono il proseguimento anche dopo la morte di Erode,

fino al completamento del tempio stesso, lo distrussero del tutto nel 70 d.C.?

Per rispondere a questa domanda bisogna parlare delle numerose ribellioni

antiromane, che si sono susseguite durante tutto il periodo della dominazione

imperiale, sfociando in una sanguinosa guerra che segnò la disfatta completa

di Israele.

      Come abbiamo già avuto modo di accennare, fin dai lontani tempi della

dominazione assira, profeti come Isaia avevano annunciato la venuta di un

nuovo messia, l'Unto del Signore, che avrebbe liberato il paese dai suoi

dominatori pagani e che avrebbe ricostruito il "regno di Yahweh". I cristiani

usano l'espressione "regno di Dio", ma la intendono con un significato

assolutamente diverso da quello che essa ha nella mentalità e nella spiritualità

teocratica degli ebrei. Se il regno di Dio non è una cosa di questo mondo per i

cristiani, ma una condizione esclusivamente spirituale, per gli ebrei si tratta di

uno stato da realizzare nello spirito come nelle cose: per loro la liberazione

spirituale non può essere concepita come una dimensione distinta dalla

liberazione politica. Il messia ha da venire per punire gli empi, scacciare i

nemici, ricostruire l'unità del paese, ristabilire il culto. Questa è per gli ebrei,

una precisa volontà di Dio, chiaramente espressa nella Bibbia e inalienabile

nel suo significato.

      Al tempo della dominazione romana esistevano componenti della

popolazione ebraica, potremmo chiamarle "partiti", che non riconoscevano

l'autorità regale della famiglia erodiana, né quella religiosa dei sacerdoti del

tempio, accusando gli uni e gli altri di un connubio opportunistico ed empio

con l'invasore pagano, e che attendevano con ansia l'avvento del messia o,

piuttosto, che si sentivano direttamente coinvolti nel realizzare materialmente

l'avvento del messia. Questo fatto è importantissimo, anzi essenziale, per

capire le dinamiche storiche che sono alle origini del cristianesimo stesso.

Alcune delle componenti dissidenti di cui stiamo parlando si erano organizzate

in sette vere e proprie, fra cui dobbiamo nominare gli esseni, gli zeloti, i sicari,

i nazorei o nazareni, gli stessi giudeo-cristiani...

      Quante e quali fossero queste sette non sarà mai ben chiaro, così

come ad uno studioso del 4000 d.C. non sarà mai ben chiaro quanti e quali

partiti di ispirazione marxista siano esistiti nel ventesimo secolo, né le

sfumature ideologiche della loro fede politica oscillante fra le idee più

rivoluzionarie e il riformismo. Né riusciremo forse a capire se i nomi di setta

che abbiamo appena citato si riferiscano a movimenti completamente distinti,

a movimenti collegati, allo stesso movimento, o che altro.

      Il fatto è che i movimenti messianici dell'epoca del secondo tempio

hanno dato tanto di quel filo da torcere ai romani che, nella seconda metà del

primo secolo, la situazione è degenerata in una guerra aperta fra ebrei e

romani, conclusasi con l'assedio di Gerusalemme, la sua espugnazione, la

distruzione della città e del tempio da parte di Tito (70 d.C.), il massacro di

migliaia di ebrei, la riduzione in schiavitù di altrettanti, l'esilio e la diaspora per

altri ancora.

      Ecco perché gli ebrei, oggi, piangono dinanzi al muro.

 

 

SHRINE OF THE BOOK.

 

      La parte ovest di Gerusalemme ha l'aspetto di una città moderna con

caratteristiche decisamente occidentali, grandi strade, quartieri residenziali,

alcuni grattacieli che ospitano per lo più alberghi ed uffici. In questo settore

sorge un'area molto bella, piena di verde, in cui si trovano uno stadio, la

Hebrew University, il parlamento israeliano (Knesset), i principali ministeri, la

Bank of Israel e quello che è l'oggetto del nostro attuale interesse: lo Israel

Museum. Gli edifici del museo si trovano sulla sommità di un morbido colle,

dal qual è possibile ammirare un bel panorama su altri quartieri della città, e

ospitano diversi reparti: sale d'arte moderna, padiglioni di etnografia giudaica,

la sezione archeologica, locali utilizzati per mostre temporanee. In realtà il

settore su cui mi sono precipitato immediatamente, spinto da un interesse

quasi morboso, è quello chiamato Shrine of the Book (santuario del libro), che

ospita alcuni dei manoscritti del Mar Morto. L'edificio ha una struttura

architettonica curiosa e quasi geniale. Infatti, poiché i famosi rotoli del Mar

Morto furono ritrovati dentro alcune grotte, all'interno di giare in terracotta

chiuse con un caratteristico coperchio, l'edificio che ora li conserva è

praticamente scavato nel terreno, ha la forma di una giara e il suo tetto ha la

forma del coperchio. Quando il visitatore entra nell'edificio, ha la suggestione

dell'ambiente sotterraneo, come se egli stesse per ripetere la scoperta

archeologica, e prova l'impressione di penetrare all'interno di una immensa

giara. In questo locale la luce è soffusa e la temperatura nonché l'umidità sono

tenute rigorosamente costanti.

      Che cosa sono i manoscritti del Mar Morto? Iniziamo a rispondere

dicendo che nel 1947, quando lo stato di Israele doveva ancora nascere, le rive

del Mar Morto si trovavano parzialmente in territorio giordano (la riva orientale)

e parzialmente sotto il mandato inglese (la riva occidentale). In questo periodo

le strade d'accesso al lago erano scarse e rozze, e il territorio circostante era

la patria dei nomadi beduini, i quali spostavano qua e là i loro accampamenti e

il bestiame. A quel tempo, in inverno, un giovane pastore arabo di nome

Mohammed adh-Dhib, che probabilmente era in cerca di una capra smarrita in

prossimità della riva nord-occidentale del lago, scoprì casualmente una serie di

ingressi di grotte sul fianco di una pericolosa scarpata, in località Khirbet

Qumran. Il beduino entrò e trovò all'interno numerose giare abbandonate.

Tornato sul luogo con un amico cercò di recuperare le giare (potevano essere

utili per trasportare l'acqua) e i due scoprirono che i recipienti contenevano

alcuni rotoli di pelle avvolti in tele consunte [figg. 7 e 8].

      I beduini, per quanto inesperti di antichità, ebbero l'intuizione che

potesse trattarsi di materiale di valore che avrebbe procurato loro qualche

guadagno. Il percorso successivo dei manoscritti è cosa contorta e poco

chiara, al punto che non sapremo mai quanti manoscritti furono

originariamente trovati dai beduini, né se qualcuno ne tiene ancora nascosta

qualche copia per motivi di speculazione. Il fatto è che nel 1954 alcuni

manoscritti erano finiti nella camera blindata dell'Hotel Waldorf Astoria di New

York, da cui uscirono perché furono comperati dal governo israeliano al prezzo

di 250.000 dollari (con l'aiuto di un ricco benefattore). Altri manoscritti, invece,

erano finiti al Museo Rockefeller, nella parte est di Gerusalemme, in mano

giordana. Si formarono così due commissioni di studio indipendenti: una sotto

il controllo di Yigael Yadin, in Israele, e l'altra sotto il controllo di Padre de

Vaux, un sacerdote cattolico, in Giordania.

      A causa dei pessimi rapporti fra i due paesi, le commissioni lavorarono

sui manoscritti in modo del tutto indipendente, senza alcuna possibilità di

comunicazione, con tutti gli svantaggi della situazione. Era evidente che i

risultati degli uni avrebbero dovuto essere confrontati ed integrati con quelli

degli altri, ma la cosa non era possibile.

      Il problema fu risolto nel 1967 quando, in conseguenza della guerra dei

sei giorni, Gerusalemme est passò in mano israeliana e tutto quanto si trovava

in essa diventò proprietà del governo israeliano come bottino di guerra,

compresi i rotoli di Qumran conservati al Rockefeller Museum. E' curioso e

significativo l'atteggiamento assunto a questo punto da Padre de Vaux. Si dice

che egli, finché il materiale era in mano giordana, avesse cercato di impedire

l'accesso degli ebrei ai rotoli e che, al momento in cui questi passarono sotto

l'autorità ebraica, de Vaux fosse letteralmente infuriato e terrorizzato all'idea di

perdere il controllo dell'indagine sul materiale qumraniano. Qualche ragione lo

spingeva a mantenere la cosa sotto la sua stretta sorveglianza.

      De Vaux era un domenicano, che era stato inviato, a partire dal 1929,

alla École Biblique di Gerusalemme, nella quale fu prima insegnante e poi

direttore. Era un uomo carismatico, energico, accentratore, bigotto nella sua

fede, ostile agli ebrei, che in gioventù era stato membro dell'Action Française,

un gruppo decisamente di destra con simpatie verso le dittature nazi-fasciste

in Germania, Italia e Spagna.

      Il governo israeliano, che nel 1967 aveva ben altre cose da pensare

che ai rotoli del mar Morto, lasciò a de Vaux il compito di supervisionare il

lavoro di analisi e lo incaricò di formare e dirigere una équipe internazionale,

con l'impegno di pubblicare il più velocemente possibile i risultati delle

ricerche.

      Ovviamente l'espressione "équipe internazionale" fa pensare alla

precisa intenzione di creare un gruppo allargato, caratterizzato dalla presenza

di componenti diverse che potessero garantire una gestione del lavoro non di

parte. Ma in realtà fu esattamente il contrario di così. Gli israeliani non furono

mai invitati a partecipare al gruppo e tutti i componenti furono selezionati fra

cattolici, personaggi non laici e di stretta osservanza: Franck Cross, del

McCormick Theological Seminary di Chicago; monsignor Patrick Skehan,

direttore dell'Albright Institute; Padre Jean Starcky, della École Biblique; Padre

Maurice Baillet, francese; Padre Josef Milik, polacco; solo un certo John

Allegro non era un personaggio così chiaramente inquadrato come gli altri, ma

la sua presenza non fu tollerata per molto, fu presto estromesso e sostituito

con John Strugnell, che offriva garanzie di allineamento molto maggiori. In

pratica possiamo dire che sotto il controllo di Padre de Vaux , esponente

dell'ala più tradizionalista e conservatrice della chiesa cattolica, è stata creata

una autentica combriccola di persone che hanno posto sotto le proprie grinfie il

materiale qumraniano (è a ragion veduta che utilizzo questa terminologia poco

accademica), impedendone l'accesso a chiunque altro e ritardandone

all'infinito la pubblicazione.

      Perché tutto ciò? La ragione può essere individuata in un senso di

pericolo, riconosciuto probabilmente da de Vaux e subito condiviso della

chiesa cattolica: i manoscritti reperiti a Khirbet Qumran aprivano senz'altro la

porta ad una lunga serie di ripensamenti critici sul cristianesimo primitivo;

infatti essi contengono elementi che, non solo li legano al cristianesimo delle

origini, ma che mettono in grande discussione alcuni presupposti della dottrina

cattolica e della sua interpretazione storica sulla figura di Gesù Cristo. La

chiesa romana ha una posizione eccessivamente interessata nella questione,

e come tale non è l'organismo adatto per garantire l'oggettività di una indagine

storica e scientifica sui documenti del Mar Morto.

      Per queste ragioni di importanza primaria Padre de Vaux si è

adoperato affinché il materiale qumraniano venisse a trovarsi nelle mani di una

équipe capace di gestirlo negli interessi della chiesa e la cui interpretazione

fosse priva di danno alcuno nei confronti della dottrina cattolica.

Fortunatamente nel 1992 (dopo 25 anni di monopolio della équipe), la

situazione ha cominciato a sbloccarsi, grazie anche al grande putiferio

internazionale di critiche che nel frattempo si era sollevato contro l'équipe, e

molto materiale è stato reso pubblico. Ciò non ostante non ci libereremo mai

dal ragionevole sospetto che parte della documentazione possa addirittura

essere stata occultata e negata alla conoscenza della collettività. Senza

considerare che 25 anni di studio monopolizzato dalla chiesa cattolica hanno

lasciato una influenza culturale profonda che continua a condizionare

l'indirizzo interpretativo e occorreranno molti anni per riportare la situazione ad

un punto in cui si possa ragionare oggettivamente, partendo da basi realmente

disinteressate.

      Di cosa parlano, dunque, i rotoli del Mar Morto? Essi sono stati

riconosciuti come gli scritti di una setta ebraica dissidente che, a partire dal

primo secolo avanti Cristo, si sarebbe volontariamente autoesiliata sulle rive

desertiche del Mar Morto, a circa trenta chilometri in linea d'aria da

Gerusalemme. Qualcuno la riconosce in quella che Giuseppe Flavio e Filone

Alessandrino, nelle loro opere, chiamano setta degli esseni. Ma alcuni

elementi fanno intravedere una forte componente zelotica e potrebbero

addirittura portare alla conclusione che esseni e zeloti, almeno a partire da un

certo punto, sarebbero state due realtà profondamente intrecciate. I documenti

possono essere suddivisi sostanzialmente in due gruppi: da un lato i testi

biblici o i commentari ai testi biblici, dall'altro i testi settari, cioè contenenti

regole, statuti e principi propri della setta.

      Fra i primi documenti pubblicati bisogna nominare il Manuale di

Disciplina (o Regola della Comunità), la Regola dell'Assemblea, il Documento

di Damasco, la Regola della Guerra dei Figli della Luce contro i Figli delle

Tenebre, il Commentario di Abacuc. Da essi apprendiamo che il rito

battesimale e quello eucaristico, nonché la confessione dei peccati, facevano

parte integrante ed essenziale delle pratiche cultuali della setta. Inoltre

possiamo riconoscere molti elementi del pensiero che, negli scritti evangelici,

è proprio di Gesù Cristo: l'annuncio dell'imminenza del regno, l'invito a

convertirsi proprio in questa prospettiva, l'obbligo di non giurare, i concetti

espressi da Gesù nel sermone della montagna, la terminologia usata.

      Se vogliamo riassumere le caratteristiche principali della setta, quali

emergono dai documenti, possiamo elencare i seguenti punti:

1. essi attendevano ansiosamente il giorno in cui Israele sarebbe stato

liberato dalla condizione di sottomissione politica e religiosa a potenze

straniere e pagane,

2. credevano fermamente che le autorità politiche (la classe regnante

Erodiana) e religiose (la casta sacerdotale dei Sadducei) fossero gravemente

impure e corrotte, così come gli ebrei con essi conniventi (vedi Scribi e

Farisei), e che da esse Israele avrebbe dovuto liberarsi e purificarsi,

3. erano in attesa degli esecutori materiali di questo piano di

purificazione e liberazione, ovverosia di due messia di cui uno, il messia di

Israele, avrebbe dovuto essere il liberatore politico e poi Re dei Giudei mentre

l'altro, il messia di Aronne, avrebbe dovuto essere il nuovo Sommo Sacerdote,

al posto degli empi Sadducei,

4. si preparavano (in base a quanto testimoniato dal Rotolo della

Guerra) ad uno scontro militare risolutivo che avrebbe dovuto liberare il paese e

ricostruire il Regno di Dio (inteso come Israele: il regno terreno di Yahweh),

5. parlavano esplicitamente di un Maestro di Giustizia, sacrificato e

ucciso in conseguenza della sua lotta contro l'empietà,

6. hanno descritto il rito eucaristico (si ricordi che eucharistò significa

"ringraziamento") che precedeva il pasto comunitario esseno in un modo tale

da rammentare inevitabilmente la classica sceneggiatura dell'ultima cena di

Gesù,

7. consideravano se stessi Figli della Luce, in contrapposizione ai Figli

delle Tenebre, utilizzando una terminologia che ritroviamo tal quale in bocca a

Gesù nel Quarto Vangelo. Confrontiamo, per esempio, le seguenti parole di

manoscritti qumraniani:

 

"...Per il saggio affinché ammaestri tutti i Figli della Luce... In una sorgente di

Luce sono le origini della verità e da una fonte di Tenebra le origini

dell'ingiustizia..." (Regola della Comunità)

 

"...allorché i Figli della Luce porranno mano all'attacco contro il partito dei Figli

delle Tenebre..." (Regola della Guerra),

 

con le parole del Quarto Vangelo:

 

"...Camminate mentre avete la Luce, perchè non vi sorprendano le Tenebre;

chi cammina nelle Tenebre non sa dove va. Mentre avete la Luce credete nella

Luce, per diventare Figli della Luce ..." (Gv XII, 35-36)

 

"...la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla

luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la

luce e non viene alla luce perchè non siano svelate le sue opere. Ma chi opera

la verità viene alla luce, perchè appaia chiaramente che le sue opere sono

state fatte in Dio ..." (Gv III, 19-21)

 

"...Io come luce sono venuto nel mondo, perchè chiunque crede in me non

rimanga nelle tenebre..." (Gv XII, 46).

 

Facciamo anche una semplice riflessione sul punto 2, cioè sulla

profonda inimicizia degli esseni nei confronti dei sacerdoti di Gerusalemme e

di tutti coloro che non disprezzavano esplicitamente i poteri corrotti della

società giudaica del tempo: non è forse vero che Gesù, nella narrazione

evangelica, nomina praticamente tutte le componenti della società palestinese

(farisei, sadducei, scribi, pubblicani...), scagliandosi spesso contro di loro

come contro i suoi mortali nemici? Non sono rimasti famosi i suoi aggressivi

"guai a voi..."? E non è forse vero che Gesù, sempre nella narrazione

evangelica, si astiene sistematicamente dal nominare proprio la setta essena,

che pure non avrebbe potuto sfuggire in qualche modo alla sua attenzione?

Ma l'aspetto che maggiormente stabilisce una relazione fra Cristo e gli

esseni è la comune escatologia messianica (ovverosia l'attesa di un

mutamento radicale verso il bene e la soluzione di tutti i mali, in cui la figura di

un messia svolge un ruolo essenziale). Si osservi questo brano, che

appartiene al manoscritto qumraniano "Regola della Comunità":

 

"Dal Dio sapientissimo procede tutto ciò che è e che sarà... ha disposto per

l'uomo due spiriti affinché cammini con essi fino al tempo stabilito della sua

visita... ha concesso un tempo determinato all'esistenza dell'ingiustizia: nel

tempo stabilito per la visita egli la sterminerà per sempre..."

 

E paragoniamolo a queste parole del Vangelo di Luca:

 

"...Benedetto il Signore Dio d'Israele, perché ha visitato e redento il suo

popolo..." (Lc I, 68)

 

"...Se avessi compreso anche tu (Gerusalemme), in questo giorno, la via della

pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i

tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni

parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su

pietra, perchè non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata..." (Lc IXX,

41-44)

 

Gli stessi toni di minaccia apocalittica li troviamo nel manoscritto qumraniano

"Rotolo della Guerra":

 

"...Ascolta, Israele! Voi oggi state per combattere contro i vostri nemici... non

spaventatevi e non allarmatevi innanzi a loro. Poiché il vostro Dio cammina

con voi per combattere i vostri nemici e per salvarvi... Allorché nel vostro

paese verrà una guerra contro un oppressore che vi opprime, e suonerete le

trombe e il vostro Dio si ricorderà di voi e sarete salvi dai vostri nemici..."

 

Che possiamo paragonare a queste parole del Vangelo di Luca:

 

"...il Signore Dio d'Israele... ha suscitato per noi una salvezza potente nella

casa di Davide, suo servo, come aveva promesso per bocca dei suoi santi

profeti d'un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano.

Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua

santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci,

liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al

suo cospetto, per tutti i nostri giorni ..." (Lc I, 68-75).

 

E ancora, sempre nel manoscritto qumraniano "Regola della Guerra":

 

"...Rallegrati molto, Sion (Gerusalemme)! Esultate voi tutte città di Giuda! Apri

per sempre le tue porte, per fare entrare in te la ricchezza delle nazioni...

Figlie del mio popolo, innalzate grida di gioia, rivestitevi d'ornamenti di gloria...

fino a quando risplenderà il re di Israele per regnare in eterno..."

 

Da confrontare con l'episodio evangelico dell'ingresso messianico di Gesù in

Gerusalemme:

 

"...Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù

veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando:

Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele! Gesù,

trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: Non temere, figlia di Sion

(Gerusalemme)! Ecco, il tuo re viene...

 

      Naturalmente questi elementi non sono sufficienti per affermare, in

modo semplicistico, che Gesù fosse un esseno, ma stabiliscono comunque

un legame profondo fra il linguaggio e le idee della setta cristiana primitiva e

quelli dei movimenti della dissidenza messianista del tempo. Non solo, ma i

brani evangelici che abbiamo appena citato, ci permettono di stabilire in modo

inequivocabile che la figura di Gesù Cristo  ha una forte caratterizzazione

messianica, nel senso inteso tradizionalmente dagli ebrei come restauratore

della casa di Davide sul trono di Israele. Evidentemente, nel momento in cui

sono stati redatti i quattro Vangeli cosiddetti canonici, lo sforzo di ridisegnare

la figura di Cristo come un salvatore universale, spoliticizzato e degiudaizzato,

alla stregua del modello greco (Soter), persiano (Saoshyant) o indiano

(Buddha), si è scontrato con l'immagine, che ancora sopravviveva, di un

messia del tutto coerente con le idee dei movimenti Yahwisti.

 

 

MEAH SHEARIM.

 

      Se all'epoca del secondo tempio esisteva una parte della società

giudaica che contestava il governo del paese e la classe sacerdotale, al punto

da creare una comunità nella comunità, non dobbiamo credere che qualcosa

del genere non accada anche oggi; del resto, là dove gli uomini sembrano

preoccupati, più di ogni altra cosa, di definire puntigliosamente i caratteri della

propria identità culturale e di distinguersi dagli altri con ostentato orgoglio, non

era possibile che non si creassero divisioni, e divisioni nelle divisioni.

Personalmente sono propenso a spiegare gli eccessi di questa tendenza, che

abbondano negli ambienti religiosi, nello stile con cui lo studioso Desmond

Morris  affronta l'analisi dei costumi e del comportamento umano, e penso

che il moltiplicarsi delle sette, delle relative dottrine e delle regole di condotta

che le caratterizzano, abbia origine nell'istinto animale di appartenenza al

branco, nonché di difesa e di marcatura del territorio.

      A conferma di questa interpretazione basterà osservare cosa è scritto

sui cartelli situati all'ingresso di un quartiere particolare della Gerusalemme

occidentale: "Gentile visitatore, sei decisamente il benvenuto a Meah Shearim

ma, per favore, non scandalizzare i nostri abitanti passeggiando per le nostre

strade con un abbigliamento indecoroso. La nostra Torah richiede che la

donna ebrea sia vestita con abiti decenti. Le maniche che coprono i gomiti

(gonne-pantaloni vietate), i calzini, le donne sposate che portano i capelli

coperti, ecc., sono sempre state le virtù delle donne ebree attraverso le

epoche. Per gentilezza, non offendere i nostri abitanti e evita un disagio non

indispensabile per te stesso. Noi ti preghiamo di non infrangere il nostro

sistema di vita e il santo codice della legge. Ti invitiamo a usare la discrezione

non passando dalle nostre strade vestito secondo una moda indesiderata, agli

uomini è richiesto di non entrare senza un copricapo - La commissione per il

controllo della decenza. Meah Shearim e vicinato. Gerusalemme, la città

santa". Il cartello non si riferisce ad un tempio o ad una zona consacrata, ma

ad un normale quartiere abitativo, fra strade di pubblico accesso, in cui

risiedono i componenti di una comunità di stretta osservanza ebraica che

definiscono sé stessi "hassidim" .

L'ebreo hassidico indossa vestiti neri, un cappotto stretto e lungo, un

cappello di foggia caratteristica che gli sta sulla sommità del capo perché è

troppo stretto, si lascia la barba incolta e lascia scendere lunghi riccioli dalle

tempie fin sopra le spalle. Fra le sue caratteristiche apparenti c'è anche quella

di evitare che alcuna espressione si mostri sul suo viso; quella di camminare

velocemente, con gli occhi fissi in avanti o rivolti leggermente in basso; quella

di non incontrare lo sguardo di chicchessia e, lo dico per esperienza

personale, di non rispondere al saluto dell'estraneo, anche se si tratta di un

sorridente "good evening" o di un ancora più appropriato "shalom" [figg. 9 e 10].

      Questa comunità si è formata nel 1875, quando un gruppo di ebrei

ortodossi uscì dalla città vecchia sotto la guida di un certo rabbino Auerbach.

Essi abitano a Gerusalemme da più di un secolo e continuano ad indossare gli

stessi abiti che gli ebrei ortodossi usavano nell'Europa centro-orientale del

'700. Molte donne non solo portano un copricapo, ma indossano una parrucca,

che non ha altro scopo se non quello di nascondere totalmente i capelli.

All'ingresso nel quartiere la prima superficiale impressione del turista,

che naturalmente, per buona educazione, ha fatto tutti i suoi sforzi per

rispettare le richieste di decenza così chiaramente espresse, è quella di

essere circondati da un ambiente paradossalmente indecente: le strade sono

sporche, con rifiuti e rottami sparsi qua e là, gli edifici hanno un aspetto

fatiscente, gli infissi sono arrugginiti; nessuno sembra aver avuto l'idea di

abbellire i propri davanzali con qualche graziosa tendina o con vasi di piantine.

Le case sono tutte uguali, e tutte ugualmente squallide. Un clima di grave

austerity induce due impressioni generali: la prima è che la bellezza delle

cose e delle creature viventi non solo non sia considerata un valore da

perseguire ma che, probabilmente, sia ritenuta un elemento materiale da cui

l'uomo deve distrarre la propria attenzione, per non perdere il senso del

sovrannaturale; la seconda è che l'estraneo non sia affatto "decisamente il

benvenuto", come recita il cartello, ma un essere malamente tollerato a cui

nessuno degna uno sguardo fuggevole o un saluto. Solo un garbato disprezzo:

questo è il messaggio apparente, giusto o errato che sia, che si riceve

aggirandosi fra quelle strade e case; poco importa che il capo sia coperto, le

maniche lunghe, i vestiti castigati.

      I hassidici del quartiere Meah Shearim, come gli esseni di Khirbet

Qumran, associano il proprio isolamento fisico ad una dissidenza politica e

religiosa dal contesto del paese che li circonda. Essi contestano lo stato di

Israele giungendo fino al limite di non riconoscerlo, spesso obiettano nei

confronti del servizio militare e, addirittura, rifiutano l'uso dell'ebraico come

lingua comune perché, essi dicono, è una lingua sacra non adatta alle cose

profane, e sono soliti parlare in Yiddish, l'idioma misto delle antiche comunità

ebraiche europee. Anche a Khirbet Qumran erano utilizzati elementi culturali

diversificanti: il calendario solare in alternativa a quello ufficiale lunare, pratiche

cultuali come il saluto mattutino al sole, il rito battesimale, nonché il rito

eucaristico prima del pasto comunitario, etc...

      Anche l'apparente xenofobia dei hassidici è un probabile tratto

comune con gli esseni, i quali, negli scritti che hanno affidato alle giare nelle

grotte di Qumran, hanno dichiarato esplicitamente che l'umanità è composta

da Figli della Luce, che hanno accettato la giusta interpretazione della Torah

cercando di metterla in atto, e Figli delle Tenebre, cioè tutti gli altri, pagani ed

ebrei non rigorosamente osservanti, tutti in attesa del loro inevitabile destino di

sterminio completo . Come nel caso dei hassidim moderni, sempre in attesa

del messia che dovrà venire, anche il pensiero degli esseni era caratterizzato

da una intensa tensione escatologica  che, in particolare ai tempi del secondo

tempio, prendeva forma nella convinzione che la venuta del messia fosse

imminente, che la gente dovesse prepararsi a tale venuta, anche partecipando

attivamente alle operazioni politiche e militari necessarie per il rovesciamento

dei poteri corrotti e la ricostruzione del regno di Israele, libero dagli stranieri e

governato da sovrani e sacerdoti degni del loro ruolo.

      E' sicuro che i hassidici moderni non vedono con grande simpatia la

presenza musulmana in terra di Israele, tanto meno nell'area di quello che in

passato era il tempio ebraico e che ora, invece, ospita due dei più importanti

templi dell'Islam. Personalmente, ho un vago sospetto che sia proprio da

posizioni simili a quella dei hassidici che sono partite le istanze reazionarie,

ostili alla politica di pacificazione, che hanno portato all'assassinio di Rabin. Il

mondo occidentale non ebraico aveva visto il leader israeliano come un genio

buono, seguace di quella stessa tendenza illuminata che ha portato di recente

il Sud Africa alla eliminazione dell'apharteid, e la sua morte improvvisa e

violenta è stata recepita quasi universalmente come un autentico shock.

Diverso è il punto di vista ebraico ortodosso; ai più intransigenti la figura di

Rabin può essere sembrata come Erode o i sadducei dovevano apparire agli

occhi degli esseno-zeloti: un empio che mostra eccessiva disponibilità  nei

confronti del nemico di fede e patteggia con lui: solo la morte, una morte

santamente procurata, può punire una colpa così grave. Non dimentichiamo

che l'apartheid sud-africano nasceva da una questione socio-economica,

mentre quello arabo-israeliano nasce da una questione religiosa.

      La dissidenza ebraica all'epoca del secondo tempio era espressa,

oltre che dagli esseni, anche dagli zeloti, ovverosia da coloro che erano

caratterizzati da un particolare zelo per il loro Dio e che combattevano in suo

nome per la liberazione e la purificazione di Israele. Per la verità non è affatto

chiaro in quale misura i due movimenti fossero distinti e, personalmente, sono

convinto che, almeno a partire da un certo punto, lo siano stati molto meno di

quanto non siamo soliti considerarli tali. Il termine zelota era espresso con le

parole canana, o barjona, in aramaico, zelotes o lestes in greco, latro, sicarius

o galilaeus  in latino; questi termini sono molto importanti e li ritroveremo

presto. Un personaggio famoso, di cui parla spesso Giuseppe Flavio, che è

stato il fondatore di una particolare ala del movimento zelota, è un certo

Yehuda, molto più noto come Giuda il Galileo.

A proposito dei moderni hassidim abbiamo detto che essi sono nati

per iniziativa di un rabbino del secolo scorso, che ha condotto i suoi seguaci

fuori dalle mura della vecchia città di Gerusalemme e ha fondato una

"cittadella" chiamata Meah Shearim. Con questo possiamo trovare l'ennesima

conferma del fatto che, nel contesto di determinate dottrine politiche o

religiose, compaiono spesso dei personaggi carismatici, capaci di influenzare

la gente e di costituire dei gruppi o sette. Qualcosa dello stesso genere è

successa duemila anni fa, nel nord della Palestina, allorché intorno alla figura

di un certo Ezechia si è formato un gruppo di seguaci dell'ideale messianista,

animati da un fanatismo particolarmente focoso.

Ezechia, probabilmente, non era solo un sostenitore della lotta

antiromana ma un rabbino esponente di una lettura molto rigorosa delle

scritture, che interpretava le profezie messianiche come se fossero giunti i

tempi imminenti della loro realizzazione. Oltre a questo non escluderei un'altra

possibilità, cioè che Ezechia vantasse per sé un diritto particolare di

leadership della lotta Yahwista, un autentico diritto dinastico: forse egli era

convinto che il sangue regale di Davide scorresse nelle vene della sua famiglia.

      Ezechia, che Giuseppe Flavio, sempre molto severo nei confronti

dell'estremismo Yahwista, definisce sprezzantemente "archilestes" (capo

brigante), aveva guidato numerose scorribande nel territorio della Galilea, dove

si trovavano alcuni dei più importanti insediamenti delle forze romane, ma era

di una cittadina a est del lago di Tiberiade, Gamla, sulle alture del Golan. Nel

frattempo l'Erode in carriera, non ancora re della Palestina, per farsi notare dai

romani compiva le imprese opposte: egli combatteva duramente questi patrioti

religiosi e, nel 44 a.C., durante uno dei soliti disordini, ebbe occasione di

uccidere lo stesso Ezechia.

      Da allora, nel cuore della famiglia di Gamla, un odio profondo e

irriducibile per la famiglia Erodiana andò a sommarsi agli ideali della lotta

Yahwista, trasformando la causa in una questione praticamente personale,

una autentica rivalità dinastica. E l'eredità di questi sentimenti fu raccolta da

Giuda, figlio di Ezechia, che si fece rappresentante di una concezione

esasperata della lotta antiromana e dell'osservanza rigorosa della Torah. Egli,

oltre a fondare un movimento organizzato di lotta armata (certamente il più

acceso di tutti), invitava gli ebrei alla disobbedienza nei confronti dei

dominatori, motivando questo suo richiamo con ragioni di carattere religioso.

La sua attenzione, in particolare, era rivolta alla questione del tributo: egli

sosteneva che pagare la tassa ai romani non solo fosse ingiusto, ma che

costituisse un atto sacrilego contro Yahweh, poiché implicava il

riconoscimento di una autorità, quella imperiale, che spettava solo a Dio; tanto

più che, a partire da Augusto (27 a.C.), l'imperatore romano aveva espresso la

tendenza a divinizzare la propria figura. Secondo Giuda erano addirittura empi

quegli ebrei che consentivano al pagamento delle tasse; figuriamoci i

cosiddetti pubblicani, funzionari ebrei incaricati della riscossione dei tributi.

      Mi è capitato, una sera, nel quartiere arabo della vecchia città di

Gerusalemme, di entrare in conversazione con un venditore di uno dei tanti

negozietti del bazaar. Era un giovane musulmano e l'occasione della

conversazione fu fornita da una maglietta, esposta fra quelle in vendita, su cui

campeggiava la scritta "peace", intorno alla quale alcuni ometti si contorcevano

dalle risate, ironizzando pesantemente sulla eventualità che in Palestina sia

possibile una autentica pacificazione. Nel corso della conversazione il giovane

si è infervorato e ha cominciato a raccontare delle ingiustizie subite dal popolo

Palestinese; ne riferirò alcune ma non posso garantire sul fatto che quelle

denuncie siano veritiere. Egli ha detto che il governo israeliano esige pesanti

tasse dai commercianti arabi e che, quando le pattuglie dei soldati scortano gli

incaricati delle verifiche fiscali, durante le loro ispezioni nelle aree musulmane,

si verificherebbero episodi di richiesta del "pizzo". La rimostranza del giovane

non era una delle solite lamentele che sono comuni ai contribuenti di tutto il

mondo, egli denunciava con enfasi il fatto che il denaro "estorto" ai palestinesi

verrebbe usato dal governo per finanziare gli insediamenti israeliani nei territori

occupati, configurando così, oltre che un abuso fiscale, anche un affronto

politico. Il fatto testimonia, se non altro, una condizione di grave insofferenza

da parte dei palestinesi nei confronti della politica fiscale israeliana,

interpretata come l'abuso del dominatore straniero, e può offrire spunti di

confronto con la situazione in cui erano i romani e esigere le tasse dagli ebrei.

Nel caso di Giuda il galileo, invece, alla semplice resistenza fiscale si

aggiungeva una autentica ostilità ideologica legata alla trasgressione religiosa

che sarebbe stata associata al pagamento del tributo: la profanazione della

sovranità di Yahweh.

      Al tempo della morte di Erode il grande, nel 4 a.C., Giuda guidò una

grande sommossa, i suoi zeloti partirono da Gamla e raggiunsero la regione

della Galilea, dove assalirono gli arsenali regi a Sepphoris (a pochi passi dalla

attuale Nazareth); per i rivoltosi era importantissimo impadronirsi delle armi;

chissà che questo bottino non sia servito per alimentare un arsenale

clandestino zelota nella città di Gamla. Si tenga presente che questi sono gli

anni in cui è generalmente collocata la nascita di Gesù Cristo, e che, pertanto,

questo è il clima delle dispute politiche e religiose in cui è cresciuto il presunto

fondatore della più grande religione dell'occidente.

      Alcuni anni più tardi, nel 6 d.C., i romani deponevano il tetrarca della

Giudea, Erode Archelao (figlio di Erode il grande) e decidevano di ridurre quella

regione a provincia imperiale, sotto la diretta supervisione di un "praefectus"; il

primo della lunga serie, a cui in seguito sarebbe appartenuto anche Ponzio

Pilato, fu Coponio. In questo periodo i romani decisero di effettuare un

censimento della regione, con fini palesemente fiscali, il loro scopo in pratica

era quello di obbligare tutti i giudei a versare la tassa dovuta. Il censimento fu

supervisionato dal governatore della Siria, Publio Sulpicio Quirinio. Siamo nel 7

d.C. A questo punto la pazienza di Giuda e dei suoi seguaci fu portata oltre i

limiti: non solo la Giudea era diventata una provincia imperiale di Roma, ma i

dominatori si apprestavano a esercitare una stretta politica fiscale. Ne scaturì

una violenta ribellione, nota come "la rivolta del censimento", nella quale

migliaia di zeloti persero la vita e furono crocifissi. Lo stesso Giuda il galileo fu

ucciso.

      Ma la storia della esaltata famiglia di Gamla, ardente di ideali

rivoluzionari e di ambizioni messianiche non è che al suo inizio.

     

     

GERUSALEMME ARABA.

 

      All'incirca là dove, in epoca erodiana, sorgeva il tempio ebraico, oggi

sorge un'area circondata da mura, detta "spianata del tempio" o Haram esh-

Sheriff. E' l'angolo più musulmano di Gerusalemme, dal momento che

accoglie il terzo luogo santo dell'Islam. Si tratta di una vasta area nella quale

sorgono due importanti moschee, la più appariscente, Qubbet es-Sakhra o

Cupola della Roccia, interamente ricoperta d'oro, e la più importante, El-Aqsa.

Nessun ebreo entra in questa zona, trattandosi dell'area che, in passato,

apparteneva al secondo tempio e che oggi è occupata dai musulmani, è

considerata una zona profanata e altamente impura. Nell'immaginario dei più

ortodossi è celata la convinzione che qui, un giorno, sorgerà il terzo tempio.

      Appena varcata la soglia della spianata (anche qui un check point

israeliano, ma senza metal detector) ciò che colpisce il visitatore, che ha

dovuto attraversare il solito labirinto angusto della vecchia città, è la solarità

dell'ambiente. Sotto un cielo abitualmente limpido e luminoso si apre un

grande spazio aperto, con aree verdi qua e là, al centro del quale domina la

Cupola della Roccia, un edificio ottagonale dalle mura ricoperte di mosaici

azzurri e sovrastato da una imponente cupola d'oro. C'è poi l'altra moschea,

che a suo tempo fu dimora dei re crociati e dei cavalieri templari, nonché una

serie di altre costruzioni minori: la Cupola della Catena, la Cupola

dell'Ascensione, la fontana di Qait Bey. C'è anche un Museo dell'Arte

Islamica.

      In questo luogo passeggiano gli immancabili turisti, alcuni dei quali

hanno un aspetto irrimediabilmente comico, dal momento che sono stati

obbligati a indossare mantelli o sottane per coprire il loro abbigliamento

eccessivamente discinto; ma il vero frequentatore del luogo è il musulmano,

maschio o femmina, che vi giunge anche da lontano per motivi di

pellegrinaggio sacro. Si può ammirare una infinità di tipi e di caratteri umani

dell'Islam e, poiché il luogo è ombreggiato, silenzioso, ventilato e splendido,

anche solo sedersi e passare il tempo ad osservare è un'esperienza

meravigliosa, certamente molto più autentica e genuina delle solite code per

entrare a visitare gli edifici monumentali.

      Raramente mi capita di provare emozioni di spiritualità nei luoghi di

culto, essi, inquinati dal commercio dei souvenirs, sono di solito immersi in un

clima di inguaribile profanità, quando non sono essi stessi, col loro carattere

ostentatamente sfarzoso o con la loro cupa struttura architettonica, ad

accogliere solo i simboli della vanagloria umana e lasciare fuori il respiro

dell'universo. Qui, invece, l'intervento dell'uomo è sempre stato compiuto sotto

qualche autentica ispirazione, dal momento che l'incontro fra gli elementi

naturali, paesaggio, cielo, luce, vegetazione, e quelli architettonici, mura,

colonnati, moschee, fontane, mantiene un equilibrio felicissimo che costituisce

veramente un ponte fra l'uomo e il potere misterioso che pone in essere il

mondo [figg. 11 e 12].

      All'angolo nord-ovest della spianata corrisponde una chiesa

francescana detta  Convento della flagellazione; è il luogo dove si trovava la

Torre Antonia, fatta costruire da Erode nel 35 a.C. e distrutta da Tito un secolo

dopo. Nell'epoca erodiana la Torre Antonia serviva per tenere sotto controllo la

gente che affollava il tempio e si suppone che fosse la sede del presidio

romano, anche se una minoranza di studiosi sostiene, invece, che questo

fosse localizzato nei pressi della Porta di Giaffa, ottocento metri più a

occidente. Dovunque si trovasse il presidio romano, è certamente il luogo a cui

si riferisce la narrazione evangelica, parlando del processo che Gesù subì di

fronte a Ponzio Pilato. E' anche il luogo che, per comprensibili ragioni, molte

tentate rivolte messianiche hanno considerato come il primo obiettivo da

colpire.

      Su un lato del Haram esh-Sheriff si trova il Museo dell'Arte Islamica,

all'interno del quale una finestra guarda a occidente e si apre esattamente

sull'area del Muro del Pianto, anzi, diciamo pure che la finestra si trova proprio

sulla parte destra del Muro degli ebrei. Passando la mattinata nella zona sacra

musulmana, in seguito alla full immersion in un puro ambiente islamico, si

tende a dimenticare la molteplicità etnico-religiosa di Gerusalemme e, nel

momento in cui ci si affaccia curiosi ad ammirare il paesaggio dalla finestra del

museo, si è sorpresi nel trovare un altro di quei magici tunnel fra mondi

paralleli che, così innocentemente e semplicemente, mette in diretta

comunicazione il massimo del sacro dei due universi lontani e nemici: quello

ebraico e quello musulmano. Qualunque squilibrato, da quella finestra,

potrebbe seminare il panico, o anche di peggio, nella folla sottostante.

L'impressione di contrasto è resa ancor più viva dal fatto che il

visitatore del museo, un istante dopo l'ingresso, viene accolto da una serie di

bacheche in cui sono esposte le testimonianze e i commenti su un

sanguinoso episodio che risale al 1990. Stando a quanto scritto pare che

pochi anni fa alcuni intransigenti ebrei ortodossi siano entrati con l'intenzione

di occupare una zona e posare le prime pietre per il terzo tempio, scatenando

la ovvia reazione dei musulmani. Non so bene quale sia stata la dinamica

dell'incidente, ma il suo risultato è che la polizia israeliana, probabilmente nel

tentativo di proteggere gli ebrei assaliti dai musulmani, ha sparato sulla folla

lasciando diciassette palestinesi morti sul terreno e molti altri feriti.

Un'autentica strage, ma a senso unico sembrerebbe. Persino gli abiti

insanguinati delle vittime sono esposti nelle bacheche. E così tutti i

musulmani che visitano il luogo tornano a casa con una esperienza spirituale,

ma anche con un ulteriore messaggio di odio nel cuore, seminato da una parte

e coltivato da quell'altra.

Inevitabilmente il pensiero torna a fare un viaggio indietro nel tempo, ad

immaginare i numerosi disordini avvenuti in epoca romana in quello stesso

luogo, quando i giudei mal sopportavano la presenza empia degli invasori. Ce

ne sono un paio di cui ci testimonia Giuseppe Flavio nella sua Guerra

Giudaica, che possiamo mettere a confronto con quello del 1990: "...Pilato

provocò un altro tumulto impiegando il tesoro sacro, che si chiamava

korbonàs, per un acquedotto che faceva arrivare l'acqua da una distanza di

cento stadi. La folla ribolliva di sdegno, e una volta che Pilato si trovava a

Gerusalemme ne circondò il tribunale con grandi schiamazzi. Quello, che già

sapeva della loro intenzione di tumultuare, aveva sparpagliato tra la folla i

soldati, armati e vestiti in abiti civili, con l'ordine di non usare le spade, ma di

picchiare con bastoni i dimostranti, e ad un certo punto diede il segnale. I

giudei furono percossi, e molti morirono per i colpi ricevuti, molti calpestati da

loro stessi nel fuggi fuggi..." ; "...essendosi la folla raccolta a Gerusalemme

per la festa degli Azzimi, ed essendosi schierata la coorte romana sopra al

portico del tempio - giacché usavano vigilare in armi in occasione delle feste,

per evitare che la folla, raccolta insieme, desse inizio a qualche sommossa -

uno dei soldati, sollevatatsi la veste ed inchinatosi con mossa indecente,

mostrò ai giudei il suo deretano accompagando il gesto con acconcio rumore.

La cosa fece imbestialire la folla che con grandi schiamazzi esigeva da

Cumano la punizione del soldato, mentre i giovani con la testa più calda e gli

elementi per loro natura più ribelli del popolo si gettarono allo sbaraglio e,

afferrate delle pietre, le scagliavano contro i soldati (vedi un tipico

comportamento nelle manifestazioni anti-israeliane dei palestinesi). Cumano,

temendo di essere assalito dal popolo intero, fece affluire dei rinforzi. Quando

questi arrivarono sotto i portici, i giudei furono presi da un panico irresistibile

e, volte le spalle, cercavano di fuggire dal tempio verso la città. Ma la stretta

della folla che si accalcava nei presi delle uscite fu tale, che più di trentamila

persone morirono calpestandosi e schiacciandosi fra loro..." .

 

 

GERUSALEMME CRISTIANA.

 

      Ed ecco l'ennesimo tunnel di comunicazione fra universi paralleli.

Mentre si cammina nel quartiere arabo, in direzione ovest, magari

accompagnati dal canto del muezzin che invita alla preghiera, quasi

improvvisamente si finisce per trovarsi davanti al luogo più sacro per tutto il

mondo cristiano: la Chiesa del Santo Sepolcro. Già in zona musulmana si può

avvertire la presenza cristiana, infatti fra quelle caratteristiche vie si snoda il

percorso della "via crucis", che parte dalla zona della Torre Antonia e arriva al

Santo Sepolcro. Qui i residenti sono abituati a veder passare le comitive dei

pellegrini, fra cui moltissimi italiani, che percorrono la Via Dolorosa (questo è

l'autentico nome della via, come può essere letto agli angoli delle strade),

spesso portando a spalla una croce. I pellegrini, guidati dal sacerdote,

camminano cantando e si fermano ad ogni stazione, ove recitano una

preghiera. Quindi giungono al luogo in cui si sarebbero svolti i fatti

fondamentali che sono alla base della fede cristiana: la crocifissione, la morte,

la deposizione e, pochi metri più in là, la sepoltura e la resurrezione del

Signore Gesù Cristo.

Chi pensa di trovare un monte scoperto, come doveva essere

l'ambiente reale della crocifissione, o una cripta in un orto, come doveva

essere quello della sepoltura, non può che restare deluso: in mezzo alla

fittissima città vecchia sorge una chiesa altrettanto fitta e labirintica nella sua

architettura. Tutto il culto cristiano della passione si svolge al chiuso, fra edifici

e costruzioni posteriori, talvolta anche relativamente recenti, che nessuno

spazio hanno lasciato all'immaginazione del luogo descritto dal Vangelo; tutto

all'interno di una sola chiesa.

      I protestanti, non è chiaro se per amore della verità o della

contestazione, non riconoscono questo luogo come quello della passione di

Gesù, e lo individuano al di fuori delle mura della città vecchia, su un dosso

che, almeno all'apparenza, ha un che di più verosimile.

      Nella Chiesa del Santo Sepolcro è un continuo via vai di devoti, fra cui

abbondano i russi. Le genuflessioni e i baci appassionati alle pietre su cui

Gesù sarebbe stato disteso, esanime, non si sprecano; ma nessuno osa

neanche lontanamente domandarsi se questo contatto promiscuo delle labbra

di tutti possa in qualche modo creare problemi di igiene. Il pensiero sarebbe

troppo profano. Del resto la pietra del Sepolcro non può certo essere

considerata alla stregua della cornetta di un telefono pubblico.

      La molteplicità delle confessioni cristiane si palesa in tutta la sua

varietà soltanto qui dove giungono, esclusi i protestanti e oltre ai cattolici

romani, gli ortodossi della chiesa greca, di quella russa, e delle numerose altre

di rito bizantino, i seguaci del rito antiocheno, di quello caldeo, di quello

armeno, di quello copto... (per citare solo una infima minoranza delle

innumerevoli suddivisioni della fede cristiana). Ho un vago sospetto che non

esista nessuna altra religione al mondo che abbia prodotto una così copiosa

moltiplicazione di domini ecclesiastici in competizione fra loro per la dottrina e

per l'autorità sulla gente e sui territori. Non è possibile non riflettere sul fatto

che le istituzioni ecclesiatiche hanno sempre subordinato il problema della

fede a quello dell'egemonia, la stessa teologia spesso è stata gestita allo

scopo politico di creare nuove divisioni e nuovi poteri. Fortunatamente i fedeli

non sembrano preoccuparsene, ciascuno, nella sua parrocchia, è

serenamente convinto di essere capitato in quella giusta.

      Per giungere al luogo presunto della crocifissione è necessario salire

una breve ma ripida rampa di scale; qui, in una ambientazione di esemplare

gusto ortodosso, un crocifisso mostra il Gesù sofferente, sulla croce su cui è

appesa una ben nota iscrizione: "Rex Iudaeorum", "O Basileus ton Ioudaion",

Wè-Melek ha-Yehudìm", che nelle tre lingue latina, greca ed ebraica significa

"Il Re dei Giudei" .

      La scritta e la stessa crocifissione fanno riflettere, perché se

dobbiamo dedurre chi fosse colui che faceva chiamare se stesso Cristo ( =

messia, l'Unto di Yahweh), dalle evidenze della crocifissione romana e

dell'insegna che era stata posta come motivo della medesima, possiamo

concludere una sola, più che manifesta verità. Si trattava di uno dei numerosi

intransigenti interpreti delle profezie messianiche sulla ricostruzione del Regno

di Israele (il Regno di Dio per gli ebrei); che vantava una dignità regale (Gesù è

definito Figlio di Davide molte volte nella narrazione evangelica); che aveva

invitato il popolo a seguirlo in questo progetto di rinnovamento di Israele (ci

sono almeno due brani della narrazione evangelica in cui Gesù afferma con

chiarezza che la sua predicazione non è per i gentili, ma per la casa di

Israele ); che metteva seriamente in pericolo la sicurezza del paese col suo

movimento ("...Se lo lasciamo fare così, tutti  crederanno in lui e verranno i

Romani e distruggeranno il nostro  luogo santo e la nostra nazione". Ma uno di

loro, di nome Caifa, che  era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: "Voi

non capite nulla  e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo

per il  popolo e non perisca la nazione intera"". Gv XI, 48-50); che aveva

sollevato discussioni sulla questione del tributo, esattamente come Giuda il

galileo ("Abbiamo trovato costui che  sobillava il nostro popolo, impediva di

dare tributi a  Cesare e affermava di essere il Cristo re". Lc XXIII, 2); che era

stato arrestato, processato, condannato e giustiziato dai romani con una tipica

esecuzione riservata ai ribelli . Esattamente come tutti gli altri che avevano

fatto la stessa cosa: dagli zeloti di Giuda il Galileo, al profeta egiziano, di cui

parleremo in seguito, a Giacomo e Simone figli di Giuda, a Teuda, a

Menahem, a Eleazar ben Jair, a Simon bar Kokhba.

Ma i cristiani non possono, e non vogliono, ammettere che il loro Gesù

Cristo, con tutta la palese evidenza che gli pesa addosso, possa avere

alcunché a che fare con gli esponenti dell'estremismo nazional-religioso e del

messianismo ebraico. Anche perché i Vangeli canonici, nella versione in cui

possiamo leggerli oggi, sono stati redatti verso la fine del primo secolo

(assolutamente non prima della distruzione di Gerusalemme), come revisione

della precedente tradizione giudeo-cristiana , al preciso scopo di dissociare il

Cristo della predicazione neo-cristiana  dall'aspirante re dei giudei che aveva

creduto nelle profezie messianiche. A parte il fatto che, nonostante l'impegno

censorio dei redattori evangelici, è risultato impossibile eliminare

completamente ogni traccia di riferimento al ruolo storico reale del Cristo, è

comunque inconsistente l'obiezione dei difensori della dottrina cristiana i quali

sostengono che il Vangelo ci mostra un Gesù pacifico ed estraneo ai

movimenti messianici: non sono i testi evangelici a dimostrare questa

immagine, al contrario, dobbiamo dire che è proprio tale immagine, con la sua

fragilità e incongruenza, che dimostra qual'era l'impegno ideologico degli

evangelisti.

      Non ci resta che domandarci perché una simile trasformazione

sarebbe stata operata e, nel farlo, scopriamo il punto forte della nostra tesi: la

coerenza e la verosimiglianza di un processo revisionistico che trae le sue

ragioni dalle dinamiche politiche e sociali del momento storico.

      Duemila anni dopo le vicende della Palestina dominata dai romani un

nuovo messianismo rivoluzionario ha percorso il mondo intero. Si è trattato

degli ideali del marxismo, i quali hanno diffuso l'idea che il proletariato

internazionale dovesse mobilitarsi in una lotta risolutiva contro il capitale, suo

nemico ed affamatore, per il raggiungimento di uno stato sociale ed economico

simile, per la carica escatologica da esso posseduta, all'idea del Regno di

Dio, in cui la giustizia avrebbe dovuto prevalere su ogni male. Anche in questo

caso si è sviluppata una proliferazione di sfumature ideologiche, fra

l'estremismo combattivo delle brigate comuniste e il revisionismo più

moderato, che ha dato origine ai partiti social-democratici e alla rinuncia a ogni

attivismo rivoluzionario.

      Analogamente, l'attesa messianica ebraica ha prodotto un ventaglio di

interpretazioni ideologiche e di atteggiamenti politici. Ai due estremi della

società giudaica del tempo possiamo riconoscere il messianismo teologico

spinto, tipico del movimento esseno e delle sue componenti attivistiche (zeloti,

sicari, seguaci di Giuda il galileo), e l'opportunismo delle classi benestanti

giudaiche, comodamente conniventi col potere dominante: la famiglia erodiana,

la casta sacerdotale sadducea, la frangia più reazionaria del partito fariseo.

Nel mezzo il popolo, il fariseismo comune, persone come lo stesso Giuseppe

Flavio.

      Individui come San Paolo (Shaul) avevano abbracciato inizialmente

una posizione decisamente conservatrice, combattendo il messianismo

esasperato attraverso la persecuzione fisica dei suoi esponenti, tramite arresti,

condanne, esecuzioni e confische. Ciò non ostante Paolo aveva intuito che la

repressione dell'ideale messianico era una strategia assai poco proficua,

innanzitutto per la contagiosità dell'ideale stesso, che esercitava un certo

fascino sulle classi sociali meno abbienti, le quali si consideravano

tiranneggiate dai romani e tradite dalle autorità di Gerusalemme; in secondo

luogo per il fatto che la persecuzione e la eliminazione degli esponenti aveva

l'effetto di animare i sentimenti di vendetta e di creare dei martiri idealizzati

come esempi da seguire, piuttosto che quello di spegnere gli ardori.

      Paolo, una delle più grandi menti che l'umanità abbia mai avuto, si

rese conto che certi ideali passionali, che toccano la radice dell'orgoglio

etnico-religioso e del senso di identità, non possono essere contrastati con la

semplice repressione violenta; è come la lotta a colpi di scacciamosche

contro l'invasione delle cavallette: pura energia sprecata. Dio volesse che oggi

Israele fosse governato da uomini di ben altra lungimiranza politica che non

quella dei falchi di Netanyahu. Ad un certo punto Paolo avvertì la necessità di

combattere l'ideologia sul piano dell'ideologia, contrapponendo alla concezione

messianica rivoluzionaria degli Yahwisti una concezione messianica diversa,

di cui egli non dovette inventare il modello, perché questo esisteva già, nelle

religioni misteriche fra le quali egli era cresciuto, nella sua lontana Tarso, terra

ellenistica e di influenze religiose promiscue. Se era vero che le classi povere

mal sopportavano la tirannia romana e la demagogia erodiana e sadducea,

offrendo così una certa disponibilità al messaggio messianico, era anche vero

che queste temevano il grave rischio di incolumità creato dall'arroganza

fanatica con cui le sette Yahwiste fronteggiavano i romani e pretendevano la

partecipazione incondizionata del popolo, nutrendo così una certa istintiva

diffidenza nei confronti degli esaltati rivoluzionari. Specialmente gli ebrei della

diaspora avrebbero mostrato questa seconda inclinazione piuttosto che la

prima, e avrebbero potuto accogliere più facilmente il pensiero paolino. Ed è

per questo che egli si adoperò in patria, ma soprattutto negli ambienti della

diaspora, a preparare un terreno ideologico "vaccinato" che precedesse e

arginasse il propagarsi a macchia d'olio dell'ideale messianico esseno-

zelotico. Questa è la motivazione ideologica della sintesi religiosa operata da

San Paolo. Poco importa se gli Atti ci mostrano un Paolo apostolo di Gesù;

questa è l'immagine voluta per creare una continuità presunta, del tutto fittizia,

fra la predicazione di Cristo e l'opera di Paolo. In realtà, come i Vangeli

mostrano i presupposti ideologici dei loro redattori, gli Atti mostrano il tentativo

di giustificare come originale ed autentica un'ideologia religiosa nata invece

proprio per contrapporsi a quella del primo cristianesimo giudaico: quello degli

esseno-zeloti.

 

 

IL MONTE DEGLI ULIVI.

 

      Nel tardo pomeriggio del nostro primo giorno a Gerusalemme, la

passeggiata casuale, non ancora definita nei suoi scopi e nelle sue

destinazioni, ci ha portati sul lato esterno orientale delle mura della vecchia

città, che si getta con una discesa pronunciata verso la sottostante valle del

Cedron. Al di là di essa una collina eccezionalmente verde si staglia contro un

cielo di cristallo azzurro. Dopo anni di studi sulla letteratura neotestamentaria

e di letture della narrazione evangelica, sono stato realmente commosso nel

vedere, così serenamente disteso davanti a me, il Monte degli Ulivi in tutta la

sua maestosa bellezza. Per me è stato come incontrare un vecchio amico.

Certamente l'emozione è stata amplificata da una coincidenza psicologica: il

panorama risultava in modo sorprendente così come me lo ero sempre

figurato. La stessa giacitura del paesaggio, lo stesso taglio delle luci e delle

ombre, la stessa atmosfera, lo stesso orizzonte, come se i miei precedenti

viaggi col pensiero fossero stati viaggi reali. Ed ho così scoperto di amare

intensamente questi luoghi; non meno di quanto non li amino i più sinceri fra i

pellegrini cristiani.

Di diverso da quello che il Monte degli Ulivi doveva essere al tempo di

Gesù, c'erano i tornanti di una strada moderna e le chiese cristiane, fra cui il

Monastero russo ortodosso di Maria Maddalena, che invade, con la vista delle

sue cupole a cipolla, la serena maestà dell'ambiente. C'è anche un immenso

cimitero ebraico, con grandi tombe in pietra, spoglio, dall'aspetto quasi

abbandonato [fig. 13].

      Il giorno dopo io e mia moglie, che normalmente siamo camminatori

instancabili, abbiamo deciso di raggiungere a piedi il Monte degli Ulivi, di

esplorarlo in lungo e in largo, e di cercare, al di là di esso, quell'abitato che in

passato doveva essere stata Betania. Scendere la valle del Cedron e risalire

dall'altra parte è cosa di pochi minuti. Dopodiché ci si trova nel pieno dei

pellegrinaggi cristiani: qui c'è la Tomba della Vergine, la Chiesa delle Nazioni,

la Grotta dell'Arresto, il giardino del Getsemani. Giunto in quest'ultimo luogo

ho sentito il desiderio di fermarmi e di sostare alcuni minuti in contemplazione.

Naturalmente non so se quello sia proprio il punto ove sorgesse l'antico

frantoio (questo è il significato del nome) a cui fa riferimento la narrazione

evangelica quando parla dell'assemblea notturna dei discepoli di Gesù e del

suo arresto; in ogni caso, se anche non lo fosse, non può essere che una

questione di pochi passi più in là, il versante del monte è questo. Devo dire

che anche qui, all'ingresso del cortile, un check point israeliano sottopone i

visitatori ad una modesta perquisizione, ma il fatto non mi ha disturbato, al

contrario, mi ha aiutato a calarmi ancora più concretamente nella realtà dei

tempi degli aspiranti liberatori, quando le forze romane erano sempre vigilanti

sui movimenti del popolo.

      Il giardino è bello, anche perché a differenza degli altri luoghi, in cui gli

uomini hanno voluto soffocare tutto coi segni della loro vanagloria, l'unico

intervento è stato quello di tenere l'erba tagliata e di creare qualche vialetto di

ghiaia, per il resto la solennità degli ulivi è singolare: essi sono talmente

possenti e grandi nella circonferenza del loro tronco da svelare un'età

plurimillenaria e da lasciare l'impressione che si tratti proprio di quelli sotto i

quali il figlio di Davide e i suoi seguaci si erano riuniti in quella fatidica notte.

E così ho chiuso gli occhi e ho cominciato a vedere. Anche perché

questa volta non si trattava di una di quelle costruzioni posticce fatte allo

scopo di alimentare le devote fantasticherie di fedeli esaltati quanto illusi,

questa volta si trattava di una delle più influenti pagine della storia umana.

Allora correva una data vicina al primo plenilunio successivo

all'equinozio di primavera. Aprile, con tutta probabilità. Poiché le notti

gerosolimitane sono ventilate e molto fresche anche in estate (siamo a oltre

800 metri di altezza), in primavera esse sono senz'altro fredde. Alcuni uomini

dal passo clandestino, mormorando solo qualche parola in sordina per non fare

rumore, avevano raggiunto il frantoio sul fianco occidentale del monte, avvolto e

nascosto nell'ombra di grandi ulivi. Portavano armi con sé; spade, delle quali

evitavano attentamente il luccichio prodotto dai raggi della luna piena, la quale

ogni tanto faceva capolino fra le piccole nubi che il vento è solito trasportare

sulla città da ovest verso est. Il brillare delle lame avrebbe potuto facilmente

tradirli. Li abbracciava il silenzio e la solitudine, nonché l'angoscia di chi va al

suo appuntamento con un destino pericoloso e sconosciuto.

      A meno di duecento metri da loro, al di là del Cedron, sulla fiancata

del colle sotto le mura del tempio, si stendeva il campo dei pellegrini venuti a

decine di migliaia, da lontano, per celebrare la Pasqua nella città santa.

Centinaia e centinaia di tende che riparavano dal freddo le famiglie

addormentate su miseri giacigli di paglia. Forse qualche belato di capra, il

pianto di qualche neonato, l'abbaiare di un cane, il fruscio di un gatto che

zampettava nelle frasche. La Torre Antonia, ancora più in lontananza, si

stagliava contro il cielo.

      Era quello il loro principale obiettivo. Il piano prevedeva più cose

contemporaneamente: la sommossa messianica non avrebbe mai potuto avere

successo con le semplici forze di un manipolo seppur coraggioso, erano

esigue le braccia e così anche le armi, in confronto a quelle dei soldati romani

e delle guardie del tempio. Ma la circostanza custodiva una potenzialità

enorme: per quanti fossero i soldati non avrebbero mai potuto tenere testa,

specialmente nella confusione della notte, ad una folla di decine di migliaia di

ebrei, sparsi dappertutto, improvvisamente riforniti di armi, esaltati al grido del

messia che era giunto, finalmente, mandato dal padre Yahweh in persona per

liberare il popolo dei suoi figli .

      In un angolo appartato del giardino Gesù pregava e sudava freddo, lo

attendevano la corona di Davide o i chiodi dei romani.

      Bisognava che alcuni assalissero gli arsenali e ne sfondassero le

protezioni affinché la folla potesse rifornirsi di armi; bisognava far scoppiare

alcuni incendi in perfetta contemporaneità per disorientare i romani sulla

localizzazione dei focolai di rivolta ed anche per suggestionare il popolo

sull'estensione della ribellione; bisognava accendere la scintilla nella

moltitudine dei pellegrini, eventualmente non offrendo loro la scelta fra

partecipare o meno, bensì convincendoli che a seguito di una sommossa già

in atto i romani stavano giungendo in forze per massacrarli tutti. Se la furia

della folla fosse stata scatenata nel modo giusto, e nei tempi giusti, i romani

sarebbero stati travolti in men che non si dica. Se ne sarebbero visti alcuni, in

preda al terrore più implacabile, correre in piena notte verso la campagna

aperta. I giudei li avrebbero agguantati e sgozzati come capre al sacrificio.

Questo era proprio l'incubo che disturbava i sogni di qualche centurione,

durante le notti trascorse in una terra straniera e nemica, a duemila miglia da

casa.

      Era una partita da giocare in un breve mazzetto di minuti. Bisognava

mostrare la bravura e il tempismo di chi sa sfruttare le dinamiche psicologiche

della folla, nonché del panico e dell'esaltazione collettiva.

      Ma anche i romani lo sapevano. Ed erano strategicamente preparati

ad affrontare proprio questa evenienza. Avevano conquistato tutto il mondo

conosciuto fino alle colonne d'Ercole, al Mare del Nord, alle dune del Sahara.

Ed erano esperti di nazioni ribelli e di sommosse popolari: i romani avevano già

disposto che qualcuno li avvertisse prontamente, per poter gettare l'acqua sul

fienile prima che qualcuno vi gettasse la scintilla. L'aspirante messia aveva

sbagliato, qualche giorno prima, a inscenare una grande manifestazione,

entrando in Gerusalemme come il re di Sion della profezia di Zaccaria,

salutato dalla folla in un tripudio di Osanna al figlio di Davide.

      Fu grazie alla soffiata del traditore che non scoppiò nessuna rivolta,

che i fuochi non illuminarono la notte di Gerusalemme, che i pellegrini non

furono svegliati di soprassalto, che centinaia di loro poterono scampare da

sicura morte e risvegliarsi, la mattina dopo, fra i galli che cantavano sotto le

mura del tempio, mentre Gesù era già incatenato nelle segrete della Torre

Antonia.

 

 

BETANIA.

 

      Salendo per le ripide vie del Monte degli Ulivi in breve tempo si giunge

alla sommità, dalla quale si può ammirare una veduta stupenda sulla città di

Gerusalemme. La spianata del tempio, la moschea d'oro, le cupole del Santo

Sepolcro e, oltre, i grattacieli della Gerusalemme moderna, tutto si stende

sotto lo sguardo in un panorama di grande respiro.

      Ci vuole poco per accorgersi che siamo in zona palestinese. Questa è

Gerusalemme est. Iniziando a percorrere le strade che scendono verso

oriente, si nota la presenza di popolazione prevalentemente araba, anche se i

fianchi della collina sono costellati di conventi e chiese cattoliche. Eravamo in

cerca del villaggio di al-Ayzariyah ( = casa di Lazzaro), che il Vangelo chiama

Betania (=casa di Anania), un luogo importante nella vita e negli spostamenti

di Gesù. Qui egli risiedeva nei periodi di visita alla capitale santa; qui abitava la

famiglia di Lazzaro, l'uomo che avrebbe ricevuto da Gesù una particolare

iniziazione che il Vangelo ci ha rappresentato come resurrezione; qui

abitavano le sorelle di Lazzaro, fra cui Maria, che alcuni Vangeli gnostici

definiscono esplicitamente come moglie di Gesù ; qui il maestro avrebbe

seccato un fico colpevole di non avergli dato niente da mangiare; qui si

sarebbe svolto l'episodio della cena con unzione.

      In realtà il villaggio di Betania è una chiave di lettura fondamentale

della vicenda di Cristo, intorno al quale i redattori evangelici hanno svolto

complicate operazioni di censura. Una per esempio: i redattori sinottici non

nominano assolutamente Lazzaro e la sua famiglia , e riducono la presenza

del villaggio nella narrazione alla stregua di una semplice comparsa

paesaggistica. Sebbene esso fosse una residenza abituale di Gesù, Marco,

Matteo e Luca avevano certamente qualche buon motivo per sorvolare

l'importanza della località e della famosa famiglia che vi abitava e che era

molto vicina all'aspirante messia.

      Uno degli episodi più significativi nella narrazione evangelica, ai fini di

interpretare storicamente la figura di Gesù, è avvenuto a Betania, ed è una

cerimonia di unzione svoltasi nel corso di una cena offerta in onore di Gesù,

"...Marta serviva e Lazzaro era  uno dei commensali. Maria allora, presa una

libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù

e li asciugò  con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo

dell'unguento..." (Gv XII, 2-3). Ora, poiché in conseguenza dell'unzione si

scatenò un putiferio, con espressioni vivaci di collera e di dissenso da parte

degli invitati alla cena, possiamo intuire che l'unzione voleva avere il significato

che le è proprio, ovverosia una dichiarazione pubblica della personalità

messianica dell'uomo che poco prima era entrato trionfalmente a

Gerusalemme (o che vi sarebbe entrato dopo poco); e che le proteste della

gente erano dovute al fatto che molti non approvavano i disegni eversivi della

setta e non volevano riconoscere in Gesù l'atteso messia (esattamente come

era già successo quando Gesù si era dichiarato messia nella sinagoga della

sua città ed aveva rischiato di essere giustiziato da una folla infuriata).

      Se confrontiamo i racconti dell'episodio, specialmente quelli sinottici ,

scopriamo che ogni singolo redattore ha escogitato i modi più acrobatici per

censurarlo: chi ha omesso completamente l'identità dei presenti; chi ha

spostato l'episodio nello spazio e nel tempo; chi ha letteralmente cambiato

l'identità della donna che ha eseguito l'unzione, facendola diventare Maria

Maddalena; tutti hanno giustificato l'indignazione dei presenti come scandalo

per lo spreco del prezioso unguento; qualcuno è arrivato a sostenere che, in

seguito allo scialo di profumo, Giuda avrebbe deciso di consegnare Gesù ai

sacerdoti. Come se fosse possibile credere ragionevolmente ad una

sciocchezza simile e con questo si potesse nascondere il fatto che il

tradimento fu dovuto al dubbio insorto nella mente di Giuda nel momento in cui

egli si rese conto che l'adesione dei gerosolimitani alla causa messianica era

tutt'altro che scontata; anzi, che le esternazioni pubbliche a cui la setta si era

lasciata andare avevano del tutto compromesso quel clima di segretezza che

era necessario per il buon esito dell'impresa, e che i conservatori avevano

senz'altro iniziato a prendere contromisure. Persino le traduzioni dal testo

antico a quello moderno rivelano la continuazione di un atteggiamento

censorio, mentre il testo greco di Luca parla di "alabastron mirou" (vaso di

alabastro), la versione moderna parla di "vasetto", al fine di impedire che

l'episodio di Luca, apparentemente distinto dagli altri, possa essere

riconosciuto identico.

      Erano già le primissime ore del pomeriggio e il canto del muezzin si

spargeva in quel cielo bruciato quando io e mia moglie stavamo scendendo sul

versante est del colle, il sole picchiava con tutta la forza dell'estate

palestinese e noi stentavamo a credere ai nostri occhi nel vedere un improvviso

cartello, scritto in modo rudimentale, che indicava "Lazarus' tomb". Dunque

eravamo arrivati a Betania. In realtà eravamo circondati da un tipico paesetto

del medio oriente: case grigio bianche, quadrate e scarne, sparse senza che

alcun piano regolatore ne disciplinasse la posizione, l'ordine, la distanza e la

quantità; fra spazzatura disseminata ovunque, campi di erba secca, auto

sgangherate posteggiate qua e là, qualche cane randagio che vagava intorno.

A ridosso della tomba di Lazzaro, lungo una strada in ripidissima discesa, una

piccola ma graziosa moschea. Ci siamo affacciati al presunto loculo e

abbiamo subito intuito l'esca per turisti: si trattava di una cavità che scende

precipitosamente nel terreno per una decina di metri, una ripida scala si

inerpica in questo budello illuminato grossolanamente con qualche lampadina.

Subito accanto un negozietto di souvenirs, il cui padrone ci aveva già

individuati e ci domandava insistentemente: - Italiano? Italiano? -.

      Se volevo veramente vedere Betania non mi restava che chiudere gli

occhi un'altra volta e lasciare che fosse l'immaginazione a eliminare tutto ciò

che di moderno si trova su quella collina, sostituendolo con antiche abitazioni

al riparo dell'ombra dei fichi, degli ulivi e delle viti, immerse nel profondo

silenzio del pomeriggio estivo.

      Se è posticcia la tomba di Lazzaro, non meno lo è il racconto della

presunta resurrezione, così come lo conosciamo comunemente . Stento a

credere che, in questo nostro universo, la carne ormai putrefatta sia mai

tornata a risplendere del suo roseo vigore e che i morti abbiano potuto rientrare

nel mondo dei vivi. So invece che di tali prodigi si parla tanto nella letteratura

antica, specialmente in quella religiosa ed esoterica. Ma i termini vita eterna,

morte, resurrezione, rinascita... sono sempre usati con significati altamente

simbolici, che non tutti sono preparati a capire.

      Nello stesso Vangelo Gesù afferma "...lascia che i morti seppelliscano

i loro morti...", ma non si riferisce certo ai morti fisici, è un'altra morte che egli

intende. Così come la cecità che egli si vantava di poter curare, o la fame e la

sete che egli si vantava di poter saziare, e il pane della vita eterna che egli

sosteneva di poter dare, non sono certo la cecità degli occhi, la fame e la sete

dello stomaco, e il pane del fornaio. Anche nel Vecchio Testamento il serpente

dice a Eva che coloro che mangeranno il frutto dell'albero della conoscenza

avranno gli occhi aperti e conosceranno il bene e il male; ma nessuno pensa

ragionevolmente che si stia parlando di un albero vero, né degli occhi veri che

si aprono.

      Dobbiamo realmente credere che la resurrezione, di cui si parla nel

Vangelo a proposito di Lazzaro e di Gesù stesso, che scese negli inferi per tre

giorni, sia il ritorno delle cellule ormai disfatte alla loro condizione biologica

precedente?

      Anche Ulisse era sceso agli inferi, sotto la guida degli insegnamenti

della maga Circe, per poi rientrare nel regno dei vivi. Anche il sommo poeta

aveva attraversato l'Acheronte, per poi tornare "a riveder le stelle". Dobbiamo

pensare che Omero e Dante abbiano semplicemente dato sfogo ad una libera

fantasia? Oppure dietro alla loro immaginazione letteraria c'è qualche più

profondo riferimento?

      La verità è che gli iniziati delle discipline spirituali hanno sempre

disseminato i loro scritti di simbologie complesse, la cui comprensione,

spesso, è riservata a coloro che ne possiedono la chiave di lettura. Non è

certo a scuola, quando tutti noi abbiamo studiato l'Odissea e la Divina

Commedia, che ci sono state insegnate queste chiavi; al contrario, nei secoli

che il nostro mondo occidentale ha trascorso sotto il controllo culturale della

chiesa siamo sempre stati premurosamente difesi da questi "cattivi"

paganesimi, il cui pericolo è stato tale da imporre il ricorso alla tortura, al rogo

e all'inquisizione.

      Se ora frughiamo in quelle tradizioni religiose del mediterraneo

orientale e del vicino levante di cui la civiltà cristiana ha quasi totalmente perso

la memoria, troviamo numerosi culti relativi a Dei che muoiono e risorgono

dopo tre giorni di permanenza agli inferi: Mitra in Persia, Osiride in Egitto,

Tammuz in Mesopotamia, Adone in Siria e a Cipro, Attis in Frigia (Anatolia),

Dioniso in Grecia. Sono luoghi che San Paolo conosceva bene, per esserci

cresciuto e per averci viaggiato. Fra questi Dei ve n'era qualcuno che oltre a

morire e a risuscitare tre giorni dopo veniva rappresentato nella figura di un toro

di cui i fedeli mangiavano la carne e bevevano il sangue, per assumere in sé le

qualità del Dio.

      Qualche volta gli adepti avanzati di questi culti misterici praticavano un

rito iniziatico che consisteva nella discesa simbolica nel regno dei morti, e

passavano tre giorni di sonno ipnotico nel buio profondo di una cripta

rigorosamente serrata. Quelli che non erano pronti vi morivano veramente, in

preda al panico, al freddo, alla fame e alla sete; mentre gli altri si risvegliavano

e tornavano indietro con la conoscenza della "vita eterna", e del mistero di ciò

che l'uomo è quando non è più. Cancellate dal cristianesimo, queste forme di

paganesimo sono sopravvissute al di là dell'Indo, ed oggi è soprattutto in India

che possiamo trovare le testimonianze del rito della morte, nell'incredibile

Kechari Mudra degli Yogi tantrici.

      Io e mia moglie abbiamo ricominciato, sempre a piedi, il cammino che

ci avrebbe riportati indietro, ma questa volta senza risalire alla sommità del

monte, bensì seguendo il percorso più logico che certamente avrà seguito

Gesù, quando la mattina lasciava il villaggio dove aveva trascorso la notte e

raggiungeva Gerusalemme, ovverosia lungo la fiancata meridionale del Monte

degli Ulivi. C'è un punto sulla via in cui la vista si apre nuovamente a ovest,

sulla città santa, e il muro orientale del tempio è nuovamente visibile. Quando

gli ebrei ortodossi moderni guardano questo panorama, forse sono portati a

voltare lo sguardo, per risparmiarsi l'ennesima pena di constatare che là, dove

sorgeva il tempio di Salomone e, mille anni dopo, il secondo tempio sacro dei

giudei, oggi domina la cupola d'oro della Moschea della Roccia. E' il colmo

della profanazione: un Dio e un culto estranei hanno stabilito la loro dimora nel

centro dell'anima di Israele.

      Questo ci aiuta a capire cosa deve avere provato l'uomo che le sette

esseno-zelotiche individuavano come l'atteso messia, mentre muoveva i suoi

passi su quella via, e gli appariva la solenne visione del tempio ebraico, in tutta

la maestosa bellezza del paesaggio, invaso dai romani con le insegne

sacrileghe di un imperatore-dio, e da sacerdoti corrotti e impuri che facevano

da padroni nella casa del Signore.

      Eppure gli uomini e le donne del popolo erano lì, venuti a migliaia dai

più lontani angoli del paese, accampati intorno a questo tempio profanato, in

procinto di lasciarsi raggirare da preti indegni, che si spacciavano per maestri

della sapienza di Israele mentre stringevano accordi e patti col nemico

pagano. Quanta rabbia nel cuore del rabbi! Non era quella la sapienza a cui il

popolo doveva attingere, non era quello l'albero da cui doveva ricavare la

conoscenza. Si trattava di un albero sterile, di una casta sacerdotale senza

autorità. Allora gli venne in mente il Rotolo della Guerra dei Figli della Luce

contro i Figli delle Tenebre, che egli ben conosceva, e del castigo che avrebbe

sterminato gli empi dal cuore di Israele, e decise che nessuno in eterno

avrebbe mai più mangiato dei frutti di quell'albero.

      E fu così che sulla via di Betania fu seccato il fico.

 

 

GERUSALEMME ISRAELIANA.

 

      Nella parte ovest della città, negli ultimi 50 anni, sono cresciuti i

quartieri israeliani, che fanno di Gerusalemme una città perfettamente

moderna, con grattacieli, lussuosi hotel, centri commerciali.

      A meno che non sia iniziato lo Shabbat, Gerusalemme è molto viva e

presenta il tipico immancabile disturbo di tutte le città occidentali: gli ingorghi

del traffico. Tanto più che molti automobilisti non sanno assolutamente

guidare, sono arrivati da poco dall'ex Unione Sovietica, e non hanno mai avuto

un volante fra le mani prima di trovarsi in Israele.

      Quasi tutte le sere eravamo soliti recarci nella centrale Ben Yehuda

street, che per un tratto è interdetta alla circolazione automobilistica e

costituisce un autentico pedestrian mall, con gli immancabili fast food delle

catene americane; ma anche con caratteristici negozi di cibo ebraico, dove si

possono prendere panini ripieni di verdure piccanti e di carne d'agnello

arrostita. Tranne il venerdì, la via, nelle ore della sera e fino a tarda notte, è

sempre affollata di gente e specialmente di gioventù. Il sabato è possibile

assitere al miracolo della fine dello Shabbat quando, ad un'ora precisa che è

possibile conoscere attraverso i giornali, la radio e la TV, da un mondo

semidesertico e spopolato comincia improvvisamente a spuntare la gente, si

aprono le botteghe e riprende la vita di sempre, con entusiasmo accentuato

dal termine dell'austerity.

      Dopo un paio di giorni si fa l'abitudine al fatto che ovunque ci sono

fucili mitragliatori a tracolla di giovani, maschi e femmine, in divisa e in

borghese. Il fatto è che i militari in licenza, probabilmente, devono portare il

mitra con sé, anche quando sono in abiti borghesi, oppure che molti giovani

appartengono ad una milizia che pattuglia continuamente le vie. Israele vive

così, sapendo che in ogni istante può essere colpita, e sempre pronta ad

intervenire.

      In mezzo a questi gendarmi tutto si svolge nella maniera più normale.

Ci sono turisti e israeliani, alcuni cantano accompagnandosi con la chitarra,

qualcuno batte ritmi africani sui tamburelli, una coppia di distinte signore

esegue al violino duetti di Mozart, un mendicante chiede l'elemosina attirando

l'attenzione con un malinconico mandolino russo amplificato da un piccolo

congegno elettrico. Ai tavolini che occupano i lati della strada siedono

centinaia di persone che consumano in allegria la loro cena.

      Nel pedestrian mall si possono fare incontri interessanti che aiutano a

comprendere questa realtà. Mi è capitato di parlare con una giovane donna,

bionda, di aspetto occidentale, che passeggiava insieme alle sue bambine. Mi

ha confessato che alla gente crollava il sorriso quando ella rivelava di essere

palestinese. Ma la cosa più curiosa è che era di famiglia cristiana, e così

riscuoteva la diffidenza sia degli ebrei che dei musulmani. In questo paese i

rapporti umani non trascurano l'identità etnico religiosa, come generalmente

succede in Italia, al contrario, i "capuleti" evitano i "montecchi" e tutti se ne

stanno rigorosamente al loro posto.

      Un anziano signore ebreo ci ha raccontato in italiano la sua storia, che

merita forse di essere riportata perché è emblematica di come il moderno

popolo di Israele si è sviluppato. Si tratta di un bosniaco che nel 1943 ha

lasciato il suo paese e ha trascorso alcuni anni come sfollato in Italia, prima a

Trieste e poi a Modena. Quindi ha raggiunto Israele dove è vissuto come

impiegato, per poi ritirarsi in pensione e frequentare quotidianamente la piscina

pubblica, in estate e inverno. Il tratto curioso di questo signore era la sua

opinione, decisamente inconsueta in questo luogo, sul fanatismo religioso di

alcuni suoi connazionali ebrei, nel quale egli individuava la causa principale dei

forti contrasti fra israeliani e palestinesi. "Israele potrebbe vivere in pace" egli

sosteneva "purtroppo l'arroganza di chi si ostina a spingere gli insediamenti

fino nel cuore dei territori occupati tiene il paese in uno stato di guerra

continuata. Bastano poche centinaia di persone che abitano nei pressi di

Hebron per accendere un odio feroce e per mettere a repentaglio la sicurezza

di tutti". Nel frattempo scuoteva la testa e parlava a bassa voce, come per non

farsi sentire da nessuno.

      Assai spesso capita di vedere delle bacheche dove gli Israeliani

mettono bigliettini di annunci, in ebraico, in inglese o, in una elevatissima

percentuale, in russo: "kvartira v arendu" (appartamento in affitto). Moltissimi

russi sono arrivati negli ultimi anni,  e continuano ad arrivare, da quando le

cose sono cambiate in Russia. Ci sono quartieri di Gerusalemme quasi

completamente russi, e cittadine, come la meridionale Beer Sheva, dove la

lingua principale parlata per le strade è il russo e dove i negozianti espongono

le loro insegne in due lingue: ebraico e russo. "My govorim po-russki" (parliamo

in russo) sta scritto sulla porta di molti barbieri, bar, negozi di alimentari....

      Molti di questi immigrati dall'ex Unione Sovietica arrivano senza un

soldo e senza avere la più pallida idea di dove andranno a vivere e di che lavoro

faranno. Ma il governo offre loro di andare negli insediamenti ed essi sono

costretti ad accettare, perché non hanno alternative. Per alcuni aspetti sono

fortunati, perché il villaggio è moderno e le case sono graziose e con tutti i

comforts; per altri la loro condizione assomiglia a quella degli internati, perché

l'insediamento è rigorosamente circondato da un doppio filo spinato, oltre il

quale l'Islam preme tutt'intorno, con la carica silenziosa, ma esplicita, del suo

odio.

      Recentemente è scoppiato lo scandalo delle conversioni facili.

Addirittura personaggi politici di primo spicco sono stati coinvolti nella

questione. Sembra che alcuni rabbini abbiano accettato copiose tangenti per

favorire l'iter burocratico dei procedimenti per il riconoscimento della

conversione alla religione ebraica. Essere ebrei o convertiti ufficialmente

all'ebraismo è condizione indispensabile per poter acquisire la cittadinanza

israeliana. Ma non potremmo certo affermare che fenomeni di questa natura

siano una prerogativa di questo paese.

      In vicinanza di Ben Yehuda street sorge il vecchio mercato centrale,

Mahaneh Yehuda, che iniziò ad essere creato fin dal lontano 1887. E' un

mercato di strada, ma è stato coperto e ripavimentato, i lati delle vie sono

occupati da chioschi e barrocci. In questo luogo c'è un'atmosfera

estremamente vivace: anche qui, come nel mercatino arabo, odori, suoni e

colori coinvolgono tutti i sensi. Spezie, frutti esotici e non, pesci, fra cui quello

di San Pietro, dal lago di Tiberiade, polli, bigiotteria, giocattoli; ci sono anche

le botteghe degli arrotini e dei ciabattini; molti si sbracciano urlando per

richiamare l'attenzione della folla, mentre i barbuti ed austeri hassidim

sbirciano e frugano nella mercanzia. Solo l'inizio dello Shabbat, verso il

tramonto del venerdì, interrompe improvvisamente il brulichio e lascia che il

silenzio cada fra quelle vie strette.

      In questo luogo, pochi minuti dopo le 13.00 di mercoledì 30 luglio, si è

avvicinata una macchina lussuosa, che si è fermata un momento e ha lasciato

scendere due uomini ben vestiti, in giacca e cravatta nera, ognuno dei quali

portava un'elegante borsa scura in mano. I due hanno camminato con calma

mescolandosi alla folla e andandosi a piazzare ai due estremi di una delle

viuzze affollate e coperte che formano il mercato. Un ultimo sguardo reciproco,

poi uno dei due ha tirato un filo provocando una indescrivibile esplosione. La

borsa ricolma di tritolo è saltata in aria squarciando di netto il suo corpo e

colpendo con inaudita violenza la gente intorno. Mentre i brandelli umani

volavano dappertutto e fiumi di sangue si mescolavano col tritume dei

cocomeri e dei pomodori spiaccicati, le persone ancora in grado di reggersi in

piedi venivano colte da un orrore e da un panico incontrollabile, le urla

perforavano l'aria come spade, un fumo acre e irrespirabile li respingeva.

Qualcuno, sgomento, cercava i suoi amici o parenti in quella confusione. I

componenti della security, colti di sorpresa non hanno avuto il tempo di

reagire, avrebbero voluto sparpagliare la gente, per evitare ulteriori

concentrazioni di folla, ma il caos li aveva completamente travolti e tutti quelli

che potevano correvano all'impazzata verso l'altra uscita. Qualcuno cadeva ed

era calpestato dal fuggi fuggi generale.

      L'altro uomo in nero attendeva, con la sua borsa in mano e coi nervi

congelati da un'impossibile volontà di morte. Quando la ressa impazzita gli era

intorno ha urlato ad Allah e ha tirato il filo. Venti secondi dopo la prima, una

seconda esplosione ha risuonato nel cuore del mercato, altri corpi sono stati

improvvisamente lacerati, un'altra nube di fumo ha trasformato la via in un

autentico inferno. Pianto, grida, lamenti, terrore, dolore... Quindici cadaveri

giacevano fra le macerie insieme a più di cento feriti [figg. 14 e 15].

      Gli eroici guerriglieri avevano compiuto la loro gloriosa missione. I

barbari assassini avevano compiuto il loro efferato delitto.

      La sera di quel giorno ho camminato fra le vie del pedestrian mall, a

trecento metri dal luogo di morte; la moltitudine gaudente di sempre era quasi

completamente scomparsa e, al suo posto, c'erano solo soldati e miliziani in

borghese. Armi, armi dappertutto, come durante un assedio. Armi che

dovevano colpire chi se n'era già andato. Armi che dovevano allontanare ciò

che era già venuto.

      Il titolare del piccolo ristorante dove ero solito servirmi, un ebreo che

esibiva nel suo locale la fotografia di un rabbino integralista, uno di quei profeti

apocalittici che auspicano una nazione ebraica liberata da ogni presenza

estranea, sedeva sconsolato ad uno dei tavoli sulla strada. Non c'eravamo che

noi due ad ordinare un falafel di ceci.

      In quel momento la mia debolezza umana ha avuto un indegno

cedimento, che non so perdonarmi. Anch'io ho odiato; ho sentito l'odio per lui

e per il suo rabbino montarmi alla testa e confondermi la ragione. E per

l'ennesima volta ho avuto la dimostrazione che i sentimenti, troppo spesso,

fanno di noi quello che vogliono.

      Purtroppo i palestinesi che ricorrono alle azioni disperate

dell'estremismo terroristico sono uomini di passione, non uomini di ragione.

Essi non conoscono a fondo la storia, e se la conoscessero saprebbero che

ogni eccesso produce l'effetto contrario. Ora i territori occupati sono chiusi,

Netanyahu ha molti motivi per irrigidire la sua politica, i pendolari sono a casa

senza lavoro, i risarcimenti fiscali ai palestinesi sono stati sospesi, i loro conti

nelle banche sono stati congelati, i soldati israeliani hanno intensificato gli

arresti e le repressioni, spesso si lasciano andare all'insofferenza e

maltrattano, tirano calci, torturano.

      Gli estremisti dovrebbero imparare dal destino dei loro stessi nemici,

gli ebrei, le cui sette zelotiche, per avere tirato al punto di rottura la corda fra

loro e gli invasori romani, hanno causato la disfatta completa della nazione, la

distruzione di Gerusalemme e del tempio, la diaspora, l'ostilità diffusa nei

confronti dei giudei e la nascita di una religione che avrebbe ratificato con la

sua dottrina duemila anni di antisemitismo .

      Come ci testimonia ancora Giuseppe Flavio, gli zeloti erano soliti

compiere imprese terroristiche a danno dei romani e degli ebrei

collaborazionisti: "...in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo,

quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno e nel

bel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si

mescolavano alla folla, nascondendo nella veste piccoli pugnali, e con questi

colpivano i loro avversari; poi, quando questi cadevano, gli assassini si

univano a quelli che esprimevano il loro orrore e lo facevano così bene da

essere creduti... si studiavano da lontano le mosse degli avversari e non ci si

fidava nemmeno degli amici che si avvicinavano, ma pur fra tanti sospetti e

cautele la gente continuava a morire, tanto era la sveltezza degli assassini e

la loro abilità nel non farsi scoprire..." ; "...minacciando di morte chi si

sottometteva al dominio dei romani e promettevano che avrebbero fatto fuori

con la violenza chi volontariamente si piegava alla schiavitù. Distribuitisi in

squadre per il paese, saccheggiavano le case dei signori, che poi uccidevano,

e davano alle fiamme i villaggi, si che tutta la Giudea fu piena delle loro gesta

efferate..." .

 

 

BETLEMME.

 

      A breve distanza da Gerusalemme, non più di dieci chilometri in

direzione sud, si trova una delle mete più care ai pellegrini cristiani: Betlemme.

Si tratta di una città di dimensioni tutt'altro che modeste, sede di una

università, in pieno territorio palestinese occupato; del resto il suo carattere

arabo è assolutamente inconfondibile. Per raggiungerla bisogna attraversare un

posto di blocco della Gerusalemme meridionale, uno dei più rigorosi, dove i

militari israeliani eseguono accurati controlli; da qui, procedendo verso sud, si

va verso Hebron, una delle zone politicamente più agitate. Anche Betlemme è

considerata dagli israeliani come un luogo sospetto, probabile nascondiglio di

attivisti palestinesi. Per la verità l'impatto del turista con la città non potrebbe

essere migliore, dovunque si incontra cordialità e gentilezza, dal momento che

Betlemme è abituata a vivere anche coi redditi del turismo e dei pellegrinaggi

cristiani.

      La città è molto vecchia, il suo nome, Beth Lehem, significa "casa del

pane", generalmente associato col termine Efrata, ma potrebbe trattarsi

dell'adattamento di un nome più antico, Beth Lahamu, che si riferisce ad una

divinità babilonese adorata dai cananei. Di Betlemme si parla già nel libro della

Genesi a proposito della sepoltura di Rachele, ed anche nei libri di Rut e di

Samuele. La sua principale caratteristica storica, oltre al fatto di essere la

sede presunta della nascita di Gesù, è quella di avere dato i natali, circa

tremila anni fa, al famoso Davide, figlio di Isai (Jesse), che fu unto re da

Samuele e creò un regno comprendente tutte e dodici le tribù, con capitale

Gerusalemme. Questo fatto ha lasciato sulla città un'importante eredità

perché, da quando hanno cominciato a svilupparsi le prime profezie

messianiche sul ritorno di un re liberatore, Betlemme è sempre stata

considerata la città da cui avrebbe dovuto venire il messia atteso. "E tu,

Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi

uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono

dall'antichità, dai giorni più remoti" (Mi V, 1), così recita un passo di Michea.

Questa profezia è stata ripresa anche dal redattore della natività che apre il

Vangelo di Matteo: "Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re

Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano:

"Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e

siamo venuti per adorarlo". All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e

con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del

popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli

risposero: "A Betlemme di Giudea, perchè così è scritto per mezzo del

profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo

capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo,

Israele." (Mt II, 1-6).

      I pellegrini si recano dunque alla Basilica della Natività, all'interno della

quale si aprono due porte bronzee, risalenti al tempo dei crociati, che

consentono di scendere nella Grotta della Natività, attualmente gestita dai

cristiani ortodossi di rito greco. Qui è possibile ammirare una lastra di marmo

nella quale una stella d'argento a quattordici punte indica il luogo esatto in cui

sarebbe nato Gesù.

      Consultando vecchie redazioni dei testi evangelici , si può venire a

sapere che il testo moderno è stato spesso censurato, specialmente nelle

parti da cui appare in modo abbastanza inequivocabile che Giuseppe e Maria

hanno avuto diversi figli. Infatti, se nel testo lucano moderno è stata lasciata

l'espressione "diede alla luce il suo figlio primogenito" (Lc II, 7), in quello di

Matteo compare la frase "...la quale, senza che egli la conoscesse , partorì

un figlio, che egli chiamò Gesù..." (Mt I, 25) che è la riduzione di quanto

appariva invece nei testi antichi: "...et non cognoscebat eam donec peperit

filium suum primogenitum: et vocavit eius Iesum...", cioè: "...e non la conobbe

(=non ebbe con lei rapporto carnale) finché ella non ebbe partorito il suo figlio

primogenito: e lo chiamò Gesù...". Innanzitutto noteremo la scomparsa della

parola "primogenito", molto fastidiosa perché turba l'idea che Gesù sia l'unico

figlio. Inoltre dobbiamo convenire che fra "senza che egli la conoscesse" e "non

la conobbe finché..." c'è un totale ribaltamento del concetto. Il fatto si

commenta da solo.

      Che Gesù sia nato a Betlemme è solo una simpatica leggenda,

introdotta dai redattori dei Vangeli, i quali erano legati alla necessità di

accreditare una dignità messianica alla persona Gesù. Questo fatto, sebbene

possa non essere comunemente noto ai fedeli cristiani, è riconosciuto non

solo dagli studiosi appartenenti alla critica laica, ma anche da quelli cattolici:

"...la nascita a Betlemme ha una forte connotazione teologica..." .

      Del resto la lettura delle uniche due natività presenti nel Nuovo

Testamento, cioè nei Vangeli secondo Matteo e Luca , rivela una tale serie di

incongruenze e di contraddizioni da rendere palese l'intento puramente

apologetico degli autori, ai quali non interessava raccontare fatti storici bensì,

attraverso certi requisiti di nascita e opportuni adempimenti di profezie, essi

volevano attribuire a Gesù determinate qualità teologiche.

      Matteo, per esempio, ha insistito molto sulla personalità regale del

personaggio, l'abbiamo visto con la citazione di cui sopra, in cui si dice

chiaramente che Gesù avrebbe dovuto essere il re dei Giudei. Proprio per

questo motivo Erode si sarebbe preoccupato che qualcuno potesse

spodestare lui e la sua famiglia dal trono di Israele a avrebbe cercato di far

eliminare il bambino. La presunta persecuzione del re bambino a cui compete

una missione di salvezza, che riprende un cliché molto in voga in tante

religioni assai più vecchie del cristianesimo , e il massacro dei bambini di

Betlemme non hanno nessun riscontro storico, sono solo riflessi della crudeltà

con cui era solito regnare Erode . Anche la presunta fuga in Egitto della

famiglia perseguitata ha un carattere leggendario. Del resto la natività di Luca,

sorprendentemente, non fa cenno ad alcuna persecuzione né fuga in Egitto;

secondo il racconto lucano tutto si svolge nella più perfetta tranquillità e il

bimbo non solo non viene nascosto, ma viene pubblicamente portato al tempio

per la circoncisione, dove qualcuno lo avrebbe riconosciuto subito come

l'atteso messia .

      Ma questa non è l'unica differenza fra le due natività: un'altra riguarda

il luogo di residenza della famiglia. Infatti, secondo Matteo, Giuseppe e Maria

abitavano a Betlemme, prima della fuga in Egitto, pertanto la famiglia si

sarebbe trasferita a Nazareth, per la prima volta nella vita, solo al ritorno

dall'esilio egiziano; Gesù, secondo Matteo, fu visitato dai Magi nella sua casa,

non in una stalla . Luca invece ha dichiarato che i due genitori abitavano a

Nazareth fin da prima che il bambino fosse concepito nel ventre della madre e,

per farlo nascere a Betlemme, ha escogitato un espediente che non può

reggere il confronto critico con l'analisi storica. Egli ha scritto che i genitori,

essendo originari di Betlemme, dovettero colà recarsi per essere registrati in

occasione del censimento della Palestina che fu effettuato dai romani sotto la

supervisione di Publio Sulpicio Quirinio. E' una circostanza tristemente

famosa, le cronache storiche ne parlano dettagliatamente informandoci che

essa fu la causa di una sanguinosa rivolta antiromana, nel corso della quale fu

ucciso anche il capo zelota Giuda il galileo. Con questa affermazione del

Vangelo lucano un colossale abisso di inconciliabilità si apre nei confronti

della natività di Matteo che, evidentemente, Luca non conosceva. Innanzitutto

il censimento suddetto si è svolto nel 7 d.C., undici anni dopo la morte di

Erode il Grande, sotto il cui regno, se dobbiamo credere a Matteo, avrebbe

dovuto nascere Gesù e sarebbe stato perseguitato. Ecco perché Luca non fa

cenno alla persecuzione da parte di Erode, come avrebbe potuto in queste

condizioni?

C'è poi da dire che è assolutamente inaccettabile l'idea che i romani

si aspettassero che gli ebrei si presentassero spontaneamente per la

registrazione, addirittura facendo un viaggio di 150 chilometri per raggiungere i

villaggi di origine della famiglia. Il Vangelo stesso ci parla dei pubblicani, tanto

disprezzati da Gesù, ovverosia degli ebrei buoni conoscitori della loro terra e

dei loro simili, a cui i romani si affidavano per stanare le persone là dove esse

abitavano e per far loro pagare le tasse. E, a rendere ancor più inverosimile il

racconto lucano, c'è la circostanza descritta per la nascita del bambino: se i

genitori avessero dovuto recarsi a Betlemme poiché quella era la città della

loro famiglia, perché là non avrebbero trovato né fratelli, né parenti o amici di

alcun genere, che potessero evitare alla povera donna di partorire così

accidentalmente, fra la paglia di un serraglio per le bestie? Il racconto lucano

non solo non dimostra che Betlemme fosse la città di Maria e Giuseppe, al

contrario, fa chiaramente capire che quel luogo era a loro totalmente estraneo.

      L'ultima differenza fra i due racconti, di cui vogliamo parlare adesso, è

quella che riguarda le genealogie. I due autori, infatti, pressati dalla necessità

di attribuire a Gesù ben autorevoli requisiti, si sono sentiti in dovere, ciascuno

per conto proprio, di redigere gli alberi genealogici del bambino. Matteo si è

concentrato su una personalità regale e ha creato una lista in cui, fra Abramo

e Gesù, sono contenuti tre volte quattordici nomi, per un totale di

quarantadue , fra i quali compaiono tutti i re di Giuda. Luca, invece,

concentratosi su una personalità sacerdotale, ha creato una lista in cui, fra

Abramo e Gesù, sono contenuti quattro volte quattordici nomi, per un totale di

cinquantasei, fra i quali compaiono importanti sacerdoti. In particolare, nel

tratto che va da Davide a Gesù, i nomi sono completamente diversi.

      L'unica conclusione seria che possiamo trarre è il riconoscimento del

fatto che la redazione dei racconti evangelici è consistita nella composizione

artificiale di una figura dotata di quelle caratteristiche teologiche che fossero

funzionali ad una certa catechesi.

      Il presepe è la rappresentazione folcloristica di un racconto fantastico,

ma ciò non toglie che Betlemme possa tranquillamente rimanere al suo posto

nel culto e nell'interesse dei cristiani che la visitano in pellegrinaggio. Anche in

Finlandia molta gente va a visitare la casa di Babbo Natale. Sono le bugie che

nuocciono alla cultura, non le leggende e le tradizioni popolari.

 

 

IL MAR MORTO E IL DESERTO DI GIUDA.

 

      Se è vero che Israele offre la possibilità di passare repentinamente

attraverso universi umani lontani e conflittuali, è vero che il paese offre una

possibilità analoga anche relativamente agli universi paesaggistici e climatici.

E' quello che succede se si lascia Gerusalemme in direzione est, in

automobile, procedendo sulla strada per Gerico. Non appena passato il posto

di blocco di Al-Ayzaryiah ed essersi lasciati alle spalle il villaggio palestinese,

inizia una discesa, talvolta piuttosto ripida, che non cessa fino ai dintorni di

Gerico e delle sponde del Mar Morto. Si ha quasi l'impressione di una discesa

in aeroplano: in meno di mezzora si copre un dislivello non indifferente di 1200

metri, passando dagli ottocento s.l.m., responsabili del clima confortevole di

Gerusalemme, ai quattrocento sotto il l.m., responsabili di un autentico clima

sahariano.

      Questa esperienza, per il turista, è quasi scioccante. Le carte

geografiche sono piatte e, per quanto rappresentino i dislivelli, non possono

aiutare più di tanto a comprendere la violenza di certi impatti reali. E così, nel

corso della discesa, il paesaggio alberato e dolce dei dintorni della grande

città si trasforma rapidamente; in un primo momento i villaggi arabi e gli

insediamenti ebraici, che ostentano casette moderne e ben curate,

ammorbidiscono l'ambiente coi segni della presenza umana. Ma già dopo

alcuni minuti tutto questo scompare e ci si trova circondati da colline giallo-

bianche, tondeggianti, assolutamente brulle, che fanno venire in mente i passi

traballanti dei primi astronauti sulla luna. A colmare la sorpresa per la rapidità

di questo cambiamento contribuiscono i numerosi accampamenti beduini ai

lati della superstrada. Si stenta a credere che qualcuno abbia potuto scegliere

di vivere in questo ambiente, dove non c'è un corso d'acqua, non c'è un filo

d'erba verde, non c'è, tanto meno, un albero a cui chiedere riparo dal sole.

I beduini hanno costruito autentici villaggi di baracche, con pali di

legno, stoffe, lamiere, cartoni pressati. Alcune donne siedono in terra,

all'ombra delle  misere tettoie. Si capisce così che essi hanno qualcosa in

comune con gli esquimesi della Groenlandia poiché, con loro, condividono

condizioni estreme, con le quali hanno familiarizzato e che, per loro, sono

diventate addirittura indispensabili. 50 gradi sopra zero per gli uni, 50 sotto per

gli altri. Non resterebbe che la droga o l'alcolismo, per un beduino o un

esquimese trapiantato in una metropoli europea. I primi hanno bisogno di

prendere in un giorno tutto il sole che prende un olandese in un anno; i

secondi hanno bisogno di bruciare in pochi minuti le calorie che a Firenze si

bruciano in una settimana.

      I beduini non vogliono un ambiente più fresco e umido. Sono nati sotto

l'incudine del sole; e il fango secco del terreno, duro come il cemento, ha da

essere il loro giaciglio. Si possono osservare animali che circolano

nell'accampamento o intorno, in quei pascoli impossibili. Capre innanzitutto,

ma anche asini, cavalli, dromedari. Dopo una prima impressione che il campo

sia sporco ci si accorge che il sudicio non esiste in quell'ambiente. Ce n'è

molto di più a Gerusalemme o nei villaggi palestinesi. La polvere asciutta del

terreno che è stata carezzata dal sole e trasportata dal vento non è sudiciume.

Anzi, la stessa Bibbia la riconosce come il materiale più nobile, al punto da

essere stata scelta per crearvi l'umanità [fig. 16].

      Non ho avuto il coraggio di fotografare i beduini. Avrei dovuto accostare

l'auto al bordo della strada, scendere, appostarmi, assumere l'atteggiamento

dello spettatore di una esibizione equestre, trattandoli come attrazioni da

circo. Ho preferito rispettarli e fotografarli con la memoria. Ho avuto

l'impressione che la loro dignità, per la frugalità essenziale con cui essi

traggono la vita là dove un ingegnere e un biologo riuscirebbero a cavarsela

solo con un telefono cellulare in mano, è tale che essi mi sono subito sembrati

i padroni naturali di quella terra, molto più degli stessi palestinesi e degli

israeliani. Poiché certamente Dio ha riconosciuto un diritto sacro di proprietà

del mondo soprattutto a coloro che sanno conoscerlo in profondità, amarlo e

rispettarlo.

      Continuando a scendere il paesaggio va facendosi ancora più

desertico, i pochi fili d'erba gialla si diradano fino a scomparire, e giunge un

momento in cui si dischiude una vista emozionante: la piana di Gerico e del

Giordano è distesa davanti al turista, con l'aspetto di un paesaggio

extraterrestre. Solo con gli occhi strizzati è possibile spingere lo sguardo in

avanti, una luce abbagliante emana nell'aria che vibra di calore. In lontananza,

nelle opacità del deserto, si distingue il profilo dei monti della Giordania.

Mentre il Mar Morto, azzurro, se ne sta maestosamente tranquillo, come un re

nella sala del trono.

      Siamo nel deserto di Giuda, quello in cui la narrazione dei Vangeli

sinottici ambienta i quaranta giorni di autoesilio del Cristo, subito dopo che

costui era stato battezzato da Giovanni, sul Giordano. Se vogliamo credere

che l'episodio non sia leggendario, ma che corrisponda a un fatto reale,

potremmo cercare di interpretarlo alla luce delle seguenti considerazioni.

Giovanni, le cui caratteristiche lo avvicinano molto all'immagine di un asceta

esseno, era solito predicare alla gente, sulle rive del fiume Giordano, invitando

alla conversione perché, secondo lui, era imminente la venuta del regno. Se

consideriamo questo annuncio coerentemente con la visione messianica degli

ebrei possiamo comprendere che Giovanni si riferiva alla tanto attesa

ristrutturazione del regno di Yahweh, la quale sarebbe stata la conseguenza di

una violenta ribellione messianica. Il profeta reclutava nuovi adepti alla causa

col tipico rito esseno di iniziazione: il battesimo. Si noti il seguente brano che

lo qualifica ancor più come probabile esseno: "Vedendo però molti farisei e

sadducei venire al suo battesimo, disse loro: "Razza di vipere! Chi vi ha

suggerito di sottrarvi all'ira imminente? Fate dunque frutti degni di conversione,

e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che

Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla

radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e

gettato nel fuoco..."" (Mt III, 7-10). Noi ben sappiamo che la setta essena era

nemica giurata dei sadducei e dei farisei, in quanto contestava ai primi una

condizione di grave corruzione, dovuta al loro connubio opportunistico con

l'invasore romano, e ai secondi il fatto di avere assunto una comoda posizione

neutrale nei confronti della causa messianica. Giovanni, coerentemente con le

concezioni espresse dal Rotolo della Guerra, pronuncia minacce apocalittiche,

parla di un'ira imminente e di alberi non buoni che vengono tagliati e gettati nel

fuoco. Egli, inoltre, annuncia la venuta di qualcuno che "ha in mano il

ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà

la pula con un fuoco inestinguibile" (Mt III, 12); anche questa volta i toni sono

decisamente minacciosi, non possiamo certo riconoscere il presunto clima di

perdono e di misericordia che la tradizione attribuisce al messaggio cristiano,

al contrario, qui si prevede una spietata selezione da effettuare nel nuovo regno

(il granaio), che eliminerà chi non sarà degno di entrarvi (la pula).

Immediatamente dopo l'annuncio, questo personaggio, che in base a quanto

detto sopra ha tutte le caratteristiche di un messia, viene battezzato da

Giovanni stesso, ovverosia si sottopone ad un rito di ammissione ufficiale nella

setta. "Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase  quaranta

giorni" (Mc I, 12-13), ovviamente il fatto di fermarsi nel deserto subito dopo

essere stato ammesso nella confraternita e di rimanervi a lungo (quaranta

giorni) non può non sollevare il ragionevole sospetto che ci si riferisca ad una

permanenza di Gesù nel ritiro Qumraniano, che si trovava proprio lì, a due

passi da dove Giovanni battezzava, in pieno deserto.

      Un tardo pomeriggio ho provato a deviare dalla strada che unisce

Gerusalemme col Mar Morto e ho preso una via che si insinua in quella che la

mappa definisce wilderness (zona selvaggia), lontano da qualsiasi centro

abitato. La carreggiata non era neanche segnata sulla carta. Il paesaggio era

di una bellezza indescrivibile, anche se il suo aspetto era in grado di incutere

un certo timore; che sarebbe successo se la macchina avesse deciso di fare i

capricci? Non credo che sia piacevole, e nemmeno molto sano, per un

cittadino poco avvezzo a questi climi, fare alcuni chilometri a piedi sotto

l'incudine del sole, dove non esiste alcuna traccia di riparo ombroso. Intorno

era tutto un susseguirsi di dossi tondeggianti, lavorati dal vento e dalle scarse

piogge, il colore dominante era il grigio giallastro, i fili d'erba rarissimi, ma

irrimediabilmente secchi. Provando a camminare su quel suolo ci si rende

facilmente conto che non si tratta di terra, e nemmeno di roccia. E' fango

secco, di colore grigio biancastro e molto duro, ma facilmente riducibile in

polvere. Trattandosi di un'ora non lontana dal tramonto, la luce radente

esaltava le forme del paesaggio e lo rendeva ancora più affascinante. Abbiamo

cercato di proseguire sempre più all'interno di questo ambiente, ma con nostra

grande delusione abbiamo incontrato un cartello che intimava l'alt, avvertendo

che, a pochi metri da lì, la strada sarebbe stata inaccessibile. Subito dopo la

curva abbiamo ricevuto la spiegazione di ciò: un doppio recinto di filo spinato

proteggeva una postazione militare dell'esercito israeliano, con tanto di mezzi

corazzati. Siamo stati assaliti dal timore di non aver visto qualche cartello che

proibisce l'accesso ai civili, abbiamo fatto dietro front e siamo tornati sui nostri

passi. Dopotutto i militari israeliani non hanno mai un aspetto molto

rassicurante, danno tutta l'impressione di essere abituati ad agire prima che ci

sia il tempo di pensare.

      Una deliziosa perla in questo quadro desertico è il piccolo centro di

Nabi Musa. Molti turisti probabilmente se lo lasciano sfuggire per la sua

posizione poco in vista sia sulle guide turistiche, sia nel panorama visibile da

chi scende in macchina da Gerusalemme a Gerico. Infatti c'è un solo punto in

cui, seminascosta fra i colli spogli, appare sulla destra una visione fantastica

che sembra un'immagine della carta da presepe, di quella che si compra in

cartoleria e si attacca al muro, nella quale sono illustrate alcune palme, degli

edifici in stile arabo con le cupole bianche, e tante stelle che brillano nel cielo

blu. Si tratta di una moschea in cui la tradizione islamica individua la tomba di

Mosè, il profeta che i musulmani amano non meno degli ebrei [fig. 17]. Ogni anno

questo luogo, in passato, dopo l'epoca delle crociate, era meta di un

pellegrinaggio islamico da Gerusalemme che, si dice, avesse uno spiccato

significato anticristiano. Non ho proprio idea di quanto attendibile possa essere

l'attribuzione del luogo come sepoltura di Mosè, anche perché il profeta, se

analizzato storicamente, rivela sconcertanti particolari fra i quali anche il

sospetto che non si tratti affatto di una singola persona, ma dell'assemblaggio

di elementi mitici con elementi storici che si riferiscono ad almeno due

individui.

      Uno dei contributi più interessanti sulla figura di Mosè lo ha portato

senz'altro Sigmund Freud. Come sappiamo, il famoso padre della psicanalisi

era ebreo e, fra le tante cose di cui si era occupato, c'è anche uno studio sulle

origini del monoteismo in cui egli ha affrontato il problema della personalità

storica di Mosè. Freud non era certo abituato ad accontentarsi delle dottrine e

delle opinioni ortodosse, se così fosse stato la psicoanalisi avrebbe dovuto

aspettare ancora qualche anno prima di nascere. Egli ha interpretato

l'esigenza umana, comunemente attribuita in senso originale al popolo degli

ebrei, di ridurre l'immagine delle potenze creatrici da un pantheon di

innumerevoli divinità a quella di un solo Dio come un evento psichico, di cui

egli ha ravvisato le dinamiche nei moti dell'inconscio collettivo.  Considerando

in particolare il fatto che il Dio della sintesi mosaica ha un'immagine maschile,

come un grande patriarca,  Freud si è spinto fino a ipotizzare che i contenuti

rimossi nell'inconscio collettivo, relativi all'odio ancestrale nei confronti del

padre  siano successivamente riemersi e abbiano prodotto il recupero della

immagine autoritaria del padre-padrone, proiettata teologicamente nella figura

di un Dio unico, padre, geloso dei suoi figli, spesso protettivo ma, altre volte,

crudelmente e sanguinosamente punitivo. In realtà non è vero che le radici

dell'idea monoteista siano ebraiche e Freud spiega, nel suo libro "Mosé e il

Monoteismo", come la religione ebraica sarebbe una rielaborazione dell'idea

già precedentemente espressa nella sintesi religiosa del rivoluzionario faraone

Akhenaton.

      Il faraone Amenofi IV aveva effettuato una riforma religiosa in senso

monoteistico (1378-1362 a.C.), in seguito alla quale aveva sostituito l'affollato

pantheon egiziano con un solo Dio, identificato nel disco solare: Aton; egli

stesso mutò il suo nome in Akhenaton (o Ekhnaton, o Ikhnaton = gradito ad

Aton). Egli si era circondato di nuovi sacerdoti e questo non aveva fatto la gioia

della precedente classe sacerdotale, che si era vista sfrattare rapidamente. Il

nuovo ordine stabilito da Akhenaton non durò a lungo, egli regnò quasi tredici

anni, poi la casta sacerdotale fedele ad Amon e a tutti gli altri Dei riuscì a

effettuare una controriforma e a ristabilire la religione precedente ad Amenofi

IV. Il faraone che regnò in Egitto all'indomani di questa restaurazione fu il

famosissimo Tut-ankh-Amon.

      L'avvincente ipotesi di Freud è quella che Mosé non fosse affatto un

semita, scampato al genocidio dei giovinetti ebrei perché affidato alle acque e

salvato dalla stessa regina egiziana, ma un purosangue egiziano su cui la

tradizione ebraica avrebbe voluto costruire, con artifici mitologici e letterari, una

identità ebraica . Innanzitutto possiamo notare che la circostanza del

salvataggio dalle acque non è che una riproduzione del mito già applicato

molto tempo prima (24  sec. a.C.), alla stessa identica maniera, sul re Sargon

di Accad, e che tale espediente sarebbe servito apposta per far apparire come

ebreo il padre e legislatore della nazione; nazionalità che, in realtà, sembra

che non gli appartenga affatto. In secondo luogo possiamo notare che

l'attribuzione al suo nome del significato "salvato dalle acque" è assolutamente

inconsistente, perché il termine Moses appartiene alla lingua egiziana, e lo

ritroviamo in molti altri famosi nomi come Ah-mose (Amosi), Thut-mose

(Tothmes), Rah-mose (Ramses o Ramesse); il suo vero significato è,

certamente, "figlio".

      Mosè sarebbe stato un seguace della concezione religiosa

monoteistica, basata sul culto solare di Aton, che, nel clima della

controriforma effettuata dai sacerdoti di Amon, avrebbe avuto gravi difficoltà ed

avrebbe cercato di predicare il suo credo ai popoli semiti, insediatisi già da

lungo tempo in terra d'Egitto, la cui situazione era progressivamente andata

evolvendo in un stato di semischiavitù. La simbiosi sarebbe consistita nel fatto

che, mentre costoro avrebbero visto nel personaggio di Mosè una possibile

guida capace di dar loro una dignità etnico-religiosa e una speranza di

redenzione dal loro stato di sottomissione, egli avrebbe visto in loro le persone

disposte ad accettare la sua predicazione e a considerarlo come il loro capo e

condottiero in una lotta di liberazione. In pratica la sintesi mosaica, secondo

questa interpretazione freudiana, sarebbe il trapianto su un substrato semitico

della concezione religiosa egiziana del faraone Akhenaton.

      Si osservi quanto afferma lo stesso Sigmund Freud: "Il credo ebraico,

come è noto, recita: "Schema Jisroel Adonai Elohenu Adonai Echod". Se la

somiglianza del nome dell'egizio Aton alla parola ebraica Adonai e al nome

divino siriaco Adonis non è casuale, ma proviene da una vetusta unità di

linguaggio e significato, così si potrebbe tradurre la formula ebraica: "Odi

Israele il nostro Dio Aton (Adonai) è l'unico Dio"" .

A sostegno di questa interpretazione possiamo notare che la stessa immagine

della famosa "arca dell'alleanza", coi cherubini alati, che sarebbe stata

conservata nel tempio di Salomone fino all'invasione assira, riproduce la "barca

degli dei" dei templi egizi, anch'essa coi cherubini ad ali spiegate [fig. 18].

      E' proprio a queste considerazioni che mi riferivo in un precedente

paragrafo di questo libro quando, parlando dell'incontro col professor

Gershenson all'università di Tel Aviv, avevo notato come egli fosse facilmente

incline ad analizzare criticamente i presupposti storici del cristianesimo, in

una condizione di libertà da ogni pregiudizio, ma si fosse improvvisamente

irrigidito nel momento in cui la discussione si era spostata sulla personalità

storica di Mosè.

 

 

KHIRBET QUMRAN.

 

      Giunti nella piana di Gerico, la prima cosa che abbiamo fatto è stata

quella di cercare delle indicazioni per Qumran, le quali non si sono fatte

attendere molto; il sito archeologico è a cinque chilometri da lì. Un leggera

deviazione a destra, una brevissima salita sui primi contrafforti della montagna

e finalmente il cartello ci ha informati che eravamo arrivati.

      Era quasi mezzogiorno, l'ora in cui il sole manifesta con tutta

chiarezza che egli è contemporaneamente signore della vita e della morte, e

che può uccidere con quella stessa energia con cui, normalmente, alimenta

l'esistenza degli animali e delle piante. Abbiamo aperto le porte della

macchina e, abituati come eravamo al condizionatore, siamo stati assaliti da

una autentica muraglia d'aria pesante e rovente (si ricordi che a 400 m sotto il

l.m. la pressione è maggiore); l'abbiamo battezzata "la sala macchine" e nei

giorni successivi abbiamo usato spesso quella espressione, che ricorda

l'atmosfera del vano motori di una nave. Questo è il deserto [fig. 19].

      Khirbet Qumran è un sito archeologico ufficiale, curato dal governo

Israeliano, dove ancora oggi sono attivi degli scavi. Si paga una tariffa modesta

per l'ingresso e si riceve un piccolo depliant, disponibile anche in Italiano.

L'uomo dello sportello si raccomanda: "Take some water with you!". I turisti

erano pochi, qui l'alta stagione corrisponde all'inverno o alla primavera.

In questo ambiente, a mezzodì di un giorno del mese di luglio, quando

la temperatura rischia di avvicinarsi ai 50 gradi, è necessario coprirsi la testa,

bagnarsi la nuca e le braccia, bere spessissimo, muoversi come i bradipi;

bisogna respirare con calma, fare passi lenti. Con un po' d'attenzione si riesce

a controllare il metabolismo che si abbassa e cessa quasi completamente di

produrre calore corporeo. Fortunatamente il vento non manca e aiuta a

sopportare le condizioni ambientali; e se non ci fosse quello, la situazione

sarebbe proibitiva poiché ci si muove in un paesaggio di rocce e pietre che,

praticamente, non si possono nemmeno toccare. Una autentica fornace [fig. 20 e 21].

      Sarebbe meglio venire alle quattro del mattino, quando compaiono i

primi chiarori del giorno che nasce. Ma il sito è aperto dalle 8.00 alle 17.00,

quando la violenza del sole è irrimediabile. All'alba sarebbe anche possibile

comprendere meglio quello che dice Giuseppe Flavio, quando descrive il rito

della preghiera al sole, che gli esseni, probabili costruttori ed abitatori di

questo luogo, compivano tutte le mattine rivolti verso l'astro sorgente. Non si

tratta di un rito usuale nel culto ebraico, e questo dimostra come gli esseni

esprimessero un dissenso non solo nei confronti dell'autorità politica e

sacerdotale di Gerusalemme, ma anche nei confronti della concezione

religiosa in generale. Essi seguivano un calendario solare, alternativo a quello

lunare ufficiale, al punto che le loro festività non corrispondevano a quelle

rispettate a Gerusalemme. Anche questo è un elemento schiacciante che

stabilisce una relazione fra il movimento cristiano delle origini e l'essenato;

infatti nella narrazione evangelica, relativa agli eventi della passione e della

morte di Cristo, che si svolsero nei giorni della Pasqua ebraica, si osservano

delle incongruenze di data che trovano una facile spiegazione nel calendario

solare.

      La prima cosa che il visitatore incontra, all'interno del sito, è una serie

di rovine, testimonianza dell'esistenza di una piccola cittadella dalle mura di

pietra. Non si trattava di abitazioni, bensì di edifici adibiti alle occasioni della

vita comunitaria della setta: acquedotti, cisterne, una torre, una sala di

scrittura, una cucina, un'aula per le assemblee, una mensa, i magazzini per il

cibo, il laboratorio di ceramica, il forno, la stalla. La gente non abitava in

queste costruzioni, ma nelle tende che dovevano certamente essere disposte

nello spazio intorno.

      A est delle rovine murarie una breve, arida discesa giunge alla piana

sottostante, sulle rive del Mar Morto. Subito a nord una scarpata precipita

nello uadi Qumran, il letto del fiume che ospita un corso d'acqua solo nelle

rare occasioni di pioggia. Sulle fiancate dello uadi, in posizione difficilmente

raggiungibile, si possono osservare le aperture delle grotte in cui sono stati

ritrovati i manoscritti. Qui i membri della setta li avevano nascosti allorché

ebbero il sospetto che i romani avrebbero potuto giungere e distruggere la

comunità. A ovest si trova la parete rocciosa e arida dei monti, che forma un

salto quasi verticale di circa 250 metri, dal quale, solo nel periodo invernale,

precipita una cascata.

      Il sito è ricchissimo di miqweh, vasche rituali, delle quali avremo modo

di parlare altre volte. La caratteristica di queste vasche non è quella di servire

semplicemente da cisterne per la conservazione dell'acqua piovana, o di

svolgere una funzione esclusivamente igienica; le abluzioni nelle vasche

facevano parte integrante del culto. Possiamo paragonare le miqweh ebraiche

ai ghat indiani, visibili sulle rive del Gange o all'interno dei templi indù. Le

vasche, infatti, con la loro struttura mostrano di essere state concepite

appositamente perché le persone potessero scendere comodamente nell'acqua,

tramite una gradinata, e quivi eseguire un rito di purificazione [fig. 22].

Innanzitutto i membri della comunità, prima di riunirsi nella mensa per

il pasto comunitario, si cambiavano d'abito, indossavano un saio di lino e si

immergevano nelle vasche. In secondo luogo dobbiamo notare che lo stesso

rito di ammissione nella comunità era costituito da una cerimonia battesimale,

tramite la purificazione per immersione nell'acqua. Chi non rifletterebbe sullo

straordinario parallelismo che si verifica con le usanze dei primi cristiani, i

quali ammettevano i nuovi adepti con un battesimo purificatore dei peccati?

      Anche il rito di apertura del pasto comunitario induce profonde

riflessioni sui legami fra cristianesimo ed essenato: "...allorché disporranno la

tavola per mangiare, o il vino dolce per bere, il sacerdote stenderà per primo la

sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce..." ; "...allorché la

mensa comune sarà pronta e il vino dolce da bere sarà versato, nessuno

stenda la sua mano sulla primizia del pane e del vino dolce prima del

sacerdote, giacché egli benedirà la primizia del pane e del vino dolce e

stenderà per primo la sua mano sul pane..." . Il fatto che il pane e il vino

dovessero essere sottoposti ad una benedizione speciale del sacerdote, prima

di essere distribuiti al commensali, richiama in maniera più che evidente il rito

eucaristico cristiano .

      A questo punto si capiscono le ragioni che avevano messo la chiesa

cattolica sul chi va là in seguito alla scoperta dei manoscritti, e avevano reso

Padre de Vaux così geloso nei confronti dei medesimi, inducendolo a creare

una commissione "internazionale" che era composta di soli cristiani di provata

fede e a segregare il materiale, rendendone l'accesso impossibile ad altri.

Come sul materiale biblico, sempre sottoposto a rigidi condizionamenti

interpretativi nonché a traduzioni opportunistiche, anche il materiale

qumraniano doveva essere messo nella condizione di non nuocere alla

dottrina, lasciando scaturire una interpretazione che fosse opportunamente

"sterilizzata" e, forse, tramite l'occultamento del materiale più pericoloso.

      Per fortuna, all'inizio degli anni '90, qualcuno ha reso di pubblico

dominio le copie fotografate dei manoscritti, aprendo la possibilità di effettuare

l'analisi del materiale in un clima libero dai monopoli. Senza dubbio il miglior

contributo in questo senso è stato dato dal professor Eisenman, direttore del

dipartimento di Studi Religiosi dell'Università di California, il quale da anni

aveva tentato di accedere ai manoscritti, ma si era sentito rispondere

testualmente: "Non vedrete mai i rotoli, finché vivrete" .

      Lo studioso sostiene che esseni, zadochiti, zeloti e nazareni siano, in

pratica, la stessa cosa o, comunque, sfaccettature molto correlate di un solo

fenomeno: il dissenso religioso, puristico e intransigente, nei confronti della

evidente corruzione della classe sacerdotale gerosolimitana e della presenza,

sul trono di Iraele, di una dinastia indegna, quella erodiana. La setta si era

fatta custode della concezione messianica e la vita settaria era concepita

come una preparazione concreta, religiosa, ma anche militare nel senso

proprio del termine, all'imminenza della liberazione messianica che avrebbe

restituito a Yahweh la sovranità unica su Israele.

 

 

EN GEDI.

 

      Se da Qumran si percorre la costa occidentale del Mar Morto, in

direzione sud, si attraversano zone totalmente desertiche e sassose. Le rive

del lago sono quasi perennemente isolate da reticolati spinati, e intorno regna

una solitudine assoluta; dove non ci sono i reticolati ci sono grandi cartelli che

proibiscono l'accesso alle rive e, soprattutto, intimano il più perentorio divieto

di balneazione. Poi, dopo una trentina di chilometri circa, improvvisamente

appare qualche inaspettata macchia di verde, si tratta di palme da datteri, fra

le quali si scorge un centro abitato. Il cartello stradale indica che siamo arrivati

a En Gedi, una località che in questo angolo di mondo può veramente essere

considerata un paradiso. Le montagne che sovrastano la riva occidentale del

Mar Morto raccolgono acqua nella stagione delle piogge, e la conservano

gelosamente nelle proprie viscere. Qui parte di questa acqua sotterranea

zampilla all'esterno in una sorgente che è una vera benedizione non solo per il

deserto di Giuda, ma per tutto Israele. Ovunque infatti, in tutto il paese, è

possibile acquistare l'acqua minerale En Gedi, col simbolo di uno stambecco

nella sua etichetta, cioè dell'animale che vive su queste rocce.

      L'oasi di En Gedi o Engaddi è famosa fin dai più lontani tempi storici,

una così generosa sorgente di acqua buona e fresca, unica in tutta la regione,

non può certo passare inosservata. Dopo avere lasciato la macchina nel

grande posteggio per auto e pullman, ci siamo finalmente avvicinati alle rive del

lago, la qual cosa fino a quel momento era sembrata quasi impossibile. Ci ha

accolto un ambiente balneare con tanto di stabilimento, docce, ombrelloni

pubblici, spogliatoi, che, per quanti sforzi facesse per sembrare normale,

sembrava in realtà un posto dell'altro mondo. Innanzitutto la temperatura

superava abbondantemente i quaranta gradi, poi il lago, a dispetto del suo

stupendo colore azzurro, aveva un che di spettrale: non una barca, non un

motoscafo, niente di niente, solo una immensa solitudine che incute un

timoroso rispetto. Appena giunti sulla riva abbiamo visto la torretta di

salvataggio accanto alla quale un grande cartello intimava di non spingere i

bagnanti, di non schizzare, di non bagnarsi assolutamente il viso, di evitare

l'acqua negli occhi, di recarsi immediatamente al pronto soccorso nel caso di

deglutizione accidentale. Ci siamo scambiati un'occhiata domandandoci se

fosse il caso di fare il bagno, ma poi la vista di numerosi bagnanti ci ha

rassicurati e abbiamo deciso di tentare l'esperienza.

      Alcune donne palestinesi ingannavano il caldo stando a bagno maria

sulla linea del bagnasciuga, interamente vestite, anche col velo sul capo

s'intende; i colori dei loro abiti creavano un bellissimo gioco di tinte col blu

dell'acqua [fig. 23]. Non mancavano i turisti, ma si trattava di un paio

di dozzine di persone, non di più.

      Ciò che colpisce è la totale assenza di qualcosa che sia un segno di

vita organica. Nei laghi o nel mare, generalmente, ci sono uccelli che

svolazzano intorno alle rive e che si posano sulla superficie. C'è vegetazione

che cresce sulla riva, ci sono cumuli di alghe trasportate dalle onde, si

possono intravedere animali come conchiglie, ricci, granchi, pesci. Qui no.

Sassi sulla riva e sassi nell'acqua. Nient'altro. Si percepisce abbastanza

concretamente il fatto che la vita acquatica qui non è compatibile.

      Allora siamo entrati nell'acqua, che aveva quasi la temperatura del

corpo, e subito abbiamo provato la sensazione di essere diventati salvagenti

umani; a causa dell'elevato peso specifico di quest'acqua salatissima il corpo

umano galleggia con estrema facilità, anzi, si perde quasi l'equilibrio proprio

perché le gambe tendono ad affiorare, esattamente come se si indossassero

braccioli alle caviglie. Dopo poco tempo un leggero prurito ha cominciato ad

impadronirsi del corpo, bastano minuscole ferite od abrasioni sulla pelle per

dare una modesta sensazione di bruciore. Praticamente non si riesce a

nuotare. Sia perché si evita sistematicamente di gettarsi l'acqua negli occhi.

Sia perché la posizione orizzontale, necessaria per effettuare delle normali

bracciate, risulta difficoltosa.

      Quando poi siamo usciti, a dispetto del sole fortissimo, del calore

dell'aria, e anche del vento che soffiava costante, non ci siamo asciugati

neanche dopo mezzora, perché i sali disciolti sono fortemente igroscopici e

trattengono l'umidità. Ecco perché c'era un numero non indifferente di docce,

intorno alle quali la gente si affollava. Persino le donne palestinesi, sempre

completamente vestite, venivano sotto la doccia e si inzuppavano gli abiti in

cerca di un po' di refrigerio. Se mezzora non era bastata per asciugare la pelle

nuda bagnata con l'acqua salata, è stata più che sufficiente per asciugare

qualsiasi vestito bagnato con acqua dolce. L'evaporazione è quasi immediata.

 

 

MASADA.

 

      Se dall'oasi di En Gedi si percorrono ancora venti chilometri lungo la

riva del Mar Morto, sempre in direzione sud, si giunge in prossimità della rocca

di Masada, dove si è svolta una delle pagine più drammatiche della storia di

Israele. Nel frattempo il paesaggio si è fatto ancora più desertico, per quanto

questo possa sembrare impossibile. La piana costiera è una distesa spettrale

di fango bianco seccato, anzi, arrostito al sole, scolpito dai rarissimi passaggi

dell'acqua, senza la più pallida traccia di vita vegetale e animale; tutt'intorno

s'innalzano monti di roccia e di ghiaia. E' un'autentica valle della morte.

      Su una di queste montagne, dalle pareti verticali e dalla cima piatta

come una grande tavola, Erode il grande fece costruire una delle sue fortezze;

un'altra la volle a Macheronte, dall'altra parte del Mar Morto. Il luogo

comprende costruzioni militari, come torri di guardia, mura, casematte,

quartieri per gli ufficiali; edifici religiosi, come una sinagoga; alcuni palazzi

lussuosi, destinati a usi cerimoniali e residenziali, con architetture

estremamente raffinate; terme con piscine calde e fredde; pozzi e cisterne;

magazzini. Il tutto si trova sul pianoro sommitale, i cui margini precipitano in

spaventosi burroni che dominano il deserto sottostante. Alla morte di Erode (4

a.C.) il luogo passò direttamente nelle mani dei romani che ne fecero una loro

fortezza militare [figg. 24 e 25].

      Il turista oggi raggiunge Masada dalla parte del Mar Morto, dove una

breve deviazione della strada si spinge fino ai piedi del monte. Da qui parte una

teleferica, costruita da una compagnia svizzera, che percorre un dislivello di

circa 250 metri, arrivando quasi in cima. Ancora due rampe di scale e si

scollina sulla vetta, dove alla vista della valle si aggiunge quella del sito con

tutte le sue rovine. Il panorama è grandioso ed è fra i più suggestivi del mondo.

Per ammirare il Mar Morto meglio di così è necessario un aeroplano.

      Anche qui il clima estivo è estremo; a conforto dei visitatori il sito è

disseminato di tettoie ombrose e di rubinetti d'acqua, senza i quali

probabilmente non sarebbe possibile, per un semplice cittadino che non è

allenato a certe situazioni, percorrere un itinerario che complessivamente

raggiunge i due chilometri. Non tutti infatti, si spingono verso la parte sud della

montagna, che giace nella totale solitudine, al punto che è possibile, come è

successo a me, incontrare uno stambecco che vaga nel silenzio dei sassi.

Non si riesce a capire di cosa si alimentino questi erbivori e donde possano

trarre l'acqua di cui hanno bisogno. Io non ho visto un solo ciuffo d'erba.

      E' difficile, quando si cammina in questo luogo come turisti

spensierati, immedesimarsi nel dramma che vi si è svolto duemila anni fa,

quando un migliaio di persone misero in atto un suicidio collettivo. Il fatto è che

nel 66 d.C. erano scoppiati grandi disordini che avevano preso l'aspetto di una

autentica rivolta antiromana. In questo clima precario alcune parti della società

giudaica avevano un atteggiamento più moderato, sapevano che la potenza

romana non avrebbe mai potuto essere sconfitta ed erano disposti a

contentarsi di una condizione di maggiore rispetto dei luoghi di culto. Ma la

visione intransigente dei movimenti messianici, caratterizzata dal fanatismo

religioso e dalla convinzione di avere Dio dalla propria parte , sentendosi

pertanto infallibili, spinse gli zeloti a portare il conflitto fino ad un confronto

estremo, con lo scopo di cacciare definitivamente i romani dalla Palestina. Un

certo Menahem, figlio del famoso Giuda il Galileo, che nutriva ambizioni

messianiche esattamente come il padre e come il nonno Ezechia, guidò i suoi

seguaci a Masada, massacrò la guarnigione romana e si impadronì della

fortezza con tutti gli arsenali di Erode. Questo per i romani fu il segnale che

non si trattava di una rivolta qualunque, come tante altre ce n'erano state in

passato, ma di una autentica guerra che, a questo punto, avrebbe potuto

concludersi in un modo solamente: con la totale distruzione della nazione di

Israele.

      Menahem morì dopo poco, non prima però di avere coronato per pochi

giorni quello che da oltre un secolo era l'ambizione della sua famiglia:

indossare in Gerusalemme l'abito regale del messia. Fu un ebreo a ucciderlo,

un certo Eleazar figlio di Anania, che non condivideva gli ideali della setta di

Menahem.

      A dimostrazione del fatto che gli esseni non erano solo asceti dediti al

misticismo, abbiamo la esplicita notizia che parte delle operazioni di guerra

furono affidate ad un certo Giovanni l'esseno. Ma anche gli scavi archeologici

effettuati a Masada dimostrano che fra gli zeloti che la occupavano ci dovevano

essere degli esseni; sia perché qui sono stati trovati manoscritti del tutto

analoghi a quelli qumraniani, sia perché gli occupanti avevano creato strutture

architettoniche uguali a quelle qumraniane: per esempio le tipiche miqweh, i

bagni rituali [fig. 26].

      La guerra ebbe uno sviluppo infausto per gli ebrei e, dopo la caduta di

molte città della Palestina, fra cui Tiberiade, Magdala, Iotapata, e la stessa

Gamla da cui provenivano gli zeloti di Giuda, Gerusalemme cedette al lungo

assedio e fu espugnata da Tito, figlio dell'allora imperatore Vespasiano. Era il

29 Agosto del 70 d.C. La città fu rasa al suolo, migliaia di ebrei furono

massacrati, altri deportati, il tempio, finito di costruire sei anni prima, fu

totalmente distrutto, tranne alcuni frammenti del muro erodiano. Il sancta

sanctorum fu profanato e il suo contenuto, col candelabro a sette braccia, fu

saccheggiato e portato a Roma. Ancora oggi, sull'arco di Tito, è possibile

vedere i bassorilievi che mostrano il ritorno trionfale del generale, poi

imperatore, col bottino di guerra.

      Il conflitto sembrava finito, ma i combattenti che occupavano la

fortezza di Masada decisero di resistere ancora, come se dalla loro posizione

essi avessero potuto riconquistare tutto il terreno perduto. Era un certo

Eleazar ben Jair (Lazzaro figlio di Giairo), parente di Menahem, che li guidava.

Essi avrebbero resistito per ben tre anni, costringendo i romani a elevare un

immenso terrapieno sul fianco occidentale della montagna, che consentisse

loro di superare la parete e di raggiungere la sommità. Ancora oggi, visitando il

sito, è possibile vedere con estrema chiarezza le muraglie di pietra che

delimitavano i campi romani, nella valle intorno, e il fatidico terrapieno.

      Quando questo fu fatto, gli assediati si videro perduti e, pur di non

consegnarsi ai romani, presero la decisione di suicidarsi collettivamente. Lo

storico Giuseppe Flavio riporta nella sua "Guerra Giudaica" il discorso che

Eleazar avrebbe pronunciato ai suoi seguaci; un discorso straziante, ma

emblematicamente e significativamente pieno di contenuti non affini

all'ortodossia della religiosità giudaica, che non può che scaturire da una

concezione esoterica appartenente ad una setta di dissidenti quali sarebbero

stati, appunto, gli esseni. Addirittura nel discorso ci sono espliciti riferimenti

alla spiritualità degli indiani, mostrando così come tali gruppi mistici avessero

contatti di qualche natura con le spiritualità orientali, persiane ed indo-

buddiste.

      Circa 960 persone si dettero la morte, lasciando sul luogo tutto intatto,

comprese le vettovaglie. Solo due donne e cinque bambine, che si erano

nascoste, sopravvissero. Quando i romani entrarono trovarono una distesa di

cadaveri e, a detta di Giuseppe Flavio, espressero la loro ammirazione per il

coraggio degli assediati e per il loro disprezzo della morte [fig. 27].

      Masada è la dimostrazione che il radicalismo religioso può portare gli

uomini ai più estremi fra i comportamenti. Non è possibile non vedere un

collegamento fra l'attitudine suicida degli zeloti (ne vedremo un altro caso

quando parleremo di Gamala) e quella dei moderni guerriglieri palestinesi che

si immolano come bombe umane. Lo stesso discorso pronunciato da Eleazar,

che prometteva la liberazione dell'anima e il suo raggiungimento di un luogo

che le sarebbe più congeniale del corpo fisico , fa pensare alla motivazione

che spinge i kamikaze islamici. Essi, infatti, sono convinti che la morte eroica

li condurrà in un paradiso nel quale non esiste la sofferenza.

      Personalmente ritengo che i palestinesi dovrebbero riflettere sul

destino che alcuni ebrei, al tempo della dominazione romana, hanno procurato

a tutta la nazione col loro radicalismo religioso, credendo irriducibilmente in

quelle profezie messianiche che li facevano sentire predestinati alla vittoria,

accecando così la loro capacità critica di valutare i rapporti di forza col nemico

e di intuire quali sarebbero stati i probabili sviluppi della situazione.

Constatando quali sono le conseguenze degli attacchi terroristici, posso

sicuramente affermare che certi estremismi hanno l'unico effetto di irrigidire la

situazione e di rendere il dialogo fra le due parti sempre più difficile. Non vorrei,

infatti, che si generasse una escalation simile a quella che venti secoli fa portò

i romani a spazientirsi fino al punto di decidere la totale distruzione di un

popolo che non aveva saputo accettare compromessi nel suo stato di

sottomissione. Il terrorismo, più che da una attenta valutazione strategica

finalizzata ad ottenere i migliori risultati a lunga scadenza, nasce da un

impulso passionale che può semplicemente soddisfare la bramosia di vendetta

e l'orgoglio personale.

 

 

CESAREA.

 

      Immaginiamo di trovarci sulle rive palestinesi del mediterraneo, indietro

di quasi venti secoli, una quarantina di chilometri a nord del luogo dove oggi

sorge la metropoli di Tel Aviv. E' sera, l'aria è tersa, il vento spira verso terra e

spinge lo onde a rompersi fragorosamente sui frangiflutti artificiali, siamo

carezzati dal profumo intenso della salsedine che gli schizzi affidano alla

brezza. Spingendo lo sguardo in lontananza, possiamo scorgere a malapena

la pallida figura di alcune montagne: è l'isola di Cipro.

      Poi, improvvisamente, ci sembra di vedere qualcos'altro che affiora

sulla linea dell'orizzonte, un puntino nero che lentamente si ingrandisce e

prende forma, riconosciamo in esso il profilo di una triremi romana, con la sua

tipica alberatura. Là sopra decine di schiavi, al ritmo del tamburo, scandiscono

possenti remate; da settimane essa naviga da Roma ed è finalmente prossima

al termine del suo lungo viaggio verso la terra di Giuda.

      Siamo a Caesarea Maritima, fra le dune di sabbia, dove i romani hanno

edificato il loro quartier generale, sfruttando così il porto costruito da Erode. Se

ci voltiamo indietro possiamo ammirare l'imponente teatro romano. Ovunque

c'è movimento di gente che va e viene, nonché cavalli, cammelli, asini che

arrancano portando merci [fig. 28].

      Questo, più o meno, doveva essere l'aspetto della città nella quale, a

partire dal 6 d.C., era stata posta la capitale ufficiale della nuova provincia

giudea e la residenza ufficiale dei procuratori romani. Qui visse Ponzio Pilato

dal 26 al 36. C'erano, oltre al porto e al teatro romano, un ippodromo,

l'anfiteatro erodiano, le mura di circonvallazione, un grande acquedotto, la

sinagoga.

      Qui siamo arrivati dopo più di due ore di viaggio da Gerusalemme; la

velocità di percorrenza sulle strade israeliane, fra posti di blocco e

rallentamenti, è molto bassa. Devo confessare che abbiamo avuto molta

difficoltà a trovare il sito archeologico; non ostante la sua importanza storica,

finché non ci si sbatte il naso contro, non si trova un solo cartello che aiuti il

turista a raggiungerlo. Poi, appena messo il piede fuori dell'auto, abbiamo

incontrato due sgradite sorprese, la prima era un caldo umido che toglieva il

respiro, la seconda il fatto che occorresse pagare sempre, anche solo per

muovere un dito: per posteggiare, per visitare il sito, per accedere alla

spiaggia. In Israele capita spesso che la linea d'acqua, sul mare o sui laghi,

sia rigorosamente irraggiungibile a causa dei reticolati, con tanto di filo

spinato, tranne in alcune zone dove l'accesso non è mai libero, ma sempre

dietro pagamento di un biglietto molto salato. Non si tratta di stabilimenti ben

attrezzati con la vigilanza alle auto posteggiate, è semplicemente una tassa di

accesso, anche perché ci sono cartelli che recitano "la balneazione è a vostro

rischio", oppure "il parcheggio è incustodito". Poco più a nord di Cesarea,

lungo il litorale, è il regno della speculazione edilizia a base di residence, in fila

uno dopo l'altro, e di villette per le ferie. Per ora esse si limitano a deturpare

l'ambiente costiero come costruzioni fantasma, le case e i vialetti sono

totalmente disabitati, sebbene la stagione sia sicuramente quella in cui

dovrebbero brulicare di vacanzieri gaudenti dalla pelle d'aragosta bruciata.

Israele conta su un futuro che non è affatto scontato, perché la pace non si

costruisce coi villaggi turistici, ma coi presupposti di una convivenza serena

con l'Islam, che è onnipresente da queste parti, dentro e fuori dal paese.

Personalmente ho potuto risolvere il problema del bagno tuffandomi, come altri

locali, dal molo del porto e godermi così una consueta esperienza che, almeno

per una volta in questo viaggio, non fosse l'impatto con le sconvolgenti arsure

dei deserti. L'acqua di Cesarea è limpida, pulita e la sua temperatura è tale

che il bagno può durare a lungo senza che insorga la sensazione del freddo; è

una stupenda occasione per riequilibrare il corpo dopo giorni e giorni di

paziente sopportazione del caldo.

      Cesarea, come molte altre località della Palestina, è stata teatro di

orribili massacri nel corso della sua storia. Il procuratore Gessio Floro, verso il

66 d.C. fece uccidere oltre 2000 ebrei nell'anfiteatro. Era l'epoca in cui la

regione stava infiammandosi per la guerra, al termine della quale, l'anfiteatro di

Cesarea vide ancora altri 2500 ebrei dati in pasto alle belve.

Verso il 195 d.C. Cesarea fu sede di un concilio cristiano e, col

tempo, la presenza cristiana andò sempre consolidandosi. Quivi insegnarono

due importanti padri della chiesa: Origene (185-255) e Eusebio, detto

comunemente "di Cesarea", (265-340) il quale lavorò sotto Costantino,

impegnato nel contribuire alla normalizzazione della dottrina cristiana in quel

contesto nella quale era stata ufficialmente accolta.

Entrambi questi scribi furono acerrimi nemici della vecchia tradizione

giudeo-cristiana che, pur testimoniando più autenticamente il Cristo storico e

le reali motivazione del suo operato, era stata soppiantata dalla concezione

messianica riformata da Paolo e non avrebbe mai più potuto essere accettata,

come tale, nell'impero romano. Entrambi, nelle loro opere, hanno citato gli

scritti giudeo-cristiani, ma solo per confutarli duramente e senza risparmiarsi,

talvolta, argomentazioni che nascondono infondate calunnie . Non mi

meraviglierebbe affatto se si scoprisse eventualmente che proprio questa

generazione di padri della chiesa abbia contribuito, non solo a confutare gli

scritti del giudeo-cristianesimo, ma a farli letteralmente sparire dalla

circolazione.

      L'opera principale di Eusebio di Cesarea, "Historia Ecclesiastica", è un

documento colossale e meticoloso, certamente il più grosso sull'argomento,

ma del tutto inattendibile come fonte di notizie per comprendere quale sia

stato il processo storico reale di formazione della chiesa cristiana, in quanto è

stato redatto in modo troppo evidente come apologia interessata. Tanto più

che il momento storico, il trionfo dell'establishment costantiniano, era tale da

determinare dei ben precisi orientamenti ideologici. Al massimo l'opera di

Eusebio può essere utilizzata in senso paradossale, ovverosia per capire,

quando la contraddizione storica è palese, quali sono state le direttrici seguite

dai costruttori della dottrina cristiana e su cosa si è accanito il loro

atteggiamento censorio.

E' molto probabile che Eusebio di Cesarea o i suoi "colleghi" siano gli

autori delle numerose interpolazioni effettuate sull'opera di Giuseppe Flavio,

dalla quale sono stati sicuramente cancellati i passi compromettenti e

sostituiti con brani molto più compatibili. Il famoso "testimonium flavianum", un

brano di "Antichità Giudaiche", nel quale Giuseppe avrebbe parlato di Gesù, è

riconosciuto come falso anche dagli esegeti cristiani. Del resto lo scriba

giudeo, accolto alla corte di Vespasiano, avrebbe forse potuto ammettere, in

un'opera commissionatagli dall'imperatore, la resurrezione di Gesù, la sua

divinità e la sua dignità messianica senza, con questo, incorrere nell'accusa di

essere cristiano?

      A partire dal 639 Cesarea divenne città araba, e fu ininterrottamente

tale per quasi cinquecento anni, cioè fino a quando i crociati, nel 1101, la

conquistarono e massacrarono sommariamente tutti i suoi abitanti. Iniziò così

un destino mutevole che vide crociati ed arabi alternarsi nel possesso della

città per un secolo e mezzo, finché gli arabi la ripresero e la rasero

completamente al suolo. Cesarea fu abbandonata e rimase solo un mucchio di

rovine per oltre seicento anni. Solo alla fine del secolo scorso i turchi

dell'impero ottomano si insediarono sul luogo e vi fondarono un villaggio.

 

 

NAZARETH.

 

      Sono giunto a Nazareth dopo avere percorso in macchina le curve che

dalla piana di Afula salgono, in un ameno paesaggio di pini ombrosi, verso la

città. Qui ho dovuto constatare, purtroppo, che il primo impatto del turista "fai

da te" è di smarrimento totale. Nazareth, la più araba di tutte le città non

comprese nei territori palestinesi occupati, è immersa in un caos

indescrivibile. Bastano poche auto per creare un ingorgo, le indicazioni stradali

sono assenti o scritte solo in arabo ed ebraico, l'intreccio delle strade e delle

vie è labirintico. Assistito dalla fortuna e dall'impegno di mia moglie, che stava

consultando la guida turistica, ho raggiunto rapidamente il Tourist Information

Office, nel quale una gentile signorina ebrea mi ha aiutato a trovare una

camera presso l'Hotel San Gabriel; uno strano incrocio fra una chiesa ed un

albergo, bellissimo, situato nel punto più alto della città, in cima al colle, con

una impareggiabile veduta panoramica.

      Nazareth è una località che non può essere capita realmente, e forse

nemmeno lontanamente immaginata, se non la si è vista di persona. La

fantasia popolare, frutto della dottrina cristiana, la vede come un paesetto

rurale di poche case, dolce e tranquillo, adagiato sui colli della Galilea,

circondato da un paesaggio di ulivi, di fichi, di opunzie. Ci si immagina un

popolo laborioso di contadini e di artigiani, che trascorre il suo tempo nella

calma delle mattine e dei pomeriggi assolati di Palestina. Ma questa è solo la

scenografia del racconto evagelico; niente di più lontano dalla realtà moderna.

      La città coi suoi sobborghi oggi conta più di centomila abitanti e ha

tutto l'aspetto di un grosso centro ad alta densità di popolazione e di traffico.

Essa è costituita da due centri affiancati: l'araba en-Nasirat, che corrisponde

fisicamente al luogo in cui sarebbe cresciuto Gesù, e la giudea Nazerat Illit,

subito a nord est, costruita dopo la nascita dello stato di Isrele. Questo

sdoppiarsi delle città in due centri, uno musulmano e l'altro ebraico, qui è un

fatto molto comune che, agli occhi del turista scevro da pregiudizi, porta subito

una chiara indicazione: l'apartheid, anche se nessuno osa mai nominare

questa parola, è la realtà più evidente in questo problematico paese.

      Il centro della Nazareth più antica ha quasi l'aspetto di un bazaar:

negozi dappertutto, negozi di tutto, quasi sempre abbelliti da scritte in arabo, e

soltanto in arabo. La gente è cordiale, i commercianti invitano gli avventori ad

entrare nelle loro botteghe, le auto sono posteggiate in tutti i possibili luoghi

non consentiti. In mezzo a tutto troneggia la cristianissima Basilica della

Annunciazione, costruita nei recenti anni '60, vero capolavoro della più banale

mediocrità architettonica; sono proprio convinto che di peggio non si sarebbe

potuto fare.

      Al popolo indigeno si mescolano due tipi di turisti: i pellegrini cristiani,

generalmente in grandi comitive fra le quali spiccano i gruppi di italiani

regolarmente accompagnati dal sacerdote, e i turisti non pellegrini, spesso

coppie di giovani nord-europei o americani, coi loro immancabili sacchi in

spalla. I primi frequentano i ristoranti degli hotel, dove mangiano cibi che non

hanno una caratteristica locale, i secondi, invece, frequentano i ristoranti arabi

della città, nati per la popolazione del luogo, assai economici, nei quali è

possibile gustare i tipici falafel a base di farina di ceci o la carne arrostita in un

caratteristico grill verticale, lo shuarma; il tutto accompagnato da variopinte

insalate arabe, nelle quali si trovano dei peperoncini capaci di disinfettare con

la loro potenza un'area di almeno cento metri quadrati.

      A Nazareth non c'è assolutamente niente che possa essere

considerata una testimonianza originale del paese in cui sarebbe cresciuto il

Gesù dei cristiani. Tutto è solo una scenografia posticcia. Infatti a differenza di

tanti siti storici ed archeologici, in cui c'è almeno una costruzione, un muro,

uno scavo che abbia riportato alla luce testimonianze dei tempi che furono, qui

la presenza di Gesù e della sua famiglia è testimoniata solo dai nomi degli

alberghi, dei ristoranti, delle chiese, e dalle parole della narrazione evangelica.

Non un solo muro diroccato o un sasso che parlino del villaggio di duemila

anni fa. I pellegrini vengono e ammirano le Chiese moderne, tutt'al più qualche

rudere bizantino che può risalire, al massimo, all'inizio del quinto secolo. La

stessa cosa non accade altrove, dal momento che tutto il territorio di Israele è

straordinariamente ricco di siti archeologici nei quali sono riportati alla luce,

come a Gerico, oggetti che possono risalire fino al 7000 a.C. Israele è una

miniera inesauribile di testimonianze che ci raccontano della storia dell'uomo

in tutte le sue fasi, dalla preistoria, attraverso l'età antica, quella classica,

quella medievale, quella degli ultimi secoli, fino a quella moderna.

      Ma dov'è finito il paesetto di Giuseppe e Maria? Possibile che il tempo

abbia potuto cancellare ogni minimo segno di una seppur così autorevole

presenza? Eppure i resti esistono di altre città in cui Gesù è passato e ha

compiuto alcune delle sue opere: Cafarnao e Korazim, a nord, sul lago di

Tiberiade; Samaria, nel centro del paese; Gerusalemme, Betlemme e Gerico,

in Giudea, solo per fare alcuni esempi.

      Quello che è più sorprendente non è solo la completa assenza di una

"Nazareth di Gesù" ma, accanto a ciò, la sua completa assenza nelle

testimonianze scritte degli storici. Con questo intendo riferirmi al fatto che

nessuno storico del tempo ha mai nominato il villaggio e, al di fuori del

racconto evangelico, esso compare solo negli scritti cristiani risalenti ad alcuni

secoli dopo.

      Le due grandi fonti storiche che testimoniano della Palestina dei tempi

di Gesù sono gli scritti di Giuseppe Flavio e di Filone Alessandrino.

Specialmente il primo, nelle sue grandi opere La Guerra Giudaica e Antichità

Giudaiche, ha minuziosamente descritto tutto il paese nominando ogni più

piccolo centro abitato. Ma di Nazareth non ha fatto cenno alcuno, sebbene a

pochi passi dal villaggio sorgessero altri centri, come Sefforis e Iotapata, di cui

lo storico parla e di cui oggi si possono ammirare i resti.

      I fatti sono due: o Nazareth era solo un minuscolo borgo di due o tre

case che meritava il totale oblio da parte di Giuseppe Flavio (ma così non

appare nella descrizione evangelica), oppure Nazareth, al tempo di Gesù, non

esisteva proprio e sarebbe stata creata successivamente, con lo sviluppo della

dottrina cristiana. I Vangeli ci dicono che a Nazareth c'era del popolo e delle

abitazioni, delle botteghe artigiane, come quella del carpentiere Giuseppe,

c'era almeno una sinagoga; non poteva trattarsi di una semplice fattoria

sperduta nella aperta campagna.

Per la verità gli stessi Vangeli, quando parlano della città di Gesù,

preferiscono limitarsi all'espressione "la sua patria" e ne citano il nome in

pochissime occasioni: il Vangelo di Marco solo all'apertura, con le parole:

"...In quei giorni Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel

Giordano da Giovanni..." (Mc I, 9), dopo di ché il nome della città è

completamente dimenticato ; il Vangelo di Matteo solo tre volte, poi anche qui

si parla della "sua patria"; il Vangelo di Luca cinque volte, ma solo all'inizio,

nella natività, che molti riconoscono essere un racconto fondamentalmente

leggendario, e in un enigmatico episodio di cui discuteremo ampiamente; il

Vangelo di Giovanni in un'unica occasione, anche questa all'inizio, quando

qualcuno afferma che Gesù viene da Nazareth e l'interlocutore si domanda che

cosa possa venire di buono da quella città . La collocazione e la frequenza del

termine Nazareth all'interno dei testi evangelici lascia il ragionevole sospetto

che possa trattarsi di interpolazioni successive.

      Assai più spesso invece i Vangeli parlano di Gesù il Nazareno, e

usano per questo l'espressione greca Iesous o Nazoraios (in lingua semitica

Jeshu ha Nozri). A dir la verità l'aggettivo Nazoreo  non può significare

"Nazaretano" , ovverosia abitante di Nazareth, e non ci sembra affatto un caso

che esista un antico testo evangelico, che la chiesa definisce apocrifo, cioè

non accettabile ai fini della fede, che fu composto in lingua semitica da una

setta giudeo-cristiana, contemporanea di Gesù, il cui nome è, appunto,

Vangelo dei Nazorei.

      Possiamo avere il piacere di consultare questo testo? Purtroppo no.

Lo conosciamo solamente attraverso le citazioni denigratorie effettuate da

alcuni Padri della Chiesa, che lo criticano aspramente e, forse, sono

direttamente responsabili della sua scomparsa. Dalle parole di Epifanio e di

Teodoreto sappiamo solamente che i Nazorei possedevano il "Vangelo

secondo Matteo, assolutamente integrale, in ebraico... come fu

originariamente scritto", che essi rifiutano gli insegnamenti di San Paolo, che

"sono Giudei che onorano il Cristo come uomo giusto...".

In pratica i Nazorei  non erano i cittadini di Nazareth ma i componenti

di una setta religiosa il cui nome originale è Nozrim, con un possibile

riferimento all'espressione ebraica NZR, indicante uno stato di purezza e di

santità, che ritroviamo nell'antico testamento a proposito del voto di nazireato

(i nazirei sono coloro che lasciano i capelli intonsi e accettano alcuni voti di

purezza). Ho un vago sospetto che, se noi avessimo potuto consultare il

Vangelo dei Nazorei, forse non avremmo mai trovato alcun cenno ad una

eventuale città chiamata Nazareth. Michail Bulgakov doveva essere al corrente

di qualcosa del genere, sia perché fece dire al suo Jeshu di essere

soprannominato ha-Nozri, sia perché, alla domanda di Pilato, non gli fece

rispondere "sono di Nazareth", ma "di Gamala". Bulgakov non fa cenno alla

città di Nazareth.

      Come abbiamo già detto, le descrizioni che i nostri Vangeli canonici

offrono della città di Cristo non sembrano calzare a puntino sulla Nazareth che

i pellegrini visitano oggi. I Vangeli ci mostrano una città molto prossima al lago

di Tiberiade, [fig. 29] mentre per raggiungere il cosiddetto mare di Galilea o lago

Kinneret è necessario percorrere 36 km, prima fra i colli di Galilea, per poi

scendere nella ripida depressione che porta alla valle del Giordano, a circa

duecento metri sotto il livello del mare. In tutto fra Nazareth e il lago c'è un

dislivello di circa seicento metri. Occorrono almeno tre giorni di dura marcia a

dorso di mulo per andare e tornare, senza contare le soste, e non è molto

verosimile che la gente facesse comunemente questa fatica per seguire Gesù

nei suoi insegnamenti pubblici tenuti sulla riva del lago. C'è poi da dire che la

posizione rispetto al lago non sembra corrispondere: Nazareth si trova a

sinistra del lago, sul versante della Galilea, mentre la città di Gesù, se

dobbiamo giudicare da alcuni suoi movimenti, sembra essere collocata a

destra del lago, sul versante del Golan. Com'è possibile, infatti, che egli, dopo

avere lasciato la sua città, abbia attraversato il lago in barca e sia approdato

sulla sponda di Genezaret, che si trova esattamente dalla stessa parte di

Nazareth?

      Ma c'è qualcosa di più sorprendente che possiamo osservare su

Nazareth. Nei quattro giorni che ho trascorso in quella città ho potuto

constatare, nonché fotografare, il suo aspetto generale: il centro, che

corrisponde alla parte più antica, in cui si trova la Chiesa dell'Annunciazione, è

localizzato praticamente nell'avvallamento fra due colli; il resto della città in

tempi moderni si è espanso a macchia d'olio sulle fiancate dei colli, la cui

morbida inclinazione ha facilmente consentito la costruzione degli edifici, fino

a raggiungere la sommità dei rilievi, sul più alto dei quali si trova l'Hotel San

Gabriel. Si tratta di colline morbidissime e stondate, dalla sommità

praticamente piatta [fig. 30].

      Tutto ciò contrasta pesantemente con una minuziosa descrizione

presente sul Vangelo di Luca, in base alla quale la città avrebbe dovuto trovarsi

sopra una montagna, in prossimità del ciglio di un baratro. La spiegazione dei

cristiani è superficiale e sbrigativa: si sostiene che Luca fosse ignorante della

geografia Palestinese e con questo la faccenda è chiusa. Ma non si tratta di

un fatto accessorio e non essenziale, infatti, se leggiamo attentamente il

brano, ci accorgiamo che in assenza di un precipizio nei pressi della città tutto

il racconto perde il suo significato. Vediamo: "...Si recò a Nàzaret, dove era

stato allevato; ed entrò, secondo il  suo solito, di sabato nella sinagoga e si

alzò a leggere. Gli fu dato il  rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo

dove era scritto: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha

consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto

messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per

rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore". Poi

arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli  occhi di tutti nella

sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora  cominciò a dire: - Oggi si è

adempiuta questa Scrittura che voi avete  udita con i vostri orecchi - ...

All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno;  si levarono,

lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul  ciglio del monte sul

quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal  precipizio. Ma egli,

passando in mezzo a loro, se ne andò..." (Lc IV, 16-30).

Di sicuro la città a cui Luca si riferiva non è la Nazareth che i pellegrini visitano

oggi. L'episodio è totalmente assente negli altri Vangeli, così come altri

importanti dettagli che sono presenti solo nello scritto lucano. Uno di questi,

per esempio, è costituito dalle accuse che i giudei contestano a Gesù, nel

momento in cui lo consegnano a Ponzio Pilato: "...Tutta l'assemblea si alzò,

lo condussero da Pilato e  cominciarono ad accusarlo: "Abbiamo trovato

costui che  sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a  Cesare e

affermava di essere il Cristo re". Pilato lo interrogò: "Sei tu  il re dei Giudei?".

Ed egli rispose: "Tu lo dici". Pilato disse ai sommi  sacerdoti e alla folla:

"Non trovo nessuna colpa in quest'uomo". Ma  essi insistevano: "Costui

solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla

Galilea fino a qui"." (Lc XXIII, 1-7).

      Se confrontiamo i due brani troviamo alcuni importanti elementi di

concordanza. In entrambi, infatti, Gesù appare caratterizzato senza ombra di

equivoco da una spiccata personalità messianica. Nel primo è egli stesso che

se la attribuisce, scatenando l'ira dei presenti; nel secondo sono i giudei che

gliela attribuiscono, usandola come accusa di fronte al prefetto romano.

      Il messia, nell'idea ebraica, non è la stessa cosa che intendono oggi i

cristiani, ovverosia un maestro spirituale che deve indicare a tutti gli uomini,

senza distinzione di razza, la via per la salvezza dell'anima. Quest'ultima idea

è quella che appartiene alla fede cristiana e che costituisce proprio il motivo

centrale dello scisma che ha separato, a suo tempo, il cristianesimo

dall'ebraismo.

      Gli ebrei attendevano, ed attendono tuttora, un messia ebreo che viene

per il suo popolo, a compiere un'opera salvifica nella prospettiva politico-

spirituale che caratterizza tutta la religiosità ebraica. Il messia non è

semplicemente un maestro di vita e di preghiera, l'espressione che lo designa

deriva dall'ebraico Mashiah, o dall'aramaico Meshiha, che significa "unto", con

riferimento alla cerimonia di unzione, che è il solenne atto formale di investitura

del re di Israele. Samuele, mille anni prima di Cristo, aveva unto Davide,

facendolo re di Israele, o messia.

      Che aveva fatto dunque Gesù, nella sinagoga della sua città, quando

aveva letto il brano di Isaia in cui si parla del messia atteso, che deve

"annunziare ai poveri un lieto messaggio... proclamare ai prigionieri la

liberazione e ai ciechi la vista... per rimettere in libertà gli oppressi, e

predicare un anno di grazia del Signore"? Egli, considerandosi aspirante

messia di Israele, aveva candidamente annunciato alle persone presenti nella

sinagoga che la profezia si era avverata di fronte ai loro occhi, che il messia

era giunto, ed era lui.

      Il profeta Isaia aveva scritto le sue opere ai tempi in cui gli ebrei

sopportavano il giogo assiro e attendevano con ansia il giorno in cui la

Palestina sarebbe stata liberata e il governo di Israele sarebbe tornato nelle

mani di un legittimo re: un "unto di Yahweh", come in precedenza erano stati

Davide e Salomone. Ecco perché Isaia parla di un messia che deve liberare

prigionieri ed oppressi; il compito del messia, che resta comunque una figura

carica di personalità religiosa, è anche politico.

      Per quale motivo, allora, l'ambizione messianica di Gesù sarebbe

stata causa di tanta collera da parte del popolo, al punto che gli ebrei

avrebbero voluto gettarlo dal precipizio, e lo avrebbero consegnato essi stessi

al prefetto Ponzio Pilato?

      Per capire questo possiamo tornare alla situazione moderna dello

stato di Israele e chiedere spiegazione ad alcuni confronti col passato. Come

abbiamo già osservato, anche oggi una profonda insanabile conflittualità a

carattere politico-religioso funesta la vita della terra di Gesù. I palestinesi, che

si considerano ingiustamente invasi e dominati dallo stato di Israele, sono

divisi sostanzialmente su due posizioni. Alcuni accettano la leadership di

Arafat che tenta di costruire una convivenza pacifica con gli ebrei, sulla base di

accordi di pace; altri, su posizioni molto più radicali, rifiutano ogni dialogo con

Israele, desiderano una Palestina libera senza presenze ebraiche, e

conducono una lotta armata fatta di pesanti azioni terroristiche. I primi, con

tutta l'approssimazione del caso, possono essere paragonati ai farisei di

duemila anni fa, che non assumevano un preciso impegno di lotta antiromana;

i secondi possono essere paragonati alle sette intransigenti, gli esseno-zeloti,

che esprimevano la loro dissidenza religiosa allontanandosi fisicamente da

Gerusalemme e dal tempio, e preparando una ribellione armata finalizzata alla

liberazione politica di Israele.

      La sera del giorno in cui a Gerusalemme è esplosa la duplice bomba

umana del mercato di Mahaneh Yehuda un cameriere palestinese dell'hotel in

cui ero alloggiato, col quale avevo allacciato rapporti di amicizia e di dialogo,

mi ha detto, costernato, che le vittime di queste violenze sono sempre e

soltanto persone innocenti e umili, spesso non responsabili delle scelte

politiche che hanno creato il clima di tensione; anche un arabo era deceduto

casualmente nell'attentato, a dimostrazione del fatto che il terrorismo è un

meccanismo cieco e ottuso. Il cameriere ha aggiunto che il premier

Netanyahu, ben noto per la sua posizione nei falchi della destra israeliana, non

è fra quelli che vanno a fare la spesa al mercato popolare. Nelle parole e nei

toni del palestinese si poteva leggere il dolore ed intuire una impostazione di

pensiero moderata, non incline agli eccessi fanatici delle fazioni intransigenti

che conducono la lotta armata. Egli ha anche brevemente accennato al fatto

che questo estremismo era controproducente perché, senza portare a

nessuna conclusione pratica, avrebbe semplicemente irrigidito la politica del

governo israeliano nei confronti dei palestinesi.

      Possiamo immaginare che anche duemila anni fa, quando gli ebrei

sopportavano la dominazione romana, la parte moderata del popolo non

guardasse con simpatia agli ardori estremistici delle sette esseno-zelotiche.

Queste ultime infatti colpivano con la stessa cecità dei terroristi moderni,

causando assai spesso le rappresaglie dei romani e mettendo così a

repentaglio la sicurezza o la vita di interi villaggi. Di queste cose troviamo

numerose testimonianze nei racconti di Giuseppe Flavio.

      Per non parlare poi di alcune componenti della società ebraica, che

avevano trovato il loro ben vivere nella connivenza coi romani, come i sadducei

e alcuni farisei ad essi vicini, che intravedevano negli estremismi dell'ideologia

messianista un serio pericolo per tutta la nazione. Né possiamo dare loro

torto, anche se questo modo di pensare appare opportunistico e tutt'altro che

nobile, dal momento che è stata proprio l'irriducibile intransigenza degli zeloti

a portare la nazione alla disfatta totale e alla distruzione di Gerusalemme, da

parte dei romani, nel 70 d.C.

      Quello che noi dobbiamo assolutamente capire, nella nostra indagine

sulle dinamiche storiche che hanno portato alla scissione del cristianesimo dal

giudaismo, e al suo successivo sviluppo come religione indipendente, è proprio

il fatto che una parte della società ebraica del tempo di Gesù era interessata a

moderare gli ideali del messianismo tradizionale e a reinterpretare  la figura e il

ruolo del messia atteso secondo modelli diversi da quelli della escatologia

classica, presente nelle profezie bibliche. San Paolo è stato, senza dubbio, il

principale rappresentante di questa corrente di pensiero.

      Ecco dunque la semplice spiegazione alle reazioni del popolo nella

sinagoga, nel momento in cui qualcuno si dichiarò pubblicamente come

l'atteso messia annunciato nelle profezie di Isaia. Il popolo aveva paura che la

presenza nel paese dei guerriglieri di Yahweh e il loro farsi avanti con esplicite

pretese rivoluzionarie costituisse un gravissimo pericolo per la sicurezza e

esponesse il villaggio alla dura e spietata rappresaglia dei romani. E,

possiamo dirlo col senno di poi, il popolo aveva ragione.

      Ma torniamo a Nazareth, la città araba percorsa da una centralissima

Paolo VI  Street, in cui il rintocco delle campane delle chiese cristiane si

mescola puntualmente al grido del muezzin, in un canto di fede che, nelle notti

d'estate, si spande verso un meraviglioso cielo stellato. Nazareth non ha in

pratica niente che possa seriamente qualificarla come la città in cui i Vangeli

canonici hanno fatto abitare il Cristo. Al contrario, osservata con lo spirito

critico dell'analisi storica e geografica, ha tutti i requisiti per gettare profondi

sospetti sulla attendibilità del racconto evangelico, inteso come cronaca fedele

dei fatti, e sulle intenzioni di chi lo ha redatto. Noi, per ora, abbiamo già dato

chiaramente ad intendere che la redazione dei Vangeli canonici può essere

stata caratterizzata dal desiderio primario di ridisegnare la figura del messia

Gesù con ruoli e funzioni diversi da quelli che egli aveva realmente assunto.

      Del resto, anche la localizzazione evangelica della nascita di Gesù è

stata riconosciuta come leggendaria dagli studiosi cattolici e, per quanto

Betlemme possa tranquillamente rimanere al suo posto nel folklore e nel culto

a cui i cristiani sono affezionati, nessuno crede più seriamente alle fiabe della

natività. Se dunque la nascita Betlemita è un particolare leggendario che gli

evangelisti hanno voluto inserire nella vita di Cristo, in quanto rispetta un

requisito che lo lega alle profezie bibliche sull'avvento del messia, perché non

dovremmo accettare come possibile l'idea che anche la localizzazione a

Nazareth della residenza abituale della famiglia di Gesù sia un altro particolare

leggendario, inserito ad hoc dai redattori dei Vangeli?

 

 

GOLAN.

 

      Durante la cosiddetta guerra dei sei giorni gli israeliani, oltre alla

Giordania, l'Egitto e l'Iraq, attaccarono la Siria, avanzando in quel territorio che

è noto come "alture del Golan". E' la regione che all'epoca della dominazione

romana era chiamata Gaulanitis, a est del lago di Tiberiade (lago Kinneret per

gli ebrei), nella quale si trova la città di Gamla, che abbiamo nominato più volte

perché da essa proveniva la famiglia di Ezechia, di Giuda detto il galileo e di

Menahem, la celebre dinastia degli antagonisti di Erode e della sua stirpe.

      Nel 1967 le azioni militari dell'attacco alla Siria, che si conclusero con

l'occupazione di buona parte del Golan, furono rapidissime e altrettanto furono

le operazioni di definizione della linea di confine. Al punto che molti siriani

della città di Majdal, che erano usciti da casa per motivi di lavoro o

semplicemente per fare la spesa o, come alcuni ragazzi, per andare a scuola,

trovarono la via del loro ritorno sbarrata da fili spinati e da una fascia di terreno

minato. Nessuno di loro, da allora, ha mai più rivisto la propria casa, né i mariti

hanno riabbracciato le loro mogli, i figli non hanno più incontrato i loro genitori,

e così per i fidanzati, i fratelli e le sorelle... La storia dell'odio interminabile fra

arabi ed israeliani ha gettato una frontiera invalicabile nei loro cuori. L'unica

consolazione che hanno potuto concedersi è stata quella di scambiarsi alcune

parole di affetto, non certo grazie al telefono o alla posta, ma grazie alle grida

lanciate nel silenzio mattutino della valle. Infatti, da lungo tempo, si è stabilita

la consuetudine che ogni venerdì mattina i parenti e gli amici separati si danno

appuntamento, ciascuno dalla sua parte del confine, per poter conversare,

magari anche con l'aiuto del megafono. Per questo il luogo è stato ribattezzato

shouting valley (valle delle grida).

      Poco più a sud, un'altra testimonianza parla della infinita crudeltà della

logica della guerra. Una città siriana di nome Quneitra era stata inglobata nel

territorio occupato, ma i negoziati internazionali stabilirono che essa avrebbe

dovuto tornare alla Siria. A questo punto i soldati israeliani, prima di restituirla,

allontanarono gli abitanti dalle loro case e dettero inizio ad un festino diabolico:

fu saccheggiato tutto quello che era possibile, persino le apparecchiature

elettriche, le porte, le maniglie, le tubature, le mattonelle furono portate via e

rivendute ai commercianti in Israele. Poi, quando non vi furono rimasti che gli

immobili, spogli e depredati, iniziò l'opera di distruzione totale. Tutto fu

bombardato, mitragliato, abbattuto. I quarantamila abitanti, che fino al giorno

prima della guerra dei sei giorni erano pacifici contadini e pastori del Golan,

potettero rimanere nel loro paese, ma furono improvvisamente gettati nella

condizione di miserabili sfollati, senza né case né averi.

      Fu proprio durante le operazioni militari del 1967 che qualcuno notò,

sulle prime alture del Golan, a ridosso del lago di Tiberiade, delle rovine in

assoluto abbandono. Immediatamente gli archeologi israeliani esaminarono il

luogo e, sotto la guida di Shmarya Gutman, fu possibile identificare la

cittadella con quella Gamla di cui molto si sapeva grazie agli scritti di

Giuseppe Flavio. Quella Gamla nella quale Bulgakov e Szekely hanno visto, in

ciò che può sembrare un comune delirio, la città di Cristo.

      Personalmente mi sono recato a Gamla per due diverse giornate,

verso la fine di luglio, mentre una terza giornata la ho trascorsa circa quindici

chilometri più a nord, a Qasrim, sempre nel Golan, dove si trova un importante

museo e altri scavi archeologici. La ragione di questa doppia visita è dovuta

non solo al mio profondo interesse per il luogo, ma anche al fatto che la prima

volta ero arrivato a mezzogiorno, e il caldo insopportabile aveva reso molto

penosa l'esplorazione del sito.

      Quando si lascia il lago di Tiberiade e le sue verdi sponde, che oggi

sono ombreggiate da lunghi filari di eucaliptus, procedendo verso nord-est, si

comincia a salire per strade abbastanza tortuose dalle quali è possibile

ammirare panorami stupendi. Il traffico è limitatissimo, non si incontra quasi

nessuno, tranne veicoli militari e caserme circondate da fili spinati. In basso la

vallata del lago si mostra in tutta la sua bellezza, mentre in alto si scorgono

colli nei quali non manca la vegetazione: i non pochi alberi, appartenenti

probabilmente alla famiglia delle querce, appaiono come punti e macchie

nell'oceano giallo dell'erba. So che in primavera il Golan si tinge di fiori rosa,

come se il Creatore si divertisse a fare il pittore fra queste alture.

      Continuando a salire si finisce per scollinare sull'altipiano, quasi piatto

o leggermente ondulato, il cui paesaggio ricorda gli spazi solenni delle savane

africane o del west americano. Nessuna somiglianza con la valle inferiore del

Giordano, nei pressi del Mar Morto. Poi, immancabilmernte, ci si accorge che

grandi avvoltoi stanno descrivendo evoluzioni circolari sulla nostra testa, con le

loro immense ali spiegate, senza movimento, come barche a vela abilitate a

navigare nell'aria.

      Si continua così sull'altipiano finché, ad un certo punto, un cartello

indica una deviazione: Gamla, parco nazionale, località archeologica. Adesso

la strada è sterrata e piena di buche; un paio di chilometri e si giunge

all'ingresso del parco, dove una gentile signorina ci invita a pagare il biglietto, e

ci fornisce utili informazioni dicendo, come al solito: "Take some water with

you!". Devo confessare che, a questo punto, ero piuttosto stupito di non

vedere alcuna montagna appuntita, sulla cui fiancata potesse trovarsi la città di

Gamla. Eppure, stando sia alla descrizione di Giuseppe Flavio, sia all'episodio

lucano del Cristo che rischiò di essere gettato nel precipizio, Gamla non

avrebbe potuto trovarsi su un altipiano così piatto. Ma il dubbio si è risolto

dopo poco. Infatti basta camminare per meno di cinque minuti, lungo il

sentiero pianeggiante che conduce verso occidente, per trovarsi

improvvisamente sull'orlo di una ripida scarpata rocciosa. Una vallata

scoscesa punta verso il lago di Tiberiade, quasi un immenso crepaccio che

spezza il pianoro e lo divide in due parti mentre, al centro di questo

avvallamento, una rocca si erge verso l'alto e forma un picco roccioso che

termina in un baratro. A rendere ancora più suggestivo il tutto ci pensano le

picchiate degli avvoltoi, che si gettano nel vuoto della valle per poi risalire

comodamente sull'onda di qualche corrente ascensionale. Da lontano giunge il

suono di una cascata o di un torrente.

      Ecco il modo in cui Giuseppe Flavio descrive il paesaggio: "Da un'alta

montagna si protende infatti uno sperone dirupato il quale nel mezzo s'innalza

in una gobba che dalla sommità declina con uguale pendio sia davanti sia di

dietro, tanto da rassomigliare al profilo di un cammello; da questo trae il nome,

anche se i paesani non rispettano l'esatta pronuncia del nome. Sui fianchi e di

fronte termina in burroni impraticabili mentre è un po' accessibile di dietro,

dove è come appesa alla montagna..." .

      Dall'alto è possibile scorgere la presenza di rovine sul fianco

meridionale della montagna, mentre una muraglia lo attraversa in tutta la sua

lunghezza [fig. 31]. Non resta che iniziare il cammino e discendere il sentiero

che porta verso i resti del villaggio. Per questo occorrono venti minuti circa,

in compagnia del vento e degli avvoltoi. Arrivati nel punto più basso, il sentiero

comincia a risalire nuovamente, con leggera pendenza, e punta verso la porta

del paese, una breccia aperta fra le colossali pietre delle mura. Per fortuna

anche qui sono state sistemate tettoie con rubinetti d'acqua, che rendono

possibile sopportare il caldo tremendo.

      Gli insediamenti umani, a Gamla, risalgono alla prima età del bronzo.

Per quanto riguarda gli ebrei sembra che essi abbiano cominciato ad

occuparla non prima del ritorno dall'esilio babilonese, nel sesto secolo a.C. Lo

stesso Giuseppe Flavio ci dice che, all'epoca di Erode, viveva in questa città il

celebre Giuda detto il galileo: "C'era un certo Giuda, un gaulonita, di una città il

cui nome era Gamala..." (Giuseppe Flavio, Antiquitates Judaicae, XVIII, I). A

quel tempo la città doveva essere ricca perché gli scavi archeologici hanno

svelato alcuni interessanti aspetti della sua vita economica. La coltivazione

delle olive e la produzione di olio era una industria molto importante a Gamla,

e la sua esportazione aveva fatto la fortuna della città. Ancora oggi è possibile

visitare il grande frantoio al centro del quale si trova la base circolare, in pietra,

sulla quale girava la pressa rotante. Il paesaggio intorno doveva essere

costellato di uliveti, mentre oggi non se ne vede uno. All'interno dell'area

urbana è stata trovata gioielleria, anelli d'oro, oggetti in vetro, osso e avorio,

profumi, monete d'argento.

      La città era strettamente giudaica, lo provano la totale assenza di

decorazioni che non siano semplicemente geometriche (la religione ebraica

vieta la rappresentazione della figura umana), nonché la presenza di una

bellissima sinagoga e di numerose miqweh simili a quelle di cui abbiamo

parlato a proposito di Qumran e di Masada.

      Ma c'è qualcosa di più, che è molto significativo. Nel corso degli scavi

sono state scoperte sei monete, tutte uguali, che non sono mai state trovate

in nessun altro luogo [fig. 32]. Gli archeologi concordano nel ritenere che queste

monete siano state coniate a Gamla, e che riflettano strettamente una realtà

locale. Le monete contengono le seguenti scritte: "per la salvezza..." su un

lato, "(di) Gerusalemme la Santa" sull'altro lato. Ciò acquista un significato

particolare se consideriamo che la città era la patria della setta dei guerriglieri

"galilei". Sebbene da qui a Gerusalemme ci sia una distanza di quasi 200

chilometri, Gamla mostra di essere fortemente coinvolta nella lotta patriottico-

religiosa.

      Anche le notizie offerteci da Giuseppe Flavio ci dimostrano che questa

città era una roccaforte della osservanza religiosa e che, proprio per questo

motivo, alcuni fra i suoi abitanti erano intransigenti oppositori della

dominazione romana e seguaci degli ideali messianici di stampo esseno-

zelota. Anzi, un'ala del movimento messianico ebbe origine proprio in questo

luogo; fu fondata da Giuda detto il galileo, ed era fortemente impegnata su

temi di cui abbiamo già parlato, per esempio l'obiezione fiscale. I componenti

della famiglia di Giuda rivendicavano un autentico diritto dinastico al trono di

Israele, considerandosi "figli di Davide", al punto che Menahem, figlio del

famoso Giuda, riuscì addirittura a indossare la veste del messia in

Gerusalemme e a farsi re dei Giudei, sebbene per un tempo limitato. Oltre

sessanta anni dopo la distruzione del tempio, ovverosia intorno al 135 d.C., un

altro discendente di Giuda il galileo si propose ancora come "figlio di Davide" e

avanzò pretese messianiche, si tratta di un certo Simon bar Kokhba (Simone

figlio della stella) che accese una seconda rivolta antiromana, destinata anche

questa al fallimento.

Ora noi non possiamo fare a meno di notare una curiosa serie di

corrispondenze che sembrano mettere in relazione la famiglia di Giuda il

galileo con quella di Gesù::

      1 - anche Gesù, come Giuda, è stato accusato per questioni relative

all'obiezione fiscale  ("Abbiamo trovato costui che  sobillava il nostro popolo,

impediva di dare tributi a  Cesare e affermava di essere il Cristo re" Lc XXIII,

2);

      2 - anche il movimento di Gesù era conosciuto col nome "i galilei"

("..."In verità, anche  questo era con lui; è anche lui un Galileo"..." Lc XXII, 59;

".... Una serva gli  si avvicinò e disse: "Anche tu eri con Gesù, il Galileo!"..."

Mc XXVI, 69);

      3 - anche Gesù vantava il diritto al trono di Israele, al punto da essere

definito "figlio di Davide" per numerose volte nella narrazione evangelica;

      4 - tutta la sua famiglia, anche molto dopo la sua morte, continuava a

vantare un diritto dinastico ("...Quando lo stesso Domiziano ordinò di

sopprimere i discendenti di Davide, un'antica tradizione riferisce che alcuni

eretici denunciarono anche quelli di Giuda (che era fratello carnale del

salvatore) come appartenenti alla stirpe di Davide e alla parentela del Cristo

stesso. Egesippo riporta queste notizie, dicendo testualmente: "Della famiglia

del Signore rimanevano ancora i nipoti di Giuda, detto fratello suo secondo la

carne, i quali furono denunciati come appartenenti alla stirpe di

Davide"..." ).Questo passo di Eusebio mostra in modo fin troppo chiaro due

cose: che Gesù aveva dei fratelli carnali, e che costoro e i loro discendenti,

dopo la morte di Gesù, continuarono a perseguire la medesima causa

dinastica, per la quale furono perseguitati dai romani;

      5 - anche Gesù è stato giustiziato dai romani per attività messianica

("...Erano le nove del  mattino quando lo crocifissero. E l'iscrizione con il

motivo della  condanna diceva: Il re dei Giudei..." Mc XV, 25);

      6 - la città di Gesù, secondo la descrizione lucana, deve trovarsi nelle

strette vicinanze di un precipizio, caratteristica questa che manca del tutto a

Nazareth mentre calza a perfezione su Gamla (non ci sono altre città sul

precipizio in Palestina, se si esclude la rocca di Masada).

      Entrando a Gamla, nel punto in cui il sentiero attraversa la breccia

nelle possenti mura di pietra, le prime cose che si possono osservare, in

basso a sinistra, sono i resti ben conservati della sinagoga. Essa presenta

perimetralmente tre file di panche in pietra, fatte a gradinata, circondate da un

suolo pavimentato. C'è poi un'area interna circondata da colonne a sezione

circolare, ad esclusione di quelle d'angolo che hanno una curiosa sezione a

cuore. Qui si svolgevano le assemblee per la  lettura dei testi sacri [fig. 33].

Ripensando al famoso brano di Luca, in questo luogo il racconto funziona

perfettamente: a poca distanza dalla sinagoga il sentiero porta direttamente

alla sommità del monte che precipita nella scarpata rocciosa. Da qui Gesù

avrebbe potuto realmente essere gettato di sotto [fig. 34].

      Oltre alle coincidenze che abbiamo enumerato ce n'è un'altra che,

però, richiede una spiegazione più elaborata. Si tratta del fatto che alcuni dei

fratelli di Gesù avevano lo stesso nome dei figli di Giuda il galileo: Giacomo e

Simone ( "...Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo,

Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?..." Mt XIII,

55-56). L'analisi mostra rapidamente il fatto che alcuni di questi fratelli

nominati nel passo evangelico appena citato (che Eusebio definisce carnali e

di cui parlano anche altre fonti extratestamentarie) entravano a far parte della

cerchia dei dodici apostoli. Una ulteriore coincidenza sarebbe quella che

alcuni fratelli-apostoli di Gesù, Giacomo e Simone, sarebbero stati arrestati

per attività sovversive esattamente nello stesso periodo e nelle stesse

circostanze in cui due figli di Giuda il galileo, Giacomo e Simone appunto,

furono arrestati per le stesse ragioni .

      Ma volendo potremmo trovare altri indizi favorevoli a questa ipotesi.

Dalla vetta del monte di Gamla, per esempio, si può osservare facilmente il

lago di Tiberiade, 250 metri più in basso, sullo sfondo del panorama di una

valle che punta direttamente verso le rive del lago. Ci sono alcuni sentieri che

scendono sulle fiancate di questa valle, i quali consentono ad un eventuale

cittadino di Gamla di coprire la distanza che lo separa dal lago in circa due o

tre ore di cammino; una realtà molto diversa rispetto a quella di Nazareth, coi

suoi 36 chilometri di distanza e 600 metri di dislivello. Ecco come potrebbe

spiegarsi il fatto che molti lo seguissero quando egli andava a predicare sul

lago. Ed ecco come si spiega che egli, traversando il lago, approdasse a

Genezaret che, per chi abita a Gamla, si trova esattamente sulla sponda di

fronte. Ed ecco perché si dice che egli, dopo avere predicato sul lago tornasse

"sul monte", il quale però, nella descrizione evangelica, non sembra essere

semplicemente una montagna, ma una città, anzi la sua città, dal momento

che su questo monte c'erano case, gente, e persino i suoi parenti. C'è

un'insistenza sospetta con cui si parla ripetutamente del monte, fino alla

famosa frase in cui Gesù dice: "...non può restare nascosta una città

collocata sopra un monte..." (Mt V, 14) facendo venire in mente, per un'altra

volta, Gamla.

      Anche in questo luogo, come è mio solito, ho provato a chiudere gli

occhi e a guardare. Ho visto un uomo alto, robusto, barbuto, vestito con l'abito

degli ebrei che duemila anni fa vivevano in quei luoghi, che scendeva lungo la

vallata di Gamla, in compagnia di altri. Una bisaccia sulla spalla, un bastone in

mano, i sandali ai piedi, il passo sicuro che batte il sentiero polveroso, fra

l'erba verde e i prati fioriti. Ogni tanto il gruppo si ferma e gli uomini si passano

una borraccia per bere, a turno. Dopo un paio d'ore di cammino arrivano nei

pressi del lago Kinneret, raggiungono la riva e si avvicinano ad un gruppo di

pescatori che stanno lavorando intorno alle barche e alle reti. Sembra che si

conoscano. Alcuni si siedono in terra, sotto gli alberi, mentre altri si

allontanano velocemente lungo la riva e scompaiono. Dopo poco comincia ad

arrivare gente: ragazzi, altri pescatori, alcune donne. Qualcuno domanda se

l'assembramento non sia pericoloso, i romani non amano i comizi dei giudei

ma qui, in questa ansa nord-orientale del lago, nei pressi di Bet Zayda, non ci

sono romani; il loro insediamento più vicino si trova alcuni chilometri più a sud,

a Kursi, dove essi hanno un piccolo porto.

      La gente è venuta a vedere l'uomo di Gamla, che ha fatto parlare di sé,

qualcuno sostiene che sia il messia. Altri scuotono la testa: "anche Giuda,

suo padre" dicono "sosteneva di essere il messia. Anche il vecchio Ezechia

voleva uccidere Erode. Ma sono tutti morti ammazzati, e hanno fatto morire

inutilmente tante persone". L'uomo di Gamla parla alla gente: "Dovete avere

fede. Il Signore, Padre di Israele, non abbandonerà i suoi figli, se non quelli

che lo avranno abbandonato. I segni del regno che deve venire sono giunti".

Altra gente è accorsa e una grande folla si è riunita. "I romani distruggeranno

le nostre case!" gridano alcuni "uccideranno noi e i nostri figli!". Qua e là si

levano le proteste; tutti sono attratti dall'idea della liberazione, ma tutti hanno

paura.

      "Il popolo di Israele è come un bambino che ha fame e non sa aprire

la bocca per sfamarsi col cibo " grida l'uomo di Gamla, e dalla folla qualcuno

gli fa eco: "di quale cibo parli?", l'uomo risponde: "se tu mi avessi chiesto del

pane io te l'avrei dato, ma non è questo il pane che può sfamarti in eterno...

Ah, popolo di ciechi, che non sapete riconoscere il cibo con cui saziare la

vostra fame di giustizia e la vostra sete di libertà. Aprite dunque gli occhi:

cinque sono i pani della verità che io possiedo e con essi posso colmare

dodici canestri".

      "Dacci dunque di questo pane!" grida qualcuno dalla folla, ed altri

domandano: "come puoi con cinque pani colmare dodici canestri?". Allora

l'uomo risponde: "Sono i cinque libri della Torah i pani che saziano la fame di

tutte e dodici le tribù di Israele, e voi li conoscete". Qualcuno annuisce, altri

replicano: "da lungo tempo noi e nostri padri abbiamo letto la Torah e abbiamo

seguito i suoi insegnamenti, perché dunque il Padre non ci ha ancora salvati?

Noi abbiamo ancora fame di giustizia e di libertà". E l'uomo: "Se non bastano

i cinque pani a saziare la vostra fame, io sono venuto a porgervi due pesci",

molti dei presenti non capiscono e borbottano: "di quali pesci va cianciando?",

qualcuno osserva: "sta parlando del messia! Non avete capito? Il pesce è il

messia!".

      "Perché non volete guarire dalla vostra cecità uomini di poca fede?

Perché non lasciate che i vostri occhi si aprano, per vedere il figlio di Davide,

che sta per giungere sul trono di Gerusalemme, e il nuovo Aronne, che sta per

entrare nel tempio ?".

      "E' lui il re di Israele, che deve venire!" gridano alcuni, in preda

all'esaltazione, mentre altri imprecano. Sta per sollevarsi un tafferuglio. L'uomo

di Gamla e i suoi seguaci si allontanano velocemente.

      Ma cessiamo di immaginare liberamente e torniamo a tutto quello che

Giuseppe Flavio ci racconta della città-montagna. Essa è stata protagonista di

vicende molto importanti nel corso della guerra che portò Israele alla disfatta.

Fin da quando la Giudea era stata trasformata in provincia prefettizia (6 d.C.) la

tensione era sempre cresciuta e gli estremisti ebrei avevano continuamente

alimentato un clima di ribellione. Gamla non si era certo tenuta da parte.

Proprio da lì veniva la irriducibile setta dei galilei. Quando iniziò lo stato di

guerra aperta, nel 66 d.C., a Giuseppe Flavio fu affidato un ruolo di comando

nelle regioni settentrionali ed egli fece fortificare alcune città nel Golan:

Seleucia, Soganea, Gamla. Fece costruire mura, trincee e gallerie.

      Nel 66 d.C. Agrippa II assediò la città cercando di estirpare questo

pericoloso focolaio di guerriglia, ma dopo sei mesi egli non era ancora riuscito

ad averne ragione. I romani decisero di mandare in sua assistenza delle legioni

romane al comando dello stesso generale Vespasiano, al quale mancavano tre

anni per diventare imperatore. L'assedio fu lungo (tredici mesi) e costò anche

gravi perdite ai romani, specialmente nel corso di un assalto nel quale costoro

penetrarono nella città, ma furono giocati con astuti espedienti dagli abitanti e

dovettero darsi alla fuga. In questa occasione lo stesso Vespasiano venne a

trovarsi in grave pericolo: fu costretto a riparare sulla sommità del monte e

venne circondato dai nemici, potette evitare la morte solo perché lui e i suoi

uomini fuggirono dopo avere legato insieme gli scudi, formando così una

efficace barriera protettiva.

      La fine di Gamla fu atroce, e anticipa per alcuni aspetti quella di

Masada. Il 22 novembre dell'anno 67, alcuni soldati romani nottetempo

raggiunsero la torre di guardia che stava sulla cresta del monte, senza farsi

scoprire dai nemici, e cominciarono a scavare sotto le mura della medesima [fig. 35].

Quando ebbero ben scalzato alcune pietre si fecero da parte e la torre

cominciò a crollare pesantemente, trascinandosi dietro le sentinelle e facendo

un rumore assordante. Il popolo di Gamla fu svegliato di soprassalto e assalito

dal panico. I romani approfittarono della situazione per scavalcare le mura e

riuscirono ad avere la meglio. Molti cittadini furono uccisi dagli stessi romani

mentre tanti altri fuggirono fin sulla sommità del monte. I romani furono aiutati

da una tempesta di vento che favoriva le loro frecce e respingeva quelle degli

ebrei. Molti di costoro, vedendo la disfatta decisero di gettarsi nel precipizio.

Quattromila furono uccisi dai romani, mentre ben cinquemila furono quelli che

si dettero la morte da soli. Tutto era finito il giorno 24 novembre del 67.

      Da allora, per lunghissimo tempo, la città è stata lasciata in

abbandono totale, finché le operazioni militari del 1967, esattamente 1900 anni

dopo, non hanno sollevato l'attenzione di alcuni sui suoi resti affioranti. Fino ad

allora, in tempi moderni, nessuno aveva la più pallida idea di dove si trovasse

esattamente la città di cui Giuseppe Flavio aveva raccontato così

dettagliatamente la disavventura.

      Per quanto mi riguarda, non credo di poter affermare con definitiva

certezza che essa sia la città d'origine dell'aspirante messia che era stato

giustiziato da Pilato nel corso degli anni 30, ma la ritengo un'ipotesi

estremamente indiziata, poiché essa dà ragione, con grande verosimiglianza,

di una lunga serie di fatti altrimenti destinati a rimanere del tutto privi di

spiegazione.

      A pochi chilometri da Gamla sorge uno degli insediamenti israeliani in

questa zona occupata, si chiama Maale Gamla e, puntualmente, può esistere

perché è circondato dai reticolati e affiancato da una caserma. Solo il filo

spinato e le armi, oggi, garantiscono la pace nel Golan.

 

 

DAMASCO?

 

      Quali sarebbero state le dinamiche storiche che hanno portato alla

nascita di una religione extragiudaica, che nondimeno porta il nome  di una

delle più intransigenti posizioni ideologiche all'interno del giudaismo ortodosso

di venti secoli fa?

      Chiedersi questo equivale a domandarsi quali sono state le ragioni

storiche che hanno spinto qualcuno a revisionare la concezione messianica

tradizionale, che si riferisce alla salvezza nazional-religiosa degli ebrei,

trasformandola in una concezione messianica aperta, resa cosmopolita, assai

più coerente con le già esistenti concezioni della salvezza spirituale, di cui il

Soter dei greci, il Saoshyant dei persiani e il Buddha degli indiani sono stati i

più famosi rappresentanti. In buona parte abbiamo già risposto alla domanda ,

motivando il fatto nell'avversione, condivisa da molti, nei confronti del

pericoloso messianismo degli zeloti e nel desiderio di creare un'alternativa ad

esso, capace di "vaccinare" il terreno ideologico contro quegli intransigenti

fanatismi che, di fatto, hanno poi portato Israele ad una rovina completa. Come

abbiamo già detto, l'iniziatore di questo processo è stato senz'altro il

personaggio che noi conosciamo come San Paolo.

      La dottrina cattolica vede quest'uomo come un grande apostolo di

Gesù; non nel senso valido per i cosiddetti dodici, ovverosia come membro

della comunità che, secondo la narrazione evangelica, Cristo avrebbe raccolto

intorno a sé, ma come divulgatore che si sarebbe adoperato per dare la

massima diffusione geografica al messaggio di Gesù, pur senza averlo mai

conosciuto. Questa visione dei fatti è del tutto artificiale, in quanto la presunta

continuità del messaggio fra Gesù e Paolo è solo il risultato di un'operazione

posticcia che nasconde invece una severa opposizione di idee. Tutto il

racconto degli Atti è una lunga serie di distorsioni fantastoriche concepite

appositamente per mascherare, in un modo fin troppo mal riuscito, il fatto che

Paolo non è mai andato d'accordo con i seguaci di Gesù  e che la sua

predicazione è sempre stata conflittuale con la loro; "...eppure io sono

convinto di non essere stato in nulla inferiore a codesti Apostoli straordinari!..."

(II Cor XI, 5).

      Gli Atti parlano di una conversione miracolosa  "sulla via di

Damasco", e questa è conosciuta comunemente come l'episodio in occasione

del quale Paolo si sarebbe trasformato improvvisamente da persecutore a

indefesso propagatore del Cristianesimo. In realtà se dobbiamo parlare di una

conversione dovremmo riferirci a quella che ha trasformato l'idea messianica

tradizionale degli ebrei in un messianismo universale che non riguarda il regno

di Yahweh e la sua restaurazione, ma un regno spirituale che non ha più nulla

a che fare coi destini politici degli ebrei. O, meglio ancora, potremmo riferirci

alla conversione che Paolo stesso avrebbe subito nel convincersi che la via

della repressione politica, fatta di esecuzioni, di arresti e di confische, non

avrebbe mai sradicato le pericolose convinzioni bellicose di una parte

consistente della popolazione ebraica, aderente agli ideali messianici, e che,

pertanto, era necessaria una strategia diversa, consistente nella creazione di

una alternativa teologica.

      Noi sappiamo bene che Paolo, prima della presunta conversione

descritta dagli Atti, era un feroce persecutore e che era stato incaricato dal

Sommo sacerdote di "stanare" i pericolosi estremisti nazional-religiosi. Il

Nuovo testamento usa le seguenti parole: "...si presentò al sommo sacerdote

e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a

condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di

Cristo, che avesse trovati..." (At IX, 1-2). Ora, poiché la lettura dei testi sacri è

comunemente condizionata da una coerente coi principi di fede, non è facile

dedurre quello che, in realtà, dovrebbe essere ovvio. Mi riferisco al fatto che la

città di Damasco non era in Palestina, ma in Siria e, come tale, essa non si

trovava sotto la giurisdizione degli amministratori della Giudea né, tanto meno,

sotto quella del sommo sacerdote di Gerusalemme. Paolo, nelle condizioni

descritte dagli Atti, non avrebbe assolutamente mai potuto vantare l'autorità

sufficiente per recarsi a Damasco di Siria e quivi arrestare della gente e

condurla in catene a Gerusalemme. Tutto ciò configura un autentico assurdo

storico.

      La verità, che è semplice, è un'altra e per l'ennesima volta spiega

perché Padre de Vaux si era dato così energicamente da fare per censurare la

ricerca sul materiale Qumraniano, per mantenerlo sotto chiave per tre decenni,

e per favorire lo sviluppo di una interpretazione compatibile con la dottrina

cattolica. Basta leggere attentamente il cosiddetto Documento di Damasco

per scoprire che, per quanto strano ciò possa sembrare, il nome che la

comunità in esilio volontario sulle rive del Mar Morto, in pieno deserto di Giuda,

dava all'insediamento monastico che noi oggi siamo soliti chiamare Khirbet

Qumran, o forse alla intera comunità dovunque questa fosse insediata, era

esattamente "Damasco" .

Qualcuno naturalmente può domandarsi come mai la setta avesse

deciso di indicare sé stessa in generale, o la località particolare del suo esilio

nel deserto, col nome di Damasco, e la risposta ce la fornisce lo stesso

Documento di Damasco, attraverso una citazione biblica dai Profeti Minori

(Amos VII, 14-15), in cui si parla di Damasco inteso come "luogo d'esilio

divenuto un rifugio dei veri fedeli di fronte all'ira divina" . In pratica la setta

avrebbe utilizzato una similitudine biblica come rappresentazione di sé stessa

e la avrebbe incorporata nella propria terminologia, all'inizio, forse, anche come

parola il cui significato doveva essere compreso solo dagli adepti.

      Ancora una volta la nostra analisi storica trasforma in elementare

verosimiglianza quello che altrimenti sarebbe destinato a rimanere un labirinto

di assurdità. Paolo non aveva intenzione di spingersi fino in Siria, a vantare

un'autorità e un potere che non gli sarebbero mai stati riconosciuti. Egli si è

semplicemente recato trenta chilometri a est di Gerusalemme, nel ben noto

insediamento di Qumran (=Damasco), dove si sospettava che una comunità di

asceti dall'aspetto apparentemente pacifico nascondesse pericolosi

rivoluzionari e che la loro semplice dedizione alla preghiera e al lavoro

coprisse, come in realtà faceva, la preparazione alla ribellione messianica.

      "Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e

subito nelle sinagoghe proclamava Gesù... quelli che lo ascoltavano si

meravigliavano e dicevano: "Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme

infieriva contro quelli che invocano questo nome...?"" (At  IX, 19-21). Ecco la

verità: Paolo cercava di infiltrarsi nella comunità ascetica sulle rive del Mar

Morto, fingendo una fantomatica conversione, per fare in modo che i seguaci

dell'uomo che aveva tentato di farsi re dei Giudei si mettessero allo scoperto

"...ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un

discepolo..." (At IX, 26). Probabilmente è stata proprio la frequentazione di

questi ambienti, e la constatazione di quanto radicati e irriducibili fossero

quegli ideali, per convincerlo che la persecuzione degli esponenti messianici

era una strategia assolutamente inefficace. Anche oggi, in Israele, c'è

qualcuno che percepisce bene come sia impossibile combattere il patriottismo

religioso dei palestinesi con gli arresti e le carcerazioni. Qualcuno che tenta di

avanzare un nuovo ideale di pacificazione basato sull'abbandono

dell'integralismo biblico che vorrebbe una nazione ebrea di soli ebrei in una

terra ebraica. Ma i tempi non sembrano ancora essere maturi perché una

mentalità di questo genere sia accettata, è per questo motivo che Rabin è

stato barbaramente assassinato dagli esponenti della estrema destra del suo

stesso paese.

      Per noi non è facile ricostruire il profilo delle sette che, diciannove

secoli fa, avevano cospirato per una rinascita politico-religiosa del regno di

Yahweh, anzi, diciamo che è letteralmente impossibile. Non possiamo sapere

con esattezza se quei gruppi che chiamiamo zeloti, sicari, nazareni, galilei,

sadochiti (saddiq, plur. saddiqim = i giusti), esseni, fossero sette diverse con

elementi comuni, la stessa setta con diverse possibili denominazioni, momenti

diversi nell'evoluzione storica di un medesimo movimento, ali distinte di

un'unica setta . Certamente il loro comune denominatore è stata la fede

messianica; è pertanto all'interno di questa fede, e quindi di una di queste

posizioni, che va collocato il Gesù della storia. Altamente significativo è anche

il fatto che, dopo l'esecuzione di Gesù, la guida della comunità (che la

terminologia cristiana moderna definisce "chiesa di Gerusalemme") sia

passata sotto l'autorità del fratello di costui: Giacomo detto "il Giusto",

ovverosia "il sadochita", almeno fintantoché questi non è stato giustiziato a

Gerusalemme dagli esponenti del partito conservatore ostile alle idee della

ribellione messianica.

      Alcuni studiosi, fra cui R. Eisenman, esaminando i documenti di

Qumran, in particolare il Commentario ad Abacuc, hanno raggiunto la

conclusione che in Giacomo il giusto si debba riconoscere quello che il

Commentario definisce "maestro di giustizia", perseguitato e ucciso dal

"sacerdote empio", in cui è ravvisata la figura del sommo sacerdote Anna, e

che Paolo sia rappresentato sotto l'espressione "uomo di menzogna". I

parallelismi sono straordinari e sembrano dimostrare che la comunità

Qumraniana, negli anni 40, 50 e 60 d.C., fosse esattamente quella che

normalmente viene definita "chiesa di Gerusalemme". Ovverosia quella

"Damasco" contro cui si erano accaniti i conservatori di Gerusalemme,

Sadducei e Farisei, in cerca di ribelli messianisti da arrestare ed eliminare.

      Paolo, come oppositore della setta, ha tentato tutte le possibili strade

per ostacolare la diffusione della fede messianica, che metteva così

pericolosamente a rischio tutta la sicurezza della nazione. Si è addirittura

infiltrato nella setta, almeno per un periodo, tentando di farsi passare per

convertito agli ideali della causa; alternando quindi periodi di aperta e spietata

persecuzione a periodi di dialogo opportunistico. Gli adepti non hanno mai

avuto fiducia in lui e di questo abbiamo sentore anche attraverso il racconto

degli Atti, che pure si è sforzato, in modo quanto mai goffo, di ricucire una

connessione che non c'è mai stata.  Basta per esempio citare il fatto che gli

apostoli fedeli al messaggio tradizionale non volevano assolutamente accettare

che Paolo predicasse il suo messianismo ai non ebrei e che i nuovi adepti

potessero essere dei pagani non circoncisi. In definitiva a Paolo, constatando

con quale contagiosità poteva diffondersi la fede nella imminente restaurazione

del regno, non è rimasto altro che predicare, in alternativa al messianismo

bellicoso degli "zelanti per la legge del Signore", un messianismo diversificato,

imbelle, degiudaizzato, riferito ad una personalità messianica che non è mai

esistita nella realtà storica, ma che è nata da una sua libera rielaborazione

della figura di Cristo, totalmente riassemblato con elementi giudaici, ellenici,

prelevati dalle religioni misteriche del mediterraneo orientale, della

Mesopotamia, della Persia e persino del lontano oriente. E' significativo il fatto

che Paolo dichiari apertamente che la sua attenzione non è rivolta al Cristo di

carne, ma a quello risuscitato, ovverosia un Cristo assolutamente immaginario

che egli stesso ha creato prendendo spunto dalle numerose figure di Dei

morenti e risuscitanti di cui le religioni allora in voga nell'impero romano erano

generose. C'è addirittura stato un momento in cui Paolo, che aveva ormai

preso il via con la sua operazione di libero sincretismo religioso, ha iniziato a

gettare le basi di una autentica scissione dal giudaismo tradizionale. Ma egli

non poteva certo immaginare che questa sua composizione teologica avrebbe

incontrato i favori della storia, nei secoli a seguire, al punto da diventare la

principale religione di tutto l'occidente. Come poteva egli sapere che,

duecentocinquanta anni dopo, Costantino avrebbe opportunisticamente

utilizzato l'alleanza coi neo-cristiani per sconfiggere il suo avversario

Massenzio e porsi a capo di un impero riunificato? Né egli avrebbe potuto

immaginare che il suo lavoro di revisione teologica avrebbe trovato nel

molteplice fallimento del messianismo tradizionale  una sorta di conferma che

il messia non era destinato a farsi re di un regno di questo mondo; o che

schiere di scribi (i cosiddetti padri della chiesa) avrebbero continuato la sua

opera contribuendo a comporre una teologia cristiana che si contrapponeva

decisamente alle idee che, a suo tempo, furono di Cristo. Né egli avrebbe mai

potuto scommettere sul fatto che questa teologia sarebbe un giorno diventata

la religione ufficiale di Roma, e che la chiesa ne avrebbe fatto il cemento del

Sacro Romano Impero, ovverosia di quella potenza che aveva condannato il

Cristo e lo aveva appeso alla croce.

      Personalmente non ho alcuna intenzione di tacciare Paolo di

impostura, cioè di avere elaborato la sua teologia attraverso una serie di

operazioni da definire mendaci. La menzogna non è l'esatto contrario della

verità, almeno quando si tratta di trasmettere socialmente dei valori che

richiedono un linguaggio comunicativo di massa e delle immagini che possano

rappresentarli. La creazione di un messaggio religioso non ha mai fatto a

meno, né mai potrà farlo, di passare attraverso l'uso della mitologia e delle

figure simboliche, artificiali. Paolo le ha utilizzate, e ha scelto quelle dei

contesti in cui si muoveva, trattandole nel modo in cui egli sentiva che

potevano essere recepite e accettate dagli ebrei della diaspora e dai gentili.

      L'esigenza primaria, ad un certo punto del suo lavoro missionario, non

è stata più limitata al fatto di controbilanciare da una posizione conservatrice

gli ardori rivoluzionari degli "zelanti per la legge", al semplice fine di

scongiurare i pericoli che essi determinavano per la loro stessa nazione, ma

quella di trovare una via di uscita più universale alla paralisi ideologica, politica

e spirituale in cui si trovava questo angolo tormentato dell'impero. Non era

possibile, nel sentire paolino, che il creatore vedesse il suo popolo prediletto

esclusivamente come una nazione di guerriglieri fanatici, pieni di odio xenofobo

e destinatari di una missione escatologica intransigente e sanguinaria quanto

fallimentare.

 

 

UN MESSAGGIO DALLA TERRA DI GIUDA.

 

      Sebbene il fatto di nominare i cosiddetti "corsi e ricorsi" della storia

possa apparire un luogo comune, dobbiamo tuttavia ammettere che oggi la

Palestina sta esibendo una situazione culturale, sociale e politica che, per

molti aspetti, è straordinariamente simile a quella dei tempi della dominazione

romana.

      Personalmente, nel corso della mia visita ad Israele, sono stato

profondamente colpito dalla risoluzione e dall'energia con cui alcuni popoli

intendono difendere ed affermare, prima ancora che la loro sicurezza

economica e la loro tranquillità di esistenza, la loro identità culturale e

religiosa, costi quello che costi. In una città come Gerusalemme, dove alla

conflittualità fra le grandi religioni si sovrappongono tutte le più particolari

conflittualità fra le suddivisioni teologiche delle singole religioni, il problema

dell'identità individuale e collettiva prende sfumature che rasentano il

maniacale.

      Si ha l'impressione che gli uomini, al di fuori delle antiche dottrine

etnico-religiose che al loro tempo servirono a tenere a battesimo i popoli e,

soprattutto, delle pratiche di culto e delle osservanze rituali che le

caratterizzano, non riescano a trovare un senso soddisfacente della propria

identità; che non riescano, principalmente, a percepire la propria identità nel

semplice fatto di essere degli umani, e di condividere con altri umani il

domicilio su un pianeta che ha bisogno di essere capito globalmente nei suoi

delicati equilibri, amato e rispettato. O, Dio lo volesse, a rendersi conto che è

proprio la comprensione di quanto di comune c'è fra individui e popoli diversi,

alla radice della natura umana e alla base dell'equilibrio biologico planetario,

che costituisce l'elemento fondamentale della nostra autentica identità e

l'anello nascosto che congiunge l'uomo al potere che ha generato e

continuamente genera l'universo. Una identità realmente appagante, capace di

superare tutto ciò che divide e di far prevalere le forze coesive e costruttive su

quelle separatrici e distruttive.

      Sono consapevole di invocare un'utopia ancora lontana dal poter

atterrare su questa terra. Ne ostacolano la realizzazione troppi elementi

psicologici e sociali, primi fra tutti le dottrine religiose, ancorate alla difesa del

proprio primato di verità e dell'egemonia ecclesiastica più che ai valori della

ricerca spirituale, e l'impreparazione culturale dei popoli, talvolta

intenzionalmente conservata dalle forze dominanti, le quali non hanno alcun

reale interesse all'emancipazione della gente al di fuori delle ragioni di mercato

e di controllo.

      Al suo tempo, un uomo come Paolo fu protagonista di una

straordinaria emancipazione ideologica e spirituale, che seppe veramente

portare un nuovo contributo evolutivo alla cultura umana. Partito da una

posizione di conservazione e difesa dell'ordine costituito, successivamente

influenzato dal confronto con le forze rivoluzionarie del messianismo e,

soprattutto, dall'estrema ed anche sincera energia umana che le animava,

Paolo si è spostato progressivamente su posizioni diverse. In un primo tempo

egli ha intuito l'inefficacia e la povertà dell'azione semplicemente repressiva, e

ha iniziato ad elaborare quella che in precedenza abbiamo già definito

un'alternativa ideologica, una fede "immunizzante" rispetto agli eccessi

xenofobi e violenti degli esseno-zeloti. In questa fase egli ha tentato il dialogo

coi rivoluzionari e ha sperimentato la possibilità di ammorbidire la loro

intransigenza con alcuni ritocchi alla dottrina messianica . In un secondo

tempo egli ha sentito un'esigenza probabilmente non solo strategica, ovverosia

esteriore, ma anche profondamente sua e interiore di definire una visione del

mondo di più ampio respiro spirituale rispetto al tradizionale messaggio della

salvezza messianica. In questa fase egli è passato da quello che potremmo

chiamare un semplice revisionismo ad una autentica elaborazione teologica ex

novo, formulando un'idea che fosse capace di contrapporsi alla pesantezza

asfissiante delle dottrine religiose proiettate immancabilmente verso il

particolare, verso l'affermazione di una dimensione non pienamente umana,

ma pseudoanimale, tribale, nazionalistica, terribilmente mancante di quella

universalità che non può non caratterizzare un autentico approccio a Dio e ai

valori dello spirito.

      Paolo, nel corso dei suoi instancabili viaggi, ha capito che il germe

della tensione escatologica e dell'anelito alla salvezza non era una prerogativa

ebraica, ma un elemento comune a tutti i popoli del mediterraneo orientale,

politicamente dominati o dominatori. Ha inoltre percepito l'insufficienza delle

varie risposte a questo anelito, consistenti nelle diverse ideologie messianiche

nazional-religiose, condannate a perpetuare una irrisolvibile  conflittualità , o

nelle dottrine misteriche, condannate ad una fruibilità esclusivamente élitaria ,

e ha dato inizio a quel tipo di creatività apparentemente visionaria e delirante

che è caratteristica del genio.

      Egli ha cucito insieme le componenti culturali ed escatologiche di

molte dottrine religiose dell'area geografica del mediterraneo, ma anche di altre

aree orientali, indovinando la miglior combinazione di elementi carichi di

simbolismo inconscio che potesse venire incontro alle aspettative

dell'immaginario collettivo. Ha così costruito la figura più escatologica, ma

anche più universalmente fruibile in quel contesto, e il miglior ritualismo, ad

essa associato, che potessero essere concepiti in quel momento e che

potessero reggere abbondantemente il confronto coi culti di Mitra, di Tammuz,

di Osiride, di Adonis, ed anche dell'imperatore-dio dei romani e del messia

davidico dei giudei. Egli ha elaborato la figura di Gesù Cristo, morente e

risuscitante, il Salvatore universale che non chiede a nessuno a quale popolo

appartiene, che si rivolge agli schiavi come ai nobili e che promette un regno

situato al di sopra di tutte le meschinità dell'egoismo umano.

      La veridicità di questo messaggio, per il quale l'aggettivo geniale è

misero e scadente, non consiste nell'autenticità storica e aneddotica del suo

simbolo portatore, ma nella estrema forza del suo contenuto e nel suo potere

evolutivo, che è stato capace di mettere così facilmente in discussione quei

valori dominanti di potere e di possesso, cinici e disumani, prerogativa della

politica imperiale di Roma, contro cui si era inutilmente scagliato il messaggio

del messianismo rivoluzionario Yahwista. Gli uomini di quel tempo, come

quelli di ogni tempo, avevano ed hanno bisogno di una promessa di autentica

giustizia, che abbia un respiro universalmente liberatorio, non di un

ribaltamento dei poteri e delle dinastie che lasci inalterata la sovranità

dell'uomo-animale sull'uomo-spirituale. In questo senso possiamo ammettere

che il Cristo immaginario della sintesi paolina si è rivelato più autentico ed

efficace del Cristo reale della vicenda storica.

      Questa è la grandezza del pensiero paolino: il fatto di avere superato

le motivazioni iniziali della sua ostilità nei confronti del messianismo

tradizionale, di averne incorporato la tensione liberatoria, di averla congiunta

sincretisticamente e sinergicamente ad altre concezioni religiose, e di avere

creato una formula teologica di respiro talmente universale e rispondente alle

istanze più intime dell'inconscio umano da conquistare il mondo intero e i

secoli a venire. Anche se, in realtà, il senso ultimo della necessità spirituale

che ha costretto Paolo a spingersi tanto in avanti, al punto da travalicare i

confini della ortodossia della sua stessa religione, non è stato colto, né

appieno né in parte modesta, dalla istituzione che la storia ha promosso a

rappresentante ufficiale di questa concezione. Anzi, possiamo certo

ammettere che i meccanismi di questa promozione storica sono proprio quelli

che hanno sistematicamente mutilato il senso ultimo del messaggio, finendo

per dirottare tutta l'energia verso la costruzione di un regno di questo mondo là

dove se ne sarebbe dovuto costruire uno in cielo.

      Ma questi sono i limiti intrinseci delle istituzioni umane nel

rappresentare pienamente le intuizioni degli uomini grandi. In ogni caso

dobbiamo riconoscere che il germe fondamentale della sintesi paolina,

ovverosia l'esigenza del superamento di un atteggiamento etnocentrico, verso

un'etica cosmopolita fondata sul concetto di amore universale, è contenuta

allo stato latente nel messaggio evangelico e, a dispetto delle sue paradossali

negazioni storiche ed istituzionali, spinge dall'interno del cuore della

cristianità, come anelito insoddisfatto verso una giustizia globale. Una parte di

questa tensione inconscia, inglobata dal razionalismo dell'ottocento ed

esasperata dal disgusto per il tradimento istituzionale dei valori di fondo del

cristianesimo, ha prodotto le istanze originarie della moderna sinistra politica.

      Tornando ad osservare Israele oggi, dobbiamo tristemente constatare

che questa terra è ancora tormentata dai conflitti, e che i popoli che vi abitano

sono sempre ancorati alle problematiche della difesa-affermazione della loro

identità etnico-religiosa.

      Gli ebrei, reduci da una esperienza storica fra le più drammatiche che

l'umanità intera possa ricordare, non sembrano in grado di gestire in modo

equilibrato e logico la questione del recupero della loro identità nazionale,

culturale e territoriale. Alcuni di loro, non pochi purtroppo, si rifugiano nella

interpretazione fanatica delle loro scritture sacre e nell'ambizione, orgogliosa

quanto scellerata, di vivere in una terra promessa da Dio, ovverosia in una

Palestina finalmente restituita in pieno ad Israele e disinquinata dalle presenze

religiose spurie. Non si rendono conto di perpetrare così, in nome di un

presunto piano divino, una volgare atrocità dello stesso stampo di quella che

essi hanno subito in passato. E' decisamente troppo disinvolta l'attitudine con

cui essi si considerano a pieno diritto i titolari e padroni di una terra che la

storia, in duemila anni, ha reso a loro irrimediabilmente estranea.

      I palestinesi, calpestati con sbrigativa prepotenza nel diritto

elementare di vivere nel loro paese (loro per un diritto ormai indiscutibilmente

consolidato da lunghissimi secoli di permanenza in quella terra), pressoché

abbandonati dal resto del mondo e traditi nella loro aspettativa di essere

tutelati dagli organismi dell'ordine e del diritto internazionale (i quali troppo

spesso hanno dimostrato di obbedire a misere logiche di interesse e di

convenienza), si lasciano tentare da ciò che soddisfa il loro orgoglio ferito,

piuttosto che intraprendere il cammino che possa consentire loro di superare

questa dura prova storica.

      Al giorno d'oggi, senza ombra di dubbio, in questa terra lo stato di

Israele svolge un ruolo storico simile a quello che, a suo tempo, competeva a

Roma imperiale. Israele è lo strapotente invasore che ha ridotto il popolo

indigeno ad una condizione di penosa sottomissione. E il paragone risulta

ancor più valido in quanto gli ebrei, come proprietari di alcuni dei più ricchi

gruppi finanziari ed industriali in America e in altri paesi, sono una grande

potenza economica nel mondo.

      I palestinesi, al contrario, sono paragonabili ai giudei su cui pesava il

giogo imperiale romano, e i loro diversi modi di reagire ricordano in modo

straordinariamente corrispondente quelli degli ebrei di duemila anni fa: dalla

tendenza a emigrare e lasciarsi integrare nelle società straniere occidentali (la

diaspora palestinese), fino alla tendenza opposta, ovverosia l'adozione di una

logica di lotta violenta e vendicativa, ispirata ad ideali religiosi esaltati (lo

zelotismo palestinese). Abbiamo anche un'autorità ufficiale che dialoga con

l'invasore in cerca di compromessi di convivenza e potremmo addirittura

spingerci fino a definire la corrente fedele ad Arafat come il fariseismo moderno

dei palestinesi.

      Forse non tutti i turisti che visitano Israele sono così consapevoli di

trovarsi in un paese ricco di testimonianze che oltre ad appartenere alla

archeologia tradizionale, fatta di rovine, di mura e di reperti, appartengono

anche ad una archeologia umana, fatta di comportamenti, di idee, di tensioni

sociali.

      Personalmente, trovarmi a Gerusalemme nel giorno in cui è esplosa la

bomba di Mahaneh Yehuda, e respirare il clima profondamente drammatico di

quella circostanza, mi ha stimolato una serie di riflessioni che hanno una

parentela non del tutto lontana con quelle che, diciannove secoli fa, spinsero

Paolo a cercare una soluzione non politica ma culturale all'impasse in cui si

trovavano il suo paese e il suo popolo. Tutte le forme di integralismo che

affondano le loro radici nell'interpretazione settaria e fanatica delle dottrine

religiose sono destinate a creare orribili sciagure. Questo fatto, che

anticamente valse per gli esseno-zeloti, i quali portarono la loro nazione alla

distruzione completa, oggi vale tanto per i terroristi islamici, i quali ottengono

l'unico risultato di fornire a Israele ulteriori pretesti per giustificare l'irrigidimento

della sua politica repressiva, quanto per gli ebrei intransigenti che rifiutano ogni

dialogo col "nemico" musulmano considerandolo, sulla base di allucinazioni

teologiche, una sorta di presenza estranea e indegna nella terra che Dio

avrebbe destinato alla stirpe di Giuda. Basta constatare come gli uni e gli altri,

quando sono vittime di una mentalità settaria, finiscano per darsi a

comportamenti deliranti, come tutti coloro che ostentano una xenofobia

maniacale o che, addirittura, colpiscono con atti di violenza qualsiasi straniero

che attraversi il loro territorio.

      Se pensiamo una soluzione ai problemi attuali della Palestina che

abbia una dimensione esclusivamente politica, fatta di competenze territoriali,

di confini e di fili spinati, non sarà mai possibile trovarne una che sia valida e

definitiva, né tanto meno giusta. Questa volta, come duemila anni fa, il pensare

deve assolutamente emanciparsi dagli schemi ordinari e ripetitivi e muoversi in

una dimensione diversa. Il medio oriente, che oggi si configura come un punto

di crisi negli equilibri mondiali, potrà trasformarsi in una straordinaria

occasione di emancipazione per tutto il genere umano, se prevarranno le

potenzialità positive del pensiero. E' proprio su questi punti di contrasto e di

impasse della cultura (prima ancora della politica) che gli uomini e i popoli

devono ripensare sé stessi, la propria spiritualità, il valore delle proprie dottrine

ed ideologie ma, sopra ogni altra cosa, il senso profondo della propria identità.

E' proprio questo, il senso profondo dell'identità, che deve emanciparsi per

risolvere non solo il problema medio-orientale, ma tutti i problemi che affliggono

attualmente l'umanità: quelli economici, quelli politici, quelli ecologici.

      A questo genere di ripensamenti si opporranno non solo le logge

reazionarie degli interessi politici ed economici ma, forse con energia ancora

più decisa, i rappresentanti delle diverse dottrine dogmatiche e delle egemonie

ecclesiastiche. Inutile dire che la realtà è paradosso e che proprio dai pulpiti

che richiamano l'attenzione degli uomini verso Dio proviene la principale spinta

conservatrice che impedisce lo sbocciare di un pensiero autenticamente

evolutivo, che aiuti l'uomo nel riconoscimento della sua vera identità, al di là

dei particolarismi etnico-religiosi.

      Purtroppo viviamo in un'epoca in cui la parola sincretismo è ancora

considerata sinonimo di un'attitudine blasfema. Anche e soprattutto in ambito

cristiano, dove si dimentica (perché lo si vuole dimenticare) che il

cristianesimo stesso è figlio di una straordinaria composizione sincretistica.

L'elasticità e la disponibilità interculturale che caratterizzano il sincretismo

sono l'unico passaggio attraverso cui sarà eventualmente possibile trovare una

soluzione autentica e definitiva al problema del conflitto arabo-israeliano e, in

generale, a tutti i problemi dovuti al potenziale conflittuale delle disomogeneità

culturali.

Se questo conflitto sarà vinto da Israele o dall'Islam non avrà vinto

nessuno. Mentre la vittoria della pace sarà un trionfo per l'umanità intera, oltre

che per i popoli che ne beneficeranno in prima persona.

      La strada del vincere, questa volta, deve passare attraverso il

"perdere"...

 

 

SULLA VIA DEL RITORNO.

 

      Il giorno 2 agosto è stato interamente dedicato al viaggio di ritorno. Era

sabato e, a causa dello Shabbat, per raggiungere da Gerusalemme l'aeroporto

Ben Gurion, nei pressi di Tel Aviv, abbiamo dovuto prendere un mezzo privato.

Il pulmino, condotto da un giovane israeliano aveva fatto il giro di alcuni dei più

importanti hotel, dove aveva raccolto altri turisti in partenza. L'autista guidava

ad una velocità eccezionalmente elevata, molto al di sopra dei limiti consentiti,

mentre percorreva l'autostrada che scende dai monti su cui sorge la capitale

verso la calda pianura costiera.

      All'interno del pulmino l'autista teneva in bella mostra alcuni simboli e

fotografie di quel rabbi, che si propone come messia, la cui immagine avevo

già notato in un ristorante di Ben Yehuda street. Evidentemente il rabbi ha

molto seguaci, raccolti fra le persone di mentalità radicale che non tollerano

arabi sul suolo di Israele e che aspettano il giorno in cui la Moschea della

Roccia sarà rasa al suolo e, al suo posto, sarà ricostruito il "terzo" tempio

sacro degli ebrei. Un'idea semplicemente folle che, se anche solo tentata nella

sua realizzazione, solleverebbe una guerra totale di tutto l'Islam, dal Marocco

fino all'Indonesia.

      Non ho potuto fare a meno di riflettere sul fatto che in tutto il viaggio,

dopo avere visitato meticolosamente un grande numero di luoghi, una volta

soltanto mi è capitato di vedere un'immagine di Rabin: una foto incorniciata

all'interno di un negozio di Qasrim, nel Golan. Per il resto, di Rabin nessuno

mi ha mai parlato e nessuno mi è sembrato affezionato alla sua immagine.

Anche il professore di Tel Aviv, quando gli ho chiesto perché il popolo avesse

scelto il falco Netahyahu come successore di Rabin, e non Peresh, che

avrebbe potuto continuare la sua linea di pacificazione, si è limitato a dire: "Al

popolo non piaceva Peresh", e ha subito cambiato discorso.

      E' troppo forte in questo problematico paese un'anima intollerante ed

integralista, e pochi sembrano in grado di capire quale indescrivibile sofferenza

essa costerà a tanti innocenti.

      All'aeroporto abbiamo fatto l'esperienza che avrei creduto di fare

all'arrivo: ci hanno sottoposti ad un estenuante interrogatorio in inglese, nel

quale ci hanno chiesto di tutto e hanno voluto vedere tutto. Hanno anche

preteso le prove delle visite turistiche; hanno voluto vedere i depliant dei musei

e dei siti archeologici; hanno chiesto perché mi chiamo David senza essere

ebreo; se c'erano ebrei fra i miei antenati; hanno voluto insistentemente sapere

se qualcuno mi aveva dato oggetti o messaggi, scritti o a voce, da portare fuori

di Israele. Niente di male in tutto ciò, la sicurezza dei voli merita bene questo

genere di attenzioni. Salvo per il fatto che altrove, in Italia, per esempio,

abbiamo bisogno di un generico livello di attenzione, non abbiamo la

consapevolezza di essere circondati da popoli che ci odiano a morte, e da

uomini che sono disposti a lasciarsi squarciare da una bomba pur di colpire

chi ha dato loro motivi di tanto spaventoso furore.

      Alle ore 17.00 il carrello dell'aereo si è staccato dalla pista e poco

dopo il mio sguardo cercava, laggiù, all'indietro, di rincorrere l'immagine della

costa palestinese che velocemente scompariva all'orizzonte.

 

 

POST SCRIPTUM.

 

      4 settembre 1997, ore 18.00, in Italia il Tg1 annuncia che, poche ore

fa, tre violente esplosioni, a soli 36 giorni dalla precedente tragedia del

Mercato di Mahaneh Yehuda, hanno nuovamente seminato la morte fra le

strade di Gerusalemme. Questa volta ad essere colpito è stato il pedestrian

mall di Ben Yehuda street, la qual cosa, oltre al naturale dolore per le vittime,

mi riempie di maggior turbamento perché, come ho avuto modo di dire in

precedenza, ero solito recarmi in quella strada tutti i giorni, durante la mia

permanenza a Gerusalemme. E' un ambiente tipicamente turistico, oltre che

una meta abituale per i gerosolimitani. Specialmente dalle 21.00 in poi,

quando tutti i ristoranti e i locali si riempiono, internamente ma anche

esternamente, sui lati della strada, e il passeggio si svolge in una folla

fittissima. L'orario scelto dai terroristi, il primo pomeriggio, può essere dovuto

forse al fatto di evitare una strage di stranieri in vacanza.

      Il fatto, oltre a rinnovare il lutto e il dolore in molte famiglie che, come

vuole spesso la fatalità in queste circostanze, sono del tutto innocenti ed

estranee alle cause di tanto odio, è la dimostrazione che la situazione in

Israele sta irrimediabilmente precipitando verso una implacabile escalation in

cui tutto è governato solo dalla rabbia, dallo spirito di vendetta e

dall'esasperazione, da ambo le parti. Adesso, sempre di più, tutti hanno motivi

per odiare profondamente, e lo spirito che animava l'azione politica voluta da

Rabin appare infinitamente lontano e perduto nel tempo, sebbene fino ad un

anno e mezzo fa quella fosse la linea ufficialmente seguita dal governo

israeliano.

      Per quanto assurda e criminale possa essere la logica del terrorismo,

che si illude di risolvere i problemi trattando le vite umane come i birilli del

bowling, soddisfacendo così solo le perversioni dell'orgoglio accecato dal

furore e dal senso di impotenza, non possiamo non riconoscere che questo

oscuro ritorno al passato ha due cause recenti: la prima è la strada che Israele

ha imboccato quel giorno infelice in cui, a Tel Aviv, il messaggio di speranza

lanciato da Rabin è stato violentemente stroncato da un giovane ebreo

assassino; la seconda è la scelta elettorale degli israeliani i quali, spinti più

dalla paura e dalla diffidenza che non dalla ragione, hanno preferito promuovere

un falco, Netanyahu, seppellendo definitivamente il processo di pace.

      Ed ecco le solite agghiaccianti immagini ripetersi sullo schermo della

televisione: corpi straziati, gente in preda al panico e alla disperazione,

sangue, urla e desolazione. Specialmente dopo il confronto storico con le

circostanze che in passato, per ragioni assai simili a quelle attuali, portarono

la Palestina ad una guerra devastante, con decine di migliaia di vittime, sorge

il più che fondato presentimento che questa sentiero conduca inevitabilmente

la terra di Giuda verso un destino che vorrei non immaginare.

      Penso alle ingenti quantità di materiale radioattivo fissile, di cui si

sono perse le tracce da quando l'ex Unione Sovietica è stata smantellata

sbrigativamente, e penso con sgomento e terrore all'ipotesi che un giorno uno

dei guerriglieri kamikaze possa portare una borsa di uranio invece che di

tritolo. Le rumorose serate vacanziere di Tel Aviv, dall'aspetto così

spensierato, lasciano spazio nel cuore ad un remoto timore che un giorno la

tragedia possa proporre non l'immagine di sangue e pomodori sul selciato di

una via, ma uno scenario da "The day after".

E' proprio perché questo presagio ha una sua agghiacciante

verosimiglianza, configurando un pericolo che riguarda gli equilibri politici e

militari del mondo intero, che il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, si è

immediatamente sentito in dovere di dichiarare che il processo di pacificazione

deve continuare e che il segretario di stato Albright si recherà in Palestina fra

pochi giorni esattamente come previsto.

      Ma il processo di pace, come abbiamo già detto, ha un grande nemico

invisibile che deve essere sconfitto, un ostacolo subdolo che deve essere

superato: il problema dell'identità umana. Le soluzioni politiche non avranno

mai ragione delle tensioni create all'interno dell'inconscio individuale e

collettivo, specialmente di quelle divisioni etnico-religiose a cui gli uomini

affidano una facile quanto ingannevole soluzione del problema della propria

identità, e sulle quali speculano le numerose logge dei poteri politici,

economici ed ecclesiastici, in tutto il mondo. I rattoppi esteriori lasciano

completamente inalterato lo squilibrio interiore dell'uomo, vera fucina delle

tragedie o della prosperità.

      Se il Viet Nam fu lo sfortunato punto di attrito in cui si scontrarono

dolorosamente quanto inutilmente due opposte concezioni economico-

politiche, la terra di Giuda è un Viet Nam più insidioso, poiché in esso si

scontrano le oscure forze dell'inconscio umano, quelle che da millenni guidano

in modo nascosto la definizione del senso della identità delle persone e dei

popoli. La vera battaglia andrà combattuta su questo piano, ma sarà lunga,

penosa e funesta...

Che Dio abbia pietà di noi, piccole e ignoranti creature, che abbiamo

la presunzione di pontificare indebitamente nel Suo nome e di inventare

dottrine ad uso e consumo dei sistemi politici; nonché, sempre nel Suo nome,

di combattere e uccidere quelli che non abbiamo la capacità di riconoscere

come nostri simili, anche perché, sostanzialmente, non abbiamo ancora

imparato a riconoscere chi noi stessi siamo.