INTRODUZIONE

 

 

«non deve, né vuole pentirsi [...], non sa di che cosa si debba pentire»[1].

 

 

Giordano Bruno arriva a Londra nella primavera del 1583. Al termine della sua esperienza inglese, in meno di tre anni, il mago di Nola avrà scritto e fatto pubblicare un numero impressionante di volumi: tra il 1584 e il 1585 vengono infatti dati alle stampe La Cena de le Ceneri, il De la Causa, principio et Uno, il De l'infinito, Universo et Mondi, lo Spaccio de la Bestia trionfante, la Cabala del cavallo Pegaseo e il De gl'heroici furori. Si tratta, come ha giustamente commentato Michele Ciliberto, di «autentici capolavori del pensiero europeo»[2]: ma proprio alle dottrine cosmologico-metafisiche e religiose che questi testi esponevano il Nolano dovrà l'arresto, la carcerazione e il rogo.

Per contenuto e per impostazione, i primi tre dialoghi inglesi sono stati appropriatamente definiti e considerati dalla critica come «metafisici». In effetti, nella Cena, nel De la causa e nel De l'infinito, Bruno esprime, anche per il tono divulgativo, il meglio della sua filosofia ermetica, soprattutto a livello metafisico-cosmologico. Emergono qui i tratti fondativi di tutto il suo pensiero, dal concetto di Anima Mundi alla nuova religione magica, dalla distruzione delle gerarchie al completamento della rivoluzione copernicana, dalla concezione dell'Unum e del misterioso numero binario alla teoria dei mondi infiniti, vivi come grandi animali animati, e popolati da creature razionali anche più perfette dell'uomo.

Ma, soprattutto, l'universo che viene presentato in questi dialoghi è attualmente infinito, e rappresenta l'espressione più adeguata della infinita potenza di Dio: la luce divina pervade la realtà; il reale segue a sua volta e ricalca fedelmente una struttura metafisica ben precisa, i cui opposti estremi - l'Unum e il molteplice - sono indissolubilmente connessi dalla scala naturae, da un ordine meraviglioso.

Ci troviamo quindi di fronte al coerente completamento di quella metafisica della luce che Bruno già a partire dalla sua prima opera filosofica (il De umbris idearum, pubblicato a Parigi nel 1582) aveva cominciato a delineare, sebbene seguendo più fedelmente i criteri del linguaggio magico-ermetico (gli stessi che adotterà scrivendo le sue ultime opere: il De magia, il Theses de magia, il De magia mathematica e il De vinculis in genere).

Il concetto di infinito assume nei dialoghi metafisici una centralità tale da coinvolgere tutte le dimensioni dell'esperienza umana: dalla gnoseologia al mondo naturale, dalla religione all'etica: si tratta quindi di un'idea che non si lascia affatto ridurre al solo ambito metafisico, e che viene invece a coinvolgere - simultaneamente - tutti i nodi concettuali della nolana filosofia. Da questo punto di vista, se è vero che ogni filosofia è condizionata da un tema centrale, e come tale si presenta come sviluppo di una intuizione originaria, allora si potrebbe pacificamente concordare con Carlo Monti quando sostiene che «il motivo dominante della filosofia bruniana è costituito da una continua spiegazione dell'idea di infinito, dove l'infinito è insieme Dio, Verità, Bene, Uno e tutto l'universo [...]. Il discorso bruniano sull'infinito è dunque discorso cosmologico e metafisico insieme; esso dovrà essere analizzato e seguito in tale sua duplice dimensione»[3]. In effetti l'analisi del concetto di infinito in Bruno deve necessariamente passare attraverso lo studio di tutti i grandi temi del suo pensiero filosofico, dalla cosmologia alla metafisica, dall'etica alla religione, dalla teologia alla magia. E' addirittura possibile sostenere che tutti questi motivi possono essere coordinati proprio dalla teoria infinitista, che a molti di essi fornisce anche una relativa impalcatura concettuale.

Ma alla fine, proprio grazie all'analisi dei testi metafisici, si dovrà sorprendentemente concludere che l'infinito non è il nocciolo teoretico esclusivo della nolana filosofia. La centralità dell'infinito infatti non presuppone mai l'abbandono del finito, del minimo, del limitato. Lo scopo di questo studio è appunto quello di mostrare come l'infinito sia una delle tante conseguenze logico-metafisiche dell'adozione spregiudicata della filosofia binaria, cui fa eco un utilizzo altrettanto spregiudicato della magia naturalis, sia a livello teoretico che pratico. Il mio tentativo è quindi quello di mostrare come la teoria dell'infinito non sia in Bruno comprensibile a prescindere dalla considerazione del suo contrario: il finito.

In realtà - questo è quello che emerge dai dialoghi metafisici - la discussione dell'infinito trova una sua collocazione precisa solo all'interno della misteriosa, magica, filosofia binaria, quella dei contraii: «chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi degli contrarii e opposti. Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto d'unione»[4], aveva dichiarato Teofilo-Bruno nel De la Causa. Come aveva ben compreso Nicola Badaloni - senza peraltro approfondire adeguatamente questa tematica - secondo Bruno Aristotele non ha saputo vedere in ogni soggetto (e nell'Essere totale) l'elemento della contrarietà. Aristotele ha mantenuto l'opposizione logica «ma non seppe vedere la forza che sprigionava dalla contrarietà fisica, certo impastata di anima del mondo, che fa della materia un principio attivo, non solo privativo, e un punto fermo per la ricerca sulla natura che, quando è stata feconda, mai si è lasciata fermare dalle barriere rigide della non contraddizione logica»[5].

E infatti dichiarerà il Nolano: «A questo [a saper trar il contrario dopo aver trovato il punto d'unione] tendeva con il pensiero il povero Aristotele, ponendo la privazione (a cui è congionta certa disposizione) come progenitrice, parente e madre della forma; ma non vi poté aggiungere. Non ha possuto arrivarvi, perché fermando il pié nel geno de l'opposizione, rimase inceppato di maniera che, non descendendo alla specie de la contrarietà, non giunse, né fissò gli occhi al scopo; del quale errò a tutta passata, dicendo i contrarii non posser attualmente convenire in soggetto medesimo»[6]. Il principio di non-contraddizione doveva insomma negare - per Bruno - il divenire, e quindi la vita dell'universo stesso. Ma nel mondo divino ogni cosa diventa ogni cosa: c'è sempre compresenza di essere e non-essere-ancora. L'esistenza non è mai immobile, ed è impossibile bloccare l'infinita catena dell'essere, anche solo per un istante.

Da un punto di vista epistemologico queste posizioni erano già state chiarite nel De umbris idearum, e mostrerò in seguito come esse siano perfettamente coerenti con gli sviluppi finali della metafisica binaria. La negazione del principio di identità e di non-contraddizione rappresenta appunto il momento fondamentale della filosofia binaria di Bruno e, ovviamente, di ogni filosofia magica.

Anche Umberto Eco, pur confessando da parte sua di credere ancora al principio di identità, ha ricordato che «si può parlare di simpatia e somiglianza universale solo se si rifiuta questo principio e quello di non-contraddizione. La simpatia universale è effetto di una emanazione di Dio nel mondo, ma all'origine dell'emanazione sta un dio inconoscibile, che è la sede stessa dell'emanazione [...]. Il pensiero ermetico dice che il nostro linguaggio, quanto più ambiguo, polivalente, e si avvale di simboli e metafore, è particolarmente adatto a nominare un Uno in cui si realizza la coincidenza degli opposti. Ma dove trionfa la coincidenza degli opposti cade il principio di identità»[7].

Utilizzando in modo spregiudicato la cusaniana coincidentia oppositorum, Bruno sostiene che l'Uno si svolge esplicandosi in una infinità di forme, che esso poi complica come totalità. E' quindi possibile risalire dalla molteplicità all'Uno, attraverso però la mediazione dell'umbra: il sistema magico mnemotecnico del De umbris è appunto costruito su questa idea e sulla convinzione di poter conoscere tutto da tutto. Questa possibilità è data evidentemente proprio dalla negazione esplicita del principio di non-contraddizione.

La logica dei contrari, in aperta opposizione a quella aristotelica, coinvolge sintomaticamente anzitutto il piano metafisico, l'Unum. Nell'Uno vi è infatti - assolutamente - coincidenza di complicatio ed explicatio, di minimo e massimo, di ombra e luce. Il mistero che avvolge la modalità di questo essere - allo stesso tempo - minimo e massimo, provoca il sistema dell'analogia razionale e della magia teurgica: due metodiche meno che mai antitetiche, che devono essere invece sapientemente coordinate dal mago-filosofo al fine di ottenere non solo la reale affermazione dell'autonomia umana in campo religioso ed etico, ma anche una crescita spirituale che permetta il divinizzarsi della vita e il realizzarsi di un progresso infinito. In sostanza è ancora una volta operante il sistema analogico: dall'infinità di Dio Bruno giunge all'infinità della natura e dell'uomo che in essa vive. La distruzione di tutte le gerarchie, cosmologiche o morali che siano, è il frutto di questa operazione analogica.

Né si deve concludere che Bruno abbia optato per una divinizzazione totale e completa dell'uomo grazie al semplice abbattimento dell'ultima sphaera mundi: il progresso richiede infatti un tempo infinito, un contatto diretto con la divinità, una ciclica vicissitudine universale. Per di più, tra l'uomo e Dio è posto un limite metafisico, un'ombra che - sempre all'interno della filosofia dei contrari - risulta di doppia natura. Si tratta infatti di un'ombra che può essere rischiarata, ma mai definitivamente. Questo limite misterioso è quindi - magicamente - frangibile ed infrangibile al tempo stesso.

Questa idea mi è stata suggerita da un passaggio apparentemente di scarso rilievo, esposto proprio nelle prime battute della Cena. All'apertura del dialogo metafisico, Bruno aveva infatti definito il numero binario come misterioso. Sollecitato a dare una spiegazione («perché avete detto, Teofilo, che il numero binario è misterioso?»), Teofilo-Bruno risponderà per modo di passaggio: «Perché due sono le prime coordinazioni, come dice Pitagora, finito ed infinito, curvo e retto, destro e sinistro, e via discorrendo. Due sono le spezie di numeri pare ed impare, de' quali l'una è maschio, l'altra è femina. Doi sono gli Cupidi, superiore e divino, inferiore e volgare. Doi sono gli atti della vita, cognizione ed affetto. Doi sono gli oggetti di quelli, il vero e il bene. Due sono le specie di moti: retto, con il quale i corpi tendeno alla conservazione, e circulare, col quale si conservano. Doi son gli principi essenziali de le cose, la materia e la forma. Due le specifiche differenze della sustanza: raro e denso, semplice e misto. Doi primi contrarii ed attivi principii, il caldo e il freddo. Doi primi parenti de le cose naturali, il sole e la terra»[8].

Quello che si è appena letto è a mio parere il vero centro della nolana filosofia: l'esposizione chiara e precisa della legge binaria, dei contrari. L'infinito non può non essere, perché esiste il finito. E così nella realtà binaria, ogni cosa ha il suo contrario: si tratta solo di saper decifrare la natura seguendo gli insegnamenti dell'antica sapienza egizia, dell'ermetismo, che Pitagora aveva mostrato di aver ben capito.

Lo scopo di questo studio è quindi anche quello di mettere in rilievo come il concetto di infinito sia stato accolto dalla tradizione ermetica (e come sostanzialmente, nonostante siano passati 30 anni, siano ancora valide le tesi di Frances A. Yates), e come dall'altra le idee fondamentali dell'ermetismo siano funzionali non solo alla comprensione dell'infinito, ma anche di tutti i nuclei concettuali della «nova filosofia» (come, ad esempio, dell'ars memoriae, dell'Anima mundi, dell'ascesi mistica al divino, etc.). In particolare, proprio l'accettazione della numerologia magico-simbolica e pitagorico-ermetica metterà alla fine in evidenza come l'infinito non sia affatto l'unico perno cui gira attorno tutta la fantastica ruota della filosofia nolana, ma come esso deve invece essere collocato in una concezione magico animistica del mondo (di cui l'infinito rappresenta appunto la maxima explicatio, mentre il finito, rappresentando la minima complicatio, ne garantisce la possibilità ontologica).

«Propria haec sunt vincula et potentissima, quae sunt per approximationem contrarii»[9], ripeterà il Nolano in uno dei suoi ultimi scritti, poco prima della cattura e della fine della sua esistenza libera. A Venezia, nel 1592, Bruno veniva infatti arrestato dall'Inquisizione. Imprudentemente, aveva accolto l'invito di un nobile veneziano, tale Mocenigo, che voleva apprendere dal grande Mago di Nola i segreti per sviluppare una memoria prodigiosa. A casa del patrizio veneto, nonostante gli scarsi progressi del discepolo, che diventerà poi il suo traditore, Bruno continuava a studiare l'arte mnemotecnica, ed era totalmente immerso nell'esplorazione della antica magia, «la cui restaurazione assumeva la valenza di una piena restaurazione dei modi della religione antica [quella egizia], da riproporre in tempi nuovi»[10]. Bruno si interessò quindi attivamente di magia e mnemotecnica fino alla fine della sua esistenza libera, fino alla fine della sua produzione letteraria: questo è un elemento che non può non far riflettere chi si vuole avvicinare alla nolana filosofia.

Bertrand Russel, nelle prime righe del suo saggio Misticismo e Logica, ha sostenuto che «la metafisica, ossia il tentativo di concepire il mondo come un tutto per mezzo del pensiero, si è sviluppata fin dall'inizio grazie all'incontro e al conflitto di due impulsi umani diversissimi, uno dei quali spinge gli uomini verso il misticismo, l'altro verso la scienza»[11]. In Bruno questo conflitto ha visto una completa vittoria di un misticismo di tipo magico, votato a divinizzare l'uomo mediante il contatto con una divinità che è nella natura e che la trascende al tempo stesso.

 


CAPITOLO I

 

MORFOGENESI DEL CONCETTO INFINITO: L'ERMETISMO.

 

 

«et haec magia est transnaturalis seu metaphysica, et proprio nomine appellatur jeourgiéa»[12]

 

 

«In fine illud esi firmiter asserendum et mente tenendum, quod spiritu, anima numine, Deo seu divinitate omnia sunt plena, et intellectus et anima ubique totus et tota est...»[13]

 

 

1. La natura analogica del concetto di infinito.

 

Nella formulazione del concetto di infinito il primo punto di riferimento è, naturalmente, l'Assoluto, Dio. L'analogia su cui si regge la teoria infinitista è però a sua volta sostenuta da una posizione panteista del tutto particolare, che trae le sue origini soprattutto dall'Ermetismo. Se l'aspetto più evidente dell'infinito bruniano è la sua relazione con una precisa impostazione cosmologica e teologica, allora risulta maggiormente chiaro il nesso universo-Dio: l'universo è infinito perché è esplicazione di un Dio infinito. Fulvio Papi aveva del resto fatto già osservare che «il ragionamento che fonda l'infinito è di ascendenza teologica»[14]: negare un effetto infinito significava negare la infinita potenza di Dio. Posizione questa chiaramente ambigua, paradossale, che era stata risolta dai medievali con una certa eleganza: per S.Tommaso, per esempio, Dio, nonostante abbia una potenza infinita, tuttavia non può creare qualcosa di increato (il che sarebbe far coesistere due cose contraddittorie), e così non può nemmeno creare una cosa assolutamente infinita[15]. Bruno, come vedremo, capovolge di fatto il ragionamento: è inammissibile che Dio crei (e si manifesti in) un mondo finito, perché ammettere questa ipotesi sarebbe come voler porre un limite alla sua infinita potenza. Un Dio che è in qualche modo limitato, o che non gode di una reale potenza assoluta, non è un Dio. Appare quindi chiaro un primo elemento, di cui cercheremo conferma nella lettura circostanziata dei testi: l'infinito è uno degli attribuiti di Dio, o meglio la determinazione che qualifica in modo appropriato la sua essenza e quindi le sue qualità, il suo modo di essere, di esplicarsi. Poiché l'universo è espressione di questa potenza infinita, su di esso si riflettono - per analogia - le stesse caratteristiche di infinità e perfezione che rivestono l'Assoluto. Infinito è allora propriamente il modo con cui Dio è il Tutto. Ma questo è solo un primo livello di lettura, l'inizio di un vero e proprio labirinto di idee.

Ho sostenuto che per Bruno sarebbe assurdo limitare la potenza divina sostenendo l'idea di un universo finito. E' bene precisare subito che sotto questa affermazione si cela una precisa posizione metafisica, cosmologica ed epistemologica insieme. L'universo non può essere finito non solo perché è opera di Dio, ma perché Dio stesso è nell'universo. La teoria infinitista di Bruno nasconde una posizione radicalmente panteista, forse precedente e addirittura originaria. Credo che in realtà questo panteismo, più volte fermamente ribadito, provenga dalla tradizione ermetica (che Bruno accolse con fervore, probabilmente leggendo Ficino), elemento che importanti autori contemporanei hanno voluto fortemente ridimensionare o addirittura escludere dal quadro interpretativo di Giordano Bruno. Mi riferisco in particolare a Michele Ciliberto e Leen Spruit[16]. Più avanti questi autori saranno ripetutamente citati, insieme e in contrapposizione a Frances Amelia Yates, che per prima ha interpretato tutto lo svolgimento storico della nolana filosofia (e non solo le opere tarde, come ha fatto invece Corsano) all'interno di un quadro interpretativo magico-ermetico. Questa ricerca ha però la presunzione di staccarsi sia dall'una che dall'altra scuola interpretativa, e casomai, se possibile, cercare di conciliare i due indirizzi. Pur conferendo una importanza fondamentale agli elementi magico-ermetici, credo sia importante non cadere nella trappola dell'aut-aut. E' possibile coordinare, senza che si escludano a vicenda, entrambe le correnti. Anzi, dal loro opportuno coordinamento possono nascere nuove prospettive, finora negate da una esclusione vicendevole abbastanza netta. Il pensiero di Bruno è frutto di una costruzione stratificata e complessa, che include una molteplicità disorientante di elementi eterogenei: uno sguardo d'insieme che non tenga conto di tale molteplicità risulta perciò compromesso fin dall'inizio. Il sincretismo bruniano si riflette infatti direttamente su tutti i livelli del suo pensiero, al punto che il discorso cosmologico non è concepibile senza quello metafisico, quello metafisico non lo è a prescindere da quello teologico, e così via[17]. E il magismo ermetico entra a pieno titolo a far parte di questi livelli di pensiero, in particolare di quello metafisico e gnoseologico.

 

 

2. Anche la questione gnoseologica, seguendo la struttura metafisica della realtà, viene impostata secondo criteri analogici.

 

Anche una questione importante come quella gnoseologica viene risolta su questo piano: sulla connessione, strettissima, tra cosmologia e metafisica-ermetica. La problematica epistemologica si collega infatti direttamente al concetto di scala naturae: una scala, non solo ideale ma anche reale, di elementi e individui che unisce l'Unum al molteplice. L'essere - che per Bruno è equivalente al concetto di vita, nel senso di animato - coinvolge sia il piano della fisica che quello della metafisica. Il punto di unione tra questi due livelli è costituito proprio dal concetto di scala naturae, che fornisce quindi un notevole supporto teoretico al panteismo bruniano. Ma del concetto di scala naturae e di come sia un elemento fondamentale nel pensiero del Nolano, parleremo più avanti. Per ora ritorniamo per un momento alla questione dell'essere (che possiamo già distinguere in assoluto - quello di Dio - e relativo - quello del mondo) e sulle implicazioni della sua infinitudine a livello epistemologico. Poiché l'essere è infinito (sia quello del mondo che quello di Dio - ma, come vedremo, in modo qualitativamente diverso), la sua conoscenza è possibile solo per ascesi. Da qui le ripercussioni in campo teologico sono evidenti: l'unica teologia possibile sarà quella negativa, o meglio quella naturale. La teologia diventa filosofia della natura, ossia, così come la intendeva Bruno, ascesi.

L'ascesi, come vedremo, non è però alla portata di tutti. Si tratta infatti di ripercorrere la scala degli esseri che dalla materia porta a Dio: sarà quindi indispensabile l'utilizzo della mnemotecnica (di ispirazione lulliana), della sapienza (ermetica e razionale, cioé quella caratteristica della nova filosofia), il rifiuto netto e deciso del sapere tradizionale, della «pedanteria», nonché, ovviamente, l'uso di tecniche magiche. Si tratterà in effetti di una teologia tutt'altro che «negativa», proprio perché intrisa di elementi cosmologici e «naturali». Ovvie le ripercussioni - di tutto rilievo - in ambito morale: alla distruzione del sapere pedantesco (della tradizione aristotelica, ma soprattutto della sua interpretazione medievale e del suo utilizzo in ambito teologico e morale) si affianca la nuova visione dell'uomo, inteso secondo l'espressione ermetica come «magnum miraculum» - un uomo che vive nel cosmo infinito - e l'affermazione di una religione tutta naturale, intrisa di elementi ermetici (culti solari, magia naturale, etc.).

Ora ci interessa però scoprire da dove nasce la concezione infinitista. Si tratta di un'acquisizione scientifica? E' forse il frutto di una speculazione filosofica? E' il necessario correlato alla corretta posizione teologica (ossia al riconoscimento della infinità divina)? Certamente si tratta di elementi tutti più o meno presenti nel pensiero dell'infinito, ma a mio parere la «provenienza» deve essere ricercata piuttosto nella formazione giovanile, quando Bruno studiò Pitagora, Platone e con loro la filosofia greca, il neoplatonismo, e venne anche a contatto con la filosofia ermetica, ovvero con il «pensiero magico». L'incontro con le teorie di Copernico avviene in realtà quando la concezione infinitista, almeno a livello embrionale, è già formata; e si tratterà di un incontro tutt'altro che facile. L'inizio di questa ricerca è dato quindi dalla relazione tra infinito e magia, relazione che, se non ho preso un abbaglio, costituisce il nucleo originario del pensiero infinitista bruniano.

 

 

3. La morfogenesi del concetto di infinito.

 

Come si può allora definire la morfogenesi dell'idea dell'infinito in Bruno? Affermare che l'infinito è fondato su un «ragionamento teologico» non deve certamente portare a limitare il discorso alla sola teologia ed ampliarlo al massimo alla cosmologia. In realtà le cose sembrano essere più complicate: ho sostenuto poc'anzi che la problematica infinitista coinvolge direttamente anche la dimensione epistemologica ed etica, tanto per fare due esempi lampanti. Ma cercando in una prospettiva più ampia, la genesi del pensiero infinito porta ad allargare enormemente il campo d'analisi. In effetti sembra che in Bruno si siano congiunte due tradizioni infinitiste: una relativa alla filosofia greca (dai presocratici e Plotino, fino al neoplatonismo rinascimentale), l'altra propria dell'ermetismo e del magismo in generale. Mia convinzione è che Bruno abbia tratto l'idea dell'infinito anzitutto dalla tradizione ermetica, che essendo anche e soprattutto «religione», è venuta saldando intuizioni già accolte dallo studio dei greci. Per di più la filosofia tradizionale viene continuamente inserita nelle esposizioni bruniane con modificazioni e adattamenti «di comodo». Naturalmente non è opportuno chiudere il discorso al solo ambito ermetico, perché sappiamo che in Bruno si mescolano apporti diversi in un'unica sintesi. In particolare, il quadro neoplatonico è particolarmente funzionale alla comprensione della «nolana filosofia», perché operante già a partire dal De umbris idearum: l'idea della catena infinita che emerge nel quadro epistemologico e metafisico del testo richiama appunto l'idea della degradazione dell'Essere nell'esistente, e del relativo ritorno dell'esistente all'Ente: idea, questa, di evidente matrice neoplatonica. Ma cercherò di mostrare poi come in realtà esistano delle forti differenze tra la metafisica del Nolano e quella di Plotino, soprattutto per il discorso della trascendenza dell'Unum e della sua consistenza materiale.

Anche da un punto di vista strettamente storiografico è bene non dimenticare che storicizzare il pensiero di Bruno significa anzitutto ricollocarlo immediatamente nell'ambito della corrente del «magismo rinascimentale», di cui egli stesso si sentiva in qualche modo l'interprete più autorevole. Da un punto di vista psicologico, inoltre, sappiamo che il pensiero magico è il risultato di processi inconsci - e collettivi - che partono da lontano, nel tempo e nello spazio; essi sono stati spesso considerati come strutture archetipiche collettive, originarie. Nulla da stupirsi dunque, se Bruno restò sempre molto interessato all'occulto, o meglio, all'umbratile.

 

 

4. Magia, stregoneria e rielaborazione dell'Assenza.

 

Una prima, evidente caratteristica dell'Infinito è che non è di-mostrabile. Nessuno può di-mostrare fisicamente che l'universo (o qualsiasi altro ente) sia infinito. La critica del senso esterno (che per sua natura non può cogliere l'infinito) che Bruno esporrà nella Cena de le ceneri si basa appunto sull'idea che all'infinito si giunge per intuizione, per analogia: mediante insomma l'uso di quella particolare capacità cognitiva che il Nolano definisce con il termine intelletto interno. L'infinito è quindi, per sua natura, absconditus, assente dal panorama naturale dell'esperienza comune.

Alcuni autori hanno sostenuto, con validi argomenti, che esiste nell'uomo una sorta di predisposizione psicologica, inconscia, al mito e alla credenza nella magia. Altri, a ragione, collegano il pensiero magico al tema dell'alterità. Carlo Ginzburg, per esempio, ha evidenziato come «la capacità di oltrepassare l'ambito dell'esperienza sensibile immediata è il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall'elaborazione dell'assenza»[18]. Viene così messo in evidenza (per un caso apparentemente non legato in modo diretto alla tematica dell'infinito, ossia per la decifrazione del fenomeno del sabba) il nesso che collega meccanismi psicologici del profondo, linguaggio, magia e significazione dell'assenza, ovvero dell'Alterità nascosta. Definire questa alterità Dio, Assoluto, Unum, o Infinito, non è un problema, visto che in ogni caso all'infinito (o Assoluto che dir si voglia) viene riconosciuto il massimo dell'alterità possibile (rispetto alla finitezza umana).

Per comprendere come mai l'accettazione della teoria infinitista sia da mettere in relazione all'acquisizione delle dottrine ermetiche, è necessario anzitutto capire in che cosa consiste la magia professata dai cultori di Ermete Trismegisto (come Bruno del resto si considerava apertamente, e con grande soddisfazione).

La magia, come spero di mostrare con sufficiente chiarezza, è per Bruno conoscenza, sapienza, capacità pratica mirabile e, soprattutto, ascesi. L'infinito costituisce appunto la meta paradossale di questa ascesi: meta cui si può giungere solo per illuminazione, tramite una scala fatta di sapienza, tecnica, linguaggio, razionalità e, appunto, magia. In questo senso è possibile affermare fin da ora che l'infinito in Bruno ha una natura non matematica, non «scientifica», ma genuinamente religiosa. Magia e religione sono infatti in Bruno la stessa cosa, coincidono assolutamente. Ecco perché è importante considerare l'infinito anzitutto in rapporto alla magia, alla magia intesa come sistema di pensiero in cui è possibile trovare elementi eziologici e teleologici.

Bruno pensava infatti alla magia come una metodica per accelerare il progresso. La magia ha infatti aspetti sorprendentemente simili a quelli della Nuova Scienza, ed in essa è possibile cogliere lo sforzo di spiegare la natura con un discorso mitico. I passi che verranno citati, a partire dal De Umbris idearum, sembrano confortare ampiamente queste congetture.

A proposito è può essere utile aprire una parentesi. Si ricorderà che che Bruno è stato condannato al rogo come eretico. Come mago-eretico era certo stato considerato dagli Inquisitori, che per molti aspetti non avevano neppure compreso bene i particolari della sua dottrina. In realtà essi compresero però immediatamente la tesi fondamentale del Nolano, quella più pericolosa per l'ordine costituito: l'accettazione delle conseguenze filosofiche della teoria copernicana (l'abbattimento dell'ultima sphaera mundi, l'assenza di un centro dell'universo, l'esistenza dell'Anima del mondo: in breve, la distruzione di tutte le gerarchie assolute e la parallela esaltazione dei poteri dell'uomo e del mago-dio in particolare). Un uomo che vive in un universo infinito, senza centro né perfiferia, e che tramite i poteri magici riesce ad elevarsi sul mondo, non può essere considerato creatura, ma espressione del divino. La radicale distinzione ontologica del neoplatonismo cristiano tra Creatore e creatura viene qui scossa nelle sue fondamenta: l'uomo si può mutare in dio. Vengono così definitivamente abbattute tutte le gerarchie - anche morali - che seguivano la distinzione tra mondo sublunare e mondo divino.

Bruno, da parte sua, si doveva certo considerare una sorta di mago-profeta, visto l'ammirazione continuamente espressa in tutte le opere nei confronti della magia e della sapienza egiziana. Sul magismo rinascimentale che comprese - nonostante le accademiche distinzioni dei filosofi-maghi rinascimentali tra magia naturalis e magia cerimonialis - il fenomeno della caccia alle streghe e i processi di eresia, ci sarebbe molto da dire, e molto di tutto questo ha in realtà a che fare con il problema dell'infinito.

Dalla metà del Trecento si andava consolidando nell'Europa centro-occidentale il concetto cumulativo di stregoneria, e le inquisizioni delle diocesi europee cominciavano, agli inizi del '400, a dar vita al fenomeno della caccia alle streghe. Il fenomeno si esaurì solo alla fine del Seicento, e vide più di 100.000 persone condannate al rogo. Sarebbe interessante soffermarsi su tutti i passaggi che dalla «paura del complotto» hanno portato le comunità cristiane a perseguitare prima i lebbrosi, poi gli ebrei e infine le vecchie streghe di campagna (accusate di minare alla base l'ordine delle comunità con l'uso dei maleficia)[19].

Per la nostra indagine è comunque necessario passare oltre per concentrare la nostra attenzione, per un attimo, sulla figura della strega e sull'oggetto delle accuse inquisitoriali: la stregoneria. Con una certa sorpresa si vedrà alla fine che la stregoneria (per ora usiamo questo termine improprio) e l'infinito di Bruno hanno molto in comune.

Gli storici che si sono occupati del fenomeno della stregoneria hanno da tempo individuato due elementi fondamentali. Da una parte c'è l'opera degli inquisitori, che con la carcerazione o la tortura raccoglievano le confessioni dei sospetti e degli imputati. Le confessioni erano di solito proporzionate ai metodi che erano stati usati per estorcerle, tant'è vero che la Chiesa stessa aveva tentato in qualche modo di fornire agli inquisitori una qualche regolamentazione per evitare l'abuso della carcerazione e della tortura. Gli inquisitori si trovavano spesso di fronte delle persone che, pur di sfuggire alla tortura (o farla cessare se questa era già in atto) raccontavano qualsiasi cosa, prendendo spunto dalle stesse domande, che già contenevano chiare indicazioni su ciò che l'inquisitore voleva sapere. Il fenomeno della stregoneria sembrerebbe quindi una creazione involontaria della stessa azione inquisitoria.

Ma questa conclusione non tiene conto di un secondo elemento, importantissimo, che ci interessa da vicino. Dai documenti dei processi e dai resoconti delle confessioni, emerge tutta una serie di elementi particolari, che erano senza dubbio fuori dalla portata conoscitiva degli inquisitori. Ginzburg ha sapientemente ricollegato tutta una serie di manifestazioni, credenze e riti (sconosciuti agli inquisitori e perciò erroneamente interpretati come stregoneria), ad un culto antichissimo, di origine celtica. In particolare la metamorfosi in animali, i riti orgiastici, l'adorazione di una dea notturna dai molti nomi, l'estasi (ottenuta mediante l'uso di sostanze allucinogene o vere e proprie droghe, come per esempio la claviceps purpurea) e le cerimonie particolari che le streghe confessavano di praticare: sono tutti elementi che vanno ricondotti alla cultura celtica e in quest'ottica interpretati. In particolare il rito del volo notturno, della metamorfosi in animali e le orgie rituali vanno interpretati all'interno di un contesto magico-folklorico di sedimentazione antichissima. Il significato psicologico che in essi si può trovare, credo sia direttamente assimilabile alla ricerca magica del Deus absconditus, dell'Alterità assente, dell'infinito.

Nell'immagine del sabba rinascimentale Ginzburg aveva riconosciuto due filoni culturali di provenienza eterogenea: «da un lato il tema, elaborato da inquisitori e giudici laici, del complotto ordito da una setta o da un gruppo sociale ostile; dall'altro, elementi di provenienza sciamanica ormai radicati nella cultura folklorica, come il volo magico e le metamorfosi animalesche»[20]. Questi elementi di provenienza celtica sono in realtà tutti riconducibili ad un tema comune: riandare nell'aldilà, tornare dall'aldilà: «questo nucleo [...] ha accompagnato l'umanità per millenni»[21]. La sua permanenza può essere spiegata in questo modo: il viaggio ed il ritorno dal mondo dei morti equivale ad instaurare un discorso mitico che collega il visibile all'invisibile. Il sabba sarebbe quindi il risultato storico di una lunga cristallizzazione di riti e miti in cui natura, animali e morti vengono sentiti come espressione dell'«alterità»[22].

Si tratterebbe quindi di un rito in cui si verifica, in forma magica, l'incontro tra uomo e natura: in cui l'uomo incontra il «di fuori», il «diverso», l'Altro. Il circolo si è chiuso: il rito magico porta all'incontro con l'Alterità, per di più attraverso l'estasi. Siamo ritornati di colpo al discorso sull'infinito. L'infinito, l'infinitamente in-conoscibile, la «infinita, semplicissima, unissima, altissima e absolutissima causa, principio e uno», come Bruno dirà concludendo il De la Causa, è immediatamente rappresentabile come alterità, rispetto alla contingente situazione umana di finitezza, se non di aporia assoluta. Nonostante il legame profondo, per Bruno sia fisico che metafisico, che ci unisce alla divinità infinita, di fatto, in concreto, l'uomo è anzitutto limite, finito. Lo sforzo di rappresentazione dell'Invisibile, caratteristico del pensiero magico di ogni tempo e luogo, corrisponde alla distruzione e alla dispersione - solo momentanea - dell'uomo nell'universo infinito, privo di punti di riferimento assoluti. Il De vinculis, vero e proprio trattato di magia pratica, servirà proprio a spiegare come vincolare le anime dei corpi al fine di ottenere una elevazione dell'anima.

Per il caso di Bruno, dove l'infinito non poggia mai su di una convinzione e argomentazione «scientifica», ma sempre su di un impeto mistico-religioso, credo che sia possibile identificare la ricerca magica del contatto con l'Alterità abscondita proprio con lo slancio religioso verso l'Infinito. La magia mira quindi anche alla realizzazione dell'unione con la divinità, l'alterità per eccellenza. La magia nolana va intesa quindi come teurgia, ossia come arte che si serve di azioni ineffabili per realizzare l'unione con la divinità, infinita, e operare in virtù di questo contatto. Magia «transnaturale o metafisica [...], propriamente, teurgia»[23]: così il Bruno stesso definiva la sua concezione dell'arte magica. Da questo punto di vista, la miglior definizione della nolana filosofia è, semplicemente, la parola desiderio.

 

 

5. L'infinito è geneticamente connesso al pensiero magico.

 

La mia convinzione è quindi che l'infinito in Bruno sia «geneticamente» connesso al pensiero magico. Se è vero che il ragionamento che fonda l'infinito è di «ascendenza teologica», credo sia altrettanto possibile sostenere che è anche di «ascendenza magica», o meglio, «ermetica». Il Dio di Bruno è infatti un Dio magico, sentito alla maniera ermetica: religione e magia formano in questo caso un tutt'uno, si identificano. Questa identità appare in tutta la sua chiarezza nella esplosione mistica alla fine del De la Causa, dove Bruno identifica Dio e Universo infinito nella Unità assoluta del Tutto.

La critica troppo spesso si è soffermata esclusivamente sugli aspetti metafisici o addirittura soltanto cosmologici del pensiero del Nolano, senza concedere alle motivazioni religiose della sua filosofia un giusto spazio. In realtà - questa è una mia convinzione personale - è assolutamente indispensabile cercare di chiarire quale era la religione che Bruno professava e in che modo questa abbia fatto sentire la propria influenza in ambito propriamente teoretico. In particolare, per quanto concerne la teoria infinitista, è quindi necessario, prima di affrontare l'infinito a livello cosmologico, mettere in evidenza il significato che il concetto di infinito aveva per Bruno dal punto di vista teologico, e chiarire che cosa realmente rappresenti l'universo e quali siano le leggi che ne regolano la vita, perché di vita, e non di semplice movimento di astri, si tratta. Da una parte si pone quindi il problema di Dio, della sua natura e della sua relazione col mondo. Dall'altra si pone anche il problema del Mondo e della materia, problema che non può essere risolto senza la considerazione di un'opera come il De la Causa, Principio et Uno. Citerò ampiamente quest'opera per due motivi. Anzitutto il De la Causa è il testo archetipo per l'interpretazione della cosmologia bruniana. Qui infatti vengono impostate e discusse tutte le premesse metafisiche che porteranno all'accettazione della teoria copernicana e alla infinitizzazione dell'Universo. L'identità del Tutto con l'Uno è infatti uno dei primi risultati teoretici raggiunti nel De la Causa, ma non solo. Il parallelismo, che sfocia a volte in veri e propri isomorfismi, tra il De la Causa e le opere magiche, suggerisce appunto di considerare questo testo proprio in riferimento all'analisi dell'influenza della tradizione ermetica sulla genesi della teoria infinitista.

 

 

6. Magia e linguaggio ermetico.

 

Nel De la Causa, Principio et Uno, dove Bruno espone chiaramente la sua concezione della realtà, ci si trova di fronte alla visione di un universo attualmente infinito, regolato da leggi magiche: dalla lettura parallela delle opere magiche «tarde» emergono limpide analogie strutturali, che dovranno essere prese in seria considerazione. Sempre nel De la Causa vengono per la prima volta apertamente superate tutte le incertezze medievali, a volte assai imbarazzanti, sul dibattito infinito attuale/potenziale: il mondo del De la Causa è già apertamente un mondo infinito, in cui la causalità fisica, la legge astrale, è sostituita da una volontà armonizzatrice divina, direi da una sorta di legge magica universale. I passi che sembrano confermare questa tesi sono assai numerosi. Alla fine si vedrà che questa legge magica altro non è che il «pensiero di Dio» (il discorso non è quindi a-teologico): in Dio il pensare si identifica col produrre, e la regolazione dei mondi viventi avviene mediante l'incessante flusso di nuove forme, mediante quindi la categoria del divenire, ma «magicamente». Più che di «produzione», visto che non si tratta mai di una creazione ex nihilo, si dovrebbe parlare però di «modificazione» delle forme esteriori che di volta in volta assume la materia, tutta viva e animata. Dio è l'ordine meraviglioso, l'intelletto, la legge magica dell'Universo infinito: «l'intelletto universale è l'intima, più reale e propria facultà e parte potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo che empie il tutto, illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue specie come si conviene [...]»[24], scriverà con entusiasmo il Nolano.

In effetti potrebbe sembrare strano collegare direttamente l'idea di uno Spirito divino onnipervadente, all'immagine di un mondo regolato da leggi magiche. In altre concezioni panteistiche infatti non compare per nulla questo legame tra mondo e leggi «irrazionali». Ma è bene precisare subito che per Bruno «magia» non ha nulla a che fare con «irrazionale». Anzi, propriamente, l'irrazionale non esiste: casomai si dovrà parlare di sconosciuto, di misterioso, di umbra.

Al contrario l'instaurazione della magia coincide col massimo della razionalità umana, ossia con il linguaggio. Magia significa infatti prima di tutto chiamare le cose con il loro nome. E questa affermazione è meno banale di quanto non possa sembrare. Riguardo alla fantastica capacità degli antichi egizi di operare magicamente sul mondo, scrive infatti il Nolano: «[gli egizi] avevano a disposizione, per designare le singole cose, immagini determinate, desunte dalle cose della natura o da loro parti; tali scritture e tali voci adoperavano gli egizi per intrecciare colloqui con gli dei ad esecuzione di effetti mirabili. Ma quando Theut o qualcun altro inventò le lettere del genere che ora utilizziamo in altro tipo di attività, si verificò una perdita gravissima sia per la memoria sia per la scienza divina e la magia. Perciò, a similitudine degli egizi, i maghi oggi, costruite immagini e descritti caratteri e cerimonie, che consistono in gesti e in certi culti, comunicano i loro desideri quasi per mezzo di cenni definiti, e questa è quella lingua degli dei che, mentre le altre tutte si sono mutate mille volte e nuovamente mutano, rimane sempre la stessa, come resta la stessa la specie della natura. Per la stessa ragione le divinità ci parlano per via di visioni o sogni, che certo da noi sono chiamati enigmi, per la mancanza d'abitudine, l'ignoranza e la ottusità della nostra capacità, ma che tuttavia sono le stessissime voci e gli stessissimi termini delle cose rappresentabili. E così come queste voci si sottraggono alla nostra percezione, così anche le nostre voci latine, greche, italiane sfuggono all'ascolto e all'intelligenza delle divinità superiori ed eterne, che differiscono da noi nella specie, sicché non ci può essere facilmente uno scambio fra noi ed esse, come non c'è fra le aquile e gli uomini. E come, in assenza di comune idioma, gli uomini di una stirpe non hanno conversazione e rapporto con uomini d'altra stirpe, se non per gesti, così anche non vi può essere partecipe contatto tra noi e una determinata categoria di esseri divini, se non per definiti segni, sigilli, figure, caratteri, gesti e altre cerimonie. E senza voci e scritture di questa specie difficilmente un mago potrebbe ottenere qualche risultato»[25].

Ho riportato per esteso questo lungo passo, tratto dal De magia, perché mette bene in evidenza la connessione che Bruno istituisce tra scienza divina e tecnica magica. La magia degli antichi egizi è una scienza divina perché prodotto di una rivelazione divina (secondo i canoni della tradizione ermetica). Questa scienza trovava la sua espressione compiuta in un linguaggio, in una «razionalità» particolare. Era un modo di vivere ed interpretare il mondo, che ora (a causa dell'oblio) è diventato enigmatico. In questa ottica l'ars memoriae esprime il legame ad un passato recente e remoto, e la possibilità di costruire un sapere universale.

Si ricordi che anche il neoplatonismo ha conosciuto un certo interesse per la sapienza egizia e per la magia. A proposito, per esempio, ho trovato una interessante analogia in un passo delle Enneadi: «A me sembra che anche i saggi di Egitto abbiano compreso tutto questo o per scienza esatta o per intuizione innata: essi, quando volevano rilevare la loro sapienza, non si servivano dei segni delle lettere, che designano parole e proposizioni ma non corrispondono alla pronuncia e al significato delle cose dette, ma disegnavano figure <geroglifici>, ciascuna delle quali significava una singola cosa, e ne decoravano i templi per mostrare che il procedimento discorsivo non appartiene al mondo di lassù, in quanto ciascun individuo è anche una scienza e ciascuna figura è sapienza, soggetto e sintesi, e non un pensiero discorsivo né un progetto. Più tardi da questa scienza così sintetica derivò un'immagine che è tutta dispiegata in altra cosa e si esprime nel processo discorsivo e scopre le cause da cui una cosa deriva, sicché ci si meraviglia di una cosa tanto bella [...]»[26].

A proposito della magia, Plotino si interrogava: «Ma come spiegare le forze magiche? - e rispondeva - Mediante la simpatia [corsivo mio]: fra le cose affini regna naturalmente un accordo e fra le dissimili un contrasto; eppure nella loro varietà le molteplici potenze contribuiscono all'unità dell'organismo universale. E infatti, anche senza alcuna pratica magica, molte cose nascono come per magico incanto: poiché nell'universo la vera magia sono l'Amore e la Contesa»[27]. Sorprendenti sono le analogie con il De vinculis e il De magia, dove il Nolano si esprimerà in termini praticamente identici: la simpatia occulta, che lega le cose tra loro, permette l'unità armonica dell'universo infinito.

 

 

7. Magia e ars memoriae: gnosis e praxis; l'ascensus.

 

La magia, il linguaggio magico-ermetico, seguendo «le specie della natura», coincide con il massimo della razionalità possibile, perché si adegua in realtà all'ordine delle cose naturali. Si tratta insomma di un qualcosa di molto simile all'analogia strutturale che Leen Spruit aveva individuato a proposito dell'imitatio naturae, sostenendo che «nell'imitatio naturae si tratta [...] di un'analogia strutturale: le attività della natura e le operazioni dell'artefice hanno una struttura parallela. L'ars si conforma alla ratio naturae, perché nella natura è inclusa la fons omnium artium. In questa maniera la filosofia deve aver cura di farci diventare cooperatori della natura»[28]. Questa analogia strutturale, che Spruit ha individuato per le attività dell'ingegno umano, corrisponde perfettamente all'idea del linguaggio magico. A sua volta questo linguaggio magico deve essere inserito in un contesto epistemologico e metafisico-cosmologico ben preciso: il linguaggio magico va insomma interpretato all'interno della concezione della «catena infinita dell'essere».

L'ars memoriae, inserita in questo contesto, deve ovviamente tutta la sua importanza e funzionalità proprio al concetto di concatenazione degli elementi e di simpatia. Ma in che cosa consiste l'ars memoriae di Giordano Bruno? Si tratta in modo evidente di una elaborazione magica della tecnica dei loci[29]. All'arte mnemnotecnica del Nolano è quindi possibile attribuire anche un preciso significato filosofico: essa rappresenta una vera e propria metodica magica per ottenere il superamento dei limiti naturali, non solo del sapere, ma anche dell'essere.

L'ars memoriae costituisce indubbiamente un elemento essenziale all'interno di quella sapienza esoterica che caratterizza, con tinte diverse, tutta la fantastica filosofia magica rinascimentale. Bruno utilizza però questa particolare tecnica all'interno della sua filosofia magica, per un fine particolare. La mnemotecnica serve al Nolano per memorizzare gli elementi, i vincoli, che compongono la divina scala naturae, cioé quell'aurea catena che stringe in vincoli e somiglianze tutti gli esseri. Un'opera tarda come il De vinculis in genere servirà appunto a spiegare come il mago-filosofo, servendosi di quelle occulte simpatie che innervano la natura, può ottenere un ascensus mistico-conoscitivo proporzionato al suo desiderio, al suo sapere e al suo grado di perfezione tecnico-magica.

Il passo che ho citato in apertura, tratto dal De vinculis, spiega appunto che i «vincoli veri e propri e particolarmente efficaci sono quelli che si attuano per accostamento del contrario»: ogni essere, ogni singolo individuo, è di fatto una unione di contrari. L'accostamento del contrario è quindi il modo con cui si attua ogni singola esistenza: nel Sigillus Sigillorum Bruno aveva parlato di divina contrazione, riferendosi - paradossalmente - al modo in cui l'Unità si trasforma in molteplicità e più direttamente al processo conoscitivo umano (che capovolge la dispersione del divino). Il termine contractio può essere utile per cogliere il parallelismo esistente tra processo conoscitivo ed agire magico: «Il valore conoscitivo della contractio - ha sostenuto giustamente Alfonso Ingegno - è in effetti inscindibile dal riconoscimento dei modi in cui il divino si partecipa al cosmo, non è che la conseguenza che può venir tratta da questo riconoscimento e nel Bruno, in modo estremamente consapevole, agire magico ed ampliamento della portata della nostra conoscenza vengono a coincidere, se non nelle procedure, nella premessa teorica che li rende possibili. Sia la magia che la realizzazione di 'arti universali' si identificano con la consapevolezza che il processo del comunicarsi del divino al tutto può essere invertito, risalendo dalla dispersione di esso nelle cose attraverso i gradi intermedi sino a quell'unità fondamentale da cui emana tale partecipazione, per utilizzare le possibilità che vengono ad offrirsi tanto sul piano operativo quanto su quello conoscitivo, secondo una collocazione dell'uomo nel cosmo che ne fa [...] un punto dotato di decisione autonoma nella catena dell'essere. Si presti attenzione tuttavia ad un aspetto essenziale, al fatto che il 'contrarsi' della divinità indica un suo raccogliersi e limitarsi in punti isolati che coincide con una sua ideale dispersione, mentre la contrazione attuata dall'uomo consiste precisamente nell'invertire questo processo»[30].

 

 

8. L'ordine magico e la comunicazione universale.

 

Naturalmente sarebbe sbagliato credere che la centralità della magia stia a significare una generale irrazionalità o caos dell'universo. A muovere ogni elemento animato il Bruno pone infatti un Intelletto universale, e una grande Anima Mundi. L'intelletto universale dispone la materia vivente secondo una scala o ordine naturale che regola tutto l'Universo.

La Vita infinita si genera all'interno di questa scala o ordine: l'idea della morte è in realtà un'illusione, data dal mutamento continuo delle forme materiali esteriori: «la materia, stanca dell'antica specie, sta in aguato, bramosa della nuova, poiché desidera divenire ogni cosa e, in ragione delle proprie forze, essere simile ad ogni ente»[31]. Muore in realtà non la sostanza ma l'accidente, la forma esteriore. La «vita-materia» infinita si riproduce in un ritmo senza fine, dando luogo ad innumerabili composti, magicamente.

La vita è presente in ogni porzione della materia in virtù della onnipresenza dello «spirito del mondo»: «attraverso questo spirito - sostiene Bruno - si formano in diversi modi diversi corpi ed esseri viventi. Se non tutti i corpi composti sono animali, tuttavia bisogna intendere tutte le cose come animate, cioé che sia in tutte un'anima di un sol genere, benché non sia un solo e stesso atto, a causa di sempre altre disposizioni della materia ed oggetti delle idee»[32]. Ovviamente, anche l'azione magica trova la sua giustificazione proprio nella concezione della materia universalmente viva e infinita.

Non sarebbe infatti possibile, sono termini che usa Bruno stesso, «convincere», «vincolare», «influenzare» uomini, animali, vegetali o materia apparentemente inerme, se il Tutto non fosse «animato» e dotato di «sentimento». L'azione magica si sviluppa attraverso il «corpo insensibile» dello spirito universale, o anima del mondo: «corpo davvero continuo è il corpo insensibile, cioé lo spirito aereo o etereo; ed esso è attivissimo ed efficacissimo, come quello che è particolarmente congiunto all'anima»[33]. Esiste quindi una stretta analogia tra la relazione esistente tra anima e corpo particolare e anima e corpo universale. La magia opera grazie a questa occulta corrispondenza. E' in sostanza l'idea della comunicazione universale della materia infinita, tutta viva e dotata di spirito. L'anima del mondo è in Tutto.

Nè si deve pensare ad una sorta di animazione universale «impersonale», perché Bruno si dice convinto che «certi spiriti prendono a dimora i corpi umani, altri i corpi degli altri viventi o le piante, le pietre, i minerali: e insomma non vi è realtà che sia senza accompagnamento di uno spirito e di un'intelligenza e in nessun luogo lo spirito ha raggiunto la sede eterna a lui destinata, ma la materia fluttua da uno spirito all'altro e lo spirito fluttua da una ad altra materia. E questo vuol dire alterazione, mutamento, passione e infine corruzione, cioé separazione di certe parti da certe altre e ricomposizione con altre parti; la morte infatti non è altro che il dissolversi dei legami. Ma nessuno spirito e nessun corpo perisce: solo vi è un variare perpetuo di combinazioni e realizzazioni»[34].

Si tratta di una posizione estremamente coerente con la tradizione ermetica, tanto che sembra quasi ricalcata passo per passo dal Corpus Hermeticum[35]: la materia è tutta animata e piena di vita; la morte, è solo un'apparenza ingannevole. Ma che cosa succede se dividiamo all'infinito la materia, anch'essa infinita? E' possibile «uccidere» il mondo, dividere la materia all'infinito? Proprio perché la materia è viva e quantitativamente sempre la stessa, nell'universo infinito, è impossibile arrivare al vuoto, al nulla. Dividendo la materia in parti, secondo Bruno, ci si imbatte nelle unità viventi fondamentali: le monadi. La materia, pur essendo infinita, non è divisibile all'infinito, perché è costituita da unità viventi minime, che ne garantiscono la vita e ne formano la struttura. Le monadi sono delle unità indistruttibili: gli «atomi della vita».

Ovviamente è proprio il contatto degli atomi-vita a permettere il fluire della suggestione magica, e con essa l'effetto reale della magia. Il termine «suggestione» sta ad indicare non l'illusione dell'azione magica, ma il modo in cui essa opera: mediante l'influenza sullo spirito delle cose. Importanti riscontri vengono a questo proposito dal De minimo, dove l'atomo viene presentato come la struttura elementare ed irriducibile della Materia-Vita, come l'aspetto costitutivo ed originario della sua pienezza ed infinità: «il minimo è la sostanza delle cose, tuttavia vedrai che esso è pur sempre maggiore di ogni altra cosa. Dal minimo derivano la monade, l'atomo, lo spirito che tutto pervade, che non ha dimensioni e che tutto costituisce con la sua impronta, essenza universale e, se bene osservi, tutto è costituito da esso, perfino la materia stessa. Poiché il minimo vivifica tutte le cose, esso non può essere nascosto né considerato un'inezia da trascurare». Questa concezione della materia e del minimo è analoga e parallela a quella dell'Ermetismo.

L'idea del «minimo che vivifica tutte le cose» rappresenta il punto di intersezione tra fisica e metafisica, così come il concetto di monade. Siamo in questo modo all'interno di una visione ermetica del mondo: si tratta evidentemente dell'adorazione della Mens insita rebus, di origine stoica.

 

 

9. L'ascesi mistica è il fine supremo dell'azione magica.

 

«L'essenza degli scritti ermetici sta nel fatto che essi suscitano uno slancio religioso verso il mondo»[36], aveva scritto la Yates. Credo che sia proprio questo «slancio religioso verso il mondo» il vero tema costante della filosofia di Bruno. Lo slancio religioso corrisponde infatti precisamente al tema dell'ascesi all'Infinito, ascesi che si realizza tramite l'azione teurgica della magia. La coincidenza dell'Uno nel Tutto garantisce all'uomo la possibilità di contatto con la divinità: l'uomo che vive nell'Universo infinito è un uomo che vive materialmente in Dio. Ancora riemerge la visione ermetica dell'uomo e della divinità: l'uomo è magnum miraculum, la divinità è direttamente accessibile, perché parte vivificatrice del mondo e delle cose del mondo.

Per questo è importante mettere in rilievo la relazione tra concezione della materia come viva, animata e infinita, e magismo ermetico. Tramite l'azione magica è possibile soprattutto entrare in contatto con la divinità, con l'Alterità nascosta, con l'Infinito. Ecco quindi il significato profondo del panteismo bruniano: rendere possibile la divinizzazione dell'uomo. L'identità del Tutto nell'Uno (fondata a livello metafisico nel De la Causa e ribadita nelle opere cosmologiche e magiche) fornisce ovviamente la possibilità dell'ascesi e quindi del contatto con la divinità. Si ritorna in questo modo all'influenza ermetica, visto che, come ha sostenuto del resto anche la Yates, «l'unità del Tutto nell'Uno è un tema fondamentale degli scritti ermetici»[37]. L'infinito del mondo, altro non è che l'immagine della infinita divinità. Anche in questo senso è possibile concordare con le affermazioni di Fulvio Papi: «il ragionamento che fonda l'infinito è di ascendenza teologica»[38]. Si tratta, in questo caso, di un infinito «analogico», che deriva direttamente dalla infinità di Dio e mira alla divinizzazione del creato e dell'uomo che vive in esso.

L'assimilazione all'infinito si realizza mediante l'ascesi per gradi, la cui conclusione ultima è la visione della totalità in sé, dell'Unum, e l'immedesimazione con esso. A livello metafisico sembrerebbe quindi trattarsi di un panteismo simile a quello hegeliano. Ma se per Hegel l'infinito coincidendo con l'Assoluto, si svolge razionalmente, per Bruno l'infinito si svolge invece magicamente. Dio e mondo, nell'ordine dell'intellegibilità, restano concettualmente separati. L'idea stessa della conoscenza umbratile nasce dalla consapevolezza che non è possibile conoscere Dio così come si conosce il mondo.

D'altra parte resta vero che l'uomo ascende all'Infinito tramite il mondo, attraverso la scala naturae. La visione filosofica della magia che fa affidamento su scale di occulte simpatie poggia infatti proprio sul concetto di scala naturae. Anche in questo caso è allora preminente l'idea della conoscenza umbratile: «ecco dunque che della divina sustanza, sì per essere infinita, sì per essere lontanissima da quelli effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade, non possiamo conoscer nulla se non per modo di vestigio, come dicono i Platonici, di remoto effetto, come dicono i Peripatetici, di indumenti, come dicono i Cabalisti, di spalli o, posteriori, come dicono i Thalmutisti, di specchio, ombra ed enigma, come dicono gli Apocaliptici»[39].

Conoscere l'universo significa conoscere l'effetto infinito della volontà divina. Non si tratta quindi di conoscere l'essenza divina in se stessa. L'infinità della divina sostanza garantisce l'infinità dell'universo e ne impedisce una comprensione diretta da parte dell'uomo. Se la natura divina è infinita, e «lontanissima da quelli che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade», allora la conoscenza di Dio non può che essere, a livello intellettuale, negativa. Le cose cambiano se si passa al piano teurgico, proprio della magia. Qui la conoscenza umbratile viene superata grazie alla possibilità dell'ascesi per gradi. L'ascesi per gradi è il fine supremo dell'azione magica.

 

 

10. La filosofia naturale e magica di Bruno non è affatto a-teologica.

 

Ho più volte citato una valida affermazione di Papi, secondo il quale il ragionamento che fonda l'infinito è di ascendenza teologica. A proposito forse è opportuna una precisazione. Alcuni autori hanno curiosamente sostenuto che Bruno non ha mai voluto fare teologia, ma solo filosofia «naturale».

Leen Spruit, per esempio, cita un passo del De la Causa da cui si dovrebbe evincere l'avversione di Bruno per ogni tipo di filosofia «teologica»: «dico però che non si richiede dal filosofo naturale, che ameni tutte le cause e principii: ma le fisiche sole, e di queste le principali e proprie». Per Spruit «nel De la Causa Bruno vuole filosofare in modo naturale, intende cioé mantenere il discorso entro i limiti naturali. Questa presa di posizione metodologica va intesa all'interno del contesto dichiaratamente a-teologico di Bruno»[40].

Personalmente, credo che quella di Spruit non sia una posizione facilmente sostenibile. Quando parla di teologia Bruno intende quella dell'ortodossia, e non si accorge di derivare in realtà tutti i principi primi della sua filosofia proprio da deduzioni teologiche, o comunque di ascendenza magico-religiosa.

Per quanto riguarda il discorso sull'infinito, per esempio, si è già detto che la infinitizzazione del cosmo sarebbe il risultato di una operazione analogica, in cui il termine di paragone è proprio la divinità. L'universo è infinito perché è esplicazione di Dio, e perché sarebbe moralmente male che Dio, potendo fare un mondo infinito, ne facesse invece uno piccolo e limitato. Che ne sarebbe, in questo caso, della infinita potenza di Dio? Sono questi gli argomenti principali della Cena de le Ceneri e del De l'infinito, dialoghi tutt'altro privi di riferimenti teologici.

In realtà è possibile sostenere che l'intera filosofia di Bruno non è mai a-teologica, nonostante le riluttanze del Nolano per le filosofie dogmatiche. Nella Proemiale epistola del De la Causa, ad esempio, anticipando il contenuto del terzo Dialogo, Bruno sostiene come «il suggetto e principio di cose naturali per diversi modi di filosofare può essere, senza incorrere calunnia, diversamente preso; ma più utilmente secondo modi naturali e magici, più variamente secondo matematici e razionali»[41].

Filosofia naturale è per Bruno la filosofia dell'imitatio naturae, della magia. La filosofia naturale segue l'ordine della natura, scopre i vincoli segreti che uniscono le cose. Ma seguire l'ordine della natura è esattamente quello che si proponeva l'antica religione egizia, la religione che professa Bruno.

La stessa visione dell'universo infinito era di matrice religiosa-ermetica e così fu anche l'accettazione della teoria copernicana, come ha ben messo in rilievo Frances A. Yates: «il suo copernicanesimo era strettamente collegato alla sua concezione magica della natura; egli associava l'eliocentrismo alla magia solare di Ficino e basava le sue argomentazioni in favore della teoria del moto terrestre su di un testo ermetico nel quale si asseriva che la terra si muove in quanto essa è viva»[42].

Una lettura circostanziata dei testi sembra confermare nettamente queste affermazioni. Per quanto riguarda la morfogenesi del concetto di infinito, che è il tema di questo capitolo, è quindi di fondamentale importanza il chiarimento dei contenuti metafisici e cosmologici del Corpus Hermeticum.

 

 


11. Il nucleo centrale dell'ermetismo: l'infinito nel Corpus Hermeticum.

 

Ma qual è il nucleo centrale dell'ermetismo? Il tema centrale della filosofia ermetica è il rapporto dell'uomo con Dio. Il problema quindi della realtà e della salvezza dell'uomo. Da qui la centralità dell'idea dell'uomo che si innalza all'Infinito, alla Divinità. Il problema soterico viene però a delinearsi in uno sfondo del tutto particolare: caratteristica dell'ermetismo è anche la visione della materia intesa come sede dello spirito divino. L'anima del mondo è presente in ogni cosa, e nell'anima è presente l'intelletto universale, il pensiero di Dio, se non Dio stesso. E' quindi la vitalizzazione della materia a fondare la realtà soterica dell'azione magica. Più che attività tesa alla realizzazione di fini personali, la magia è infatti, prima di tutto, sapienza, ascesi. Da qui il collegamento con il concetto di scala naturae, centrale nella dottrina della materia infinita. In realtà, la stessa concezione della infinitudine del tutto sembra provenire direttamente dall'ermetismo..

Nello scritto Poimandres, attribuito a Ermete Trismegisto, già nelle prime battute, dopo l'estasi di Ermete e l'epifania di Poimandres, al momento della rivelazione cosmogonica, si legge:

«Ciò detto, [Poimandres] tenne a lungo il suo sguardo fisso nel mio, così che un tremore si impadronì di me alla sua vista. Poi sollevò lo sguardo ed io contemplai nel Nous la luce esplicarsi in un numero incalcolabile di potenze, luce divenuta parimenti un mondo senza limiti [kòsmon aperiòriston]. E vidi che il fuoco, avvinto da enorme potenza, aveva raggiunto una visione stabile, dominato da quella forza. Questa è la visione che io contemplai nella mente, guidato dalla parola di Poimandres. Visto il mio smarrimento, egli riprese a dire: "nel Nous tu hai visto la forma archetipica, il Principio anteriore del Principio infinito". Questo mi disse Poimandres. Ed io gli chiesi: "da dove hanno tratto la loro esistenza gli elementi della natura?". Egli di nuovo mi rispose: "Dalla volontà di Dio, la quale, una volta ricevuto il logos e visto il meraviglioso modello di quel cosmo, ne produsse un'imitazione ordinandosi anch'essa in un cosmo, con i suoi elementi e con le anime da lei generate"»[43].

Ma possiamo citare anche alcuni esempi di altri trattati ermetici, oggetto di culto dei moderni seguaci di Ermete Trismegisto. Nel Kybalion, ad esempio, l'idea di Dio è quella di una mente infinita che crea ed è partecipe del Tutto; il Tutto è un ente divino: «il Tutto crea nella sua mente infinita innumerevoli universi. Vi sono milioni e milioni di mondi»[44]. In questo trattato è anche espressa la dottrina dell'immortalità dell'anima e della scala naturae[45]. Per l'ermetismo esiste insomma una «materia prima» in tutto, materia che sussiste quando la forma attuale del corpo è distrutta, perché nulla muore. E' quindi ben presente l'idea di un divenire infinito, di una vicissitudine universale. Ci sarebbe nella natura qualche cosa di nascosto sotto le forme esteriori, che ne è il substratum. Questo substratum non è generato e non si annienta per corruzione. Questa sarebbe la «materia prima», materia non prodotta, eterna, infinita ed indistruttibile. Non ci sarebbe quindi vuoto nello spazio. Lo spazio è eterno, infinito, immobile[46].

 

 

12. La tradizione ermetica ha influenzato Bruno nella sua formulazione del concetto di infinito. La teoria della conoscenza umbratile conferma questa tesi.

 

L'adesione all'infinito come essenza del mondo, qualità primaria dell'Unum metafisico (come di quello fisico), sembra quindi provenire da una visione magica dell'universo. Un universo che è - al tempo stesso - immagine di Dio e sostanza divina. L'universo, rispecchiando fedelmente la struttura metafisica del reale, è sede dell'indagine conoscitiva. All'uomo è concesso di conoscere non la sostanza, ma l'immagine, l'umbra, il riflesso. E' questa la teoria della conoscenza umbratile, in stretto rapporto con la concezione dell'infinito e con la religione magica ad esso correlata. Il concetto di umbra, come ha ben messo in rilievo Ciliberto, è fondamentale per la comprensione di tutto il quadro speculativo bruniano: «E' dal nesso ombra-luce - sviluppato nel De Umbris dal punto di vista della mente umana e delle sue strutture costitutive - che nei dialoghi italiani scaturiscono l'universo, la differenza tra Dio e l'universo, tra infinità dell'uno e infinità dell'altro. Si può essere netti su questo punto: senza fondamento umbratile, la concezione dei mondi innumerabili e dell'universo infinito appare genericamente e sistematicamente inconcepibile. Non solo: è in questo quadro che si individua, sul piano etico, il limite specifico dell'uomo, da cui germinano da un lato l'eroico furore, dall'altro la possibilità stessa delle nostre civiltà»[47]. Credo anch'io che ci sia una stretta connessione tra l'idea di una potenza divina che si esplica in un simulacro infinito e il concetto di umbrae idearum. La conoscenza umbratile, cui la magia può in certo senso ovviare, poggia d'altra parte proprio sull'idea dell'infinito. L'universo può essere conosciuto solo sotto il codice dell'umbra proprio perché infinito ed infinitamente variante nelle sue forme. Ci si trova così di fronte ad un altro classico motivo ermetico: il limite della conoscenza umana.

 

 

13. Anche la riforma religiosa che Bruno auspicava evidenzia l'influenza dell'ermetismo.

 

E' possibile riscontrare l'influenza ermetica anche nel programma di riforma religiosa di Bruno. La religione che il Nolano auspicava corrispondeva infatti - sostanzialmente - al ritorno della antica religione egiziana: la religione magica di Ermete Trismegisto[48]. Si trattava per Bruno del ripristinamento di un linguaggio particolare, che permetteva all'uomo di vivere in stretto contatto con la divinità. Un linguaggio andato perduto che, assegnando alle cose il loro vero nome, conferiva all'uomo il potere di ordinarle, magicamente, e di dominarle. Nel suo desiderio di riforma Bruno non intendeva certo proporre un nuovo sistema magico. Anzi, in questo era del tutto un restauratore: era necessario ricominciare a parlare come l'antico Ermete, ritornare all'età dell'oro. Bruno credeva infatti che il linguaggio, espressione della razionalità, il modo di pensare «conveniente» fosse quello di Ermete Trismegisto: un linguaggio antichissimo, usato dagli antichi maghi egiziani, ora perduto nei secoli.

Si tratta del linguaggio magico, fatto di immagini e numeri, simboli in grado di corrispondere perfettamente alla natura e operare quindi concretamente e con successo su di essa. Un linguaggio perduto, che solo il mago ha conservato, un linguaggio che permette all'uomo una effettiva imitatio naturae, in grado quindi di mettere l'uomo in comunicazione con l'Anima del mondo, (attraverso la scala naturae), e che supera l'aporia imposta dalla struttura umbratile della conoscenza umana. L'azione magica, che ha per oggetto e fine l'ascesi all'Infinito, parte proprio dal riconoscimento della natura umbratile, invalicabile, della conoscenza umana.

Il problema del linguaggio, nell'impianto teoretico bruniano in generale e nella discussione della sua concezione di infinito in particolare, è naturalmente di fondamentale importanza. Importanti conferme del rapporto linguaggio-magia vengono anche dalla lettura dello Spaccio de la bestia trionfante, dove, come ha osservato Michele Ciliberto «la messa a fuoco della infinità dei linguaggi umani e naturali è strettamente congiunta all'individuazione delle forme di comunicazione della divinità semplice e absoluta. Una, ribadisce Bruno, è la divinità che si trova in tutte le cose, la quale, come in modo innumerabili si diffonde e comunica, così ave nomi innumerabili, con raggioni proprie ed appropriate a ciascuno, si ricerca, mentre con riti innumerabili si onora e cole, perché innumerabili geni di grazia cercano di impetrar da quella. Infinità e innumerabili sono il principio della divinità, della realtà, della vita. La esplicazione del dio coincide con la innumerabiltà dei modi, dei nomi, delle vie, dei riti. Senza conoscere questa innumerabile pluralità non è dunque possibile né conoscere Dio né trasformare la natura. Eppure - continua Ciliberto - non a tutti è dato di intendere e capire questa verità: bisogna - osserva Bruno - quella arte, industria ed uso di lume intellettuale, che dal sole intellegibile a certi empi più ed a certi tempi meno, quando massima e quando minimamente viene rivelato al mondo. Il qual abito si chiama Magia... Verità, magia, conoscenza della divinità non sono infatti scontate, acquisite una volta per tutte»[49].

L'infinità dei linguaggi umani e naturali riflette quindi la infinità di Dio. Così come Dio ha «nomi innumerabili», la natura rispecchia questa pluralità di vie. Si tratta di un passo rivelatore di un altro aspetto inedito della filosofia bruniana: la tolleranza dei riti (che possono essere, appunto, infiniti: una corrispondenza con l'idea dell'«una religio in rituum varietate» di Nicola Cusano?).

Nonostante questa «apertura», viene comunque ribadita la validità della dottrina ermetica, secondo la quale la verità è stata rivelata all'uomo in certi tempi stabiliti, che si ripetono secondo una sequenza prestabilita. Appunto un profeta si sentiva Bruno, e così concepiva la sua «missione» fra gli uomini. Leggiamo infatti, sempre nello Spaccio: «quel dio come absoluto, non ha a che far con noi; ma per quanto si comunica alli effetti della natura, ed è più intimo a quelli che la natura istessa; di maniera che se lui non è la natura istessa, certo è la natura de la natura; ed è l'anima del mondo, se non è l'anima istessa: però secondo le raggioni speciali che voleano accomodarsi a ricevere l'aggiuto di quello, per la via delle ordinate specie doveano presentarli avanti: come chi vuole il pane va al fornaio, chi vuole il vino, va al cellaraio [...] e cossì va discorrendo per tutte l'altre cose: in tanto che una bontà, una felicità, un principio absoluto de tutte ricchezze e beni, contratto a diverse raggioni, effonde gli doni secondo l'exigenze de particulari. Da qua puoi inferire, come la sapienza de li Egizii, la quale è persa, adorava gli coccorilli, le lacerte, li serpenti [...]; non solamente la terra, la luna, il sole ed altri astri del cielo; il qual magico e divino rito (per cui tanto comodamente la divinità si comunicava a gli uomini) viene deplorato dal Trismegisto, dove, raggionando ad Asclepio, disse: - Vedi, o Asclepio, queste statue animate, piene di senso e di spirito, che fanno tali e tante degne operazioni? Queste statue, dico, prognosticatrici di cose future [...]? Non sai, o Asclepio, come l'Egitto sia la imagine del cielo [...]? A dir il vero, la nostra terra è tempio del mondo. Ma, oimè, tempo verrà che apparirà l'Egitto in vano essere stato religioso cultore della divinitade; perché la divinità, remigrando al cielo, lascierà l'Egitto deserto [...] si troveranno nuove giustizie, nuove leggi, nulla si trovarà di santo, nulla di relligioso»[50].

A questo punto legherei l'idea di un Dio che si produce in una natura infinita alla immediata distinzione tra Dio inteso come Assoluto e Dio inteso come Mondo - ossia alla distinzione, a livello di teoria infinitista, tra infinito attuale e potenziale. Distinzione correlata alla pluralità - sulla terra - dei «doni divini», che come tali possono e devono essere adorati come segni, indicazioni, rivelazioni.

Ed è proprio alla molteplicità di forme che ha assunto storicamente la Rivelazione, che viene legato, subito dopo, il lamento ermetico: la religione egizia - la magia - sarà dimenticata dall'uomo, e la divinità se ne tornerà in cielo, perché inutili saranno state tutte le sue manifestazioni, tutti i suoi doni. La renovatio mundi sarà possibile solo quando sarà ristabilita questa comunione tra uomini e déi, resa possibile dall'antico linguaggio perduto, quello degli Egizi.

Ancora una volta si deve notare come il progresso non sia da ricercare nel futuro, ma nel passato - quando l'uomo era in grado di cogliere la pluralità dei messaggi che in linguaggi infiniti la divinità gli annunciava. Come ha osservato Ciliberto, «alla luce del Lamento, cambia, al fondo, il concetto di giovinezza e di vecchiaia del mondo, di sapienza, e di religione. La giovinezza coincide con il massimo sviluppo dei linguaggi; la vecchiaia con la massima decadenza della comunicazione umana, civile, naturale»[51].

Emerge già con chiarezza la costante del tema della «crisi universale», non solo della intrinseca aporia umana, ma della contemporanea tragica decadenza. Si tratta ovviamente di un tema strettamente legato alla infinitizzazione del cosmo e alla conseguente divinizzazione dell'uomo. Ed è proprio dal nesso conoscenza umbratile - scala naturae che si sviluppa la possibilità di superare l'aporia umana, la tragica crisi in cui è sprofondata l'umanità. Del resto, proprio confidando nell'azione magica che si adegua all'infinito, Ermete Trismegisto aveva descritto l'uomo come magnum miraculum: esiste quindi nell'uomo la potenzialità del divino.

Occorre inoltre notare che la nuova visione dell'uomo in cosmo senza limiti corrisponde anche ad una nuova concezione della magia[52], come ha ben sottolineato Eugenio Garin: «l'uomo centro del cosmo è appunto l'uomo che, afferrato il ritmo segreto delle cose, si fa sublime poeta, ma, come un Dio, non si limita a scrivere parole d'inchiostro su carte caduche, bensì inscrive cose reali nel grande e vivente libro dell'Universo»[53]. Questa è la concezione della magia che presentava Bruno. La netta distinzione della sua magia naturalis rispetto alla magia cerimonialis, che per tutto il Medioevo aveva subìto gli attacchi dei teologi cattolici, viene ribadita di continuo[54]. Per di più, dagli atti degli interrogatori degli inquisitori, sembra che Bruno pensasse di poter addirittura conciliare la religione cristiana con il magismo ermetico, che ormai professava apertamente.

 

 

14. Il valore relativo della scienza.

 

Inoltre si può anche notare come, nella nuova visione del cosmo, la scienza sia relegata a tecnica, per di più alla sua stretta funzione di utilitas. L'infinito non è giustificato da un punto di vista matematico, scientifico, ma religioso, magico. La stessa esplosione di Teofilo-Bruno nel Dialogo quinto del De la Causa ha un sapore squisitamente religioso, di estasi mistica: «è dunque l'universo uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser esser compreso; è però infinibile ed interminabile, e per tanto infinito ed interminato, e per conseguenza immobile»[55].

Anche là dove Bruno spiega l'infinità dell'Uno con argomenti pseudo matematici, astronomici e geometrici, (e Alexander Koyrè ha spiegato perché la maggior parte di questi argomenti sono in Bruno difettosi o frutto di illusioni ottiche[56]), ci troviamo sempre di fronte ad un uso strumentale, ancillare, della scienza. La scienza non porta alla scoperta dell'Infinito, casomai sorregge e giustifica un'ideologia precedente. E il caso della discussione delle tesi copernicane risulterà emblematico per chiarire la posizione del Nolano nei confronti del sapere scientifico.

Copernico da parte sua fornito un appoggio teoretico sensato e buono alla nolana filosofia, ma è rimasto matematico, è rimasto cioé solo alle porte della nova filosofia. Il rapporto tra Bruno e Copernico verrà comunque meglio definito quando si analizzerà, in sede cosmologica, il problema dell'infinito. Per ora si deve semplicemente contestare l'idea che in Bruno l'infinito trovi un qualsiasi fondamento scientifico. La scienza serve solo a spiegare l'infinito con l'analogia, ma la teoria dell'infinito non poggia mai, in Bruno, su basi scientifiche. Anzi, all'infinito corrisponde la perdita totale dei sistemi di riferimento del finito, del misurabile, della scienza: «nella sfera, medesima cosa è lunghezza che larghezza e profondo, perché hanno medesimo termino; ma ne l'universo infinito medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite»[57].

Trattare l'infinito solo con metodo scientifico è per Bruno assurdo: si tratterebbe infatti di misurare e comprendere Dio, I'Inconoscibile. La matematica può misurare gli accidenti, non la sostanza. L'infinito non ha parti misurabili: se ne avesse - e non ne ha - le parti maggiori sarebbero equivalenti alle minori: i secoli non sarebbero più lunghi dei minuti, né i chilometri più estesi dei centimetri. Ma nell'infinito tutte queste determinazioni vengono a cadere, perché l'infinito è appunto il non-misurabile, ciò che «non posser esser compreso», l'Insondabile, Dio. L'unica visione che di esso si può avere è appunto un'umbra, un riflesso.

E' un'idea, quella dell'umbra, certamente non nuova nella storia della filosofia. In Bruno però essa assume (a differenza del platonismo) forti connotazioni magiche. L'umbra rientra infatti nel quadro epistemologico presentandosi come punto d'unione tra il concetto di scala naturae e infinità dell'Unum. Si tratta di un'ombra metafisica, ovviamente, la cui individuazione nel sistema magico del mago deve poter permettere all'uomo l'ascensus nella scala, fino alla contemplazione dell'Unum. «L'ombra segue contemporaneamente il moto del corpo e della luce. Il corpo si muove? L'ombra si muove. La luce si muove? L'ombra si muove. Si muovono l'una e l'altra? L'ombra si muove [...]. Non ti sfugga infine la somiglianza delle ombre con le idee»[58], aveva scritto Bruno nel De umbris.

Da qui l'unione tra conoscenza, memoria magica, ascensus, scala, Unum infinito (Dio). Attraverso l'ars memoriae è possibile memorizzare l'ordine magico in cui si dispongono gli elementi che formano la scala naturae e ripercorrere i gradi intermedi dell'universo mediante la conoscenza dei vincoli universali. Si può parlare a questo punto di assimilazione, all'interno dell'arte magica, dell'uso della mnemotecnica.

La prima opera filosofica di Bruno, il De Umbris Idearum serve appunto a chiarire appunto tutta questa impalcatura concettuale. In realtà il De umbris costituisce il primo momento della struttura metafisica del Nolano, ed è quindi assolutamente funzionale alla comprensione dell'infinito nei dialoghi propriamente definiti metafisici.

 

 


CAPITOLO II

 

LA METAFISICA DEL DE UMBRIS IDEARUM

 

 

«In Orizonte quidem lucis & tenebrarum, nil aliud intelligere possumus quam umbram. Haec in orizonte boni & mali: veri & falsi. Haec est est ipsum quod potest bonificari, & maleficari, falsari, & veritate formari: quodque istorsum tendens sub istius, illorsum verò sub illius umbra esse dicitur»[59].

 

 

«[...] non inquam umbra abducens à luce; sed conducens ad lucem, quae etiam si non sit veritas: est tamen à veritate, & ad veritatem, ideòque in ipsa non credas esse errorem sed veri latentiam»[60].

 

 

1. Una metafisica ermetica.

 

Leen Spruit aveva giuistamente sostenuto che «il quadro metafisico della conoscenza nel De umbris idearum è quello della metafisica della luce: la luce divina che pervade la realtà, rende possibile all'uomo risalire nella conoscenza e di ritornare alla fonte della luce, fondamento ultimo della realtà»[61]. L'analisi del problema epistemologico che segue a questa felice affermazione tende però a escludere drasticamente l'importanza e la centralità dell'elemento ermetico, e a fare un esclusivo riferimento alla tradizione genuinamente filosofica che ha preceduto il Nolano: «Le considerazioni epistemologiche di Bruno vanno interpretate [...] quali termini costitutivi di una tradizione gnoseologica, e non ermetica, che comprende sia autori platonici che aristotelici»[62]. Nonostante le conclusioni di Spruit, che saranno poi riprese in parte da Michele Ciliberto, non mi sembra però possibile togliere al testo quel sapore ermetico che caratterizza non solo lo stile, ma anche la struttura e il significato. Credo infatti che quella del De umbris sia una metafisica anzitutto di tipo magico-religioso, e, visto che in sostanza la modalità epistemologica ricalca in Bruno la struttura metafisica della realtà, credo sia possibile sostenere che anche il tipo particolare di conoscenza che il Nolano propone è tutt'altro che esente da pesanti influenze magico ermetiche.

Del resto lo stesso Spruit aveva notato che «lo scopo finale dell'uomo non è la visio beatifica o la visio Dei. La finalità della conoscenza è diretta alla transformatio sui in rem & transformatio rei in seipsum, nelle quali si verifica l'unione dell'intelletto con la cosa conosciuta»[63]. Non si tratta quindi di una conoscenza filosofica, ma direi alchemica, magica: vera e propria teurgia. Passiamo dunque ad una breve analisi della metafisica magica del De umbris idearum.

Già all'apertura del testo, appare evidente che il maestro di Filotimo-Bruno è Ermete Trismegisto in persona. Nel Preliminare dialogo apologetico in difesa delle ombre delle idee per la sua invenzione della memoria[64], Filotimo chiede infatti ad Ermes: «per qual motivo, o Ermes, parli fra te? Qual è mai il libello che hai tra le mani?»; ed Ermes gli risponde: «E' il libro Le ombre delle idee, raccolte per una scrittura interna; sono incerto se debba essere pubblicato oppure continuare a rimanere nelle stesse tenebre in cui un tempo è stato nascosto»[65]. Bruno si sentiva un Mercurio inviato dagli déi, e prevedeva che avrebbe incontrato difficoltà e nemici. Filotimo sostiene infatti che «la provvidenza degli dèi (lo dissero i sacerdoti egiziani) non smette di mandare agli uomini alcuni Mercuri in certi tempi stabiliti, benché sappiano in anticipo che questi non saranno accolti per niente o saranno male accolti»[66].

Due elementi devono fermare per un attimo la nostra riflessione. Anzitutto il tema della rivelazione concessa dagli dèi secondo una sequenza ciclica, tema collegato a quello della crisi universale. Il secondo elemento è la preoccupazione che Bruno doveva sentire per la comprensione della sua magia naturale, e quindi per la sua filosofia. Bruno temeva che la sua magia-filosofica fosse malamente interpretata coma magia cerimoniale:

«Logifero. Cosa risponderai al maestro Antoch, il quale considera maghi o indemoniati o uomini di qualche altra specie siffatta quelli che presentano operazioni della memoria oltre alle solite volgari?

Filotimo. Non dubiterei che costui è nipote di quell'asino che fu salvato sull'Arca di Noé per la conservazione della specie!»[67].

Significativo è poi che il De umbris sia organizzato in base a suddivisioni trigesimali. La stessa impostazione strutturale dell'opera rievoca quindi la numerologia magica caratteristica dell'ermetismo e dell'esoterismo magico in generale. Il magico numero trenta ricompare anche in altre opere di Bruno, come ad esempio nell' Explicatio triginta sigillorum, dove, come ha notato la Yates, «il raggruppamento dei sigilli nel numero di trenta indica che Bruno si sta ancora muovendo sul piano mistico-magico del De umbris idearum»[68].

 

 

2. La struttura magica del testo e la prima affermazione del concetto di infinito.

 

Nel De umbris il lettore deve anzitutto affrontare trenta brevi paragrafi denominati «intentiones». Di questi, la quinta intenzione è particolarmente interessante: «Noi consideriamo soprattutto quelle ombre che sono obiettivi degli appetiti e della facoltà cognitiva, concepiti sotto l'aspetto del vero e del bene, che lentamente allontanandosi da quell'unità sovrasostanziale avanzano, attraverso una moltitudine crescente fino all'infinita moltitudine (per dirla alla maniera dei pitagorici); queste ombre di quanto si separano dall'unità, di tanto si allontanano anche dalla verità stessa. Infatti, l'allontanamento avviene proprio dal sovraessenziale alle essenze, dalle essenze alle cose che sono, da quelle alle tracce, alle immagini, ai simulacri e alle ombre: sia verso la materia, perché siano prodotte nel suo seno, sia verso il senso e la ragione, perché siano riconosciute attraverso la facoltà sensibile e razionale»[69].

L'immagine delle ombre che si staccano dall'Unità per formare un'infinita moltitudine è evidentemente parallela a quella proposta nella rivelazione cosmogonica del Poimandres ermetico[70]. Credo poi che il richiamo alla dottrina pitagorica debba essere inteso come richiamo alla «religione del numero». Sappiamo che il rinato interesse rinascimentale per la magia, la cabala e il simbolismo numerico, avevano portato alla rivalutazione della filosofia pitagorica. Per Pitagora il numero costituiva la radice di ogni verità. Già Pico della Mirandola, prima di Bruno, nella sua Apologia «aveva collegato la magia e la cabala alla matematica di Pitagora»[71]. La stessa considerazione vale per il mago filosofo Cornelio Agrippa, che esercitò una pesante influenza sul pensiero di Bruno[72].

Ma a parte il richiamo al numero e alla sua straordinaria valenza magico-simbolica, considero questo passo particolarmente significativo perché in esso è per la prima volta abbozzata l'idea di una «infinita catena dell'essere» (per usare un'espressione felicissima di A. Lovejoy) costituita appunto da una «infinita moltitudine». La moltitudine crescente, fino a diventare infinita, è data, a livello metafisico, dalla catena delle ombre che si separano dall'unità. La struttura fisica del reale, le cose mundani, rispecchiano fedelmente questa metafisica: la disposizione del reale segue infatti l'ordine impresso dall'Intelletto superiore in una varietà infinita di gradazioni diverse - nella Luce.

 

 

3. Il significato della metafisica della luce.

 

La settima intenzione svela e precisa il significato di questa «metafisica della luce»: «Ma poiché in tutte le cose c'è una connessione ordinata, in modo che i corpi inferiori succedono a quelli mediani e questi ai superiori, allora i composti si uniscono ai semplici e quelli semplici ai più semplici, quelli materiali agli spirituali e quelli spirituali a loro volta a quelli immateriali, sicché uno solo è il corpo dell'Ente universale, uno solo l'ordine, uno solo il governo, uno solo il principio e una sola la fine, uno solo il primo e uno solo l'ultimo. E poiché è data [...] una migrazione continua dalla luce alle tenebre [...], niente impedisce che al suono della cetra universale di Apollo le cose in basso a poco a poco siano richiamate a quelle alte, e quelle più basse attraverso le mediane si accostino alla natura delle superiori [...]. Quindi, qualunque cosa sia la discesa da un'altra specie [...], dobbiamo assolutamente sforzarci - avendo davanti agli occhi, secondo le eccelse operazioni dell'animo, la scala della natura - di tendere sempre, attraverso operazioni intrinseche, dal moto e dalla moltitudine allo stato e all'unità; quando eseguiremo ciò secondo la nostra facoltà, anche secondo la facoltà ci conformeremo alle opere divine, ammirate da tutti. A ciò stesso ci confortino e esortino il vincolo prestabilito delle cose e le conseguenti connessioni»[73].

Un importante libro magico, il De vinculis in genere spiegherà appunto come individuare e servirsi di queste occulte connessioni. In questa settima intenzione è chiaramente espressa la dottrina della comunicazione universale, di centrale importanza per l'idea dell'infinito cosmologico e metafisico. Bruno, lo vedremo bene nel De la Causa, attribuisce la materia anche a Dio. Se la materia è sostanzialmente una, allora è possibile considerarla come un unico percorso che giunge fino al Cielo. La teoria della comunicazione universale espressa per la prima volta nel De umbris, porta quindi a credere che non solo l'uomo può intervenire magicamente sul mondo materiale (operando sui vincoli che uniscono le monadi), ma tramite la filosofia naturale, arrivare fino alla unione con Dio, partecipare - almeno in modo estatico - alla sua divina infinità.

 

 

4. La variazione infinita dell'essere.

 

Sempre nella settima intenzione affiora un motivo che si ritrova poi, quasi identico, nel De la Causa. Se nel De umbris Bruno sostiene la possibilità di «conoscere tutte le cose da tutte» e afferma che «la materia, spogliata della forma dell'erba, non immediatamente assume la forma di questo animale, ma attraverso le forme mediane di chilo, sangue seme. Di conseguenza, chi conoscerà i medi connessi ali estremi, potrà ricavare naturalmente e razionalmente tutte le cose da tutte»[74], nel De la Causa, dirà che «nella natura, variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una la materia medesima [...]. Non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte le forme naturali?»[75]. Il motivo è chiaramente quello della variazione infinita dell'essere. In questa infinità di forme e mutamenti è però possibile «conoscere tutte le cose da tutte»; e questo in virtù del sistema dei vincoli magici. Naturalmente sono i vincoli, e non i soggetti naturali (numericamente e per forma esteriore infiniti) a permettere l'ascensus della scala - e quindi la conoscenza. Quello che voglio dire è che la quinta e la settima intenzione del De umbris anticipano in qualche modo uno dei punti fondamentali della discussione sull'infinito presente nel De la Causa: l'infinita catena dell'essere. Se nel De umbris questa infinita catena costituisce la premessa per la discussione epistemologica, su di un piano magico, nel De la Causa invece essa è la rappresentazione, a livello fisico, della struttura metafisica della realtà, ossia della unità sostanziale dell'Essere.

Il tema della infinita catena dell'essere viene poi immediatamente affiancato da quello dell'«ordine meraviglioso», affinché l'idea del Caos (a volte assimilabile a quella dell'Infinito) venga immediatamente lasciata alle spalle: «il vero Caos di Anassagora è una varietà senza ordine. Proprio così come nella varietà stessa delle cose distinguiamo un ordine meraviglioso, che, instaurando una connessione degli elementi sommi con gl'infimi e degl'infimi con i sommi, fa concorrere tutte le parti insieme a costituire il bellissimo aspetto di un solo grande essere animato (qual è il mondo), poiché tanta diversità richiede tanto ordine e un così grande ordine tanta diversità»[76]. E quello che nel De umbris viene descritto come un «ordine meraviglioso» (proprio perché collega in una trama o catena ordinata un numero infinito di elementi), nel De la Causa sarà chiamato Intelletto superiore, o Anima del Mundi (anche se per la verità già nel De umbris il mondo viene descritto come un grande animale, dotato di anima).

 

 

5. La magia serve a superare l'aporia conoscitiva determinata dall'umbra metafisica.

 

Il problema gnoseologico viene ulteriormente definito subito dopo, nella tredicesima intenzione: «Certamente, se una concordia pressoché indissolubile connette le estremità finali dei primi elementi agli inizi dei secondi e unisce il calcagno di quelli che precedono alle teste di quelli che seguono immediatamente, tu sarai capace di abbracciare con la mente quell'aurea catena che si forma sempre tesa dal cielo alla terra; così pure, come puoi avere fatto una discesa dal cielo, facilmente potrai ritornare in cielo per una salita ordinata»[77]. L'idea della scala naturae, simboleggiata dall'immagine dell'«aurea catena» era centrale anche nell'immagine dell'infinito ermetico. Ma come è possibile percorrere l'ascensus della scala, se essa è composta da una moltitudine infinita di elementi, collegati tra loro in virtù di un «ordine meraviglioso»? Ovvero: come si può percorrere uno spazio infinito in un istante? Sembrerebbe a prima vista la riproposizione di uno dei classici paradossi che i medievali avevano ripreso dalla filosofia di Zenone di Elea. Si tratta evidentemente di un problema che riguarda sia la conoscenza sia la struttura metafisica della realtà.

La soluzione di questo paradosso è data dalla formulazione di una teoria magica e metafisica insieme: la teoria dei «vincoli». Il sistema mnemotecnico bruniano può servire come introduzione al discorso dei vincoli (sviluppato ampiamente in un'opera magica importante, il De vinculis in genere). Nel De umbris viene proposta una sapienza ermetica che, imparando a ripercorrere attraverso i suoi gradi intermedi l'universo intero, non soltanto ne memorizza l'ordine, ma ambisce ad affidare alla conoscenza magica poteri d'intervento sui fenomeni. Tutto questo è possibile proprio in virtù dei «vincoli» che uniscono in somiglianze tutti gli esseri. Eccoci allora aperta la strada alla soluzione del paradosso: l'inifnità degli elementi è relativa alla loro esteriorità, alla loro numerabilità, perché al profondo, nella materia «di base» (e per Bruno, è bene ribadirlo, non c'è niente al di fuori della materia), le monadi concorrono alla formazione di schemi semplici, di strutture ordinate secondo una regola fissa, che il mago può raggiungere e di cui il filosofo si può servire. Sono quindi le combinazioni degli elementi, i vincoli che li uniscono, a garantire la possibilità della conoscenza e dell'elevazione dell'uomo, e non i singoli elementi presi in se stessi.

La filosofia della natura mira appunto alla valutazione di queste «occulte simpatie». Si noti che l'unità della realtà è quindi possibile solo in base al concetto sottostante di scala naturae. Attraverso questo concetto si esprime la infinità del cosmo materiale, e di essa si serve il mago-filosofo per conoscere il mondo e operare su di esso. Naturalmente, anche per il mago, l'unica conoscenza possibile è quella umbratile, dell'ombra che contemporaneamente vela la Verità e protegge gli uomini dalla sua luce accecante.

Ricordo che la teoria dell'ombra che serve non a nascondere ma a proteggere la vista degli uomini dalla luce accecante della verità era presente anche nella tradizione esoterica ebraica, che Bruno mostra di ammirare: «questa ombra, o una simile a questa, l'hanno figurata coloro che son detti Cabalisti, poiché il velo, che era allegoricamente o fiugurativamente sul volto di Mosé, ma figurativamente sul volto della legge, non mirava ad ingannare, ma a spingere avanti ordinatamente gli occhi degli uomini, nei quali si provoca una visione nel caso che all'improvviso passino dalle tenebre alla luce»[78]. L'ombra quindi - paradossalmente - è stata posta da Dio stesso a protezione e guida dell'umanità. Si noti che - secondo Bruno - anche la vita civile deve essere impostata seguendo i criteri della legge divina rivelata all'uomo tramite certi mercurii - messaggeri degli dèi - che scendono sulla terra secondo tempi e modalità prestabilite, ed hanno il compito di far risorgere la verità sepolta (quella - ovviamente - ermetica). Bruno certamente si sentiva uno di questi, ed il suo tentativo di restaurazione dell'antica religione egizia deve essere interpretato proprio in questo senso: anche l'ordine civile, non solo quello etico, deve essere impostato seguendo i criteri della rivelazione ermetica (ovvero: la divinità si comunica all'uomo tramite la Natura, ed in questo suo dispiegarsi è possibile trovare i segni della legge). La magia serve appunto a riscoprire i segni divini nella Natura e a renderli comprensibili all'uomo.

 

 

6. Il magico numero trenta.

 

Proprio nella trentesima intenzione (quasi a voler ribadire la straordinaria valenza simbolica del magico numero trenta), Bruno mette in scena l'Uno e il problema della sua l'infinità. Nell'Uno si ritrovano le differenze, tutte, non a livello potenziale, ma attuale. Proprio per questo si tratta di un Uno assoluto, perfetto: «Ma come comprendi che tutte le differenze delle ombre si possono infine ricondurre a sei fondamentali, nondimeno devi sapere che tutte infine dovrebbero essere ridotte a una sola fecondissima e a una generalissima fonte delle altre»[79]. L'idea della riduzione degli enti infiniti ad un numero limitato di vincoli (o concetti magici) viene qui ripetuta in modo analogo per il mondo delle ombre (metafisiche). Come le cose possono essere ricondotte ad un'unica materia, viva ed infinita, così i concetti nascono da un Uno fecondissimo e assoluto.

Specifica infatti poco più avanti il Nolano: «una certa analogia, infatti, ammettono la metafisica, la logica e la fisica, cioé le cose prenaturali, naturali e razionali, come verità, immagine e ombra»[80]. Espone poi un esempio «geometrico», quasi a significare che la struttura metafisica è identica a quella della realtà: «Ecco l'esempio di una sola idea, la quale ha in atto infinite differenze delle cose, e di una sola ombra nella possibilità d'infinite differenze. La linea orizzontale AB riceve la linea CD che cade perpendicolarmente e forma due angoli retti. Ora, nel caso che la linea perpendicolare inclini verso B, renderà l'angolo da una parte acuto, ma dall'altra ottuso. Inclinata sempre più in E, F, G, H, I, L e così via, darà gli angoli più acuti di qua e più ottusi di là. Così risulta chiaro come nella possibilità di quelle due linee rette ci siano infinite differenze di angoli acuti e ottusi. Questa possibilità non differisce dall'atto nella prima causa, la quale e nella quale è tutto ciò che può essere, dal momento che essere e potere s'identificano in essa. Pertanto nel punto D stesso le differenze degli angoli sono nel tempo stesso infinite e una sola cosa»[81].

Terminata la presentazione delle «trenta intenzioni», si passa a «Trenta concetti di idee». Ancora la discussione dell'umbra e della intelligibilità delle cose viene significativamente legata alla tematica dell'infinito e alla metafisica della luce: «qui io intendo la luce come intelligibilità delle cose [...]. Queste cose, quando sgorgano quale da una quale e quale da un'altra, diverse da diverse, si moltiplicano all'infinito, tanto che le può determinare solo chi conta il numero delle stelle; quando invece rifluiscono, si uniscono fin proprio a quell'unità che è fonte di tutte le unità»[82]. Siamo di fronte ad una chiara esposizione della teoria della vicissitudine universale. In questa credenza si inserisce la teoria bruniana della metempsicosi, della quale abbiamo per esempio una diretta testimonianza dalle accuse portate dal Mocenigo agli inquisitori veneti. Nell'undicesimo concetto viene poi ribadito che «La ragione forma specie nuove e in modo nuovo all'infinito»[83]. L'intelletto universale - Dio - provvede dunque alla costituzione di quell'ordine armonico, mediante l'attribuzione di infinite forme alla materia.

 

 

7. L'ascesi mistico-conoscitiva.

 

Il motivo dell'ascesi mistica e allo stesso tempo intellettuale, che ho considerato fin dall'inizio come uno dei momenti fondamentali della filosofia dell'infinito in Bruno, è espressa chiaramente già a partire dal De Umbris: «Perciò ascendi là dove le specie sono pure, dove niente è informe e dove ogni essere formato è la forma stessa»[84]. In forma germinale, sono già presenti le successive speculazioni metafisiche del De la Causa. Subito di seguito viene infatti presentata la tecnica, intrisa di elementi mistici e magici, per percorrere la scala: «Plotino comprese che è fatta di sette gradini (cui ne aggiungiamo due) la scala per la quale si ascende al principio. Il primo gradino è la purificazione dell'animo, il secondo l'attenzione, il terzo l'intenzione, il quarto la contemplazione dell'ordine, il quinto il confronto proporzionale secondo l'ordine, il sesto la negazione o separazione, il settimo il desiderio, l'ottavo la trasformazione di sé nella cosa, il nono la trasformazione della cosa in se stesso. Così si aprirà la via, l'accesso e l'ingresso dalle ombre delle idee»[85]. Si tratta evidentemente di una serie di predisposizioni psicologiche atte a raggiungere l'estasi, quindi la trasformazione e l'unione con Dio: magia teurgica quindi. Per di più, all'idea dell'ascesi mistica viene riaffiancata l'idea della infinita unità del tutto (che permette appunto la possibilità dell'ascesi): «Tutto ciò che è dopo l'uno è inevitabilmente molteplice e numeroso, perciò, tranne l'uno e il primo, tutte le cose sono numero. Donde sotto l'infimo gradino della scala della natura c'è il numero infinito o materia; invece nel sommo gradino c'è l'infinita unità e atto puro. Pertanto, la discesa, la dispersione e l'espansione avvengono verso la materia; l'ascesa, l'aggregazione e la delimitazione avvengono verso l'atto»[86]. La scala della natura serve quindi ad unire nel mondo fisico ciò che concettualmente resta separato: la infinità di Dio e quella del Mondo. Al di là delle evidenti influenze neoplatoniche, la messa in primo piano del numero, inteso come categoria metafisica, deve ricordare il pitagorismo e l'ermetismo, da cui Bruno attinge continuamente.

Michele Ciliberto ha notato come, nella parte teorica del De Umbris, Bruno si colleghi alla tradizione magica nella presentazione delle immagini celesti, ricordando inoltre che «si è mostrato come l'elenco dei trentasei Decani, attribuito a Teuco Babilonese, sia ripreso dal De occulta philosophia di Cornelio Agrippa»[87]. Detto questo Ciliberto sostiene come sia «meno persuasiva [...] la tesi mirante a vedere nel De umbris un testo di carattere magico, interpretandolo alla luce della visione - assai diffusa negli anni passati - di Bruno come mago ermetico (le ombre delle idee, si è detto, non sono altro che le «immagini magiche», «immagini archetipe»[88]). E questo non perché nel De Umbris non siano presenti motivi di questo tipo [...]. Tutt'altro. Nei suoi punti essenziali, l'ars memoriae è imperniata nell'idea secondo cui nell'universo è presente e operante una trama fondamentale di cui vanno individuati gli elementi principali, le modalità del loro intreccio, le loro possibili combinazioni, al fine di acquisire un potere operativo in grado di conoscere e trasformare la realtà. Sono appunto queste posizioni che si esprimono nelle varie arti della memoria bruniane: sia la tesi del mondo come unità vivente di piani strettamente connessi e correlati in un circuito di comunicazione universale; sia la tesi di un'ispirazione pratico operativa strutturalmente intrinseca al pensiero, sfociata, infine, nella elaborazione delle opere magiche. Da questo punto di vista, tra mnemotecnica e magia c'è una radice comune, costituita appunto dal tema della praxis. Ma constatare un nesso non vuol dire giustificarlo. Nè si tratta, va ribadito, di un problema di fonti. La messa a fuoco della tematica magica suppone due elementi, nel caso di Bruno: la concezione della Vita-materia infinita elaborata compiutamente nel De la Causa (non a caso nel De vinculis si farà riferimento sia all'una che all'altro); la assunzione della "crisi" universale come tema centrale di riflessione. E' dall'intreccio di questi due motivi che germinerà nel periodo finale, la riflessione magica di Bruno. Ma in questa forma specifica, essi sono entrambi estranei al De Umbris»[89]. Si tratta di affermazioni importanti, che meritano una riflessione.

Dopo aver osservato opportunamente che l'ars memoriae è imperniata sull'idea secondo cui nell'universo è presente e operante una trama fondamentale, Ciliberto opera uno «strappo» abbastanza netto, sostenendo che, in fondo, nel De umbris sarebbero del tutto assenti due motivi fondamentali da cui germina in Bruno il pensiero magico, ossia la concezione della Vita-materia infinita (elaborata nel De la Causa) e la assunzione della «crisi universale» come tema centrale di riflessione. Il De umbris non avrebbe insomma neppure i germi del futuro pensiero magico. Non possiamo condividere queste affermazioni per due motivi. Anzitutto il De umbris è apertamente presentato e strutturato come un testo magico, ma non solo. In esso sono presenti sia il tema della «crisi universale», sia quello della vita-materia infinita. Abbiamo già visto come nel De umbris (settima intenzione) venga considerata da Bruno la presenza di una scala naturae e quindi di un «ordine meraviglioso che, instaurando una connessione degli elementi sommi con gl'infimi e degl'infimi con i sommi, fa concorrere tutte le parti insieme a costituire il bellissimo aspetto di un solo grande essere animato qual è il mondo»[90].

Mi riesce a questo punto difficile capire come Ciliberto non abbia considerato il fatto che la concezione della «vita-materia infinita» poggia proprio sull'idea di scala naturae, e come sia intrinseca a questa. A parte il fatto che è chiaramente espressa la dottrina della animazione universale del mondo, e che questo è più volte considerato infinito, nel De umbris Bruno ha scritto anche che «non è lecito pensare che questo mondo abbia più signori e di conseguenza abbia più ordini tranne uno solo. E, conseguentemente, se uno solo è l'essere ordinato, le sue parti sono unite e subordinate alcune a alcune parti, altre a altre, sicché le parti superiori si collocano subito dopo l'essere più vero, espandendosi in una mole estesa e in molteplice numero verso la materia»[91]. E' quindi chiaro come la teoria dei vincoli e della scala naturae non possano essere considerate estranee alla concezione della «vita-materia infinita» di cui parla lo stesso Ciliberto. Ma facciamo un passo indietro.

 

 

8. Il tema della crisi universale.

 

A proposito dell'assunzione della crisi universale come tema centrale di riflessione, è necessario ritornare alle prime righe dell'opera. Qui Ermes (Ermete Trismegisto, come ho già precisato), con grave tono pessimista, afferma la sua indecisione riguardo alla diffusione del testo (magico): «sono incerto se (il De umbris idearum) debba essere pubblicato oppure continuare a rimanere nelle stesse tenebre in cui un tempo è stato nascosto»[92]. E, come ho già ricordato, continua: «la provvidenza degli dèi (lo dissero i sacerdoti egiziani) non smette di mandare agli uomini alcuni Mercuri in certi tempi stabiliti, benché sappiano in anticipo che questi non saranno accolti per niente o saranno male accolti»[93]. La «crisi universale» è dunque così profonda e grave, che Ermes stesso dubita: teme che gli uomini non accolgano il Mercurio inviato dagli déi. Il testo intero, inoltre, parte proprio dalla consapevolezza della crisi, della dimenticanza che ha portato l'uomo lontano dal magico linguaggio ermetico. Il motivo della crisi universale accompagna dunque quello della scala naturae: ecco quindi che ci troviamo di fronte -- stando alle considerazioni dello stesso Ciliberto - ad entrambi gli elementi che presuppongono la messa a fuoco della tematica magica. Ma ancora: la magica arte della memoria deve essere considerata assolutamente complementare alla magia pratica, quella che sarà esposta nel De magia e nel De vinculis in genere. E' chiaro che Bruno promuove una sola metodica per il superamento della crisi: il ritorno ai magici geroglifici egiziani, al linguaggio ermetico, di cui l'ars memoriae rappresenta la continuazione nel presente. Ma anche la magia pratica acquista una nuova dimensione di utilizzo: l'arte dei vincoli può servire non solo all'ascensus del singolo ma anche ad una elevazione di tutta la società civile. Lo stesso Michele Ciliberto ha osservato con lucidità: «Nel De vinculis, uno degli ultimissimi scritti di Bruno [...], si ripresenta con la massima chiarezza, un'accentuazione verso la materia di cose inferiori, verso l'universo, il tema centrale dell'ontologia del De la Causa: la concezione della Vita-materia-infinita, a conferma, se ce ne fosse bisogno, del fatto che questo è il nocciolo speculativo di tutta la nova filosofia. Al di là delle continue, straordinarie, variazioni, è l'ontologia del De la Causa che accomuna, sul piano teorico, le varie fasi della ricerca del Nolano. Qui stanno anche le radici delle opere magiche [...]. Intrecciandosi strutturalmente, come sempre, all'analisi e alla interpretazione della crisi universale, rappresentano [...] il più alto e più organico punto d'approdo dell'originaria ispirazione pratica del pensiero di bruno, mostrando, al tempo stesso, la direzione schiettamente operativa che, egli, allora, aveva in animo di prendere. In secondo luogo, avviano la saldatura di due motivi della nova filosofia che a lungo si erano affiancati [...]. Pongono, cioé, le basi di una compenetrazione, attraverso la magia, della dimensione ontologica e della dimensione etico-civile della filosofia bruniana, dischiudendole nuove, eccezionali prospettive»[94].

 

 

 


CAPITOLO III

 

IL DE LA CAUSA, PRINCIPIO ET UNO.

 

 

«Chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi degli contrari e opposti. Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto d'unione»[95].

 

 

«Il sommo bene, il sommo appetibile, la somma perfezione, la somma beatitudine consiste nell'unità che complica il tutto»[96].

 

 

 

 

 

1. La metafisica magica del De la Causa, Principio et Uno: l'animazione universale.

 

Il De la Causa, non è propriamente un testo magico. Ciò nonostante è possibile considerarlo come un momento indispensabile per la successiva elaborazione delle teorie magiche. Insieme al De umbris idearum, è infatti un vero e proprio testo archetipo del magismo bruniano. Ma perché è tanto importante la credenza nella realtà magica? La concezione bruniana della magia si basa su due concetti fondamentali: 1) la scala naturae; 2) l'Anima mundi intesa come principio vivificatore dell'Uno-Tutto infinito, fonte di una vera e propria animazione universale. Terzo elemento, substratum ideologico, è la profonda ammirazione per l'antica sapienza egizia, l'ermetismo.

Si tratta evidentemente di elementi tutt'altro che estranei alla struttura metafisica, e quindi alla giustificazione della teoria infinitista. In realtà l'ammirazione per l'antica sapienza dei maghi egiziani era un sentimento assai diffuso tra i circoli culturali del Rinascimento italiano, ma non solo. Lo splendido mosaico del Duomo di Siena, ritraente Ermete Trismegisto, definito (e creduto) «contemporaneus Moysi», era stato piazzato propio all'ingresso della cattedrale, e non a caso. Si trattava di una credenza generalmente diffusa e condivisa, anche da una parte del clero dotto. «Era su una base di eccellente autorità che il Rinasciemnto considerava Ermete Trismegisto una persona realmente vissuta in tempi antichissimi e autore di scritti ermetici, poiché tutto ciò era stato implicitamente creduto dai principali Padri della Chiesa, in particolare da Lattanzio e Agostino»[97], aveva scritto la Yates; ed ha avuto ragione nell'attribuire ad Ermete Trismegisto una notevolissima influenza sul pensiero di Bruno, perché in effetti il Nolano accolse dai trattati ermetici, erroneamente attribuiti a questo personaggio mitico, proprio la credenza dell'Anima Mundi che vivifica e regola il Mondo dall'interno, e di tutta la struttura metafisica ad essa correlata. E' quindi necessario ribadire l'importanza del pensiero magico nell'analisi del concetto di infinito in Bruno.

Nel De la Causa Bruno espone la sua concezione della realtà. Eliminata ogni trascendenza, Dio è concepito come la natura stessa, intesa come infinita potenzialità ed infinita attualità. Una sola è la divina sostanza che genera ogni elemento del reale, uno solo è lo Spirito artefice, principio di ogni cosa. Nel De la Causa Bruno arriva alla fondazione metafisica della realtà animata: la concezione preminente è quella di un mondo animato dallo spirito di Dio, che si muove e respira seguendo leggi magiche. Una concezione assolutamente corrispondente ai canoni ermetici.

Anche Ernst Cassirer ha messo in rilievo la centralità e la funzione dell'animazione universale, magica, nel discorso sulle leggi che regolano l'universo: «il concetto moderno di causalità matematica resta del tutto estraneo al Bruno. Per lui, tutta l'interazione fra i singoli elementi dell'universo vien fatta conoscere dal predominio di un principio spirituale comune di cui quelli partecipano egualmente. Il concetto di anima del mondo è il necessario correlato dell'idea di collegamento causale»[98]. Nel De la Causa è possibile trovare importanti riscontri alle affermazioni del Cassirer.

Nel Dialogo secondo, dove Bruno giunge alla fondazione metafisica della realtà animata, dell'Uno-tutto vivente, leggiamo infatti: «l'intelletto universale è l'intima, più reale e propria facultà e parte potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo che empie il tutto, illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue specie come si conviene; e cossì ha rispetto alla produzione di cose naturali, come il nostro intelletto alla congrua produzione di specie razionali. Questo è chiamato dà Pitagorici motore ed esagitator de l'universo, come esplicò il Poeta che disse totamque infusa per artus, Mens agitat molem et toto se corpore miscet. Questo è nominato da' Platonici fabro del mondo. Questo fabro, dicono, procede dal mondo superiore, il quale è a fatto uno, a questo mondo sensibile, che è diviso on molti; ove non solamente la amicizia, ma anco la discordia, per la distanza de le parti, vi regna. [...] E' detto da' Maghi fecondissimo de semi o pur seminatore; perché lui è quello che impregna la materia di tutte forme e, secondo la raggione e condizion di quelle, la viene a figurare, formare, intessere con tanti ordini mirabili, li quali non possono attribuirsi al caso [...]. Da noi si chiama artefice interno, perché forma la materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il stipe; da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance; da dentro queste ispiega le gemme; da dentro forma, figura intesse, come di nervi, le frondi, gli fiori, gli frutti»[99]. L'artefice interno, lo spirito che pervade la realtà, provvede alla generazione costante di nuove forme, «opra continuamente tutto in tutto»[100]. Il mondo è quindi in divenire perché la materia è animata, viva. L'immobilità non è altro che sinonimo di morte. Siamo all'interno di una visione magica della materia e quindi del mondo: il mondo si muove perché in esso c'è uno spirito che lo anima. La struttura stessa della materia, il cui minimo metafisico è costituito dalle monadi, ed il concetto di scala naturae, sono da mettere in rapporto al pensiero magico: è da questa relazione che prende corpo l'idea di un universo divino e infinito. La magia in Bruno è religione, come è stato osservato. Ma la magia è in Bruno anche metafisica, e per questo ha profonde relazioni con l'infinito. Essa, come sistema di pensiero, coinvolge infatti sia il piano teleologico che il piano eziologico. La magia è azione teurgica. Le opere che seguiranno alla pubblicazione dei dialoghi metafisici vedranno tutte porsi in primo piano l'elemento magico: ma non si tratterà di un cambiamento di prospettiva rispetto all'esordio, né della conseguenza di un nuovo interesse del Bruno. La magia è un tema centrale, a partire dal De umbris, e rimarrà costante per tutta la discussione dell'infinito. Ma l'attenzione che Bruno ha mostrato per la realtà magica non sarebbe comprensibile senza la straordinaria rivalutazione della materia che viene compiuta, con coerenza, dal De umbris al De la Causa.

 

 

2. Identificazione di vita e materia.

 

Considerare la materia come animata, divina ed infinita è stato, assieme alla conseguente distruzione dei limiti dell'universo, il primo risultato teoretico conseguito nel De la Causa. Il problema principale di tutta l'opera è infatti la fondazione metafisica e della vita-materia infinita, problema che troverà la sua soluzione nella identificazione di questi due elementi, vita e materia. Da qui il superamento delle tradizionali distinzioni tra atto e potenza, forma e materia, corporeo e incorporeo. Tutte queste determinazioni saranno congiunte nell'Uno-Tutto vivente. L'universo verrà presentato come una unità vivente infinita, dotata di un'anima o Intelletto superiore; il mondo è visto come un gigantesco animale, che si muove nello spazio insieme agli altri esseri-mondi, infiniti, grazie alla coordinazione impressagli dall'Intelletto superiore. Questa intelligenza, superiore ed interna al tempo stesso, armonizza e regola la vita di tutta la Natura: in questa Natura ogni singola porzione di materia è animata, viva; la coordinazione dell'intelletto superiore viene inoltre dall'interno, perché Dio è nel mondo: un «artefice interno», appunto. Riemerge l'immagine dell'«ordine meraviglioso», della struttura metafisica delineata nel De umbris, e con essa la scala di occulte simpatie, di vincoli i magici che legano misteriosamente le monadi, i minimi centri metafisici che costituiscono gli atomi della materia infinita. Riemerge allora ancora una volta (si tratta d'altra parte di un tema costante) il problema della conoscenza e delle possibilità umane in questo mondo. L'etica e la gnoseologia si mescolano continuamente alla cosmologia e alla metafisica. Chi è alla ricerca dell'essenza del mondo - Bruno lo lascia intendere - deve cercare proprio ciò che non si può conoscere né direttamente, né pienamente, perché in incessante divenire: l'anima del mondo, che si manifesta nelle forme esteriori: «se dunque il spirito, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose e, secondo certi gradi, empie tutta la materia, viene certamente ad essere il vero atto e la vera forma de tutte le cose. L'anima, dunque, del mondo è il principio formale constitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene. Dico che, se la vita si trova in tutte le cose, l'anima viene ad esser forma di tutte le cose: quella per tutto è presidente alla materia e signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consistenza de le parti. E però la persistenza non meno par che si convenga a cotal forma che a la materia. Questa intendo essere una di tutte le cose; la qual però, secondo la diversità delle disposizioni della materia e secondo facultà de' principi materiali attivi e passivi, viene a produr diverse figurazioni ed effettuar diverse facultadi [....]»[101]. Si noti che l'anima universale è definita «persistente», ossia eterna, non meno della materia universale. Siamo allora di fronte alla identificazione compiuta della vita con la materia. Una la forma dell'universo, infinite le forme particolari che in esso si vanno delineando per opera dell'Intelletto. E' quindi in primo piano l'immagine di uno spirito onnipervadente che regola la vita del mondo dall'interno, proprio come indicano le suggestioni ermetiche.

 

 

3. Il problema della morte: la teoria dell'Unum-tutto vivente.

 

L'azione dell'Anima mundi si esplica attraverso due azioni fondamentali: una produzione infinita di forme e la regolazione armonica del tutto. Ed è in questo ambito che deve essere affrontata la problematica della morte: è infatti in relazione alla teoria della animazione universale che Bruno affronta questo tema. La morte, intesa come fine della vita, è una illusione «ottica» degli uomini. Ciò che muore è l'accidente della materia, la forma esteriore. La sostanza, viva della vita di Dio, non muore mai: essa è, come Dio, eterna e infinita, indissolubile indivisibile e indistruttibile: «nessuna cosa si anichila e perde l'essere, eccetto la forma accidentale esteriore e materiale»[102]. Certo, il continuo morire dei corpi particolari potrebbe essere spiegato con l'ipotesi di una potenza che genera vita all'infinito. In questo modo sarebbe possibile spiegare l'incessante divenire di forme a cui è soggetto il mondo. Ma questa ipotesi ha come conseguenza diretta l'estraneità sostanziale della divinità dal suo creato. Se invece Dio è nel mondo, ecco spiegato come mai la sostanza non muore, ma si prodiga continuamente in una infinita varietà di forme. Nell'Uno non c'è possibilità di morte, la sostanza non può «annichilarsi».

E' necessario a questo punto ribadire l'intreccio con l'ermetismo. Nel Corpus Hermeticum, tradotto da Ficino, ad un certo punto la Mens, rivolgendosi ad Ermete, asserisce che «Tutto è pieno di anima, e tutte le cose sono in movimento. Chi ha creato queste cose? Il Dio-Uno, perché Dio è Uno. Tu vedi come il mondo è sempre uno, il sole, uno; la luna, una; la divina attività, una; anche Dio è Uno. E poiché tutto vive, e anche la vita è una, Dio certamente è Uno. E' per opera di Dio che tutte le cose vengono in essere. La morte non è la distruzione degli elementi collegati in un corpo, ma la rottura della loro unione. Il mutamento si chiama morte perché il corpo si dissolve, ma io ti dichiaro, mio caro Ermete, che così si dissolvono sono soltanto trasformati»[103]. Il passo viene poi ripetuto, ampliato, nel dialogo successivo del Corpus Hermeticum, il XII: «L'intelletto, o Tat, deriva dalla sostanza stessa di Dio [...]. Anche il mondo è un dio, immagine di un dio più grande. Unito a questo, e osservante l'ordine e la volontà del Padre, esso è la totalità della vita. Non c'è niente in esso, per tutta la durata del ritorno ciclico voluto dal Padre, che non sia vivo. Il Padre ha voluto che il mondo viva fin quando conservi la sua coesione: dunque, il mondo è necessariamente dio. Come può essere, allora, che in ciò che è dio, che è l'immagine del Tutto, ci siano cose morte? Infatti la morte è corruzione, la corruzione è distruzione, ed è impossibile che alcunché di Dio possa essere distrutto.

Ma non muoiono nel mondo gli esseri viventi, o Padre, sebbene siano parte del mondo?

Taci, figlio mio, perché tu sei indotto in errore dalla denominazione del fenomeno. Gli esseri viventi non muoiono, ma, essendo corpi composti, si dissolvono; e questa non è morte, ma la dissoluzione di un miscuglio. Se si dissolvono non è per andare incontro alla distruzione ma a un rinnovamento. Che cos'è infatti l'energia della vita? Non è movimento? E che cosa c'è nel mondo che sia immobile?

Niente.

Ma almeno la terra non sembra immobile?

No. Al contrario, sola fra tutti gli esseri essa è soggetta ad una moltitudine di movimenti, ed è insieme stabile. Sarebbe assurdo supporre che questa nutrice di tutti gli esseri sia immobile, essa che dà nascita a tutte le cose, perché senza movimento è impossibile generare. Tutto ciò che è nel mondo, senza eccezione, si muove, e ciò che si muove è anche vivo. Contempla dunque il bel sistema del mondo, e vedi che è vivo, che tutta la materia è piena di vita.

Nella materia c'è dunque Dio, Padre?

E dove potrebbe essere posta la materia, se esistesse al di fuori di Dio? [...] Le energie che operano in essa sono parti di Dio. Sia che tu parli di materia, o di corpi, o di sostanza, sappi che queste sono energie di Dio, di Dio che è il Tutto. Nel Tutto non c'è niente che non sia Dio. Adora queste parole, figlio mio, e rendi ad essa culto»[104].

Questo lungo passo, tratto dalla traduzione di Ficino del Corpus Hermeticum, contiene due elementi fondamentali, che Bruno ha ricalcato punto per punto, e che ha mantenuto inalterati anche nelle opere posteriori. Si tratta della discussione sul problema della morte e della teoria dell'Unum vivente, della attribuzione della materia anche a Dio, della identità ontologica tra Cielo e Terra. La morte è impossibile perché la materia è viva della stessa vita di Dio. Questa concezione riconduce immediatamente all'idea dell'Unum, e così il circolo si chiude. Ecco dunque come il punto più alto della metafisica di Bruno trova indiscutibili analogie con la tradizione Ermetica, più che con il neoplatonismo. La vera realtà è quella del mondo materiale, vivo ed animato, di cui l'uomo fa parte. Nello Spaccio de la bestia trionfante, Bruno sosterrà che il timore della morte, che dalla nascita tiranneggia il spirito degli animanti, è il veleno che rovina l'esistenza dell'uomo, togliendole alla radice ogni serenità e piacere (e che potrà essere sradicato solo mostrando la vera natura dell'anima): «conoscerne il carattere composto e materiale, quindi perituro - ha osservato Alfonso Ingegno - era il solo mezzo per ottenere questo scopo, dal momento che l'apparizione delle immagini dei defunti faceva credere ad una immortalità delle nostre anime e quindi all'esistenza di regni ultraterreni che fossero la loro dimora»[105]. In realtà, ancora una volta, Bruno si mostra convinto che l'ignoranza sia la causa di tutti i mali: è infatti a causa di questa che si è venuta radicando nell'uomo la credenza nell'Inferno e nel Paradiso, regni immaginari che hanno realtà solo nella nostra mente e che fanno sì che le pene dell'Ade e del Tartaro sussistano realmente ma solo quaggiù[106].

 

 

4. Causa e Principio: un problema di ordine metafisico.

 

Ho sostenuto che l'operazione fondamentale conseguita nel De la Causa è la fondazione metafisica della «Vita-materia-infinita», per usare la felice espressione di Ciliberto. La Vita materia infinita, Dio, risulta però assolutamente inconcepibile al di fuori del tema della umbratilità dell'esistenza e della conoscenza umana.

Nel Dialogo secondo Bruno riprende appunto l'esposizione della dottrina della conoscenza umbratile (già messa a fuoco nel De umbris), strettamente legata - come ho precisato - all'idea di una materia viva ed attualmente infinita che viene coordinata da Dio in forme apparentemente mortali. Ma della divina sostanza, proprio a causa della sua infinitudine e della sua divinità, non possiamo conoscere nulla, se non «per modo di vestigio»: è quindi negata la visione «d'insieme», perché si tratta - ovviamente - di un insieme infinito. L'interrogativo, come ha acutamente spiegato Alessandro Delcò, è di ordine metafisico[107]: ogni cosa che non è primo principio, e prima causa, ha principio et causa? Perché ogni cosa che non è il principio primo e la causa prima deve avere per forza un principio e una causa? La risposta è data sia dall'intelletto (per logica necessità tutto ciò che non è primo è secondo rispetto al primo) che dalla disposizione de le cose naturali. Il Mondo si presenta infatti ordinato secondo leggi specifiche. Ma senza la successione ontologica non ci sarebbe neppure un ordine, e quindi il Mondo non sarebbe. Chiarito poi come «causa» e «principio» non siano sinonimi, Teofilo-Bruno spiega come devono essere intesi e distinti. Il principio concorre intrinsecamente alla costituzione delle cose e rimane nell'effetto, mentre la causa concorre esteriormente. In Dio, Intelletto artefice, che opera continuamente tutto in tutto, causa e principio sono la stessa cosa: causa intrinseca ed estrinseca in Lui coincidono. Alle insistenze del Dicson, che vuole ulteriori specificazione prima delle cause e poi «circa gli principii», Teofilo Bruno chiarisce definitivamente la sua dottrina. Il Dicson ha interrogato Teofilo anzitutto sulla «causa efficiente prima»: si tratta di ricercare quindi la causa del mondo. La risposta consiste nella esposizione della teoria animistica: «dico l'efficiente fisico universale essere l'intelletto universale, che è la prima e principal facultà de l'anima del mondo, la quale è forma universale di quello»[108]. La teoria dell'animazione universale porta in primo piano il problema dell'apparenza:

«Dicson. Volete voi che non sia cosa che non abbia anima e che non abbia principio vitale?

Teofilo. Questo è quel ch'io voglio al fine.

Poliinnio. Dunque un corpo morto ha anima?

Teofilo. Sì, messer sì [...]»[109].

C'è qualche prova che tutte le cose sono, se non animali, almeno animate? Riemerge a questo punto il legame tra pensiero magico e teoria dell'animazione universale. Gli effetti della magia, i «poteri magici» di elementi apparentemente inanimati, sono la dimostrazione dell'onnipresenza dell'anima. La capacità che hanno certe gemme e lapilli di alterare affetti e passioni dell'anima, non meno di alcune sterpi e radici, dimostra che anche l'ingannevole inanimato è in realtà pervaso dalla vita-universale: «[...] voglio supersedere circa la proprietà di molti lapilli e gemme; le quali, rotte e recise e poste in pezzi disordinati, hanno certe virtù di alterar il spirito ed ingenerar nuovi affetti e passioni ne l'anima, non solo nel corpo. E sappiamo noi che tali effetti non procedono, né possono provenire da qualità puramente materiale, ma necessariamente si riferiscono a principio simbolico vitale ed animale; oltre che il medesimo veggiamo sensibilmente ne' sterpi e radici smorte, che, purgando e congregando gli umori, alterando gli spiriti, mostrano necessariamente effetti di vita. Lascio che non senza caggione li Necromantici sperano effettuar molte cose per le ossa de' morti; e credeno che quelle ritengano, se non quel medesimo, un tale però e quale atto di vita, che gli viene a proposito a effetti estarordinarii»[110].

La citazione dimostra come siano complementari i concetti di animazione universale della materia infinita e azione magica. Ciò che non ha un'anima propria ha tuttavia un'anima, perché anche in esso è presente l'anima universale. E' questa anima universale, sostrato universale, che permette il fluire dell'azione magico-sentimentale: «in universale le cose sono disposte in modo che stanno in rapporto reciproco, in una sorta di coordinazione, per cui si realizza il passaggio da tutte a tutte come per un continuo fluire»[111]. Inutile riportare a questo punto l'intero passo del Corpus Hermeticum che indica queste tesi. Ci basti ricordare questo passaggio: «Tutto discende dal cielo, dall'Uno che è il Tutto [...]. Dai corpi celesti vengono diffusi per tutto il mondo continui effluvi, attraverso le anime di tutte le specie e di tutti gli individui, da un estremo all'altro della natura. La materia è stata predisposta da Dio come ricettacolo di tutte le forme; e la natura, imprimendo le forme per mezzo dei quattro elementi, prolunga fino al cielo la serie degli esseri»[112]. Si tratta, evidentemente, della riproposizione dell'idea di scala naturae.

 

 

5. La fondazione metafisica della materia viva ed infinita.

 

E' comunque nel Dialogo terzo che viene compiutamente esposta la dottrina della materia viva e infinita. Si attua qui il superamento della concezione democritea ed epicurea, e si giunge alla individuazione di due principi: «avendo riguardo a più cose, troviamo che è necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza, l'uno che è forma, l'altro che è materia»[113]. Si riconosce quindi nel mondo la con-presenza di due principi: forma e materia, di cui forma equivale al concetto di potenza attiva (il fare), mentre materia equivale a potenza passiva (l'esser fatto). Teofilo, messo alle strette dalle insistenze di Gervasio, chiarisce che cosa si debba intendere per materia e per «materia nelle cose naturali»: la materia è propriamente un principio sostanziale, ciò che rende possibile e sopravvive al divenire delle forme: «nella natura, variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una materia medesima»[114].

L'identificazione più netta della materia si ha proprio sul piano del divenire, ossia della produzione delle forme: «non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte forme naturali? [...] Bisogna dunque che sia una medesima cosa che da sé non è pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non embrione, non sangue o altro; ma che, dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo l'essere embrione; dopo che si fa embrione, riceva l'essere uomo, facendosi omo: come quella formata dalla natura, che è soggetto de la arte, da quel che era arbore, è tavola e riceve l'esser tavola; da quel che era tavola, riceve l'esser porta ed è porta»[115]. Riemerge così il tema del divenire infinito, e riemerge anche la figura dell'artefice interno, che regola la produzione delle «cose naturali» secondo le regole - magiche - dell'intelletto universale. Ci sono infatti tre principi, a livello di produzione e coordinazione delle «cose naturali»: l'intelletto, datore delle forme, l'anima, fonte delle forme, la materia, ricetto delle forme. La distinzione bruniana tra Dio e mondo si attua proprio in virtù di questa dualità di livello, ed è comprensibile in virtù della duplice valenza della materia, intesa come attiva o come passiva. L'infinità di Dio è sempre superiore all'infinità alle forme prese concretamente dalla materia. Non che la materia non sia infinita, ma per il fatto che essa «riceve» le forme dall'intelletto superiore, e non le possiede dunque tutte in sé, si deve concludere che la sua infinità è diversa dall'infinità di Dio.

 

 

6. La materia è contemporaneamente attiva e passiva: anche nella materia è possibile riscontrare una natura binaria.

 

Si tratta in sostanza un discorso equivalente e simmetrico alla analoga distinzione tra la potenza attiva (propria dell'intelletto) e passiva (della materia). La materia infatti, come principio, può essere considerata in due modi, come soggetto e come potenza. La potenza, che corrisponde in sostanza al concetto di possibilità, può essere intesa sia come potenza attiva che passiva. Questo al livello dell'intellegibile, perché «di fatto», nella natura sono la medesima cosa. Atto e potenza, in Dio, coincidono assolutamente. Nelle «cose naturali», esplicate, nessuna è attualmente tutto ciò che può essere, ma solo potenzialmente. Si attua così la migliore definizione dell'Uno: ciò che è tutto ciò che può essere è Uno, e nella sua esistenza comprende quindi ogni essere particulare. Potenza e atto sono quindi Uno nel primo principio e molti nelle cose particolari. E' la teorizzazione della complicatio ed explicatio: dall'Uno al molteplice. Il passaggio dall'Unum al molteplice non comporta però una degradazione o dell'essere, ma casomai una sua moltiplicazione infinita. Da notare che per Bruno la materia è già tutta presente nell'Universo, ed è viva in modo quasi personale. L'inganno di una produzione delle cose è dato dal mutamento delle forme, che si avvicendano nello spazio-tempo infinito.

 

 

7. La distinzione tra Dio e Universo.

 

Concettualmente, si devono tener ben distinti l'universo dal suo primo principio: nell'universo atto e potenza coincidono, ma non assolutamente, come nel primo principio. Se è possibile operare una distinzione - a livello epistemologico - tra Dio inteso come implicatio e Dio come explicatio e se questa è il Mondo, oggetto della conoscenza naturale, mentre la prima è la Divinità, oggetto della contemplazione superiore e dell'ascesi mistico-estatica, se si vengono quindi a distinguere due piani del conoscere, questo rientra perfettamente nell'area della filosofia binaria. Nel primo principio ciò che nell'universo è infatti esplicato, è unità: «ogni potenza dunque ed atto che nel principio è come complicato, unito ed uno, nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato. Lo universo che è il grande simulacro, la grande imagine e l'unigenita natura, specie e membri principali e continenza di tutta la materia, alla quale non si aggionge e dalla quale non si manca, di tutta ed unica forma; ma non già è tutto quel che può essere per le medesime differenze, modi, proprietà ed individui. Però non è altro che un'ombra del primo atto e prima potenza, e per tanto in esso la potenza e l'atto non è assolutamente la medesima cosa, perché nessuna parte sua è tutto quello che può essere»[116].

La differenza tra Dio e l'universo si può riscontrare anche a livello di imperfezione. Teofilo-Bruno sottolinea infatti come la morte, «la corrozione i difetti e i mostri» siano presenti solo nella natura esplicata, nel «simulacro», dove la potenzialità non è tutta assolutamente in atto, dove la materia cerca ancora la sua esplicazione più perfetta: «queste cose non sono atto e potenza, ma sono difetto e impotenza, che si trovano nelle cose esplicate, perché non sono tutto quel che possono essere, e si forzano a quello che possono essere»[117]. Quando mai l'universo sarà assolutamente coincidenza di atto e potenza? Nel ripetersi ciclico - infinito - della vicissitudine universale. Per ora, l'universo rimane immagine, umbra, ma a livello epistemologico, non ontologico. Riemerge allora il tema del De umbris, il problema della conoscenza. L'universo, pur considerato come un animale assolutamente perfetto, è solo umbra di Dio. E' ombra, infinita, di un Essere infinito. Solo in Dio, principio dell'universo, non si ritrovano estensione, tempo: «il principio suo [dell'universo] è unitamente ed indifferentemente; perché tutto è tutto ed il medesimo semplicissimamente, senza differenza e distinzione»[118].

Dio comprende, in un atto solo, tutto quello che nell'universo è esplicato, diviso, nell'infinita estensione dello spazio e del tempo. Per questo Dio rimane assolutamente inconoscibile, ed oggetto di ascesi mistica. Si viene così ad una discussione centrale per la definizione della infinitezza di Dio e quella dell'Universo: «Or tornando al proposito, il primo principio assoluto è grandezza, è magnitudine; ed è tal magnitudine e grandezza, che è tutto quel che può essere. Non è grande di tal grandezza che possa esser maggiore, né che possa esser minore, né che possa dividersi, come ogni altra grandezza che non è tutto quel che può essere; però è grandezza massima, minima, infinita, impartibile e d'ogni misura. Non è maggiore, per essere minima; non è minima, per esser quella medesima massima; è oltre ogni equalità, poiché è tutto quel che ella possa essere. Questo, che dico della grandezza, intendi di tutto quel che si può dire: perché è similmente bontà che è ogni bontà che possa essere; è bellezza che è tutto il bello che può essere; e non è altro bello che sia tutto quello che può essere, se non questo uno. Uno è quello che è tutto e può essere assolutamente»[119]. Il primo principio dunque - Dio - è grandezza, ma non tale che possa essere contata, misurata, paragonata: per questo essa è il massimo e il minimo, nello stesso momento. Coincidentia oppositorum? In parte. Forse semplice conseguenza della magica filosofia binaria, di cui parlerò più avanti. Per ora toniamo al De la Causa. Subito dopo, e dubito si tratti di una identificazione solo metaforica, Bruno passa a spiegare come sia possibile pensare l'Assoluto che nello stesso tempo è atto e potenza. L'esempio è dato dalla identità del Sole e di Dio (identità ovviamente non assoluta ed esclusiva: Dio è il Sole, la Terra, la Luna e così via, all'infinito): «or se vogliamo mostrare il modo con il quale Dio è il Sole, diremo (perché è tutto quel che può essere) che è insieme oriente, occidente, meridiano, merinoziale e di qualsivoglia di tutti i punti de la convessitudine della Terra; onde, se questo Sole o per sua revoluzione o per quella della Terra) vogliamo intendere che si muova e muta loco, perché non è attualmente in un punto senza potenza di essere tutti gli altri, e però ave attitudine a esservi; se dunque è tutto quel che può essere, e possiede tutto quello che è atto a possedere, sarà insieme per tutto e in tutto [...]»[120]. Bruno ha appena sostenuto che, essendo tutta quella che può essere, la grandezza divina non ha alcun termine di paragone. Si tratta allora di un infinito diverso da quello del mondo, in cui per la verità ci sono parti misurabili. La grandezza divina, ci pare di capire, viene qui intesa come l'unità di misura, minima e massima per il fatto di comprendere in se stessa l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande. Dio sembra essere quasi il confine (metafisico e gnoseologico) dell'universo. Là dove l'umbra decreta l'insondabilità da parte dell'uomo, comincia Dio; là dove la materia si fa così semplice da ridursi a monade (minimo metafisico), o atomo (minimo fisico), oppure là dove la vita si moltiplica fino a farsi infintia, si trovano i confini minimi e massimi del reale.

Bruno sostiene infatti che la grandezza divina «non è maggiore, per esser minima; non è minima, per esser quella medesima massima; è oltre ogni equalità, perché è tutto quel che ella possa essere»[121]. Alla infinità dell'universo viene quindi paragonata l'infinità del primo principio, di Dio. Da questo paragone scaturiscono le differenze essenziali, a livello teoretico ma anche sul campo della reale infinità. L'infinità di Dio, essendo assoluta, non può manifestarsi in se stesso con la materia, che per quanto infinita nello spazio e nel tempo è sempre rappresentabile solo mediante determinazioni particolari. L'universo è a sua volta umbra, simulacro, specchio dell'essenza divina. In questo modo Bruno voleva salvare una trascendenza puramente concettuale, perché, anche se a livello intellegibile si possono fare differenze tra Dio e l'Universo, a livello dell'esperienza reale, naturale, Dio è nell'universo, nel mondo. Dal punto di vista dell'esperienza della filosofia della natura la trascendenza perde il suo carattere di realtà oggettiva e sfuma nel mondo delle idee.

 

 

8. La coincidenza di atto e potenza.

 

L'infinità coinvolge chiaramente tutte le determinazioni qualitative: grandezza, bellezza e così via. Sembra in qualche modo un passo indietro rispetto alle precedenti affermazioni: prima infatti Bruno aveva mostrato la coincidenza di atto e potenza nella materia, poi però spiega che questa coincidenza è limitata e diversa, radicalmente diversa da quella di Dio. La coincidenza di atto e potenza, a livello della materia, significa essere tutto quello che può essere, immediatamente. Bruno vede benissimo che nelle cose naturali questo non è possibile e che ciascuna cosa, presa in se stessa, di fatto non è simultaneamente tutto ciò che può essere, ma delle infinite possibilità, assume una forma sola. La coincidenza di atto e potenza viene allora salvata mediante l'idea della vicissitudine universale: il passare della materia da una forma ad un'altra, all'infinito, corrisponde al momento della coincidenza di atto e potenza. A livello epistemologico si attua quindi una distinzione complementare a quella esistente tra Dio e l'Universo: per l'uomo è impossibile conoscere la divina sostanza, mentre invece rimane la possibilità di un certo progresso (infinito) in ambito naturale. E' possibile insomma conoscere tutto ciò che non vede una coincidenza assoluta tra atto e potenza: tutto, tranne l'infinito in atto. E' da qui che germina l'idea di teologia negativa, di fatto smentita da una serie di determinazioni dell'Unum che vanno ben al di là di semplici negazioni, e che devono essere d'altra parte connesse alla rivelazione ermetica.

 

 

9. La teologia negativa e i limiti della conoscenza umana nei confronti dell'Universo infinito.

 

A livello razionale è possibile, e lo abbiamo visto, indagare sulle leggi della natura, cioé su come funziona il mondo. Ma alla natura di Dio è possibile avvicinarsi solo con una sorta di teologia negativa tutta «naturale»: «questo atto absolutissimo, che è medesimo che l'absolutissima potenza, non può esser compreso da l'intelletto se non per modo di negazione: non può, dico, esser capito né in quanto può esser tutto, né in quanto è tutto. Perché l'intelletto, quando vuole intendere, gli fia mestiero di formar la specie intellegibile, di assomigliarsi, conmesurarsi ed eguagliarsi a quella; ma questo è impossibile, perché l'intelletto mai è tanto che non possa essere maggiore; e quello per essere inmenso da tutti lati e modi non può esser più grande. Non è dunque l'occhio ch'approssimar si possa o ch'abbia accesso a tanto altissima luce e sì profondissimo abisso»[122]. L'intelletto umano, quindi, è solo una parte del Tutto, e come tale non può comprendere l'infinito. Non si tratta però di una ri-edizione della dotta ignoranza, né di una negazione definitiva delle capacità umane. Là dove Bruno afferma e definisce il limite, subito si apre la strada al progresso umano, infinito. Si tratta chiaramente di due infiniti diversi. L'infinito progresso umano non raggiungerà mai l'infinita grandezza del Tutto, ma, di fatto, entrambi non hanno limiti. Il soggetto dell'ombra sfugge continuamente alla ricerca. Ma la ricerca continua. Quando l'attività umana gli si avvicina, il Soggetto si sposta di un poco e rimane nell'ombra. Di fatto questo non impedisce l'idea del progresso, coerente con la divinizzazione della natura umana: «[questo absolutissimo] non può, dico, esser capito né in quanto può esser tutto né in quanto è tutto»[123]. Da parte sua, l'intelletto «mai è tanto che non possa esser maggiore»[124]. La differenza che emerge sembra essere la stessa che c'è tra infinito potenziale ed attuale, solo che in questo caso l'intelletto umano non è mai infinito, ma sempre finito e perfettibile: Dio invece è attualmente infinito.

Una analoga differenza emerge a livello del rapporto Dio-Natura. Mentre Dio è attualmente infinito, non è perfettibile perché è già perfetto in se stesso, la natura, l'esplicatio, è perfettibile: la materia è sempre alla ricerca di nuove forme, si sviluppa continuamente nella vicissitudine universale.

 

 

10. La materia, in un certo senso, può essere attribuita anche a Dio.

 

E' sempre in questo fondamentale terzo Dialogo che Bruno attribuisce apertamente la materia anche a Dio: «conchiudendo, dunque, vedete quanta sia l'eccellenza della potenza, la quale, se vi piace chiamarla raggione di materia, che non hanno penetrato i filosofi volgari, la possete, senza detraere alla divinità, trattar più altamente che Platone nella sua politica ed il Timeo. Costoro, per averno troppo alzata la raggione della materia, son stati scandalosi ad alcuni teologi. Questo è accaduto o perché non si sono bene dechiarati, o perché questi non hanno bene inteso, perché sempre prendono il significato della materia secondo che è soggetto di cose naturali, solamente come nodriti nelle sentenze d'Aristotele, e non considerano che la materia è tale appresso agli altri, che è comune al mondo intellegiile e sensibile, come essi dicono, prendendo il significato secondo una equivocazione analoga»[125]. Materia è quindi - a livello concettuale - equivalente a potenza. La materia intesa in questo modo può e deve essere quindi attribuita anche a Dio: la potenza è infatti il correlativo dell'atto. Emerge poi prepotentemente la critica alla filosofia tradizionale e ai suoi seguaci, «filosofi volgari»: nella loro trattazione della materia sono andati soggetti alla «equivocazione». La materia è potenza, ed è quindi anche in Dio.

I teologi che si sono scandalizzati per l'attribuzione della materia anche a Dio sono stati acritici seguaci della filosofia aristotelica: materia non è solo sostrato passivo della natura, ma principio della potenzialità, ovviamente, infinita. L'idea che Bruno va proponendo è quella dell'animazione universale mai sciolta - absoluta - dalla materia. La coincidenza di atto e potenza si attua in modo diverso, secondo la proporzione dovuta, a seconda che si tratti di Dio o dell'universo. Non è però possibile sostenere che Bruno abbia fondato la sua filosofia sullo studio della natura, perché è proprio dal soprannaturale che ha preso le mosse per identificare la struttura della natura. Ecco perché concordiamo con Ciliberto quando parla di identificazione tra metafisica e cosmologia[126]. In realtà con il De la Causa Bruno prima ha fatto teologia, e poi filosofia naturale. Non si possono accettare quindi le posizioni di Spruit, secondo il quale Bruno va interpretato secondo quadri concettuali che gli sono propri e che rimangono sostanzialmente estranei alla corrente ermetica. E' vero precisamente il contrario: Bruno va interpretato secondo l'ermetismo e la sua filosofia naturale prende significato da esso. Ricordo ancora una volta che per il Nolano l'ermetismo è la vera religione.

 

 

11. Il rapporto tra filosofia e teologia.

 

Il Dialogo quarto vede snodarsi il rapporto tra filosofia e teologia. L'inizio è dato dalla discussione della concezione plotiniana della materia, intesa come prope nihil. Ormai Teofilo-Bruno ha definito l'universo come infinito effetto della causa infinita. Dopo questa definizione, la materia non sarà più concepibile come un prope nihil, e così viene a cadere anche la distinzione tra materia intellegibile e corporea.

Viene quindi chiarito il fine della filosofia:

«Teofilo. [possete quindi] montar al concetto, non dico del summo ed ottimo principio, escluso dalla nostra considerazione, ma de l'anima del mondo, come è atto di tutto e potenza di tutto, ed è tutta in tutto: onde al fine, dato che sieno innumeraili individui, ogni cosa è uno, ed il conoscere questa unità è il scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali; lasciando ne' suoi termini la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale a chi non crede è impossibile e nulla»[127]. E Dicson ribatte: «E' vero; perché se vi monta per lume sopranaturale, non naturale.

Teofilo. Questo non hanno quelli che stimano ogni cosa esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto, come li astri e le cose astrali; e non cercano la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose, ma dentro quello ed in quelle.

Dicson. In questo solo mi par differente il fidele teologo dal vero filosofo»[128]. Il passo riportato per esteso, dopo aver delimitato le possibilità della ricerca «naturale», ed aver precisato che all'unità infinita si arriva solo mediante l'ascesi, fissa in un unico momento la distinzione tra filosofia e teologia. Importante è dare rilievo alla funzione del «lume sopranaturale», che rischiara l'ascesi, e che è negato a coloro che «cercano la divinità fuor de l'infinito mondo». Al concetto di infinità è dunque strettamente legato il concetto di lume sopranaturale, legato al tema dell'ascesi. L'ascesi è una strada aperta al filosofo naturale, che muove dall'osservazione della natura, per contemplare in essa la infinita potenza di Dio.

 

 

12. L'unità divina e la sua infinità.

 

La celebrazione dell'universo infinito si chiude nel De la Causa con il Dialogo Quinto, dove Teofilo-Bruno dichiara la infinità attuale della Unità divina:

«Teofilo. E' dunque l'universo uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, uno il massimo ed ottimo, il quale non deve posser esser compreso; è però infinibile ed interminabile, e per tanto infinito ed interminato, e per conseguenza immobile»[129]. La questione dell'infinità dell'universo non rimane più nella indeterminatezza cusaniana, ma si risolve, positivamente, nell'affermazione della sia infinità attuale. Dalle determinazioni metafisiche di Dio Bruno passa, per analogia, alle determinazioni dell'Unum fisico: «non si genera, perché non è altro essere che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito [...]»[130].

La coincidentia oppositorum, di matrice cusaniana, trova finalmente la sua ragione nella infinità dell'universo. Nell'unico universo infinito i contrari vengono compresi in una sola unità, senza quella contraddizione che, nel mondo visto come particolare, era solo relativa. Nell'Uno vengono a cadere tutte quelle determinazioni che riguardavano le cose particolari: «non è materia, perché non è figurato né figurabile, non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non informa né figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo»[131].

Lo stesso discorso vale per il concetto di misura: «non è misurabile né misura. Non si comprende, perché non è maggior di sé. Non si è compreso, perché non è minor di sé»[132]. Il concetto di infinito manda all'aria tutte le determinazioni del mondo: «ne l'universo medesima cosa è larghezza, lunghezza, profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite. Se non hanno mezzo, quadrante, ed altre misure, se non vi è misura, non vi è parte proporzionale, né assolutamente parte che differisca dal tutto. Perché se vuoi dir parte de l'infinito bisogna dirla infinito; se è infinito, concorre in uno essere con il tutto: dunque l'universo è uno, infinito, impartibile. E se ne l'infinito non si trova differenza, come di tutto e parte e come di altro e altro, certo l'infinito è uno»[133]. L'idea dell'unità porta quindi con sé l'idea dell'infinità del Tutto e viceversa. Dell'infinito non potrebbero darsi parti se non infinite, il che, per Bruno, è assurdo. Le geniali intuizioni di Cantor verranno solo verso la fine del XIX secolo.

In ogni caso quella di Bruno è l'esposizione chiara e precisa della infinità «attuale» dell'universo. Non poteva certo Bruno formulare una teoria precisa sull'infinito matematico, in cui, come ha dimostrato Cantor, è possibile concepire diversi tipi di infiniti, e dominarli con sistemi insiemistici. In questo senso la sua posizione è precisa: «sotto la comprensione de l'infinito non è parte maggiore e parte minore; perché alla proporzione de l'infinito non si accosta più una parte quanto si voglia maggiore che un'altra quanto si voglia minore»[134]. Per Bruno l'infinito è uno e non ha parti. In ogni caso si deve mettere in rilievo come di fatto Bruno abbia seguito lo stesso ragionamento cantoriano secondo cui «l'infinito potenziale ha solo una realtà presa a prestito, dato che un concreto di infinito potenziale rimanda sempre a un concetto i infinito attuale che lo precede logicamente e ne garantisce l'esistenza»[135]. Il processo logico che ha portato alla affermazione dell'esistenza di un infinito attuale sembra identico. Come l'infinito potenziale rimanda ad una realtà precedente che ne fonda la possibilità (è quindi un infinito che vive per analogia), così l'universo, fondandosi su una realtà infinita attualmente, ed essendo analogo ad essa, non può che essere infinito. Da qui forse la consapevolezza di Bruno che infinità dell'Universo e infinità di Dio sono diverse. Era noto infatti il paradosso medioevale secondo il quale esistono in matematica due infiniti uguali ma differenti allo stesso tempo: si tratta di un famoso paradosso, che col tempo, a causa della curiosa soluzione che ne diede, venne chiamato «paradosso di Galileo».

Il paradosso di Galileo consiste nel fatto che «da un lato l'insieme dei quadrati perfetti è più piccolo dell'insieme dei numeri naturali, dato che non tutti i numeri naturali sono quadrati perfetti, dall'altro sembra che ci siano tanti quadrati perfetti quanti numeri naturali, dato che ogni numero naturale è la radice quadrata di un unico quadrato perfetto»[136]. Si tratta di un paradosso analogo ad un altro, assai famoso, del periodo medievale. Questo doveva aver fatto impazzire diversi monaci, e risultava di difficile soluzione: il paradosso è dato dal fatto che una circonferenza è composta da infiniti punti. Ma «poiché la circonferenza di un cerchio di raggio due è lunga il doppio di quella di raggio uno, la prima dovrebbe comprendere una infinità di punti più grande della seconda»[137]. Bruno doveva essere consapevole delle difficoltà in cui si erano imbattuti i medievali trattando l'infinito. E il passo che lo porta a sostenere l'infinità attuale dell'universo è senza dubbio quello dell'analogia: così come Dio è infinito, l'universo è infinito. Ma mentre per S.Tommaso in questo c'era contraddizione, perché Dio è cristianamente sentito come Assoluto, sciolto dal mondo creato, per Bruno invece, trattandosi di due realtà da intendersi secondo la sua teoria monistica, si trattava solo di eliminare le barriere del mondo, l'ultima sphaera mundi. L'eliminazione dei muri celesti è conseguita, è bene sottolinearlo, non con passaggi matematici o fisici, ma per «intuizione».

L'intuizione porta infatti all'analogia, mentre la scienza fisico-matematica serve solo per una conferma ulteriore. Siamo sempre all'interno della trattazione dell'infinito spaziale, quello dell'universo. Ma, chiaramente, la definizione dell'infinità dell'universo coinvolge anche l'infinito temporale, riallacciandosi alla teoria della metempsicosi. Così è confermata l'idea che il tempo si ripete ciclicamente, all'infinito e da sempre: la Verità stessa è data all'uomo mediante la rivelazione in tempi stabiliti, ciclici. Ovviamente, viene così sradicata alla base la dottrina della creazione dal nulla, propria del Cristianesimo.

L'infinitamente grande corrisponde all'infinitamente piccolo: Dio è la monade. La celebrazione dell'Uno porta la soluzione degli estremi, dei contrasti, in un solo essere: il principio vitale dell'universo. Notevoli analogie con questi passi si possono rilevare nel De monade, dove Bruno asserisce che «Uno è lo spazio, una la Grandezza, uno il Fondamento, con potenzialità e possibilità infinita, esso stesso infinito. [...] Una è la Mente, dovunque tutta, che misura tutte le cose, uno è l'intelletto che ordina tutto, uno è l'amore che tutto concilia con tutto. [...] Uno è l'infinito che tutto delimita. [...] Uno è l'universo infinito che tutto abbraccia [...]. Una è l'intenzione che dispone tutte le cose. Uno è il fine a cui tutte le cose aspirano ed uno è il mezzo con cui tutte le cose lo conseguono. Uno è il Motore che garantisce l'universale vicissitudine. Uno è l'Atto che ogni cosa compie, una è l'Anima che tutto vivifica. Uno è il Nome che ha in sé tutti i significati, una è la Ragione che media ogni cosa [...]. Uno è il Microcosmo, unico è il cuore da cui gli spiriti vitali si diffondono per tutto quanto l'animale, in cui è infisso e radicato l'albero universale della vita e ad esso gli stessi spiriti vitali rifluiscono per conservarsi»[138].

La teoria infinitista bruniana poggia quindi su di uno slancio mistico verso l'Unità divina, ed in esso trova il suo significato. Siamo evidentemente all'interno di una concezione «analogica», che non si preoccupa di definire né di approfondire le problematiche delle proprietà dell'infinito. L'infinità è, assieme alla assoluta unità, la prima caratteristica di Dio: è quindi impossibile cercare una qualsiasi definizione di proprietà in senso positivo. La teologia può solo essere negativa. Il campo d'indagine dell'infinito, a livello metafisico, esclude la conoscenza umana: l'infinito corrisponde, a livello metafisico, all'assoluto, e come tale è umbra. Le cose cambiano se si passa alla cosmologia, alla fisica. Certo, il mondo è sempre umbra, ma la sua infinità non corrisponde, lo abbiamo già visto, alla infinità di Dio. La infinità del mondo è quindi soggetta a regole comprensibili: qui entra in gioco il carattere pragmatico e conoscitivo della magia.

 

 

13. Infinito e antropologia: conoscenza, magia e ascesi per gradi.

 

L'omogeneità fisica e metafisica dell'universo infinito garantiscono ovviamente una immediata relazione dell'uomo con la Totalità, con l'Unum. Si tratta evidentemente di una relazione non conoscitiva, ma definibile in termini di partecipazione passiva. L'attività di tale partecipazione è condizionata alla conoscenza delle regole magiche di connessione delle cose: il controllo sui vincoli permette l'ascensus della scala mediante il superamento dei gradi gerarchici degli enti. Si tratta ovviamente di una gerarchia che riflette l'ordine impresso dall'Intelletto per garantire il corretto funzionamento della macchina del mondo: non si tratta mai di una gerarchia che è anche separazione dell'umano dal divino.

Come ha acutamente osservato Fulvio Papi: «La conoscenza magica si sostituisce alla rassicurazione che deriva dalla fede religiosa dell'essere creatura privilegiata di Dio»[139]. La dottrina magico-infinitista è evidentemente legata alla volontà di esaltare la dignità umana. Vivere in un mondo illimitato, infinito, non più centro dell'universo (e quindi luogo più lontano dalla bontà divina, posizione diabolocentrica, come l'ha definita Lovejoy), cambia radicalmente la posizione dell'uomo di fronte a Dio e di fronte a se stesso. La teoria infinitista è insomma strettamente legata al tema dell'ascesi dell'uomo, e quindi alla magia. Non a caso, nel De immenso Bruno, per definire l'uomo che si innalza all'infinito, cita esplicitamente Ermete Trismegisto «allora l'uomo da Trismegisto sarà definito un grande miracolo, l'uomo che si trasforma in dio, quasi che fosse egli stesso dio, che tenta di divenire tutto, come dio è tutto; si rivolge all'oggetto senza limite (che talvolta tuttavia necessita di un limite), come infinito è dio, immenso dovunque tutto»[140].

L'ascesi per gradi si realizza anzitutto mediante l'imitatio naturae. Questa è un'azione pratica e conoscitiva al tempo stesso, perché per imitare la natura occorre conoscere i vincoli che operano in essa e la scala naturae da essi costituita. La realizzazione più completa dell'imitatio si trova nella filosofia naturale, che per bruno corrisponde alla magia, alla sapienza antica. Nel De magia Bruno spiegava infatti che «mago va inteso in primo luogo come sapiente: tali erano i Trismegisti in Egitto, i Druidi presso i Galli, i Gimnosofisti in India, i Cabalisti presso gli Ebrei, i Maghi in Persia [...]»[141]. A livello metafisico l'infinito corrisponde all'Assoluto, a Dio. Come tale non è conoscibile. A livello mundano, cosmologico e fisico, l'infinito corrisponde all'estensione del mondo, alla sua infinita variazione di forme, alle sue leggi, al minimo e al massimo fisico (Monade e Unità Assoluta), e quindi al concetto di scala naturae. L'infinità del Mondo è umbra dell'infinità di Dio.

A livello gnoseologico l'idea dell'infinito è relata alla conoscenza dell'oggetto. Essendo l'oggetto infinito, la conoscenza naturale è infinita, ma è presente l'idea di una «illuminazione», frutto dell'ascesi. L'imitatio naturae è un progresso infinito, ma l'azione del mago prevede il raggiungimento dell'ascesi e quindi del contatto, anche se momentaneo con la divinità. Questo contatto conferisce al mago conoscenza e quindi straordinari poteri: si tratta dell'elevazione più completa della sua dignità. L'uomo-mago (che non è l'uomo qualunque) parla la lingua degli déi, l'antica lingua egizia. In questo modo sa usare simboli e numeri che corrispondono alle cose e agli esseri, è padrone del mondo. L'infinito coinvolge quindi anche la dimensione etica. Se dal macrocosmo ci spostiamo al microcosmo vediamo che con la predominanza del concetto di infinito cambia la posizione dell'uomo nel mondo dell'uomo verso il mondo. Il soggetto umano è lo specchio dell'universo, ricostruito mediante l'idea analoga della scala naturae.

Nella Lampas triginta statuarum si incontra infatti una «scala di Minerva» che organizza percezione, conoscenza e saggezza, secondo un preciso ordine che prevede alla sommità (trentesimo grado) la «Sapienza». La «Sofia» corrisponde alla unità, sostanziale, dell'universo: «ogni produzione, di qualsivoglia sorte che la sia, è una alterazione, rimanendo la sustanza sempre la medesima; perché non è che una, uno ente divino, immortale. Questo lo ha possuto intender Pitagora che non teme la morte, ma aspetta la mutazione. [...] Questo lo ha inteso Salomone che dice non esser cosa nova sotto il sole; ma quel che è, già fu prima. Avete dunque come tutte le cose sono ne l'universo, e l'universo è in tutte le cose; noi in quello, quello in noi: e cossì tutto concorre in perfetta unità. [...] Quelli filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovata questa unità. Medesima cosa a fatto è la Sofia, la verità, la unità»[142]. La filosofia è quindi contemplazione estatica del Tutto e della sua unità divina. La filosofia naturale diventa misticismo.

Si noti che il tema dell'unità con il divino è fondamentale anche nella discussione dell'ordinamento civile: questo deve essere costituito in base al rapporto con la divinità che si comunica direttamente all'uomo per mezzo della Natura. A questo proposito Alfonso Ingegno ha rilevato opportunamente che la saldatura tra momento propriamente civile e momento religioso si realizza «sul piano del culto. In effetti se l'antica religione conteneva anche un rapporto 'vero' [...], con il divino, non potrà non presentare questo rapporto secondo uno stretto parallelismo con ciò che Bruno ha affermato della vita civile e della sua dipendenza in maniera corretta dalla divinità. Quest'ultima, nella sua accezione suprema, non provvede all'uomo solo attraverso leggi e statuti ma partecipando se stessa alla natura, digradando ancora una volta dalla sua unità inaccessibile a forme che possano essere colte dall'uomo e volte non diversamente che nel caso della vita civile, alla sua utilità, pur determinando ancora una volta un livello religioso inveitabilmente imperfetto se posto in relazione con un culto dell'assoluto che ci è d'altra parte precluso nella sua purezza. Anche qui - quasi a sottolineare maggiormente il rilievo di questo parallelisnmo - ci viene ricordato cbhe la divinità in quanto è absoluta non ha a che fare con noi ma in quanto si partecipa, contraendosi alle varie parti della natura in forme e misure diverse, può essere onorata e volta ai suoi fini dall'uomo attraverso il culto magico. (La scala discendente attraverso cui essa si partecipa verrà ancora illustrata nella Cabala ma ormai solo per un fine satirico, per rappresentare l'ideale, puramente immaginaria scala metafisica da cui discende il sapere, anzi, il non sapere dell'asino.) Le pagine riservate alla religione egizia e in genere al paganesimo sono così destinate ad illustrare una superiorità metafisica nei confronti del cristianesimo che è andata smarrita e deve essere recuperata [...]»[143].

 

 

14. Analogie strutturali tra il De la causa e le opere magiche tarde (De vinculis in genere e De magia).

 

Ora che abbiamo delineato la struttura portante del De la Causa appare più chiara l'analogia con altre due opere fondamentali di Bruno, il De magia e il De vinculis in genere. Vedremo che queste due opere di carattere magico seguono in realtà l'impostazione filosofica dei primi anni. Nel De magia la tesi ricorrente è che l'uomo può influenzare la natura in virtù della sua animazione, del suo spirito onnipervadente. Come nel De la Causa si era individuata l'Unità del Mondo, e si era affermato che questa Unità è viva, e dotata di uno Spirito universale, intelligente, che informa la Natura, così nel De magia si ribadisce che «la natura, come dette alle specie l'essere [...], così v'impresse anche un certo spirito interno o senso, grazie al quale riconoscono e fuggono i più feroci nemici, come per un'iscrizione che li dichiari tali, e questo non lo constatiamo solo nelle specie degli esempi precedenti, ma anche in tutte quelle che sembrano morte o manchevoli, in cui è pur insito uno spirito che brama con tutte le forze di conservare la specie presente...»[144].

Nel De vinculis, confutando le posizioni aristoteliche, Bruno sosterrà: «coloro che filosofano più a fondo capiscono ciò che noi abbiamo chiarito altrove; come la materia contenga nel proprio seno l'avvio di tutte le forme, sicché da esso tutte le produce e le emette [...]. A chi dunque rifletta sul vincolo [...] deve esser chiaro come in tutta la materia o in una parte della materia, in ognoi individuo o nell'individuo singolo, vivono allo stato latente tutti i semi delle cose e di conseguenza, con accorto artificio, si possono attivare le applicazioni di tutti i vincoli»[145]. Ecco quindi come, proprio in virtù dell'unità e dell'animazione universale della materia (sostenuta nel De la Causa), il mago può operare sul Mondo: attraverso la conoscenza dei «vincoli».

Chi conosce il linguaggio segreto dei vincoli può ottenere tutto da tutto, avendo la materia in se stessa i semi per generare qualsiasi cosa. Il mago deve saper «vincolare», operazione possibile solo tramite l'apprensione della Totalità vivente, solo con la consapevolezza della ratio universi: «sa vincolare solo colui che penetra la ragione di tutto»[146]. C'è un vincolo supremo che regola l'attività degli altri: «in tutte le cose risiede una forza divina, l'amore, padre, fonte, Anfitrite dei vincoli». E subito di seguito anche questa concezione viene legata alla unità del Mondo, che si realizza concretamente nella «scala naturae», e alla perfezione dell'Universo Infinito: «E noi conseguiremo il livello più alto e primario della dottrina del vincolo quando volgeremo gli occhi all'ordine dell'universo: qui, per mezzo di questo vincolo, le cose superiori provvedono alle inferiori, le inferiori si volgono alle superiori, le parti si associano in mutuo vincolo, e si celebra infine la perfezione dell'universo in conformità alla ragione della sua forma»[147].

Ho sostenuto che la magia opera in virtù dell'animazione della materia e della «catena dell'essere», ossia del legame che unisce gli enti e gli esseri l'un l'altro, dal primo all'ultimo, dal più basso al più alto, da Dio alla materia: «i maghi hanno per assioma che in ogni opera bisogna tener d'occhio il fatto che Dio influisce sugli dei, gli dei sui corpi celesti o astri, gli astri sui demoni, che sono curatori e abitatori degli astri (uno dei quali è la terra), i demoni sugli elementi, gli elementi sui composti, i composti sui sensi, i sensi sull'animo, l'animo su tutto l'essere vivente: e questa è la discesa della scala. Ma ecco che l'essere vivente ascende ai sensi attraverso l'animo, ai composti attraverso i sensi, agli elementi attraverso i composti e attraverso questi ai demoni, attraverso i demoni agli astri, attraverso questi ultimi agli dei incorporei, o di sostanza e corporeità eterea, attraverso questi all'anima del mondo o spirito dell'universo, e infine attraverso questo alla contemplazione dell'unico, semplicissimo, massimo incorporeo, assoluto e sufficiente a se stesso. Così a partire da Dio c'è discesa all'essere vivente attraverso il mondo, e dall'essere vivente ascesa attraverso il mondo fino a Dio. Questi è la sommità della scala, puro atto e attiva potenza, luce purissima, mentre alla base della scala vi è la materia e le tenebre, pura potenza passiva, che può divenire tutte le cose dal basso, come quegli può fare tutte le cose dall'alto. Fra il gradino più basso ed il più alto vi sono poi specie intermedie, le superiori delle quali partecipano maggiormente della luce, dell'atto e della capacità attiva, mentre le inferiori più delle tenebre, della potenza e della capacità passiva».[148]

Nel De magia Bruno sosteneva che «qualunque mago voglia compiere opere simili alla natura deve conoscere soprattutto il principio ideale, specifico della specie, numerale per il numero o individuale per l'individuo. Di qui discende la fabbricazione delle immagini e la porzione di materia formata in un certo modo e, non senza causa evidente, rafforzando la capacità e il sapere del mago, molti praticano fatture e guarigioni attraverso alcune figure collegate con parti determinate, in particolare con quelle che hanno qualche comunicazione o partecipazione con l'oggetto della stregoneria o della cura, cosicché l'opera si concentra e delimita ad un individuo determinato. Dall'esperienza di tutto ciò [...] diventa evidente che ogni anima e ogni spirito ha una certa continuità con lo spirito dell'universo, sicché si può comprendere che lo spirito non solo è e sta incluso dove sente e produce la vita, ma è diffuso anche nell'immensità, per sua essenza e sostanza, come supposero molti platonici e pitagorici»[149].

L'idea della Unità della Natura vivente è quindi alla base della concezione magica bruniana. Come notava Fulvio Papi «questa concezione è tutt'altro che originale: Marcel Mauss nella sua Teoria generale della magia quando prende in considerazione l'orizzonte mentale degli alchimisti afferma che in esso ritorna sempre l'idea che "il mondo è un organismo unico, le cui parti, per quanto distanti, sono legate tra loro in modo necessario. In esso tutto si somiglia e tutto si tocca. Questa specie di panteismo magico dovrebbe dare la sintesi delle diverse leggi". Se noi consideriamo opere bruniane come le Theses de Magia, il De Magia e il De Vinculis in genere è proprio questa la concezione cui si può ricondurre l'analisi dei diversi fenomeni naturali. Quando ad esempio Bruno sostiene che ogni anima è in tutto l'orizzonte della vita naturale e da tutto l'orizzonte subisce un influsso e partecipa il proprio agli altri esseri viventi, ed in questa relazione consiste il presupposto dell'azione magica, non è difficile far rientrare la sua concezione nel macro-modello magico proposto da Mauss»[150].

Marcel Mauss ha inoltre notato che «Gli alchimisti hanno un principio generale che ad essi sembra la formula perfetta delle loro riflessioni teoriche e che amano anteporre alle loro ricette: "Uno è il tutto e il tutto è in uno"», e mostra poi un esempio concreto: «Ecco [...] preso a caso, uno dei passaggi in cui il principio si esprime nel modo più felice: "Uno è il tutto ed è da lui che il tutto si è formato. Uno è il tutto e se tutto non contenesse il tutto, il tutto non si formerebbe" [...]. Questo tutto che è in tutto, è il mondo. Ora, qualche volta ci si dice, il mondo è concepito come un animale unico le cui parti, quale che sia la loro distanza, sono legate tra loro in maniera necessaria. All'interno di esso tutto si somiglia e tutto si tocca»[151]. Credo che proprio questa specie di panteismo, caratteristico del pensiero magico di tutti i tempi, sia servito da base concettuale per la formulazione della teoria infinitista, di cui, peraltro, conteneva esso stesso i germi.

 

 

15. Una parentesi.

 

Il percorso fin qui proposto era mirato non tanto a mettere in evidenza una continuità cronologica del concetto di infinito nelle prime opere di Bruno, che pure esiste e meriterebbe un'analisi psicologica approfondita, quanto piuttosto a far emergere quel continuum ideologico che dall'originaria accettazione delle tesi ermetiche porta all'affermazione metafisica dell'unità universale della vita-materia infinita, ed alla eliminazione, a livello cosmologico, dell'ultima sphaera mundi. Per questo avevo premesso una breve analisi del quadro epistemologico entro cui si muove Bruno. A proposito ho sostenuto che un'opera come Il De umbris idearum si proponeva appunto di rispondere a queste domande: come e che cosa possiamo conoscere. La risposta di Bruno corrispondeva in realtà alla presentazione di una mnemotecnica magica, unico organo adatto alla conoscenza perchè in grado di decifrare i messaggi divini contenuti nell'ordine della natura.

Ma nel De umbris avevo individuato anche i primi abbozzi della futura metafisica bruniana, che fonda appunto la struttura della natura e ne garantisce l'unità sostanziale. Per questo ero subito passato all'analisi del dialogo metafisico per eccellenza: il De la Causa, Principio et Uno. Risultate evidenti le analogie strutturali con le opere magiche tarde (qui abbiamo considerato solo il De magia e il De vinculis in genere), avevo sostenuto che anche la metafisica bruniana è fortemente intrisa di elementi magico-ermetici. Era quindi emerso un nuovo carattere della comprensione bruniana dell'infinito: il profondo misticismo magico.

Proprio in questo particolare tipo di misticismo, intriso di caratteri ermetici, ho cercato di individuare la genesi della teoria infinitista di Bruno. Avevo anche sostenuto, e in questo non sono stato ovviamente il solo, che in Bruno metafisica e cosmologia sono strettamente collegate, se non addirittura coincidono. Questa affermazione trova i suoi immediati riscontri se ci si sposta dal piano metafisico a quello cosmologico, e cioé se si passa ad analizzare la concezione dell'universo vivo ed animato nonché, ovviamente, infinito. In questo senso risulta necessaria la considerazione delle altre opere contemporanee al De la Causa. Lo scopo di questo capitolo è appunto l'analisi del concetto di infinito nella Cena delle Ceneri e nel De l'Infinito, universo et Mondi, opere, come il De la Causa, scritte e pubblicate in Inghilterra nel 1584.

Le tesi sostenute nella Cena e nel De infinito sono ovviamente del tutto coerenti con gli sviluppi dell'esperienza inglese, di cui il De la Causa rappresenta il vertice metafisico. A Londra, nel 1584, Bruno scrive e fa pubblicare i dialoghi italiani La cena delle ceneri, il De la Causa, Principio et uno, il De l'infinito, universo et Mondi e lo Spaccio de la bestia trionfante. In parte questi seguono l'impronta metafisica e gnoseologica del De umbris idearum (pubblicato a Parigi due anni prima), ma certamente il lettore dei dialoghi inglesi vede moltiplicarsi e perfezionarsi in modo originale molte delle tesi iniziali della nolana filosofia, soprattutto a livello cosmologico. In realtà il De infinito, il testo della cosmologia compiuta, segue e sviluppa le premesse del De la Causa e ancor prima i motivi copernicani della Cena, e perciò su di questa sarà necessario soffermarsi.

Nella Cena de le Ceneri, il primo dei dialoghi italiani pubblicati in Inghilterra, vengono imponendosi gli sviluppi fondamentali della cosmologia bruniana. Si tratta di temi che saranno approfonditi nel De infinito e portati a compimento con la replica del De Immenso, l'ultimo dei poemi francofortesi. Certo, come osserva anche Ciliberto «la Cena è altrettanto importante per lo sforzo teorico che Bruno vi compie sul terreno delicatissimo del rapporto tra religione e filosofia, Sacra Scrittura e filosofia nolana»[152]. Ma in questa sede sarà necessario rimanere nei limiti di una lettura cosmologica.

 



CAPITOLO IV

 

LA CENA DE LE CENERI

 

 

«Smitho. Parlavan ben latino?

Teofilo. Sì.

Smitho. Galantuomini?

Teofilo. Sì.

Smitho. Di buona reputazione?

Teofilo. Sì.

Smitho. Dotti?

Teofilo. Troppo mediocremente.

Smitho. Dottori?

Teofilo. Messer sì, padre sì, madonna sì, madesì, credo da Oxonia.

Smitho. Qualificati?

Teofilo. Come non? uomini da scelta, di robba lunga, vestiti di velluto; un de' quali avea due catene d'oro lucente al collo, e l'altro, per Dio, con quella preziosa mano, che contenea dodeci anella in due dita, sembrava uno ricchissimo gioielliero, che ti cavava gli occhi ed il core, quando la vagheggiava.

Smitho. Mostravano saper di greco?

Teofilo. E di birra eziandio.

Prudenzio. Togli via quell'eziandio, poscia è una obsoleta ed antiquata dictione.

Frulla. Tacete, maestro, ché non parla con voi.

Smitho. Come eran fatti?

Teofilo. L'uno parea il connestabile della gigantessa e l'orco, l'altro l'amostante della dea de la riputazione.

Smitho. Sì che eran doi?

Teofilo. Sì per esser questo un numero misterioso.

Prudenzio. Ut essent duo testes?

Frulla. Che intendete per quel testes?

Prudenzio. Testimoni, essaminatori della nolana sufficienza. At, me hercle, perché avete detto, Teofilo, che il numero binario è misterioso?

Teofilo. Perché due sono le prime coordinazioni, come dice Pitagora, finito ed infinito, curvo e retto, destro e sinistro, e va discorrendo. Due sono le spezie di numeri pare ed impare, de' quali l'una è maschio, l'altra è femina. Doi sono gli Cupidi, superiore e divino, inferiore e volgare. Doi sono gli atti della vita, cognizione ed affetto. Doi sono gli oggetti di quelli, il vero e il bene. Due sono le specie di moti: retto, con il quale i corpi tendeno alla conservazione, e circulare, col quale si conservano. Doi son gli principi essenziali de le cose, la materia e la forma. Due le specifiche differenze della sustanza: raro e denso, semplice e misto. Doi primi contrarii ed attivi principii, il caldo e il freddo. Doi primi parenti de le cose naturali, il sole e la terra»[153].

 

 

1. Il due, l'ombra e il limite.

 

Prima di assistere come spettatori silenziosi al teatro della Cena, è necessario fermarsi un attimo proprio sulle prime battute, a mio parere importantissime. Paradossalmente, lo spunto più interessante di tutto il dialogo, viene lasciato lì, distrattamente, proprio all'inizio, quasi per caso. Per tutta la Cena, la tematica ermetica del magico numero due non sarà più ripresa, almeno esplicitamente. Anzi, Bruno si guarderà bene dall'esporre chiaramente la sua metafisica magica, e quando parlerà dei fantastici mondi-animali che popolano l'universo infinito, lo farà solo «per modo di passaggio»[154], attento a non portare il discorso su di un terreno assai particolare, ed essendo in terra straniera, forse anche pericoloso. L'insidia velenosa, nascosta in queste prime battute ingannevolmente distratte, corrisponde naturalmente al problema del limite e della gerarchia. Questo era già emerso prepotentemente nel De umbris, dove, passando abilmente dalla gnoseologia alla metafisica, Bruno aveva introdotto con malizia il concetto fondamentale di «ombra metafisica». In realtà credo che il De umbris sia stato anzitutto un grande testo di filosofia dell'inconscio: in questa sede però è necessario attingere specialmente alla tematica umbratile del testo magico-mnemotecnico. Proprio nella posizione epistemologica che esso esprime sta la particolarità e l'attualità della nolana filosofia. Nel De umbris il concetto di umbra sembrava corrispondere perfettamente sia alla situazione conoscitiva che a quella psicologica: si adattava quindi perfettamente sia all'oggetto che al soggetto. Dalla gnoseologia nolana si capisce che l'umbra ha a che fare con il limite, e quindi immediatamente con la teoria dell'infinito. Ma su questo punto è necessario fermarsi un attimo, ritornando alla Cena e alla discussione del numero binario.

 

 

2. Il misterioso numero binario.

 

Che cosa significa «per esser questo [il due] un numero misterioso»? Risposta: il due è la conditio sine qua non. E' possibile sostenere che occulto, dietro il «misterioso numero binario», sta tutto il vero significato della filosofia nolana. Cerco di precisare meglio i termini del discorso. Bruno aveva ben presente il modo di presentarsi della vita, dell'esistente. Aveva ben inteso che tutto è due, che generalmente umana è l'esperienza della bipolarità, del contrasto. L'uomo può pensare solo se c'è una destra e una sinistra (proprio a partire dalla costituzione, funzione e disposizione degli emisferi cerebrali), se c'è un alto e un basso, la notte e il giorno, la vita e la morte, il vero e il falso, il giusto e l'ingiusto, il bene e il male, e così via. L'Essere, in quanto coincidentia oppositorum, sembra allora quasi essere relegato all'area dell'astrazione, del pensiero: la realtà, ciò che è dato, è invece per sua natura di essenza binaria. Il modo stesso di sperimentare la realtà che noi ci troviamo ad adottare per natura risponde all'esigenza di mettere odine nel disordine (apparente, direbbe Bruno), di distinguere e di separare. Questo non sarebbe possibile senza l'essenza binaria delle cose. Questo non sarebbe possibile senza la luce e il buio. Ma si noti: il buio e la luce sono in realtà degli estremi assoluti (mai raggiungibili pienamente). L'esistenza si svolge invece per intero nella dimensione umbratile.

Metaforicamente: sia nella luce totale, sia nel buio, non è possibile vedere. L'ombra è quindi conditio sine qua non, un medium indispensabile sia all'essere sia al conoscere. Il problema, all'interno della teoria infinitista, non è più allora quello di dimostrare l'infinito, ma casomai di qualificarlo, conoscerlo. Al limite, di raggiungerlo. L'infinito, nella teoria della realtà binaria, rappresenta la naturale corrispondenza del finito, del misurabile. Se si assume qusto particolare punto di vista non ha allora più senso chiedere di di-mostrare l'infinito: l'infinito è necessario per definire il finito, e viceversa. A livello ontologico l'esistenza dell'uno garantisce la presenza dell'altro. Il problema è allora la determinazione della forma, della conoscibilità e delle possibilità di unione con questo infinito divino. Più a fondo: se ci si sposta sul piano ontologico, il problema passa dal piano dell'essere a quello del non-essere. Come introdurre il concetto di non-essere all'interno del quadro teoretico infinitista? Sappiamo che per Bruno tutto ciò che esiste ha una forma, occupa uno spazio, non importa se materiale o spirituale. Persino l'infinito ha una sua forma precisa, che corrisponde all'individuo. E il non-essere? Rappresenta forse il limite dell'infinito? Niente affatto: in Bruno il non-essere è semplicemente ridotto al non-essere-più o, meglio, al non-essere-ancora. E, ovviamente, si tratta di una situazione che riguarda solo il singolo, mentre è assolutamente estranea al Tutto, che è in se stesso perfettamente immobile e completo (perché è - simultaneamente - tutto quello che può essere).

Il problema del non-essere viene quindi risolto all'interno della teoria del divenire, della vita-materia infinita, della vicissitudine universale. Il motto parmenideo che doveva suonare più o meno così: «l'essere è, il non essere non è», doveva risultare (insolitamente) come del tutto adatto per inserisri nella filosofia dell'infinito. E il tema originale della filosofia parmenidea, il contrasto tra la verità e l'apparenza, doveva essere assolutamente accettato da Bruno. La Cena è infatti tutta imperniata proprio sulla distruzione del senso comune, basato sull'apparenza.

 

 

3. L'umbra.

 

Emerge da questa prospettiva una nuova determinazione del ruolo dell'umbra, all'interno del quadro speculativo del Nolano. L'umbra è esattamente il luogo del movimento, del divenire, della conoscenza, uno verbo: dell'esistenza. Metaforicamente: il passaggio non è mai dalla luce alle tenebre, ma da una specifica gradazione d'ombra ad un'altra. Nell'umbra ci muoviamo, pensiamo, esistiamo noi e tutto il reale che ci circonda, di cui facciamo inspiegabilmente parte: umbra profunda sumus. Si noti: se da una parte l'umbra rappresenta il limite invalicabile (perché nasconde e ad un tempo disvela la luce della Verità, che in quanto tale risulterebbe accecante), dall'altra l'umbra è mobile. Di nuovo metaforicamente: «L'ombra segue contemporaneamente il moto del corpo e della luce. Il corpo si muove? L'ombra si muove. La luce si muove? L'ombra si muove. Si muovono l'una e l'altra? L'ombra si muove [...]. Non ti sfugga infine la somiglianza delle ombre con le idee»[155]. L'idea del limite viene per così dire disciolta in quella del movimento: il limite esiste, ma si tratta ora di un limite mobile, sempre e per sempre infrangibile in se stesso, ma allo stesso tempo frangibile nella sua contingenza. Il discorso vale ovviamente a tutti i livelli: dalla cosmologia all'etica.

Questa è del resto l'unica direzione che poteva prendere una filosofia che ha scelto la scorciatoia dell'infinito. Ad un tempo un genere di pensiero di questo tipo risolve molti paradossi legati ad una sterile e compromettente prospettiva finitista, e ammette senza mezzi termini la condizione umbratile dell'esistenza e della conoscenza umana. Ma si noti: questa confessione non è per Bruno l'ultima tappa, ma solo il punto di partenza, l'inizio dell'avventura. Ammettere l'umbratilità dell'Essere significa non concedere tregua all'ignoranza. Di nuovo un salto di livello: dal gnoseologico siamo passati al metafisico e dal metafisico all'etico. L'etica degli Eroici furori si basa appunto su questa nuova intepretazione del limite e delle reali capacità umane di oltrepassarlo. Eroico furore è appunto l'atteggiamento di fronte a quest'ombra conoscitiva che sempre si sposta, sempre si rischiara, ma in qualche modo sempre vela e nasconde la Verità, che come tale, nella sua interezza, è inaccessibile all'uomo (comune). Pensare come pensa Bruno significa allora da una parte ammettere pacificamente una sostanziale inconcludenza conoscitiva, dall'altra aggrapparsi alle ombre delle idee con eroico furore, a caccia di nuovi limiti da infrangere. La forma dell'individuo, cui prima avevamo accennato si attua appunto in questo percorso infinito, in questa ricerca amorosa senza termine.

 

 

4. Come è possibile spiegare l'umbratilità epistemologica della ideologia ermetica mediante il linguaggio logico-matematico.

 

Nel 1930 Gödel dimostrò uno strano teorema: la matematica è una storia senza fine[156]. Non può esistere una formulazione definitiva e comprensiva di tutta la matematica: comunque si proponga una sistemazione assiomatica della matematica, si potrà sempre trovare qualche semplice problema che sfuggirà a tale sistemazione. Questo è il significato profondo del teorema di incompletezza di Gödel: l'uomo non verrà mai a conoscenza del segreto finale dell'universo.

Ovviamente tutti possono dire che la scienza non può fornire tute le risposte, ma ciò che rende così importante il lavoro di Gödel è che egli riuscì a dimostrarlo, formulando la sua dimostrazione nel linguaggio estremamente preciso della logica matematica. Gödel dimostrò che una macchina della verità universale non può esistere, e non può esistere nemmeno un insieme completo di assiomi per la verità matematica. Ogni sistema di conoscenza del mondo è, e resterà, fondamentalmente incompleto, sempre suscettibile di miglioramento. L'universo rifiuta di essere catturato da una rete finita di assiomi. La realtà è essenzialmente infinita al suo livello più profondo. Con questa teoria si dimostra quindi che nessuna teoria finitamente descrivibile può codificare tutte le verità matematiche. Vale a dire che l'insieme di tutte le proposizioni vere riguardanti la matematica è finitamente innominabile e quindi è nella sua sostanza infinito[157]. Ovviamente, l'idea del progresso non viene affatto negata: casomai essa deve adattarsi alla struttura metafisica della realtà. Se la realtà è al suo livello più profondo, allora la conoscenza del reale non può che richiedere un tempo infinito.

 

 

5. Alcune conseguenze della filosofia binaria.

 

Il misterioso numero binario doveva certo essere particolarmente caro alla fantasia del Nolano, visto che entra a far parte anche della teoria infinitista. A livello metafisico avevamo assistito nel De la Causa alla equiparazione delle due fondamentali componenti dell'essere: materia e forma. Bruno aveva affermato che anche in Dio c'è la materia, e che la sua forma corrisponde all'Universo. Entrambi, sia Dio che l'Universo sono infiniti. Rimane il problema, puramente concettuale della loro distinzione. La soluzione di questo problema viene presentata nei termini di una nuova qualificazione dell'infinito: esiste l'infinito attuale del Tutto (Dio) e della parte (singola porzione dell'Universo). Gli infiniti, quindi, sono ancora una volta, due. La doppiezza, credo sia questo il messaggio nascosto di Bruno, va attribuita anche alla natura stessa dell'infinito.

Dalla tematica dell'umbra ci si è quindi spostati alla dualità (della quale l'umbra è medium). Il circolo si chiude ricordando la cusaniana coincidentia oppositorum, che Bruno sembra accettare con gioia, se pur trasfigurata. La filosofia dell'Unum sembra esigere il passaggio nella dualità. L'Unum è tale proprio nei confronti della natura binaria del reale. Ma l'Unum in questo modo diventa un'idea alquanto astratta. In fondo, Dio e Universo sono un'unica cosa solo nel loro porsi come realtà. Al livello del pensiero, essi rimangono separati.

 

 

6. Il tema della Cena: la discussione delle tesi copernicane.

 

Passiamo ora all'analisi della Cena. Il 7 febbraio 1584 Bruno viene invitato a cena dal nobile inglese Fulke Greville per prendere parte ad un dibattito con due dottori oxoniensi intorno ai temi filosofici ed astronomici del copernicanesimo. Ovviamente il racconto di Bruno, che vuole essere un vero e proprio resoconto dei temi trattati durante la cena, è del tutto unilaterale, ma questo credo francamente sia poco importante. Quel che è notevole è invece l'atteggiamento, chiaro fin dall'inizio, che il Nolano ha avuto nei confronti delle tesi copernicane:

«Smitho. Di grazia, fatemi intendere, che opinione avete di Copernico?

Teofilo. Lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo e tutti gli altri, ch'han caminato appo i vestigi di questi. Al che è dovenuto per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio di cecità. Ma però non se n'è molto allontanato; perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii, onde perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficultà e venisse a liberare e sé ed altri da tante vane inquisizioni e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe»[158].

Fin dall'inizio, la discussione delle tesi copernicane nell'ottica della nolana filosofia presenta dunque delle difficoltà. Copernico, per Bruno, ha avuto una buona intuizione, ma in qualche modo è rimasto seriamente legato ad una erronea visione filosofica del mondo. Quella del copernicanesimo è insomma una rivoluzione difettosa di un elemento fondamentale, quello filosofico. Alla formula astronomica manca la relativa interpretazione filosofica del mondo. Subito dopo Bruno precisa infatti che la teoria copernicana è soltanto simile ad una aurora «che doveva precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza».

Evidenti sono le analogie con i temi ermetici, già individuati e considerati come fondamentali per la comprensione della filosofia bruniana e quindi anche del suo nucleo infinitista. Come Ermete aveva previsto, con Copernico si comincia ad uscire dalle «ignoranze» e dai «travagli». Come ha acutamente sostenuto la Yates «Il sole copernicano annuncia il risorgere vittorioso dell'antica e verace filosofia dopo il lungo periodo in cui era rimasta sepolta nelle tenebre. Bruno ha qui in mente quell'immagine della veritas filia temporis, del tempo che fa emergere alla luce la verità»[159] secondo tempi prestabiliti e per mezzo di «Mercurii e Apollini».

L'immagine è la stessa del De umbris (dove Bruno aveva sostenuto che la «provvidenza degli dei é (lo dissero i sacerdoti egiziani) non smette di mandare agli uomini alcuni Mercurii in certi tempi stabiliti»[160]. Ma anche se la Yates insiste diffusamente e con una certa insistenza sugli elementi ermetici presenti nella Cena de le ceneri[161], personalmente ritengo invece che in un testo come questo debba essere messo in primo piano soprattutto il ragionamento cosmologico.

 

 


7. Il tono divulgativo del dialogo.

 

Certo, il sole di cui parla Bruno è un sole religioso, divino. La stessa ragione del movimento terrestre, espressa nella Cena, è di natura filosofico-religiosa, non matematica. Dice il vero la Yates quando sostiene che Bruno saluta entusiasticamente il movimento terrestre «non al livello inferiore del ragionamento matematico»[162], ma nei termini di una rivalutazione della dignità della materia terrestre, sempre nell'ottica della vita infinita e dei corpi che non si dissolvono, come precisavano le dottrine ermetiche[163]. Ma nella Cena comincia già una presa di posizione precisa, su un terreno teologico-filosofico e non più solo mistico-religioso. Bruno (e lo dimostrano il tipo di dialogo, i personaggi e i molti disegni tecnici che accompagnano la giustificazione e l'interpretazione delle tesi copernicane) vuole farsi capire, e sa che il metodo non può essere quello dell'illuminazione (valido per il filosofo maturo), ma piuttosto quello della comunicazione filosofica. A questo servono in fondo la matematica e la geometria. Certo, la sua cosmologia è comprensibile solo in relazione alle premesse metafisiche del De umbris e alle conclusioni del De la Causa, ma nella Cena credo che il livello di ragionamento sia squisitamente «divulgativo». Bruno vuole anzitutto farsi capire dai dottori oxionensi, instaurare con loro un dialogo.

Teofilo-Bruno sostiene appunto che le tesi copernicane sono «come una aurora che doveva precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza». Quello di Bruno era un vero e proprio programma di riforma, da portare avanti su tutti i livelli: dalla cosmologia, all'etica, alla religione. La prima cosa da fare era ovviamente creare dei canali di comunicazione con le autorità intellettuali del tempo. Credo che in quest'ottica vada letto sia l'approdo in Inghilterra che le dispute filosofiche tenute con i dottori di Oxford (e le conseguenti «rotture»).

 

 

8. Il valore filosofico della teoria copernicana.

 

Il De revolutionibus orbium coelestium era stato pubblicato nel 1543, e Bruno ne aveva assimilato profondamente il significato cosmologico, filosofico e teologico. Lo stesso aveva fatto il teologo Andrea Osiander, e a questi Bruno aveva dato dell'«asino ignorante e presuntuoso», perché nella anonima premessa la De revolutionibus aveva inteso limitare a pura ipotesi matematica l'intuizione copernicana, «quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper computare e misurare e prospetivare non è altro che un passatempo da pazzi ingegnosi». Nonostante la difesa della validità oggettiva delle tesi copernicane, Bruno espone chiaramente anche le sue riserve. Come avevo anticipato, il rapporto tra Bruno e Copernico è tutt'altro che risolvibile nell'idea di un'accettazione entusiasta delle «novità» copernicane da parte del Nolano. In realtà, a parte l'utilizzo e l'inglobamento del copernicanesimo nella nolana filosofia, penso che la critica abbia troppo insistito sugli entusiasmi di Bruno per le "nuove" teorie ed abbia lasciato troppo in ombra le pesanti critiche, rivolte all'astronomo polacco soprattutto sul piano strettamente filosofico. Queste critiche riguardano anzitutto la questione del metodo.

Copernico è rimasto in un orizzonte essenzialmente matematico: è rimasto astronomo, non è diventato filosofo. Quando Bruno dice «più studioso de la matematica che de la natura» intende ovviamente mettere in evidenza i limiti dell'orizzonte matematico, entro cui questi ha continuato a muoversi, senza mai uscirne, ma anche ribadire una convinzione epistemologica di fondo. Questa era già stata delineata nel De umbris, dove Bruno aveva esposto la sua «metafisica della luce». Il punto centrale del De umbris era appunto l'idea di conoscenza umbratile, di cui abbiamo già chiarito il significato. Credo che l'idea della conoscenza umbratile neghi alla base le pretese conoscitive delle scienze esatte e quindi della matematica, della geometria, e della stessa astronomia[164]. Il concetto di umbratilità informa sia la struttura della materia sia la situazione gnoseologica umana. L'unica conoscenza certa cui l'uomo può aspirare è quella che si ottiene tramite l'ascensus mistico, per mezzo della scala naturae. A questo serve del resto la «filosofia naturale». Ma i metodi naturali, come ho già sottolineato, sono in realtà metodi magici: sono le tecniche segrete di un filosofo che ha fatto della mistica e della magia uno strumento conoscitivo. Fra le righe dei testi magici e mnemotecnici è possibile leggere una profonda convinzione di Bruno, forse riservata agli adepti più stretti: solo la magia ricompone la scissione tra Essere, pensiero e parola. A questo proposito abbiamo già parlato della funzione del linguaggio e della praxis ad esso connessa. A questo proposito occorre ricordare anche la forte relazione con il tema dell'alterità, che coinvolge sia la discussione delle tesi infinitistiche che l'interpretazione della praxis magica.

 

 

9. La natura esplicativa dell’arte matematica.

 

In questo contesto la matematica appare ridotta a semplice espediente divulgativo-artistico, a strumento per così dire di propaganda: un semplice metodo esplicativo. La matematica non può offrire certezze naturali, ma solo corrispondenze geometriche e razionali di un ordine metafisico, conoscibile solo grazie all'ascesi per gradi e non tramite il calcolo o addirittura l'esperimento[165]. In questo senso la distanza tra un filosofo mistico come Giordano Bruno ed un matematico come Isaac Newton è la stessa di quella che separa il mito e la magia dalla scienza sperimentale. La Cena, che è straordinariamente ricca di esempi geometrici e fisici, vede appunto questo utilizzo strumentale, ancillare, della geometria e della matematica: esse servono per supportare una tesi puramente intellettuale, filosofica, valida al di là e prima di qualsiasi argomentazione scientifica. L'esperimento, alla luce di questa filosofia non è né utile né concepibile. Sono certo che se avesse potuto, Bruno avrebbe mantenuto il discorso entro i limiti teologici e metafisici, sul suo terreno. Ma ad Oxford il Nolano aveva a che fare con «pedanti» aristotelici e tolemaici: c'era poco da fare, occorreva abbassarsi alla disputa strettamente fisica e cosmologica.

Bruno aveva ovviamente ben capito che le tesi copernicane in se stesse non portavano a nessuna rivoluzione, se si esclude un cambiamento della concezione antropologica. L'universo di Copernico, come ha ben chiarito Alexander Koyré, «rispetto all'infinito, non è affatto più grande di quello dell'astronomia medievale: ma entrambi sono un nulla, poiché inter finitum et infinitum non est proportio. Non ci si approssima all'universo infinito aumentando le dimensioni del nostro mondo: possiamo ampliare quest'ultimo quanto vogliamo, ciò non ci porta affatto più vicini a quello»[166]. L'universo di Copernico insomma è ancora finito, limitato dalla ultima sphaera mundi, che contiene se stessa e tutto il resto (se ipsam et omnia continens). Copernico ha continuato a credere che i corpi celesti si muovano seguendo moti uniformi e regolari, portati da sfere concentriche solide, mentre invece Bruno già nel Sigillus Sigillorum, aveva sostenuto che essi si muovono quodam intimo incitamento, alla ricerca dei luoghi ad essi convenienti.

In realtà si può pensare che Copernico non cercasse altro che una teoria matematica per spiegare il funzionamento dell'universo che fosse solo più semplice e quindi formalmente elegante delle precedenti. Nel X capitolo del I° libro, afferma infatti chiaramente che l'argomento decisivo per la verità dell'eliocentrismo è quello della maggior razionalità, del maggior ordine, della maggiore armonia che esso propone. L'universo in tal modo risulta retto da una perfetta legge divina, esprimibile matematicamente. In questa sua argomentazione, si fa largo l'esigenza platonico-pitagorica. Infatti la circolarità perfetta del movimento planetario, la sfericità perfetta dei corpi celesti, costituiscono tutti elementi a favore della divinità dell'universo. Dio non poteva esprimersi in una legge universale che non avesse queste caratteristiche di perfezione.

Il problema è che questa legge divina è una legge matematica, e mentre Bruno, come è già stato notato, ha una concezione magica della matematica e delle leggi naturali, Copernico sembra invece dirigersi verso una concezione moderna della scienza. Qui sta il limite del polacco: si è basato sui calcoli matematici e per di più non ha compreso neppure le implicazioni profonde delle sue intuizioni. Per Bruno infatti, se la legge che regola l'universo è espressione della perfezione (ed infinità) divina, se l'universo stesso è divino, allora non è possibile rimanere all'interno di una concezione finitista. L'universo non può che essere infinito: si tratta di pura necessità. Quello che più infastidiva il Nolano era il fatto che Copernico, avendo intuito la divinità dell'universo (pur se da un altro punto di vista, diremmo noi), non avesse avuto il coraggio o il convincimento di procedere verso una infinitizzazione di questo, del tutto coerente con le sue stesse premesse. E invece l'astronomo polacco sembrava propendere ancora verso una concezione finitista: la sfera delle stelle fisse, l'ultima sphaera mundi, continuava ad essere il limite dell'universo, anche se di proporzioni molto maggiori rispetto alle precedenti.

 

 

10. Thomas Digges.

 

Il primo ad interpretare le teorie copernicane in senso infinitistico fu l'inglese Thomas Digges, autore di una Perfit Description of the Caelestial Orbes (Perfetta descrizione delle sfere celesti, Londra, 1576). Per Digges il cielo delle stelle fisse, essendo immobile, era anche infinito e questo cielo era sede della azione di Dio. Cielo astronomico e cielo teologico si confondevano. Questo risulta evidente a partire dalla sostituzione del noto diagramma copernicano con uno nuovo, nel quale le stelle sono disposte sull'intera pagina, sia sopra che sotto la linea con la quale Copernico rappresenta l'ultima sphaera mundi. Giustamente Koyrè aveva scritto: «E' dunque chiaro che Tomas Digges colloca le sue stelle in un firmamento teologico, non in un cielo astronomico»[167]. In tutti i casi, avesse Digges voluto lasciar intendere o no una identità strutturale tra cielo teologico e cielo astronomico, un grande passo in avanti verso la infinitizzazione del cosmo era stato compiuto. L'ultimo, decisivo passo sarà ad opera di Bruno, come ha rilevato lo stesso Koyré[168].

 

 

11. L'antiqua, vera filosofia.

 

A questo proposito penso che sia rilevante il fatto che Bruno, nel presentare apertamente uno spazio infinito, infinito effetto di una infinita causa, non si sia affatto proposto come inventore di una nuova teoria, ma piuttosto come profeta di una verità antica, già rivelata all'uomo, e per di più già difesa apertamente da illustri pensatori dell'antichità. Questo elemento si ricollega alla posizione epistemologica ed etica di Bruno, già delineata nel De umbris e successivamente specificata in una costante polemica col sapere pedantesco e sofistico dell'aristotelismo medievale e moderno. Concordiamo quindi con il suggerimento di Nicola Badaloni: «questo concetto di antichità risorgente, dopo il dominio dei 'sofisti', è tutt'altro che esclusivo; è infatti accompagnato dall'apprezzamento per Plotino, per la teologia negativa, per Lullo, per Cusano, ecc. Esso è tuttavia il fondamentale riferimento storico dell'antiaristotelismo bruniano (anche in relazione allo spazio-materia) ed è forse giusto, dopo i recenti studi di P.R. Blum sul rapporto di Bruno con Aristotele[169], prendere in attento esame anche la riflessione del Nolano sugli 'antichi'»[170]. Ovviamente dobbiamo sottolineare che per Bruno gli antichi sapienti sono solo coloro che in qualche modo si sono avvicinati alle tesi ermetiche, o ne sono stati direttamente illuminati.

I dibattiti intorno a Copernico sviluppatisi in Inghilterra col Digges intorno al 1580 influenzarono certamente il pensiero di Bruno. Personalmente, credo però che il Nolano sia approdato in terra inglese con idee del tutto francesi, maturate a partire dal Sigillus. Queste idee erano uno svolgimento coerente sul piano cosmologico di ciò che già la metafisica del De umbris aveva cominciato a delineare: la centralità del concetto di infinito. Già all'apertura del primo dialogo della Cena delle ceneri emerge l'immagine di un universo inteso come unità infinita e infinito effetto della infinita causa: «Conoscemo che non è ch'un cielo, un'eterea reggione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità de la partecipazione de la perpetua vita. Questi fiammegianti corpi son que' ambasciatori, che annunziano l'eccellenza de la gloria e maestà di Dio. Cossì siam promossi a scuoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio de l'infinito vigore»[171]. Il discorso prende evidentemente le mosse dal nucleo originario della teoria infinitista: l'universo infinito è «infinito effetto dell'infinita causa». Il ragionamento è quindi anche in questo luogo di chiara «ascendenza teologica», come Fulvio Papi aveva fatto notare. Negare l'infinità dell'universo significa negare la verità antica, che la tradizione ermetica aveva già svelato, ossia che Dio è infinito e vivifica direttamente ogni singola porzione di materia.

12. Cosmologia e metafisica: la perdita del centro e gli effetti di questa operazione.

Nella Cena comincia dunque ad emergere con forza il nesso fondamentale della teoria infinitista bruniana, ossia il legame profondo tra cosmologia e metafisica: la vita infinita (effetto necessario dell'infinita potenza divina) non può che prodursi in un universo infinito. Questa verità, continua Teofilo-Bruno, non è né sopportabile da tutti né comunicabile a tutti. Si tratta infatti di una verità «da profeti», essendo stata rivelata già ai Caldei, agli Egizii, ai pitagorici, e presto dimenticata nelle tenebre dell'ignoranza: prima questa verità «fu quella degli caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria conforme al nostro capo; da' quali prima si ribellarono questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto de l'antiquità, quanto alieni da la verità»[172]. Ancora una volta siamo insomma di fronte alla congiunzione di cosmologia, metafisica, religione ed epistemologia. Esplicitamente: la vita infinita, eterna ed omogenea, manda all'aria ogni distinzione gerarchica tra mondo terrestre e mondo celeste. L'unità metafisica si esplica in una unità cosmologica: l'infinito divino si esplica in quello «mundano». Implicitamente: l'unità metafisica colpisce alla base la trascendenza divina e il creazionismo. Viene così assolutamente compromessa la verità fondamentale del Cristianesimo, mentre a livello filosofico viene completata la già incerta distinzione tra infinito attuale e potenziale. A livello teologico l'unica teologia possibile diventa quella negativa. Nell'universo infinito, senza centro né periferia, svaniscono tutte le gerarchie e i tradizionali punti di riferimento. Ma non solo. Perdendo la Terra la sua posizione centrale, nel quadro cosmico, la visione antropologica dell'uomo soggetto, destinatario, della creazione, viene minata alla base. L'uomo perde il suo punto di riferimento originario: la Genesi. Nella prospettiva dell'universo infinito è appunto l'idea genesiaca del riconoscimento all'uomo, e all'uomo solo, di una «preminenza assiologica nell'ordine della creazione»[173] che viene distrutta, appunto perché l'uomo non è più al centro del creato, ha perso il rapporto diretto e privilegiato con il Creatore. L'uomo, in un universo infinito, non solo perde ogni punto di riferimento oggettivo, ma cessa lui stesso di essere creatura privilegiata. Se cade il geocentrismo, cade anche l'antropocentrismo: «l'uomo non è più centro di niente, esso è un punto disperso nell'universo»[174].

 

 

13. Il centro dell'universo ed il problema della gerarchia.

 

Il problema del centro nella filosofia di Bruno è fondamentale, ed emerge nettamente già nella discussione delle tesi copernicane, l'argomento centrale della Cena. Nel dialogo terzo, Nundinio, l'interlocutore che afferma per fede e nega per novità, sostiene che «non può essere verisimile che la terra si muove, essendo quella il mezzo e centro de l'universo, al quale tocca essere fisso e costante fundamento d'ogni moto»[175]. Teofilo-Bruno proseguendo il racconto, spiega dettagliatamente i termini della risposta: «rispose il Nolano, che questo medesimo può dir colui che tiene il sole essere nel mezzo de l'universo, e per tanto immobile e fisso, come intese Copernico ed altri molti, che hanno donato termine circonferenziale a l'universo; di sorte che questa sua raggione (se pur è raggione) è nulla contra quelli, e suppone i proprii principii. E' nulla anco contra il Nolano, il quale vuole il mondo essere infinito, e però non esser corpo alcuno in quello, al quale simplicemente convenga essere nel mezzo, o nell'estremo, o tra que' dua termini, ma per certe relazioni ad altri corpi e termini razionalmente appresi»[176]. Alla solita argometanzione aristotelica Bruno aveva dunque risposto rovesciando il ragionamento: non solo cambiando la prospettiva cadono i falsi problemi della teoria aristotelico-tolemaica (se si assume che il Sole è al centro dell'universo, non è più contraddittorio pensare che la Terra si muova), ma di più, se si considera l'universo come infinito, cade di colpo anche tutta la problematica del centro e del movimento. Se l'universo è infinito, allora non ha alcun centro assoluto, proprio perché non ci sono margini o confini per determinarlo. Non solo, perché «come di corpi naturali nessuno si è verificato semplicemente centro, cossì anco de' moti, che noi veggiamo sensibile e fisicamente ne' corpi naturali, non è alcuno, che di gran lunga non differisca dal semplicemente circulare e regolare circa qualche centro» e si possono sfozare all'infinito coloro «che vogliono sostenere che ogni moto è continuo e regolare circa il centro»[177]. La prospettiva rimane apertamente cosmologica, ma sono evidenti le ripercussioni a livello teologico e antropologico.

A differenza della maggior parte dei critici, credo che siano state proprio queste posizioni di Bruno, rispetto alla problematica del centro e dell'infinità dell'Universo, a portarlo al rogo. Le tesi magiche potevano al limite essere discusse sempre all'interno della prospettiva cristiana (una prospettiva ovviamente creazionista in cui l'uomo è oggetto della Rivelazione). Ma una prospettiva per così dire assolutamente rovesciata, eliminava alla base ogni possibilità di discussione. Si noti: se nell'universo infinito si perde il centro, allora si perde anche la periferia. Cadono di conseguenza anche quei confini tra cielo teologico e cielo astronomico che pure Digges aveva mantenuto: l'universo e Dio si confondono. Ma se l'universo e Dio si con-fondono, a livello di unità infinita, allora non ha più senso né l'idea di creazione e nemmeno quella di rivelazione: Dio non può creare se stesso, così come certo non può auto-rivelarsi.

 

 

14. Infinitizzazione del Cosmo e sue conseguenze in prospettiva antropologica.

 

 Indubbiamente la perdita della posizione centrale della Terra costituisce un passo gravido di conseguenze perfettamente prevedibili. Bruno, più che un mago eretico, rappresentava un'idea pericolosissima per l'ordine stabilito: idea da eliminare assolutamente. Essa minava alla base non solo l'ordinamento religioso della società, ma anche quello morale e civile, perché se Dio non si è rivelato, allora si può credere che non esiste alcuna verità consegnata nelle mani della creatura umana. Anzi, propriamente, non esiste più nemmeno la creatura. La tesi del «tutto in tutto» capovolge immediatamente e nettamente l'ordine stabilito, non solo metafisico e cosmologico, ma anche antropologico, morale e religioso. E il pericolo maggiore per la Chiesa del Cinquecento è appunto una minaccia informale all'ordine stabilito. In quest'ottica è interessante notare come ultimamente la Chiesa abbia valutato ed attuato un notevole cambio di prospettiva.

In un recente articolo, apparso in un quotidiano italiano, Padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana dal 1978, ammette che oggi «la Chiesa non esclude l'esistenza di altri esseri nell'universo. Oggi Giordano Bruno, condannato per le sue idee eretiche, e tra queste l'affermazione della pluralità dei mondi abitati, non darebbe più scandalo. Io stesso da anni faccio ricerche su stelle neonate per vedere se hanno sistemi planetari come il nostro, premessa indispensabile perché altre forme di vita possano svilupparsi»[178]. Coyne prosegue ricordando che già nella seconda metà dell'Ottocento, Padre Angelo Secchi, allora direttore della Specola Vaticana, affermava che la scoperta di extraterrestri non metterebbe affatto in crisi la fede cattolica. Mi permetto naturalmente di dissentire con l'opinione espressa a suo tempo dal Secchi, ma quello che qui interessa non sono opinioni personali, quanto piuttosto le conseguenze teologiche dell'infinità dell'universo e della possibilità di infiniti mondi abitati. Anche al giorno d'oggi, di fatto, la Chiesa potrebbe accettare l'idea dell'esistenza di mondi abitati, di un universo attualmente infinito (contro le teorie della relatività e le ipotesi del Big-Bang), solo a patto di salvare la trascendenza di Dio, la creazione, e quindi l'idea portante del Cristianesimo: Dio che si rivela all'uomo nell'Incarnazione. La concezione bruniana, è fin troppo ovvio sottolinearlo, esce nettamente da questi canoni e non soddisfa nessuna di queste esigenze. Al contrario, le ribalta tutte: «Ma noi,- scrive Bruno - che guardiamo non a le ombre fantastiche, ma a le cose medesime; noi veggiamo un corpo aereo, etereo, spirituale, liquido, capace di loco di moto e di quiete, sino immenso e infinito, - il che dovamo affermare almeno, perché non veggiamo fine alcuno sensibilmente né razionalmente, - sappiamo certo che, essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve, secondo la capacità sua corporale e modo suo, essere infinitamente infinito»[179]. L'universo è dunque uno spazio infinito, «principio infinito». Parallela all'idea dell'infinità dell'universo è quella del «corpo spirituale», ossia dell'anima mundi. Siamo in pieno ermetismo: Dio è nelle cose, e non va cercato al di fuori di esse. Ma allora non ha più ragion d'essere la gerarchia universale, che dalla Creazione ha regolato l'esistenza umana, fin nei suoi minimi dettagli.

Nella Genesi l'uomo viene presentato come eikon (immagine) e doxa (gloria) di Dio. L'uomo è fin dall'inizio creatura posta fra gli angeli e il Signore. Da qui l'idea di una successione gerarchica, massimamente evidente poi con la creazione di Eva, che manifesta fin dall'inizio la sua insufficienza ontologica (essendo stata creata per l'uomo, e non viceversa)[180]. Inutile sottolineare come l'idea di gerarchia sia poi stata alla base della struttura della Chiesa e del tipo di società che essa ha poi regolato, dall'interno. Importante è invece rilevare che il monumentale edificio sociale costruito e regolato, in gran parte direttamente, dalla Chiesa, ha cominciato ad emettere scricchiolii proprio in concomitanza alle prime discussioni sul valore scientifico dei testi sacri. Quello che era un blocco monolitico, non discutibile proprio perché totalizzante, è stato colpito a morte nella sua pretesa unitaria sia dall'interno (Lutero, a livello teologico) che dall'esterno (la filosofia naturale, fino a Cartesio). In verità c'è chi ha sostenuto che questa spaccatura risale a molti anni prima, ed è da addebitarsi nientemeno che a S.Tommaso d'Aquino. Mi riferisco in questo caso alla posizione di mons. Giuseppe Colombo (Preside della Facoltà teologica interregionale di Milano), espressa al convegno tenutosi ad Aosta nel marzo 1988, sul tema: Anselmo d'Aosta, figura europea[181].

 

 

15. Le conseguenze della divisione tra sapere rivelato e sapere naturale: una interpretazione dell'opera di S.Anselmo d'Aosta e della sua idea di infinito.

 

Colombo, definendo Anselmo come un «maestro solitario», passa a lamentarsi dei mali di cui soffrirebbe la teologia moderna: mali che provengono certamente (a suo dire) dalla autonomizzazione della filosofia dalla fede. Subito precisa poi che «se la nascita è sempre un venire alla luce, la concezione avviene sempre nella notte [...]. Se la nascita della filosofia moderna nel suo carattere di filosofia separata è correntemente registrata sotto il nome di Cartesio, in realtà la concezione di separare la fede e la ragione [...] va cercata a monte e si sussurra possa trovarsi nella condanna di Tommaso[182], che impone l'interruzione brusca della relazione intrecciata da S.Tommaso con Aristotele, denunciata come pericolosa per la fede». Come teologo Colombo sostiene che tale divisione «riuscì fatale alla teologia», infatti «nella polarizzazione moderna di fede e filosofia la teologia è pregiudizialmente emarginata». Insomma la conclusione dell'intervento di Colombo è che la vera figura della teologia si è realizzata non già in un S.Tommaso, ma in un S. Anselmo d'Aosta, che nella sua «prova ontologica» riportava di colpo la teologia nella sua indiscutibile area autonoma. Sul tema della divisione tra teologia e filosofia, e dalle successive divisioni all'interno della teologia stessa (che hanno segnato, insieme ad altri notevoli fattori, la fine del periodo medievale e la nacita dell'era moderna) ci sono quindi pareri contrastanti. In questa sede noi non possiamo però non osservare la rilevanza della posizione ontologica anselmiana nei confronti della metafisica di Giordano Bruno.

 

 

16. S.Anselmo e Bruno: un confronto sulle conseguenze della teoria infinitista.

 

S.Anselmo, nel suo famoso Proslogion, cerca di arrivare alla verità sull'esistenza di Dio mediante una riflessione razionale cui possa accedere anche l'insipiens. Rilevante è che il tentativo della dimostrazione dell'esistenza di Dio passi attraverso una esposizione insiemistica. Dio viene pensato come la corrispondenza di quel pensiero di cui non si può pensare alcunché di più grande: « [...] credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit». Credo che in linguaggio logico-matematico il concetto equivalga all'insieme più grande, che comprende tutti gli altri. Ma la prova ontologica, per funzionare, deve proseguire oltre. Ammettendo che si può pensare la totalità, non si è di fatto dimostrato nulla: dal livello del pensiero occorre passare a quello della realtà. Ed è qui che il pensiero di Anselmo comincia a farsi complicato: «certamente ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, non può trovarsi solo nella mente [...]. Se infatti esiste almeno nell'intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà; e ciò è qualcosa di più. Se dunque ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande è solamente nell'intelletto: ciò stesso di cui non si può pensare qualcosa di maggiore, sarebbe ciò di cui si può pensare qualcosa di maggiore. Ma questo certamente non può essere»[183]. Di fronte a questa contraddizione, Anselmo conclude che «esiste dunque e nell'intelletto e nella realtà un qualcosa di cui non si riesce a pensare qualcosa di più grande». Gaunilone, nel Liber pro insipiente, colpirà Anselmo proprio sull'indebito passaggio tra realtà pensata e realtà esistente, ed avrà naturalmente ragione. Ma procediamo oltre. Anselmo, è evidente, rimane intrappolato nel labirinto degli insiemi in-finiti, dei quali non si sa mai qual è quello che raccoglie tutti. Certamente Anselmo, malgrado l'idea di comparazione, pensava ad un salto di qualità, all'ambito della fede. L'avvicinamento a questo salto viene però compiuto mediante un passo logico ben preciso, ed è questo quello che ci interessa in questa sede.

In termini insiemistici, Bruno non avrebbe difficoltà a rispondere che l'insieme infinito più grande è quello di Dio, l'unico ad essere attualmente infinito. Se però Anselmo avesse dovuto accettare questa posizione, non avrebbe potuto salvaguardare adeguatamente la trascendenza divina. Al contrario, spostando il discorso sulla totalità, non riesce a mantenere la personaità di Dio. Dio è diventato il Tutto. Ma il Tutto è Persona? Bruno si trova evidentemente in una posizione affatto diversa: Dio è il Tutto, perde quindi la sua personalità - cristianamente intesa - e non può essere oggetto di alcuna dimostrazione. Dio non è alla base della gerarchia, non è possibile risalire alla sua divina essenza tramite un rapporto di causa-effetto. A Dio ci si approssima solo mediante l'ascensus mistico e la magia, e il rapporto col Vero, che si esprime mediante la Natura infinita, sgretola alla base ogni concezione religiosa o morale basata sulla gerarchia finito/infinito. Nicola Badaloni, riferendosi alla concezione nolana, aveva opportunamente osservato: «Un esperto frate, avverso al Bruno, M. Mersenne percepisce la pericolosità di questa concezione, attraverso la quale il rapporto col vero stimola la distruzione di vecchie gerarchie. L'anima universale, egli dice "spezza i fondamenti della vita umana, della ragione, della vita associata, della morale e di tutto ciò che serve a mantenere gli uomini in buona intelligenza fra loro. Se questa anima universale informa tutto, a che scopo i servitori si assoggetterebbero ai loro padroni?". Tanto più che potrebbe accadere che un servitore "fosse più lesto e coraggioso del suo padrone"»[184]. Spero di aver mostrato, solo sfiorando questi temi, come in realtà le pretese metafisiche di Bruno finissero per coinvolgere tutti i piani dell'esistenza: la teoria dell'infinito coinvolge - simultaneamente - sia la vita civile che l'ambito rigorosamente religioso dell'esistenza umana. L'antropologia non può che vedere una coordinazione di due elementi a questo punto fondamentali: il rapporto impossibile con l'Infinito - mediato dall'umbra - e la possibilità di superare questo limite assoluto solo mediante un progresso infinito - mediante, cioé la vicissitudine universale. L'agire magico interessa appunto il momento pratico e conoscitivo di questo ascensus. E' naturale quindi che la vita civile deve essere riformata a partire dalla religione e dall'etica degli eroici furori: l'amore spregiudicato per la verità è l'unica strada che l'uomo può percorrere nella direzione di una completa divinizzazione (ovvero: per raggiungere un vero adeguamento all'infinito).

 

 

17. Il vero tema della nolana filosofia viene tenuto nascosto ed accennato solo per modo di passaggio.

 

La nolana filosofia, e Bruno se ne rendeva perfettamente conto, non era dottrina facile né da capire né da accettare nella sua interezza. Nella Cena infatti vengono presentati molti intermezzi, quasi a concedere fiato al lettore, in cui si riconosce la difficoltà della «proposta» e delle sue conseguenze: «Perché il Nolano, per modo di passaggio, disse essere terre innumerabili simile a questa, or il dottor Nundinio, come bon disputante, non avendo che cosa aggiongere al proposito, comincia a rimandar fuor di proposito; e da quel che diceamo della mobilità o immobilità di questo globo, interroga della qualità degli altri globi, e vuol sapere di che materia fusser quelli corpi, che son stimati di quinta essenzia, d'una materia inalterabile e incorrottibile, di cui le parti più dense son le stelle»[185]. Siamo nel mezzo di una scena dalle tinte comiche, tant'è vero che interviene addirittura Frulla: «Questa interrogazione mi par fuor di proposizio benché io non m'intendo di logica»[186]. Continua Teofilo: «Il Nolano, per cortesia, non gli volse improperar questo; ma, dopo avergli detto che arebbe piaciuto che Nundinio seguitasse la materia principale, o che interogasse circa quella, gli rispose che li altri globi, che son terre, non sono in punto alcuno differenti da questo in specie; solo in esser più grandi e piccoli, come ne le altre specie d'animali per le differenze individuali accade inequalità»[187]. Bruno insomma capisce durante la cena che non può presentare ai dottori di Oxford la nolana filosofia nella sua completezza, tanto che punti fondamentali vengono citati solo per modo di passaggio. Ho già notato che in Inghilterra Bruno vuole solo farsi notare, per poter divulgare con milgior agilità le proprie idee: deve quindi evitare di essere «indigesto». Cosa che naturalmente, a dispetto delle sue intenzioni e a causa del suo temperamento tutt'altro che adatto alla comunicazione «tranquilla», non gli riuscì affatto. Qui mi preme comunque rilevare che molti aspetti della nolana filosofia, sicuramente già presenti nella mente di Bruno e nelle sue intenzioni, vengono nascosti o citati solo en passant.

Teofilo, proseguendo il racconto, ricorda l'intervento del Nolano: «se ben consideriamo, trovarremo che la terra e tanti altri corpi, che son chiamati astri, membri principali de l'universo, come danno vita e nutrimento alle cose che da quelli toglieno la materia, ed a' medesimi la restituiscano, cossì e molto maggiormente, hanno la vita in sé; per la quale, con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi. E non sono altri motori estrinseci, che col muovere fantastiche sfere vengano a trasportar questi corpi come inchiodati in quelle [...]. Tutto avviene dal sufficiente principio interiore per il quale naturalmente viene ad esagitarse, e non da principio esteriore, come veggiamo sempre accadere a quelle cose, che son mosse o contra o extra la propria natura. Muovensi dunque la terra e gli altri astri secondo le proprie differenze locali dal principio intrinseco, che è l'anima propria. - Credete, disse Nundinio, che sii sensitiva quest'anima? - Non solo sensitiva, rispose il Nolano; non solo intellettiva, come la nostra, ma forse anco più. - Qua tacque Nundinio, e non rise»[188]. Il momento è quasi drammatico: affiora con prepotenza l'immagine dell'anima mundi, di cui abbiamo notato le profonde implicazioni a livello etco ed antropologico. Di colpo compare anche quello che io considero l'elemento equilibratore di tutto l'impianto filosofico del Nolano: l'armonia, di matrice evidente pitagorica.

 

 

18. Anima mundi e ordine meraviglioso: il concetto di armonia universale.

 

L' anima mundi si esplica in una azione che è anzitutto «armonica». Questo era stato chiarito già nel De Umbris, dove Bruno aveva parlato di un ordine meravilglioso, pitagoricamente inteso: «Proprio così come nella varietà stessa delle cose distinguiamo un ordine meraviglioso, che, instaurando una connessione degli elementi sommi con gl'infimi e degl'infimi con i sommi, fa concorrere tutte le parti insieme a costituire il bellissimo aspetto di un solo grande essere animato (qual è il mondo), poiché tanta diversità richiede tanto ordine e un così grande ordine tanta diversità»[189]. Ma l'ordine meraviglioso non è ancora sublimato in armonia divina, come sarà invece nel De la Causa, dove Bruno in una pagina veramente poetica descriverà la vita universale che si produce in una serie infinita di forme.

Nel Dialogo secondo del De la Causa, dove Bruno giunge alla fondazione metafisica della realtà animata, avevamo infatti letto che: «l'intelletto universale è l'intima, più reale e propria facultà e parte potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo che empie il tutto, illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue specie come si conviene [...]. E' detto da' Maghi fecondissimo de semi o pur seminatore; perché lui è quello che impregna la materia di tutte forme e, secondo la raggione e condizion di quelle, la viene a figurare, formare, intessere con tanti ordini mirabili, li quali non possono attribuirsi al caso [...]. Da noi si chiama artefice interno, perché forma la materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il stipe; da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance; da dentro queste ispiega le gemme; da dentro forma, figura intesse, come di nervi, le frondi, gli fiori, gli frutti»[190]. Per Bruno, lo avevo ricordato, l'artefice interno, «opra continuamente tutto in tutto»[191], conferendo all'universo una inesauribile armonia di forme e movimenti. Il «tutto in tutto» è insomma perdita di ogni punto di riferimento, ma tutt'altro che confusione e caos. Nell'universo infinito, lo smarrimento è solo momentaneo.

Alla luce delle considerazioni sull'ordine della scala naturae e del percorso prestabilito che segue la natura nel suo prodursi infinito, nella alternanza delle forme e nell'incessante divenire, credo si possa considerare l'armonia come una delle possibili categorie per interpretare il pensiero del Nolano. Anche l'idea di dissoluzione del centro e periferia, e quindi dell'ordine stabile dell'universo, a mio parere, può e anzi deve essere letta alla luce del concetto di armonia. La distruzione dei limiti e degli ordini prestabiliti non comporta mai in Bruno una sorta di anarchia. Al contrario: là dove era un ordine stabile, ora splende un ordine mutevole, una armonia divina che è percettibile solo al filosofo, sempre mediante l'ascesi mistica. Credo che anche qui Bruno non voglia intendere una sorta di illuminazione diretta, quanto di incontro mistico, riflessivo, contemplativo. Una sorta di estasi plotiniana. Solo il filosofo che ha a lungo praticato la filosofia della natura (ossia la vera teologia) può cominciare a percepire quell'armonia divina che regola da dentro tutto l'universo. E' ovviamente ben difficile distinguere a questo punto l'armonia divina da Dio stesso, visto che il Dio di Bruno è affatto impersonale. Nei dialoghi metafisici Dio è inteso infatti come una forza cosmica, semplicemente definibile con l'idea della Vita-materia-infinita (secondo una felice espressione di Michele Ciliberto).

La problematica della distinzione tra Dio e universo viene risolta sul terreno della doppia infinità, come preannunciava il De la Causa e come si vedrà esplicitamente nel De l'infinito. Parallelamente credo che il problema della personalità di Dio venga risolta proprio in termini infinitistici: Dio è Persona in quanto trascende l'infinito dell'universo. L'infinito di Dio, per così dire comprendendo l'infinito dell'universo, ed essendo qualitativamente superiore (l'universo infatti non è mai attualmente infinito, almeno che non lo si intenda come totalità: ma in questo caso non è più universo, ma Dio, che è appunto tutto in tutto, ossia attualmente infinito, proprio perché Uno) determina la differenza tra Dio e l'universo, e così mette il luce la personalità di Dio. Credo che questo sia l'unico modo per salvare sia la trascendenza che la personalità divina, all'interno del quadro teologico bruniano.

Nel processo sopra riportato possiamo distinguere due momenti: una pars construens ed una denstruens. L'infinitizzazione del cosmo porta alla cancellazione degli ordini precedenti, e questo è il momento negativo. Ma i vecchi ordini vengono sostituiti da un nuovo ordine divino, che è anzitutto armonia: e questa è la parte positiva. Alle fredde leggi matematiche di Copernico possiamo ora affiancare la più intima convinzione di Bruno: le intuizioni del polacco non sono altro che l'esposizione matematica di una verità precedente, antecedente, fondativa: Dio regola il mondo dall'interno, mediante leggi magiche che seguono una loro armonia intrinseca.

Riemergono a questo punto anche i motivi ermetici tenuti finora sapientemente in ombra: «Come è più che verisimile, essendo che ogni cosa partecipa de vita, molti ed innumerabili individui vivono non solamente in noi, ma in tutte le cose composte; e quando veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto credere quella morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia»[192]. Dove concordia sta ad esprimere appunto l'idea dell'armonia, i molti ed innumerabili individui che vivono non solo in noi ma anche nei composti rendono estremamente concreta l'idea della vita-materia infinita e divina, propria della tradizione ermetica. Si tratta (è questo lo stile caratterstico della Cena) solo di una toccata e fuga, perché subito il discorso ritorna all'astronomia.

 

 

19. Un classico argomento contro l'infinito.

 

Per confutare le tesi copernicane viene addotto anche l'argomento delle nuvole dell'aria: «se fusse vero la terra muoversi verso il lato che chiamiamo oriente, necessario sarebbe che le nuvole d'aria sempre apparissero discorrere verso l'occidente, per raggione del velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spacio di ventiquattro ore deve aver compito sì gran giro. - A questo rispose il Nolano, che questo aere, per il quale discorrono le nuvole e gli venti, è parte della terra; perché sotto il nome di terra vuol lui (e deve essere cossì al proposito) che se intenda tutta la macchina e tutto l'animale intero, che costa di sue parti dissimilari [...]. Le nuvole dunque da gli accidenti, che son nel corpo de la terra, si muoveno e son come nelle viscere di quella, cossì come le acqui»[193]. La risposta di Bruno è chiara e del tutto coerente: non vale l'argomentazione delle nuvole perché queste sono parte della terra, e la terra è un grande animale animato che si autoregola dall'interno, con tutto ciò che contiene. La teoria dell'infinito poggia insomma su una sua logica coerenza interna, e le argomentazioni che si possono addurre contro di essa non valgono in partenza, perché sono solo parte di altri ragionamenti, rimangono cioé all'interno di un'ottica finitista. Una volta che si sono accettati i presupposti della teoria copernicana, non si possono non trarre le dovute consuguenze, sia astronomiche che filosofiche che teologiche.

 

 

20. Di nuovo sul rapporto tra filosofia e teologia.

 

A proposito del rapporto tra teologia e filosofia, il Dialogo quarto vede porsi in primo piano proprio questo discorso:

«Smitho. Volete ch'io vi dica la causa?

Teofilo. Ditela pure.

Smitho. Perché la divina Scrittura (il senso della quale ne deve essere molto raccomandato, come cosa che preocede da intelligenze superiori che non errano) in molti luoghi accenna e suppone il contrario.

Teofilo. Or, quanto a questo, credetemi che, se gli Dei si fussero degnati d'insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne ha fatto favore di proporci la prattica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovernmi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti. Ma, come chiarissimamente ognuno può vedere, nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia; ma, in grazia de la nostra mente ed affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azioni morali. Avendo dunque il divino legislatore questo scopo avanti gli occhii, nel resto non si cura di parlar secondo quella verità, per la quale non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male e appigliarse al bene; ma di questo pensiero lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo in maniera che, secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale.

Smitho. Certo è cosa conveniente, quando uno cerca di far istoria e donar leggi, parlar secondo la comone intelligenza, e non esser sollecito in cose indifferenti. Pazzo sarebbe l'istorico, che, trattando la sua materia, volesse ordinar vocaboli stimati novi e riformar i vecchi, e far di modo che il lettore sii più trattenuto a osservarlo e interpretarlo come gramatico, che intenderlo come istorico»[194].

Emerge quindi con forza il ruolo pedagogico della teologia: ad essa non spetta un compito speculativo, ma pratico. Mentre lo studio delle cose naturali è affidato all'intelletto che ragiona, alla teologia spetterebbe invece il compito di legiferare e regolare sulla fede le azioni morali dei volgari. La Bibbia non cerca la verità delle cose fisiche, ma la bontà dei costumi, e non va quindi presa alla lettera.

 

 

21. Soluzione definitiva della problematica del centro.

 

Col dialogo Quinto viene ripresa e conclusa definitivamente la problematica del centro dell'Universo e della sua supposta sfericità: «Perché non son più né altramente fisse le altre stelle al cielo, che questa stella, che è la terra, è fissa nel medesimo firmamento, che è l'aria; e non è più degno d'esser chiamato ottava sfera, dove è la coda de l'Orsa, che dove è la terra, nella quale siamo noi; perché in una medesima eterea reggione, come in un medesimo gran spacio e campo, son questi corpi distinti e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni da gli altri; considerate la caggione, per la quale son stati giudicati sette cieli degli erranti, ed uno solo di tutti gli altri»[195]. E' ovvio rilevare che il discorso sulla dignità coinvolge direttamente ancora una volta il piano antropologico, secondo le linee che abbiamo già individuato: la scomparsa della gerarchia non significa affatto confusione e dispersione, assenza di leggi, perdita di valore della Terra e dell'uomo. Al contrario: l'uomo viene in qualche modo divinizzato al pari degli altri astri (che prima in funzione della gerarchia si credevano più vicini a Dio) e al pari della nuova legge universale: la legge dell'armonia divina che regola il tutto dall'interno. A ripetere che l'idea di uno spazio infinito è tutt'altro che nuova, Bruno ricorda che «Questa distinzion di corpi ne la eterea reggione l'ha conosciuta Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora, Parmenide, Melisso, come ne fan manifesto quei stracci che n'abbiamo: onde si vede, che conobbero uno spazio infinito, regione infinita, selva infinita, capaità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì compiscono i loro circoli, come la terra il suo; e però anticamente si chiamavano ethera, cioé corridoi, corrieri, nuncii della manificenza de l'unico altissimo, che con musicale armonia contemprano l'ordine della constituzion della natura, vivo specchio dell'infinita deità». Bruno interpreta quindi l'etere degli antichi a suo modo: «il qual nome di ethera dalla cieca ignoranza è stato tolto a questi, ed attribuito a certe quinte essenze, nelle quali, come tanti chiodi, siino inchiodate queste lucciole e lanterne. Questi corridoi hanno il principio di moti intrinseco, la propria natura, la propria anima, la propria intelligenza»[196].

Nell'infinito, Bruno insiste parecchio su questo punto, si perdono tutte le determinazioni relative, a partire dalle tradizionali distinzioni tra corpi gravi e lievi: «Teofilo. Sappi, che né la terra, né altro corpo è assolutamente grave o lieve. Nessuno corpo nel suo loco è grave né legiero; ma queste differenze è qualità accadeno non a' corpi principali e particolari individui perfetti dell'universo, ma convengono alle parti, che son diverse dal tutto, e che se ritrovano fuor del proprio continete, e come peregrine»[197]. La questione della gravità viene allora risolta in questi termini: né la terra né altro corpo è in senso assoluto pesante o leggero, questa differenza si prouce solo se in generale i corpi o meglio le loro parti si allontano dal loro luogo naturale: «Perciò si potrebbe concedere, che il sole si muova circa il proprio centro, ma non già circa altro mezzo; atteso che basta, che tutti gli altri corpi si muovano circa lui, per tanto che di esso quelli han bisogno»[198]. Ma qual è la causa del moto locale della terra?

«Teofilo. La caggione di cotal moto è la rinovazione e rinacenza di questo corpo; il quale, secondo la medesima disposizione, non può esser perpetuo [...]. Perché, essendo la materia e sustanza delle cose incorrottibile, e dovendo quella secondo tutte le parti esser soggetto di tutte le forme, a fin che secondo tutte le parti, per quanto è capace, si fia tutto, sia tutto, se non in un medesimo tempo ed istante d'eternità, al meno in diversi tempi, in varii istanti d'eternità successiva e vicissitudinalmente; perché, quantumque tutta la materia sia capace di tutte le forme insieme, non però de tutte quelle insieme può esser capace ogni parte della materia; però a questa massa intera, della qual consta questo globo, questo astro, non essendo conveniente la morte e la dissoluzione, ed essendo a tutta natura impossibile l'annichilazione, a tempi a tempi, con certo ordine, viene rinovarsi, alterando, cangiando, le sue parti tutte»[199]. E' evidente la ripresa del motivo ermetico della materia e sustanza delle cose incorruttibile, proprio come Tat aveva rivelato ad Ermete Trismegisto: «gli esseri viventi non muoiono, ma, essendo corpi composti, si dissolvono: e questa dissoluzione non è morte ma dissoluzione di una commistione. E se si dissolvono, non si distruggono, ma si rinnovano. Che cos'è infatti l'energia della vita? Non è forse movimento? O cosa c'è nel mondo che sia immobile? Niente, figlio mio.

 Ma almeno la terra, padre, non sembra immobile?

 No, figlio, al contrario, sola fra tutti gli esseri, essa è soggetta ad una moltitudine di movimenti, ed è insieme stabile. Non sarebbe forse ridicolo supporre che questa nutrice di tutti gli esseri fosse immobile, essa che dà la nascita a tutte le cose? Senza movimento, in realtà, è impossibile generare. E' del tutto assurdo chiedere, come fai tu, se la quarta parte del mondo non sia per caso inerte: essere immobile, per un corpo, non può infatti aver altro significato che quello di essere inerte. Sappi dunque, figlio, che tutto ciò che è al mondo, senza eccezione, si muove, o per diminuire o per accrescersi; e che ciò che si muove è nello stesso tempo vivo, senza però alcuna necessità che ogni essere vivente debba conservare la propria identità»[200].

Nella Cena insomma, Bruno ripete meno, e meno apertamente, la provenienza delle sue idee. L'idea di una riforma religiosa esige ovviamente una serie ragionata di cautele. Il discorso della Cena non è apertamente magico né mistico. Non emergono direttamente le critiche e le polemiche anti-cristiane, né l'immagine della crisi universale. La Cena è in realtà il resoconto di una disputa cosmologica e filosofica, in cui gli elementi ermetici sono o del tutto mascherati o costituiscono una sorta di substratum ideologico tenuto sempre, con grande abilità, in secondo piano. Certamente la filosofia cosmologica che propone Bruno è ben lontana da quella dei dottori di Oxford, e questo è evidente anzitutto a partire dal giudizio del Nolano su Copernico. Per Bruno, è bene non dimenticarlo, «altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura»[201]: questa sua convinzione si farà sentire soprattutto nelle ultime opere, quelle dedicate sintomaticamente alla magia naturalis.

 


CAPITOLO V

 

IL DE L'INFINITO, UNIVERSO E MONDI

 

 

Or ecco, vi porgo la mia contemplazione circa l'infinito, universo e mondi innumerabili.[202]

 

 

1. Per una corretta valutazione dell'opera.

 

Il De l'infinito è sicuramente, insieme al De la Causa, il Dialogo bruniano più studiato, più citato, e, naturalmente, più frainteso. Generalmente la posizione che è prevalsa, almeno negli ultimi anni, è stata infatti quella propensa a considerare il dialogo inglese come l'esposizione più completa della filosofia nolana. Augusto Guzzo, per esempio, aveva addirittura scritto: «Il De l'infinito era, per il Bruno, la sua filosofia, di cui gli altri scritti volevano essere una semplice preparazione»[203]. Personalmente, credo che non sia possibile sostenere queste posizioni. In realtà il De infinito, insieme al De immenso, costituisce una esplicazione completa a livello cosmologico di risultati teorici raggiunti altrove, a partire dalle opere magico-mnemotecniche, nelle quali, come abbiamo visto, Bruno aveva già cominciato a delineare in modo abbastanza preciso la sua metafisica. Credo che insomma che il De infinito sia ancora un punto intermedio della nolana filosofia, certo fondamentale, ma assolutamente non conclusivo. La conclusione della filosofia di Bruno è infatti la magia, ovvero la proposta di una nuova (ma ad un tempo antica) religione, una tecnica teurgica, tutta impostata al fine di realizzare l'unione umana con la divinità.

Il pensiero di Bruno non si è dunque fermato al "nuovo" panteismo cosmologico e infinitistico. La conclusione naturale (ed esplicita, anche se per lo più trascurata o addirittura ignorata dalla critica), della filosofia di Bruno è infatti il misticismo magico, ossia quel particolare atteggiamento spirituale che tende all'unione col divino mediante il superamento dei limiti naturali. Bruno si sente il profeta di una dottrina ben precisa: non solo annuncia che Dio è presente come fons vitae, come principio animatore, nell'universo infinito (secondo i canoni della rivelazione ermetica), ma rivela all'uomo la vera religione, lo rende finalmente consapevole della sua possibilità di raggiungere l'Assoluto.

Scriverà infatti nella Proemiale Epistola: «questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il spirito, magnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera beatitudine che può avere come uomo; perché lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori, lo fa godere dell'esser presente, e non più temere che sperare del futuro; perché la providenza o fato o sorte, che dispone della vicissitudine del nostro essere particolare, non vuole né permette che più sappiamo dell'uno che ignoriamo dell'altro, alla prima vista e primo rancontro rendendoci dubii e perplessi. Ma mentre consideramo più profondamente l'essere e sustanza di quello in cui siamo inmutabili, trovaremo non esser morte, non solo per noi, ma né per veruna sustanza; mentre nulla sostanzialmente si sminuisce, ma tutto, per infinito spacio ricorrendo, cangia il volto. E perché tutti soggiacemo ad ottimo efficiente, non doviamo credere, stimare e sperare altro, eccetto che come tutto è da buono; cossì tutto è buono, per buono e a buono; da bene, per bene, a bene»[204].

L'unica beatitudine che l'uomo può avere come uomo si attua insomma nel corso infinito della vicissitudine universale, nella quale non c'è morte, ma solo bene, essendo il male assorbito in una dinamica del tutto positiva, razionale, divina. Essendoci coincidenza tra Dio e Universo, non è infatti possibile che in questi ci sia il male, a meno che non si voglia cadere in contraddizione attribuendolo anche a Dio. La dottrina della infinità dei mondi ha in serbo una antica novità: la divinità ontologica dell'uomo non più creatura ma parte dell'infinito. La vera religione è naturalmente quella egizia, quella mitica, autentica religione dell'età dell'oro. Mito, magia, misticismo, filosofia si fondono in un intreccio fantastico.

Il De l'infinito insomma è solo un capitolo del nuovo vangelo bruniano, e per di più viene completato da un ulteriore opera latina, il De immenso. Possiamo quindi condividere quello che già Alexander Koyré, in uno studio ormai classico, aveva notato: «la più chiara e potente presentazione del nuovo evangelo dell'unità ed infinità del mondo si trova nel dialogo italiano De l'infinito, universo e mondi e nel poema latino De immenso et innumerabilibus»[205].

Il dialogo inglese è notevole soprattutto a causa dell'utilizzo, estremamente radicale, di due princìpi che risultano fondamentali per la comprensione della teoria infinitista a livello cosmo-teologico: il famoso principium plenitudis (per cui è bene che uno spazio infinito contenga infiniti mondi come il nostro), e l'argomento teologico, secondo il quale l'infinita potenza divina, nella sua esplicazione, non può che manifestarsi in un universo infinito. Bruno distingue nettamente i due momenti, e conferisce ad essi un particolare rilievo.

 

 

2. L'infinito all'interno della filosofia binaria.

 

Nel De infinito vengono portate a compimento tutte le premesse metafisiche e cosmologiche della Cena e del De la Causa. L'universo che Bruno presenta nei cinque dialoghi che compongono l'opera è apertamente infinito, e lo stesso concetto di infinito viene qui completamente purificato dalle sue interpretazioni ambigue, sia da un punto di vista formale, sia da un punto di vista ontologico. Viene infatti totalmente eliminato l'aspetto negativo dell'infinito, evidente a partire dalla denominazione greca (àpeiron significava appunto mancanza di limite, per cui infinito era anche l'equivalente di indeterminato). Parallelamente viene messo in primo piano l'aspetto positivo, che corrisponde ad una delle caratteristiche più evidenti dell'infinito, ovvero quella di essere l'essenza di Dio, la somma delle perfezioni possibili (e quindi la perfezione assoluta), la forza che fonda il finito e ne garantisce la sussistenza ontologica. Teoreticamente, l'infinito viene presentato come uno dei due aspetti della realtà binaria: finito e infinito, costituiscono apertamente, con pari diritto, l'essenza della realtà. Al finito corrisponde l'idea del minimo, all'infinito quella del massimo. In questa visione, profondamente panteistica, il problema del male e della morte sembra essere assorbito all'interno della dialettica degli opposti, del movimento: il male e la morte sono solo apparenti, perché in Dio c'è solo il bene e in Lui non si può pensare che ci sia corrozione.

La filosofia nolana, con l'adozione del magico numero binario all'interno del quadro speculativo panteista-vitalistico è diventata formalmente matura, e il De l'infinito sembra avere proprio lo scopo di provarlo. Viene qui abbandonata senza mezzi termini (per la prima volta in un modo così radicale) la tradizione aristotelica di un universo limitato: sono maturati, ed ora emergono con forza, sul piano cosmologico, i risultati ottenuti nel De la Causa ad un livello metafisico. Non si tratta più di un resoconto di una disputa dialettica, come nel caso della Cena delle Ceneri, ma dell'esposizione chiara e precisa della nuova teoria cosmologica. Si può dire allora che il De l'infinito risponda alla semplice domanda: quali sono le conseguenze - cosmologiche - di un'opera come il De la Causa?

Ovviamente, e ormai siamo abituati ad una lettura per così dire «stratificata» del pensiero di Bruno, emergono anche importanti considerazioni ed implicaziobni di carattere gnoseologico e morale. Dal punto di vista della teoria della conoscenza i limiti dell'esperienza umana, del senso comune, vengono infatti definitivamente superati dall'intelletto, unico affidabile organo gnoseologico e teurgico. Ma la rivoluzione cosmologica si mostra gravida di conseguenze anche sul piano dell'etica civile.

Ancora una volta, già nella Proemiale Epistola, affiora per esempio la critica del sapere pedantesco, nella formula che ormai ben conosciamo: la verità è già stata data all'uomo, e poi sepolta nelle tenebre dell'ignoranza. Il sapere del logico e del matematico (dell'aristotelico) è vuoto e astratto: forma senza sostanza. Bruno vuole confermare invece l'antica sapienza egizia, e, conformemente ai canoni della filosofia ermetica, ripetere che la rinascenza dell'antico passa per la confutazione, puntum contra puntum, delle tesi aristotelico tolemaiche e delle loro implicazioni onto-teologiche.

La pars construens della teoria nolana, a livello metafisico esposta nel De la Causa, era stata preceduta da una corrispondente pars denstruens - cosmologica - della Cena. Ora, con il De l'infinito, universo e mondi, il circolo ideologico si chiude con argomentazioni sia di carattere negativo sia positivo. Affrontiamo quindi l'analisi del concetto infinito nell'ultimo dei «dialoghi metafisici» che ho preso in considerazione: il De l'infinito, universo e mondi.

 

 

 

3. L'universo infinito.

 

Già all'apertura del dialogo, viene messo apertamente a fuoco il continuum ideologico con l'antica, vera sapienza: quella egizia. Ma non solo. Nella Proemiale Epistola, ad esempio, viene riportato anche il noto argomento lucreziano[206]: può la freccia oltrepassare i limiti del mondo? Ma con l'esposizione di questo primo paradosso siamo solo alle indicazioni programmatiche. Lucrezio vuole essere solo un richiamo all'antico dimenticato, secondo la solita immagine che ha di mira le presunzioni accademiche dei pedanti aristotelici e l'idea della crisi universale. In realtà il De rerum natura serve al Nolano solo come punto di partenza per un nuovo percorso epistemologico e cosmologico insieme. Il programma epistemologico - positivo e negativo - passa anzitutto attraverso la distruzione del senso esterno:

«Filoteo. Non è senso che vegga l'infinito, non è senso da cui si richieda questa conchiusione; perché l'infinito non può essere oggetto del senso; è però chi dimanda di conoscere questo per via di senso, è simile a colui che volesse veder con gli occhi la sustanza e l'essenza; e chi negasse per questo la cosa, perché non è sensibile o visibile, verebe a negar la propria sustanza ed essere. Però deve esser modo circa il dimandar testimonio del senso; a cui non doniamo luogo in altro che in cose sensibili, anco non senza suspizione, se non entra in giudizio gionto alla raggione. A l'intelletto conviene giudicare e render raggione de le cose absenti e divise per distanza di tempo ed intervallo di luoghi. Ed in questo assai ne basta ed assai sufficiente testimonio abbiamo dal senso per quel, che non è potente a contradirne e che oltre fa evidente e confessa la sua imbecillità ed insufficienza per l'apparenza de la finitudine che caggiona per il suo orizonte, in formar della quale ancora si vede quanto sia incostante. Or, come abbiamo per esperienza, che ne inganna nella superficie di questo globo in cui ne ritroviamo, molto maggiormente doviamo averlo suspetto quanto a quel termine che nella stellifera concavità ne fa comprendere.

Elpino. A che dunque ne serveno gli sensi? Dite.

Filoteo. Ad eccitar la raggione solamente, ad accusare, ad indicare e testificare in parte, non a testificare in tutto, né meno a giudicare, né a condannare. Perché giamai, quantunque perfetti, son senza qualche perturbazione. Onde la verità,come da un debile principio, è dagli sensi in picciola parte, ma non è nelli sensi.

Elpino. Dove dunque?

Filoteo. Ne l'oggetto sensibile come in un specchio, nella raggione per modo di argumentazione e discorso, nell'intelletto per modo di principio o di conclusione, nella mente in propria e viva forma»[207].

Bruno sta spiegando che mentre per la percezione sensibile (ed il conseguente calcolo matematico o rappresentazione geometrica) l'infinità è inaccessibile ed irrappresentabile, al contrario per l'intelletto essa è concetto primario e certissimo, soprattutto alla luce di quella che ho chiamato «filosofia binaria» (espressa sottilmente proprio all'inizio del primo dialogo metafisico, la Cena de le Ceneri). Così come esistono due aspetti del reale così diversi fra loro (finito e infinito), allo stesso modo l'uomo è dotato di due organi conoscitivi: i sensi per il finito e l'intelletto per l'infinito. Ma occorre su questo punto tentare una ulteriore riflessione. Se Bruno nega l'accesso all'infinito tramite i sensi, come mai ha tenuto in così grande considerazione la teoria di Copernico (che da buon astronomo non poteva certo rinunciare alla vista dei cieli stellati, e quindi all'uso diretto dei sensi, pur nella consapevolezza della loro relativa affidabilità): come mai ha insomma apertamente lodato una teoria basata anzitutto sull'osservazione?

 

 

4. Una distinzione di metodo.

 

Interpretare il giudizio di Bruno su Copernico alla luce delle tesi esposte nel De infinito significa allora spingersi ad approfondire ancor di più il livello speculativo della teoria infinitista nolana. Dalla lettura di alcuni dei passaggi fondamentali del testo emerge con chiarezza un dato fondamentale: Bruno sembra voler porre una sottile distinzione di metodo. Un conto è «prospetivare», giocare con la geometria o la matematica, cercare spiegazioni e dimostrazioni fisicho-matematiche (di verità precedentemente acquisite); altro è invece vedere con gli occhi della mente, magicamente, per intuizione diretta, al di là dei sensi.

Riemerge insomma il problema della conoscenza. Come l'uomo conosce? Nel De la Causa, l'oggetto della conoscenza era stato definito in termini di «vestigia», «simulacro», «specchio». Già nel De umbris Bruno aveva del resto ampiamente chiarito, mediante la metafora dell'ombra, i limiti invalicabili della conoscenza umana ordinaria, quella che si effettua attraverso l'uso dei sensi: non si può andare al di là dell'umbra. Tra finito e infinito l'umbra costituisce un filtro indispensabile alla conoscenza e all'esistenza dell'uno e dell'altro. In ogni caso, in quanto costante ontologica, l'umbra è un limite che non si può oltrepassare. Ma le cose cambiano se passiamo ad analizzare la conoscenza del mago.

 

 

5. La conoscenza del filosofo-mago.

 

Il mago, proprio perché dotato di poteri superiori a quelli dell'uomo comune, sa andare al di là dell'ombra, in quanto ne comprende a fondo il significato metafisico. Certo, la sua non è (e non potrebbe essere) una visione perfetta, nitida, ma senza dubbio riesce a penetrare il velo dell'oscurità molto più a fondo di quanto non possano i sensi «comuni». Si noti: il mago possiede già un certo bagaglio di conoscenze, a volte ben precise, specialmente a livello tecnico-metodologico. Al di là delle varie tecniche magiche o mnemotecniche (a volte assai vaghe o stravaganti, a volte invece di una originalità imbarazzante, come nel caso della mnemotecnica, che presenta impressionanti analogie con i moderni metodi di memorizzazione veloce e in generale sembra essere ampiamente confermata dai più recenti studi sulla memoria), il mago può appellarsi ad una serie di verità ermetiche capitali. Esse riguardano la struttura del mondo e della materia, il problema della trascendenza divina, una serie precisa di dottrine soteriologiche, etc. etc. La tradizione ermetica si innesta ancora una volta nel magico misticismo di Bruno, con il risultato evidente di una profonda commistione tra scienza (magico-ermetica) e verità filosofica, logica fantastica e mnemotecnica, religione e cosmologia.

In questo quadro le possibilità della conoscenza umana vengono valutate seguendo i valori della scala naturae, in termini di ascensus e decensus mistico-conoscitivo. Si noti: la struttura umbratile del mondo e quindi della conoscenza umana garantisce anche l'insondabilità, in termini di di-mostrazione dell'infinito. L'infinito, all'interno della magica filosofia binaria rappresenta immediatamente un termine necessario per garantire l'esistenza del finito. Per Bruno, chi domanda le possibilità di una di-mostrazione umana dell'infinito, in termini razionali, chiede in realtà di di-mostrare l'esistente, la realtà. Ovviamente, dimostrare l'esistenza del reale significa dimostrare l'esistenza di Dio.

Copernico allora viene accettato non nelle sue conclusioni (al centro dell'universo non sta il mondo, ma il sole), ma nelle sue premesse: esiste una gerarchia assoluta? Una domanda di questo tipo doveva portare inevitabilmente, secondo Bruno, alla revisione della struttura dell'universo e alla accettazione della verità sepolta: il mondo è infinito, perché è esplicazione infinita della potenza di Dio. Copernico insomma sembra a Bruno essersi mosso all'interno di una embrionale filosofia dell'infinito. Il primo passo verso la teoria infinitista è infatti la messa in crisi delle tradizionali gerarchie. Inoltre, il rapoporto Terra-Sole, parallelo a quello Uomo-Dio, doveva certamente sembrare a Bruno un ottimo elemento da inserire nella sua concezione della realtà binaria, che, come spero di aver dimostrato, è alla base della filosofia del Nolano (inserendosi perfettamente nella teoria dell'umbra).

 

 

6. L'irrazionale.

 

La filosofia dell'ermetico numero binario conduce direttamente ad un inglobamento, che sarà ripetuto da Hegel, dell'irrazionale all'interno del misterioso spettacolo della Natura: uno spettacolo tutto divino e perciò razionale. Il concetto superiore di armonia divina elimina quindi alla base ogni possibilità di esistenza dell'irrazionale e del negativo. L'irrazionale esiste solo a livello epistemologico, e sta ad indicare il limite posto dall'umbra: l'uomo non può - e non potrà mai - conoscere la sostanza del divino. In un mondo in cui tutto ciò che esiste corrisponde ad una esplicazione della infinita potenza divina, rimane posto solo per l'incomprensibile, il non-conoscibile. Il male è in realtà un prodotto esclusivo dell'agire umano: l'etica degli heroici furori è appunto tutta centrata su questa convinzione.

 

 

7. Necessità del concetto di infinito.

 

L'infinito è per Bruno semplicemente necessario, serve a fondare il finito: «se è raggione che sia un buono finito, un perfetto terminato; improporzionalmente è raggione che sia un buono infinito; perché, dove il finito bene è per convenienza e raggione, l'infinito è per absoluta necessità»[208]. In questo senso viene eliminata in un solo colpo tutta la problematica dialettica della correttezza formale in fase di di-mostrazioni:

«Elpinio. come è possibile che l'universo sia infinito?

Filoteo. Come è possibile che l'universo sia finito?

Elpinio. Volete voi che si possa dimostrar questa infinitudine?

Filoteo. Volete voi che si possa dimostrar questa finitudine?»[209].

Dalla dialettica delle due posizioni opposte non sembrano dunque emergere soluzioni possibili. Sul piano delle prove, nessun punto di svolta. L'aporia viene però di colpo superata se si rinnova un cambiamento di prospettiva: l'unica «prova» possibile diventa quella ontologica, quella che sembra chiarire la necessità dell'infinito (della Totalità).

Dell'infinito, soprattutto se considerato come assoluto (Dio) non è possiile dare alcuna dimostrazione. Il problema è casomai quello di esemplificare, render chiaro ciò che è ombra, precisare le possibili analogie concettuali del divino col modo di pensare dell'umano. Ma allora il discorso, ancora una volta, cambia prospettiva: qualsiasi parte dell'universo, presa in se stessa è finita. Se invece consideriamo l'universo inteso come totalità, nella vicissitudine universale dei singoli mondi, ecco che possiamo avvicinarci adeguatamente all'idea di infinito: ricordiamoci che la conoscenza è possibile solo sotto il codice dell'umbra. Paradossalmente, si può quindi dire che non si può pensare (comprendere) l'infinito. Nondimeno, questo costituisce il necessario opposto del finito.

All'infinito non si giunge razionalmente, ma per mezzo di metodi magici. Non si tratta insomma di mettere in campo induzioni o paradossi, con conseguenti argomentazioni. Già l'overture ironica che abbiamo sopra riportato ci rende chiara l'impostazione epistemologica, del resto perfettamente coerente con le tesi sostenute nel De umbris e nel De la Causa, dove Bruno aveva sostenuto che «della divina sustanza, sì per essere infinita, sì per essere lontanissima da quelli effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade, non possiamo conoscer nulla se non per modo di vestigio»[210].

Ecco perché le critiche a Copernico erano rivolte su un piano metodologico: in fondo era la gnoseologia di Copernico che Bruno non poteva accettare. E le mancate conclusioni alle sue stesse premesse erano appunto il segno evidente di una errata impostazione metodologica. La teoria cosmologica deve servire solo ad illustrare una verità già raggiunta, mediante l'incontro magico con una realtà tutta intellettuale, tutta interiore. Copernico ha seguito quindi una strada giusta, ma l'ha percorsa all'incontrario. Non a caso Bruno aveva sostenuto che «nell'universo infinito medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite»[211].

Se i sensi insomma ci ingannano nell'immediato, sono altrettanto inaffidabili rispetto alla conoscenza delle cose lontane: «A l'intelletto conviene giudicare e render raggione de le cose absenti e divise per distanza di tempo ed intervallo di luoghi. Ed in questo assai ne basta ed assai sufficiente testimonio abbiamo del senso per quel, che non è potente a contradirne e che oltre fa evidente e confessa la sua imbecillità ed insufficienza per l'apparenza de la finitudine che caggiona per il suo orizzonte, in formar della quale ancora si vede quanto sia incostante. Or, come abbiamo per esperienza, che ne inganna nella superficie di questo globo in cui ne ritroviamo, molto maggiormente doviamo averlo suspetto quanto a quel termine che nella stellifera concavità ne fa comprendere.

Elpinio. A che dunque ne servono gli sensi? Dite.

Filoteo. Ad eccitar la raggione solamente, ad accusare, ad indicare e testificare in parte, non a testificare in tutto, né meno a giudicare, né a condannare. Perché giamai, quantunque perfetti, son senza qualche perturbazione. Onde la verità, come da un debile principio, è da gli sensi in piccola parte, ma non è nelli sensi.

Elpinio. Dove dunque?

Filoteo. Ne l'oggetto sensibile come in uno specchio, nella raggione per modo di argumentazione e discorso, nell'intelletto per modo di principio e conclusione, nella mente, in propria e viva forma»[212].

La metodologia conoscitiva del Nolano si fa dunque sempre più precisa, e prepara con attenzione il terreno per le future tesi magiche esposte compiutamente nel De magia e nel De vinculis in genere. I sensi servono solo a eccitare la ragione: la verità per Bruno resta nascosta «ne l'oggetto sensibile come in uno specchio». Riemerge insomma, parallelamente alla gnoseologia, il problema dell'oggetto infinito, ovvero il problema della forma.

 

 

8. La forma dell'infinito.

 

Se nel De la Causa era stata operata una vertiginosa rivalutazione della materia, a cui veniva congiunta l'idea di forma esteriore intesa come accidente momentaneo ma universale; ora la forma coinvolge anche la dimensione dell'infinito in se stesso. "Verità" sembra essere a questo punto una nuova determinazione dell'infinito. Cerco di spiegarmi: se la verità deve essere cercata nell'oggetto sensibile, come in uno specchio, allora essa risiede nell'infinito, perché l'oggetto sensibile è, nella sua totalità, infinito. In questo senso si pone il problema della forma dell'infinito.

Alla domanda «qual è la forma dell'infinito» ha già risposto in modo esauriente Biagio De Giovanni: «l'infinito in Bruno ha una forma: è l'individuo. L'infinito di Bruno ha un'esistenza: è la vita infinita. L'infinito esiste, non si dà come un'ipotesi nel tremolio incerto di confini lontani. Ogni cosa, ogni oggetto, ogni realtà ha presso di sé il proprio infinito»[213]. Personalmente, credo non si debba dimenticare che la discussione della forma dell'infinito, in Bruno, comprende anche e soprattutto il problema della verità. Se l'infinito prende forma - concretamente - negli oggetti sensibili (ovvero negli individui), la verità rischia allora di essere dispersa nel molteplice. Sembrerebbe una caduta senza rimedio in un nihilismo assoluto. Qual è la soluzione di Bruno a questo nuovo problema che la sua stessa tematica infinitista mette ora in primo piano?

La risposta di Bruno coinvolge naturalmente la dimensione del tempo. Citando il De umbris, avevamo già toccato il tema della veritas filia temporis: il tempo vede un ritorno ciclico di inviati degli déi, «mercurii ed apollini», dei quali certamente lo stesso Bruno doveva essere un rappresentante, e ai quali spettava l'arduo compito di ricordare agli uomini la verità perduta, l'età dell'oro. Siamo quindi lontani, come già notava Fulvio Papi, dalla verità storicista: «La verità dei filosofi è figlia del tempo: non nel senso un po' ingenuo inteso dagli storicisti, e cioé che essa abbia uno svolgimento coincidente con il divenire temporale. Ma nel senso che prima o poi, con il tempo, essa è destinata a mostrarsi. Il suo obnubilamento non può che essere provvisiorio»[214]. La verità è insomma un oggetto che non viene mai dato nell'esistenza, almeno in modo completo, assoluto. Trattare il problema della Verità all'interno dell'ottica infinitista e a-gerarchica, significa rivoluzionare i tradizionali termini di discussione e porsi, automaticamente, al di fuori dei canoni cattolici e riformati.

La nuova verità, che Bruno annuncia col fervore del profeta, non è una verità soltanto intellettuale (metafisico-cosmologica), ma soprattutto teologica: l'alito divino è presente nell'individuo, perché l'individuo è anello ineliminabile della catena infinita dell'essere, e l'esistenza dell'individuo si attua nella sua completezza solo nell'arco di una vicissitudine infinita. Siamo di fronte alla più completa forma di divinizzazione umana che l'intero Rinasciemnto abbia potuto vedere: l'uomo, in quanto individuo, è figlio e parte della vita infinita. Non esiste la morte, non esiste una gerarchia, non esiste una verità data una volta per sempre. In breve: l'uomo diventa protagonista delle proprie scelte e del proprio cammino: non c'è nessun Dio che guida con amore i figli di Adamo. In realtà la «caduta» coincide con il passaggio dalla religione magica di Ermete Trismegisto, dal linguaggio magico, dal sapere, al non sapere, alla pedanteria. L'unica verità consegnata nelle mani dell'uomo è quella ermetica, e riguarda la metodologia soteriologica e la struttura del mondo. L'universo è infinito e in esso c'è Dio. L'uomo, in quanto parte dell'universo, respira della stessa vita di Dio: è, appunto, un «magnum miraculum», come l'aveva definito Ermete Trismegisto. La sua esistenza si attua nella vicissitudine universale, che coinvolge tutti i piani dell'essere, in quanto nell'universo non esiste nulla di immobile e nemmeno il vuoto (che in quanto tale è anche privo di movimento).

All'interno del quadro speculativo della teoria infinitista, il concetto di vicissitudine universale coinvolge tutti gli individui, e riunisce in questo modo la verità dispersa. La verità dimostra in questo senso uno sviluppo parallelo al rapporto Dio-universo: segue lo stesso processo di esplicazione dall'unità, nelle cose particolari e di implicazione nell'unità. Gli individui particolari - in cui pure è possibile scoprire come in uno specchio una verità - concorrono tutti insieme alla formazione del Vero, in un tempo ciclico infinito.

Riemerge allora anche la centralità dell'azione magica: nella dimensione dell'esistenza, solo la magia sa ricomporre questa scissione - istantanea - tra Essere, pensiero e linguaggio. La magia porta alla Verità, perché garantisce l'unione con l'Unum, mediante l'ascesi per gradi. Ovviamente il termine ascesi, che preferisco per configurare l'iniziativa del misticismo bruniano, ha in questo ambito un'accezione opposta a quella classica. Ascesi significa qui non distacco dal mondo, ma fusione con esso, e tramite il raggiungimento di questa identità, unione col divino.

Il Dio che è nelle cose ha fatto un mondo infinito, e non poteva fare altrimenti. Gradualmente, il lettore del dialogo viene condotto nell'area del principio di pienezza, asse portante della teoria infinitisctica a livello teo-cosmologico. Il principuim plenitudis merita dunque una citazione completa.

 

 

9. Il principium plenitudis.

 

Alla discussione della tesi aristotelica dello spazio chiuso, momento centrale del De infinito, si accompagna un uso estremamente radicale del principium plenitudis. Già nella Proemiale epistola leggiamo: «Cossì si magnifica l'eccellenza de Dio, si manifesta la grandezza de l'imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diececento mila, dico in infiniti. Di sorte che non è vana questa potenza d'intelletto, che sempre vuole e puote aggiungere spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a numero, per quella scienza che ne discioglie da le catene di uno angustissimo, e ne promove alla libertà d'un agustissimo imperio, che ne toglie dall'opinata povertà ed angustia alle innumerevoli ricchezze di tanto spacio, di sì dignissimo campo, di tanti coltissimi mondi; e non fa che circolo d'orizonte, mentito da l'occhio in terra e finto da la fantasia nell'etere spacioso, ne possa impriggionare il spirto sotto la custodia d'un Plutone e la mercè d'un Giove»[215].

Nel Dialogo primo, determinando la definitiva rottura con la tradizione aristotelica, Filoteo-Bruno aveva già spiegato: «Se il mondo è finito ed estra il mondo è nulla, vi dimando: ove è il mondo? ove è l'universo? Risponde Aristotele: è in se stesso. Il convesso del primo cielo è loco universale; e quello, come primo continente, non è in altro continente, perché il loco non è altro che superficie ed estremità di corpo continente; onde chi non ha corpo continente, non ha loco. - Or che vuoi dir tu, Aristotele, per questo, che "il luogo è in se stesso"?, che mi conchiuderai per "cosa estra il mondo"? Se tu dici che non v'è nulla; il cielo, il mondo, certo non sarà in parte alcuna [...]. Se dici (come certo mi par che vogli dir qualche cosa, per fuggir il vacuo ed il niente) che estra il mondo è uno ente intellettuale e divino, di sorte che Dio venga ad esser luogo di tutte le cose, tu medesimo sarai molto impacciato per farne intendere come una cosa in corporea, intellegibile e senza dimensione possa esser luogo di cosa dimensionata. Che se dici quello comprendere come una forma ed al modo con cui l'anima comprende il corpo, non rispondi alla questione dell'estra ed alla dimanda di ciò che si trova oltre e fuor de l'universo. E se tu vuoi escusare con dire, che dove è nulla e dove non è cosa alcuna, non è anco luogo, non è oltre, né extra, per questo non mi contenterai; perché queste sono paroli ed iscuse che non possono entrare in pensiero. Perché è a fatto impossibile che con qualche senso o fantasia [...] possi farmi affirmare, con vera intenzione, che si trove tal superficie, tal margine, tal estremità, extra la quale non sia o corpo o vacuo: anco essendovi Dio, perché la divinità non è per empire il vacuo, e per conseguenza non è in raggione di quella, in modo alcuno, di terminare il corpo; perché tutto lo che se dice terminare, o è forma esteriore, o è corpo continente. Ed in tutti i modi che lo volessi dire, sareste stimato pregiudicatore alla dignità della natura divina e universale»[216]. Ma ecco l'esposizione più completa del principium plenitudis[217]: «Filoteo. In somma, per venir direttamente al proposito, mi par cosa ridicola il dire che estra il cielo sia il nulla, e che il cielo sia in se stesso, e locato per accidente, idest per le sue parti. Ed intendasi quel che si voglia per accidente; che non può fuggir che non faccia de uno doi; perché sempre è altro ed altro quel che è continente e quel che è contenuto; e talmente altro ed altro che, secondo lui medesimo, il continente è incorporeo ed il contenuto è corpo; il continente è immobile, il contenuto è mobile; il continente matematico, il contenuto fisico. Or sia che si volgia di quella superficie, constantemente dimandarò: che cos'è oltre quella? Se si risponde che è nulla, questo dirò esser vacuo, essere inane; e tal vacuo e tal inane che non ha mondo, né termine alcuno olteriore; terminato però citeriormente. E questo è più difficile ad imaginare, che il pensar l'universo essere infinito ed immenso. Perché non possiamo fuggire il vacuo, se vogliamo ponere l'universo finito. Veggiamo adesso, se conviene che sia tal spcio in cui sia nulla. In questo spacio infinito si trova questo universo (o sia per caso o per necessità o providenza, per ora non me ne impaccio). Dimando se questo spacio che contiene il mondo, ha maggiore aptitudine di contenere un mondo, che altro spacio che sia oltre.

Fracastorio. Certo mi par che non; perché dove è nulla, non è differenza alcuna; dove non è differenza, non altra ed altra aptitudine: e forse manco è attitudine alcuna dove non è cosa alcuna»[218].

Lo spazio del nostro mondo e quello esterno sono quindi identici: ma allora, come ha osservato acutamente Alexander Koyré, «se sono tali è impossibile che lo spazio "al di fuori" sia trattato da Dio in maniera diversa da quello che è "all'interno". Siamo così costretti ad ammettere che non solo lo spazio, ma anche l'essere nello spazio è ovunque costituito allo stesso modo, e che, se nella nostra parte dello spazio infinito vi è un mondo, una stella - il sole circondato dai pianeti - allora ve ne sono in tutto l'universo»[219].

Si noti come nel ragionamento Bruno passi ripetutamente dal piano cosmologico a quello metafisico, dalla questione dell'universo a quella dell'essere. Questi passaggi e accostamenti gli sono permessi proprio in virtù della vitalizzazione della materia compiuta nel De la Causa, dove, nel III Dialogo, aveva attribuito la materia anche a Dio: parlare dell'universo significa parlare di Dio, ma solo in quanto «esplicato». In quanto «complicato», invece, Egli è Unum, e quindi rimane plotinianamente al di fuori della conoscenza umana positiva (mentre resta possibile una oculata teologia negativa). Continua dunque il discorso Elpinio:

«Elpinio. Né tampoco inepzia alcuna. E delle due più tosto quella che questa.

Filoteo. Voi dite bene. Cossì dico io che, come il vacuo ed inane (che si pone necessariamente con questo peripatetico dire) non ha aptitudine alcuna a ricevere, assai meno la deve avere a ributtare il mondo. Ma di queste due attitudini noi ne veggiamo una in atto, e l'altra non la possiamo vedere affatto, se non con l'occhio della raggione. Come dunque in questo spacio, equale alla grandezza del mondo (il quale dai platonici è detto materia), è questo mondo, cossì un altro può essere in quel spacio ed in innumerabili spacii oltre questo equali a questo.

Fracastorio. Certo, più sicuramente possiamo giudicar in similitudine di quel che veggiamo e conoscemo, che in modo contrario di quel che veggiamo e conoscemo. Onde, perché per il nostro vedere ed esperimentare l'universo non si finisce, né termina a vacuo ed inane e di quello non è nuova alcuna, raggionevolmente doviamo conchiuder cossì; perché, quando tutte l'altre raggioni fussero equali, noi veggiamo che l'esperimento è contrario al vacuo e non al pieno. Con dir questo, saremo sempre iscusati; ma con dir altrimente, non facilmente fugiremo mille accusazioni ed inconvenienti. Seguitate, Filoteo.

Filoteo. Dunque, dal canto del spacio infinito, conosciamo certo che è attitudine alla recepzione di corpo, e non sappiamo altrimente. Tutta volta mi basterà avere che non ripugna a quella; almeno per questa caggione, che dove è nulla, nulla oltraggia. Resta ora vedere se è cosa conveniente che tutto il spacio sia pieno o non. E qua, se noi consideriamo tanto in quello che può essere quanto in quello che può fare, trovaremo sempre non sol raggionevole, ma ancora necessario, che sia. Questo acciò sia manifesto, vi dimando se è bene che questo mondo sia.

Elpinio. Molto bene.

Filoteo. Dunque è bene che questo spacio, che è equale alla dimension del mondo (il quale voglio chiamar vacuo, simile ed indifferente al spacio, che tu direste esser niente oltre che la convessitudine del primo cielo), sia talmente ripieno.

Elpinio. Cossì è.

Filoteo. Oltre, te dimando: credi tu che sicome in questo spacio si trova questa machina, detta mondo, che la medesima arebe possuto o potrebbe essere in altro spacio di questo inane?

Elpinio. Dirò sì, benché non veggio come nel niente e vacuo possiamo dire differenza di altro ed altro.

Fracastorio. Io son certo che vedi, ma non ardisci di affirmare, perché ti accorgi dove ti vuol menare.

Elpinio. Affirmatelo pur sicuramente; perché è necessario dire ed intendere che questo mondo è in uno spacio; il quale, se il mondo non fusse, sarebe indifferente da quello che è oltre il primo vostro mobile.

Fracastorio. Seguitate.

Filoteo. Dunque, sicome può ed ha possuto ed è necessariamente perfetto questo spacio per la continenza di questo corpo universale, come dici; niente meno può ed ha possuto esser perfetto tutto l'altro spacio.

Elpinio. Il concedo; che per questo? Può essere, può avere: dunque è dunque ha?

Filoteo. Io farò che, se vuoi ingenuamente confessare, che tu dica che può essere e che deve essere e che è. Perchè come sarebe male che questo spacio non fusse pieno, cioè che questo mondo non fusse; non meno, per la indifferenza, è male che tutto il spacio non sia pieno; e per consequenza l'universo sarà di dimensione infinita e gli mondi saranno innumerabili.

Elpino. La causa perchè denno essere tanti, e non basta uno?

Filoteo. Perchè, se è male che questo mondo non sia o che questo pieno non si ritrove, è al riguardo di questo spacio o di altro spacio equale a questo?

Elpino. Io dico che è male al riguardo di quel che è in questo spacio, che indifferentemente si potrebbe ritrovare in altro spacio equale a questo.

Filoteo. Questo, se ben consideri, viene tutto ad uno; perchè la bontà di questo essere corporeo che è in questo spacio o potrebe essere in altro equale a questo, rende raggione e riguarda a quella bontà conveniente e perfezione che può essere in tale e tanto spacio, quanto è questo, o altro equale a questo, e non ad quella che può essere in innumerabili altri spacii, simili a questo. Tanto più che, se è raggione che sia un buono finito, un perfetto terminato; improporzionalmente è raggione che sia un buono infinito; perchè, dove il finito bene è per convenienza e raggione, l'infinito è per absoluta necessità»[220].

Si noti la valenza analogica del ragionamento: se per Dio era possibile creare un mondo in questo spazio (e lo è stato), allora era altrettanto possibile crearlo in un altro spazio. Ma dato che lo spazio è uniforme, omogeneo, non si vede perché Dio avrebbe dovuto creare un mondo qui piuttosto che là, ovvero perché mai ne avrebbe dovuto crearne uno solo. Ma qui il ragionamento vuole ancora «convincere». Se passiamo dal livello dialettico a quello più puro, del ragionamento metafisico, deve senz'altro essere abbandonata l'idea di creazione. Occorre rifletterci un attimo per convincersene: non si tratta più di trovare le motivazioni di una creazione infinita, ma piuttosto i modi di un infinito dispiegamento, di una infinita esplicazione. Nel De la Causa avevamo visto che Dio e Universo coincidono: l'idea della creazione deve quindi essere del tutto abbandonata, per essere sotituita da quella di esplicazione. Ci troviamo così di fronte al secondo principio fondamentale per l'affermazione dell'infinito: l'argomento teologico della infinita potenza divina, che si attua mediante una infinita esplicazione.

 

 

10. Esplicazione infinita della infinita potenza divina.

 

Abbiamo notato che il principio di pienezza non è sufficiente, o meglio può essere frainteso, nel garantire l'infinità dell'universo. Il suo complemento naturale è dunque la tesi della infinita esplicazione divina, la cui esposizione si collega direttamente al passo sopra citato. Prosegue dunque Filoteo-Bruno:

«Filoteo. In questo siamo concordanti, quanto a l'infinito incorporeo. Ma che cosa fa che non sia convenientissimo il buono, ente, corporeo infinito? O che repugna che l'infinito, implicato nel semplicissimo ed individuo primo principio, non venga esplicato più tosto che in questo suo simulacro infinito ed interminato, capacissimo de innumerabili mondi, che venga esplicato in sì anguste margini, di sorte che par vituperio il non pensare che questo corpo, che a noi par vasto e grandissimo, al riguardo della divina presenza non sia che un punto, anzi un nulla?

Elpino. Come la grandezza de Dio non consiste nella dimensione corporale in modo alcuno (lascio che non li aggionge nulla il mondo), cossì la grandezza del suo simulacro non doviamo pensare che consista nella maggiore e minore mole di dimensioni.

Filoteo. Assai bene dite, ma non rispondete al nervo della raggione; perchè io non richiedo il spacio infinito, e la natura non ha spacio infinito, per la dignità della dimensione o della mole corporea, ma per la dignità delle nature e specie corporee; perchè incomparabilmente meglio in innumerevoli individui si presenta l'eccellenza infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti. Però, bisogna che di un inaccesso volto divino sia un infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si trovino mondi innumerabili, quali sono gli altri. Però per la raggione de innumerabili gradi di perfezione, che denno esplicare la eccellenza divina incorporea per modo corporeo, danno essere innnumerabili individui, che son questi grandi animali (de quali uno è questa terra, diva madre che ne ha parturiti ed alimenta e che oltre non ne riprenderà), per la continenza di questi innumerabili si richiede un spacio infinito. Nientemeno dunque è bene che siano, come possono essere, innumerebili mondi simili a questo, come ha possuto e può essere ed è bene che sia questo.

Elpino. Diremo che questo mondo finito, con questi finiti astri, comprende la perfezione de tutte cose.

Filoteo. Possete dirlo, ma non già provarlo; perché il mondo che è in questo spacio finito, comprende la perfezione di tutte quelle cose finite che son in questo spacio; ma non già dell'infinite che possono essere in altri spacii innumerabili»[221].

Precedentemente, l'infinità dell'universo sembrava perfettamente stabilita, grazie all'adozione del principio di pienezza. Ma che fare dell'antica obiezione medievale, secondo la quale il concetto di infinito si può applicare soltanto a Dio, e a causa della quale Nicola Cusano aveva preferito adottare per l'universo una definizione imprecisa come quella di interminatum? Ovviamente Bruno non sta negando qui quello che ha affermato in precedenza, e diffusamente, ovvero che - assolutamente parlando - esiste una differenza ontologica tra Dio e Universo, in quanto l'infinità di Dio è intensiva e perfettamente semplice, mentre quella dell'universo è estensiva e quindi soggetta al dominio del molteplice.

 

 

11. L'infinità della Natura.

 

«La natura [...] ha spacio infinito [...] perché incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta l'eccellenza infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti»[222]. Ancora una volta, il ragionamento coinvolge il piano dell'etica: in Dio è impensabile sia l'ozio che l'invidia. Potenza e operazione solo un solo processo:

«perché vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? perché vogliamo dire che la divina bontà la quale si può communicare alle cose infinite e si può infinitamente diffondere, voglia essere scarsa ed astrengersi in niente, atteso che ogni cosa finita al riguardo de l'infinito è niente? perché volete quel centro della divinità, che può infinitamente amplificarse, come invidioso, rimaner più tosto sterile che farsi comunicabile, padre fecono, ornato e bello? voler più tosto comunicarsi diminutamente e, per dir meglio, non comunicarsi, che secondo la raggione della gloriosa potenza esser suo? perché deve esser frustrata la capacità infinita, defraudata la possibilità di infiniti mondi che possono essere, pregiudicata la eccellenza della diina imagine che deverebe più risplendere in uno specchio incontratto secondo il suo modo di essere infinito, immenso?»[223].

Tornano in primo piano le distinzioni metafisiche del De la Causa, che qui emergono sul piano della differente infinità di Dio e dell'universo esplicato: «Come vuoi tu che Dio, e quanto alla potenza e quanto all'operazione e quanto all'effetto (che in lui son la medesima cosa), sia determinato, e come terminio della convessitudine di una sfera, più tosto che, come dir si può, terminio interminato di cosa interminata? Terminio, dico, senza termine, per esser differente la infinità dell'uno da l'infinità dell'altro: perché lui è tutto l'infinito complicatamente e totalmente, ma l'universo è tutto in tutto (se pur in modo alcuno si può dir totalità, dove non è parte né fine) explicatamente, e nontotalmente; per il che l'uno ha raggion di trmine, l'altro ha raggion terminato, non per differenza di finito ed infinito, ma perché l'uno è infinito e l'altro è finiente secondo la ragione del totale e totalmente essere tutto in tutto quello che, benché sia tutto infinito, non è però totalmente infinito: perché questo ripugna alla infinità dimensionale»[224].

Alle insistenze di chiarimenti di Elpinio, Filoteo-Bruno risponde: «io dico l'universo tutto infinito, peché non ha immagine, terminio, né superficie; dico l'universo non essere totalmente infinito, perché ciascuna parte che di quello possiamo prendere, è finita, e de mondi innumerabili che contiene, ciascuno è finito. Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo atributo è uno ed infinto; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciscuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità dell'universo, la quale è totalmente tutto in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprender in quello»[225]. Paradossalmente, l'infinità di Dio è superiore a quella dell'universo proprio perché si risolve in una unità semplicissima, al contrario dell'universo esplicato.

Non convince quindi Koyré quando sostiene che «all'antica e famosa quaestio disputata: perché Dio non ha creato un mondo infinito - questione cui gli scolastici medievali davano una buona risposta, negando la possibilità stessa di una natura infinita - Bruno risponde semplicemente, ed è il primo a farlo: Dio lo ha creato, ed anche: Dio non poteva fare altrimenti. Infatti il Dio di Bruno non può che esplicarsi ed esprimersi in un mondo infinito, infinitamente ricco ed infinitamente esteso»[226]. Non emerge infatti da un'affermazione come questa l'assoluta mancanza in Bruno dell'idea di creazione ex nihilo. A proposito si dovrà ricordare quanto sosteneva Michelangelo Ghio.

 

 

12. Espressione e creazione.

 

Osservando giustamente che per Bruno non si può mai parlare di creazione in senso assoluto, ma casomai di espressione, Ghio sostiene che «In Bruno la presenza del linguaggio e della tradizione speculativa, delle metafore e delle immmagini del neoplatonismo cristiano vengono usati per costruire quelle categorie dell'immanenza che per Deleuze costituiscono gli elementi strutturali del concetto di espressione, come rapporto di complicatio-explicatio tra Dio e il mondo. [...] Bruno esprime un'interpretazione del rapporto tra Dio e mondo completamente incompatibile con una concezione creativistica: non più gerarchia degli esseri, come serie di emanazioni successive e subordinate le une alle altre, ma compresenza di due movimenti correlativi di inerzia e di implicazione. E' questo infatti il senso conferito da Bruno alla coppia di concetti complicatio-explicatio, risovendoli appunto in categorie dell'immanenza. Al movimento di inerenza, come presenza delle cose in Dio, corrisponde quello di implicazione, come presenza di Dio nelle cose. Le cose restano inerenti a Dio, che le complica, come Dio resta implicato nelle cose che lo esplicano. Così il rapporto di espressione tra Dio e mondo si configura in modo nuovo rispetto alla tradizione del platonismo cristiano: Dio è identico alla natura - complicative -, la natura è identica a Dio -esplicative - [...]. Non solo l'eminenza della causa e il concetto di gerarchia, familiari alla tradizione del platonismo cristiano qui non hanno più luogo, ma fra Dio e natura non ci può essere che uguaglianza come identità nella distinzione. E' in sostanza una posizione monista e immanentistica, per cui non solo cade il concetto di predicazione analogica, sostituito da una nozione sostanzialmente univoca dell'essere, ma la stessa concezione dell'infinità dell'universo dipende dalla risoluzione in senso nettamente immanentistico del pensiero del Cusano "deve essere infinito, cioè illimitato, l'universo, cusinianamente, l'esplicazione dell'unità, attualmente infinita, di Dio" (Augusto Guzzo[227][228].

Non esiste tra Dio e l'universo una differnza come tra finito e infinito. L'infinito, se inteso nella totalità dei suoi attributi, allora è Dio (totalmente infinito): se invece si considera semplicemente l'assenza di margini o confini - e qui sembra meglio valere il concetto di interminatum - e la mancanza di una infinità assoluta (perché ogni mondo è finito in se stesso), allora si ha a che fare con l'universo. Riemerge insomma il significato del principuim plenitudis: l'onnipotenza di Dio non sarebbe pienamente tale se non producesse gli innumerabili mondi nell'universo lasciandolo invece vuoto «per cui non solamente verrebbe suttratta infinita perfezionedello ente, ma anco infinita maestà attuale allo efficiente nelle cose fatte se son fatte, o dependenti se sono eterne. Quale raggione vuole che vogliamo credere, che l'agente che può fare un buono infinito, lo fa finito?»[229].

Nel secondo Dialogo la confutazione delle tesi aristoteliche contro l'infinito passa per l'enunciazione e la giusitificazione del principio ex nihilo nihil fit e dalla rinnovata discussione delle tesi copernicane. Anzitutto Filoteo-Bruno chiarisce che il vuoto, nell'universo infinito non esiste:

«Noi non diciamo vacuo alcuno, come quello che sia semplicemente nulla; ma secondo quella raggione, con la quale ciò che non è corpo resista sensibilmente, tutto suole esser chiamato, se ha dimensione, vacuo: atteso che comunemente non apprendeno l'esser corpo, se non con la proprietà di resistenza; onde dicono che, sicome non è carne quello che non è vunerabile, cossì non è corpo quello che non resiste. In questo modo diciamo esser un infinito, cioé una eterea regione immensa, nella quale sono innumerevoli ed infiniti corpi, come la terra, la luna ed il sole; li quali da noi son chiamati mondi composti di pieno e di vacuo: perché questo spirito, questo aria, questo etere non solamente è circa questi corpi, ma ancora penetra dentro tutti, e viene insito in ogni cosa»[230].

Poi viene la confutazione del De coelo, che verrà a suo tempo ripresa nel libro II del De immenso. In breve: Elpinio, che riporta nella discussione le tesi di Aristotele, spiega come lo Stagirita dimostri che non esiste un corpo infinito:

«Bisogna dunque, che veggiamo, se è possibile, che sia un corpo semplice di grandezza infinita; il che primeramente deve esser mostrato impossibile in quel primo corpo, che si muove circularmente; appresso, negli altri corpi; perché, essendo ogni corpo o semplice o composto, questo, che è composto, siegue la disposizion di quello che è semplice. Se, dunque, gli corpi semplici non sono infiniti né di numero né di grandezza, necessariamente non potrà esser tale corpo composto.

Filoteo. Promette molto bene; perché, se lui provarà, che il corpo il quale è chiamato continente e primo, sia continente, primo e finito, sarà anco soverchio e vano provarlo appresso di corpi contenuti.

Elpinio. Or prova che il corpo rotondo non è infinito. "Se il corpo rotondo è infinito, le linee, che si partono dal mezzo, saranno infinite, e la differenza d'un semidiametro dall'altro (gli quali, quanto più si discostano dal centro, tanto maggior distanza acquistano) sarà infinita; perché dalla addizione delle linee secondo la longitudine è necessario che siegua maggior distanza; e però, se le linee sono infinite, la distanza ancora sarà infinita. Or è cosa impossibile, che il mobile possa trascorrere distanza infinita: e nel moto circolare è bisogno, che da una linea semidiametrale del mobile venga al luogo dell'altro ed altro semidiametro".

Filoteo. Questa raggione è buona, ma non è a proposito contra l'intenzion de gli aversarii. Perché giammai s'è ritrovato sì rozzo e d'ingegno sì grosso, che abbia posto il mondo infinito e magnitudine infinita, e quella mobile. E mostra lui medesimo essersi dimenticato di quel che riferisce nella sua Fisica: che quei che hanno posto uno ente ed uno principio infinito, hanno posto similmente immobile; e né lui ancora, né altro per lui, potrà nominar mai alcun filosofo o pur uomo ordinario che abbia detto magnitudine infinita mobile. Ma costui, come sofista, prende una parte della sua argumentazione dalla conclusione dell'avversario, supponendo il proprio principio, che l'universo è mobile, e che è di figura sferica. Or vedete, se de quante raggioni produce questo mendico, se ne ritrove pur una che argumente contra l'intenzion di quei, che dicono uno infinito, inmobile, infigurato, spaciosissimo continente de innumerabili mobili, che son gli mondi, che son chiamati astri da altri, e da altri sfere; vedete un poco in questa ed altre raggioni, se mena presuppositi conceduti da alcuno.

Elpinio. Certo, tutte le sei raggioni sono fondate sopra quel presupposito, cioé che l'avversario dica, che l'universo sia infinito, e che gli admetta, che quello infinito sia mobile: il che certo è una sciocchezza [...]»[231].

Per Bruno quindi Aristotele ha fatto un po' il sofista: in realtà basterebbe considerare l'universo infinito non mobile per far cedere in un sol colpo tutte le sue raggioni e argumenti. L'universo non si può muovere per il semplice motivo che se si muovesse avrebbe bisogno di uno spazio per farlo: ma l'universo stesso è lo spazio, quindi non ha un luogo in cui potersi muovere.

Diverso è il discorso dei singoli mondi: essi sono immersi in una immensa eterea reggione, l'universo, ed hanno quindi un luogo, uno spazio per muoversi: dirà infatti Filoteo-Bruno più avanti che «altro è dir parti nell'infinito, altro dell'infinito» e «nell'infinito parti finite innumerabili hanno azione e passione»[232].

L'infinito è quindi immobile, mentre al suo «interno» è possibile il movimento dei grandi animali animati, quali sono i mondi, le stelle, e la vita che si genera in essi: «Concedesi dunque, non che l'infinito sia mobile ed alterabile, ma che in esso sieno infiniti mobili ed alterabili; non che il finito patisca da infinito, secondo fisica e naturale infinità, ma secondo quella che procede da una logica e razionale aggregazione che tutti gravi computa in un grave, benché tutti gravi non siano un grave. Stante dunque l'infinito e tutto innmobile, inalterabile, incorrottibile, in quello possono essere, e vi son moti ed alterazioni innumerabili e infiniti, perfetti e compiti»[233]. Il discorso del secondo dialogo si avvia alla conclusione - significativamente - tutta astronomica:

«Elpinio. Mi avete molto soddisfatto, di sorte che mi par cosa soverchia d'apportar quell'altre ragioni salvaticine con le quali [Aristotele] vuol dimostrar che estra il cielo non sia corpo infinito [...].

Filoteo. Io credo ed intendo che oltre ed oltre quella margine imaginata del cielo sempre sia eterea regione, e corpi mondani, astri, terre, soli; e tutti sensibili absolutamente secondo sé ed a quelli che vi sono dentro o da presso, benché non sieno sensibili a noi per la lor lontanaza e distanza»[234].

Programmaticamente, il Dialogo terzo mette in scena le conseguenze dell'abbattimento dell'ultima sphaera mundi: «Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l'eterea regione per la quale il tutto discorre e si muove. Ivi innumerabili stelle, astri, globi, soli e terre sensibilmente si veggono, ed infiniti raggionevolmente si argumentano. L'universo immenso ed infinito è il composto che risulta da tal spacio e tanti compresi corpi»[235].

L'omogeneità dell'universo porta dunque a due conclusioni: anzitutto l'universo è raggionevolmente infinito (poco importa se con i sensi si possono vedere solo un numero limitato di stelle, perché il filosofo, come si è spiegato, deve fare affidamento sul senso interiore e non su quello esterno); in secondo luogo, proprio in quanto omogeneo, l'universo è infinitamente popolato di mondi abitati: «sono dunque soli innumerabili, sono terre infinite, che simultaneamente circuiscono quei soli; come veggiamo questi sette circuire questo sole a noi vicino»[236]. «onde possiamo stimare che de stelle innumerabili sono altre tante lune, altre tanti globi terrestri, altre tanti mondi simili a questo; circa gli quali par che questa terra si volte, come quelli appaiono rivolgersi ed aggirarsi circa questa terra»[237]. Si noti la radicalità del metodo analogico: il ragionamento è tutto composto di momenti che si fondano sul principio dell'analogia. Come Dio è infinito, così è infinita la sua explicatio, ossia l'universo. Così come è abitato questo mondo, così sono abitati i mondi infiniti che popolano l'universo. Il tutto sorretto naturalmente dal principio teologico (di assai sospetta teologia ereticale) di ragion sufficiente.

 

 

13. Alcune buone intuizioni riguardo alle leggi fisiche e cosmologiche.

 

Convincente, come è stato notato[238], è la spiegazione razionale del motivo per cui il luogo dove stiamo non possa non apparirci il centro del mondo, sia esso la Terra, la Luna o il Sole: «non possiamo apprendere il moto se non per certa comparazione e relazione a qualche cosa fissa: perché, tolto uno che non sappia che l'acqua corre e che non vegga le ripe, trovandosi in mezzo l'acqui entro una corrente nave, non arrebbe senso del moto di quella»[239]. Si tratta di un embrionale principio di relatività del moto?

La conclusione del dialogo vede porsi in primo piano la sistematizzazione del principio binario della realtà (seguendo qui la coincidentia oppositorum di Cusano). La tematica dell'Unum, se posta ambiguamente, pone infatti dei seri interrogativi:

«Fracastorio. [...] Son quenque infiniti gl'innumerabili e principali membri de l'universo, di medesimo volto, faccia, prerogativa, virtù ed effetto.

Burchio. Non volete che tra altri e altri vi sia differenza alcuna?

Fracastorio. Avete più volte udito che quelli son per sé lucidi e caldi, nella composizion di quali predomina il fuoco; gli altri risplendeno per altrui partecipazione, che son per sé freddi ed oscuri; nella composizion de quali l'acqua predomina. Dalla qual diversità e contrarietà depende l'ordine, la simmetria, la complessione, la pace, la concordia, la composizione, la vita. Di sorte che gli mondi son comspoti di contrarii [...]. Il che, credo, intese quel sapiente che disse Dio far pace ne gli contrari sublimi, e quell'altro che intese il tutto esser consistente per lite di concordi ed amor litiganti»[240].

La filosofia binaria presuppone insomma un uso radicale della coincidentia oppositorum: l'universo esiste solo in quanto è possibile l'incontro degli opposti. Estremamente affascinante è l'immagine di questo incontro, descritta da Bruno in termini di oridne, simmetria, pace, concordia, ovvero armonia.

L'anima mundi, dicevamo, si esplica in una azione che è anzitutto armonica, direi artistica. Anche da questa prospettiva è dunque possibile cogliere il divino che c'è nel mondo. I singoli atomi della vita, le monadi, vengono regolati nei loro movimenti dall'intelletto superiore, che conferisce a loro un percorso ed un movimento ben preciso. Nell'universo infinito, dicevamo, il caos anassagoreo è del tutto assente.

Nel dialogo Quarto infatti, Bruno mette in scena un abbozzo di teoria materialistico-atomistica e vitalistica insieme, spiegando che alla base della costituzione materiale delle cose ci sono dei corpi indissolubili, delle specie di atomi della vita (nel De minimo parlerà apertamente di monade e atomo, l'una minimo metafisico e l'altro fisico), che presiedono alla formazione di nuovi composti, nella scia della vicissitudine universale: «quanto appartiene alli primi corpi indivisibili, de quali originalmente è composto il tutto, è da credere che per l'immenso spacio hanno certa vicissitudine, con cui altrove influiscano ed affluiscano altronde. E questi, se pur per providenza divina, secondo l'atto, non costituiscano nuovi corpi e dissolvano gli antichi, almeno hanno tal facultà. Perché veramente gli corpi mondani sono dissolubili; ma può essere che o da virtù intrinseca o estrinseca sieno eternamente persistenti medesimi, per aver tale e tanto influsso, quale e quanto hanno efflusso gli atomi, e cossì perserverino medesimi in numero»[241]. Ovviamente l'idea della dissoluzione dei corpi è ripresa, quasi identica, dai trattati ermetici tradotti da Ficino.

Notevole è poi una specie di anticipazione di quella che sarà la legge di Galielo sulla caduta dei gravi: «E' certo e assai esperimentato nelle parti de la terra, che, da certo termine del loro recesso e lontananza, ritornar sogliono al suo continente; a cui tanto più s'affrettano quanto più s'avvicinano»[242].

Interessante sarebbe a questo proposito uno studio approfondito sul rapporto tra teorie magiche e teorie pseudo-scientifiche in Giordano Bruno: che cosa è magico e che cosa scientifico, in senso moderno, nel pensiero del Nolano?

A molti di questi interrogativi hanno già risposto Frances Yates e Alexander Koyré, ma da due posizioni opposte e abbastanmza radicali. Mentre per la Yates Bruno è un rappresentante del magismo rinascimentale, ed anche uno dei più radicali (sono queste le conslusioni del suo Giordano Bruno e la tradizione ermetica), e va quindi studiato esclusivamente secondo un quadro interpretativo magico-ermetico, per Koyrè addirittura «Giordano Bruno [...] non è un filosofo molto buono. L'unione di Lucrezio e del Cusano non produce un miscuglio molto coerente; e benché [...] il suo esame delle obiezioni tradizionali al moto della terra sia piuttosto buono, il migliore di cui siano state oggetto prima di Galileo, come scienziato egli è mediocre, non capisce la matematica ed ha una concezione dei moti celesti molto bizzarra [...]: in realtà la sua concezione del mondo è vitalistica e magica; i suoi pianeti sono esseri animati che si muovono liberamente ed armonicamente nello spazio»[243].

Personalmente credo che sia tempo di mettere da parte soluzioni interpretative del tutto univoche, per tentare invece di studiare i singoli aspetti del pensiero bruniano nelle loro reciproche valenze di volta in volta magiche, teologiche, schiettamente logico-razionali o addirittura, come nel caso che abbiamo visto, quasi scientifiche. Il sincretismo del nolano non si lascia insomma definire e catturare da un solo punto di vista.

Prima di concludere l'opera, dopo aver messo in campo teorie pseudo-scientifiche, Bruno non può infatti far riemergere l'elemento ermetico: le cose dette «son cose antique che rivegnono, son veritadi occolte che si scuoprono: è un nuovo lume che, dopo lunga notte, spunta all'orizzonte ed emisfero della nostra cognizione ed a poco a poco s'avvicina al meridiano della nostra intelligenza»[244]. Al solito, l'immagine è quella della verità occulta che viene di nuovo portata alla luce del sole: ritorna l'antiqua, vera filosofia, preannunciata dall'aurora copernicana.

Riemerge quindi il tema della verità: «Chi vuol perfettamente giudicare [...] deve saper spogliarsi della consuetudine di credere; deve l'una e l'altra contraddittoria estimare equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbimbito da natività: tanto quella che ne presenta alla conversazion generale, quanto l'altra per cui mediante la filosofia rinascemo, morendo al volgo, tra gli studiosi stimati sapienti dalla moltitudine ed in un tempo. Voglio dire, quando accade controversia tra qusti ed altri stimati savii da altre moltitudini ed altri tempi, se vogliamo rettamente giudicare, doviamo richiamare a mente quel che dice il medesimo Aristotele, che, per aver riguardo a poche cose, talvolta facilmente gittamo sentenze; ed oltre, che l'opinione talvolta per forza di consuetudine sì fattamente s'impadronisce del nostro consentimento che tal cosa ne par necessaria, ch'è impossibile; tal cosa scorgemo ed apprendemo per impossibile, ch'è verissima e necessaria»[245]. La nova filosofia esige dunque una radicale conversione metodologica: il mago-filosofo deve immediatamente lasciar da parte pregiudizi e convincimenti personali, per far posto ad una nuova etica, tutta razional-filosofica.

 

 

14. Conclusione del Dialogo.

 

Al di là delle singole risposte alle argomentazioni aristoteliche contro l'infinito (risposte che coinvolgono tutte la dottrina dell'anima mundi), è necessario notare la sottolineatura bruniana della dialetticità dell'esistente. Riaffiora infatti la problematica, fondamentale, della filosofia binaria, ovvero il problema della coincidentia oppositorum: «[...] è falsissimo, che li contrarii massime sieno discosti; perché in tutte le cose questi vengono naturalmente congionti ed uniti; e l'universo, tanto secondo le parti principali, quanto secondo le altri conseguenti, non consiste se non per tal congionzione ed unione»[246].

E' falsa dunque la filosofia dei contrari che vuole (seguendo il principio di non contraddizione aristotelico) gli opposti assolutamente distanti tra loro, perché di fatto in tutte le cose essi vengono naturalmente congiunti ed uniti nel singolo esistente: «non è contra raggione la nostra filosofia, che reduce ad un principio e referisce ad un fine e fa coincidere insieme gli contrari, di sorte che è un soggetto primo dell'uno e dell'altro; dalla qual coincidenza stimiamo ch'al fine è divinamente detto e considerato che li contraii son ne gli contrarii, onde non sia difficile di pervenire a tanto che si sappia come ogni cosa è di ogni cosa»[247].

La conclusione del Dialogo è che «Non bisogna dunque cercare, se estra il cielo sia il loco, vacuo o tempo; perché uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo liberamente vacuo; in cui sono innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo che vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanto potenza passiva quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono, medesimamente non ne sieno in tutto l'altro spacio che di natura non è differente ed altro da questo»[248].

L'infinito che viene presentato nell'ultimo dei dialoghi metafisici pubblicati in Inghilterra è dunque, costantemente, di tipo analogico: l'analogia sta infatti alla base del metodo epistemologico, essendo l'ars memoriae fondata proprio sull'idea di similitudine, di cui l'umbra è velo e medium conoscitivo al tempo stesso.

 

 


CAPITOLO VI

 

BRUNO E IL NEOPLATONISMO

 

 

 

«[...] nemmeno l'universo è una vera essenza, ma un'immagine della vera Essenza, la quale possiede l'essere senza alcun rapporto con le altre cose che sono in essa. Quaggiù, invece, anche il substrato è infecondo e non è capace di essere ente - anche le altre cose, infatti, non derivano da esso, poiché è un'ombra e su questa ombra scorre via ogni immagine come cosa dipinta»[249].

 

 

1. Motivi paralleli e analogie concettuali.

 

La presenza di schemi neoplatonici nel pensiero di Bruno è stata più volte messa in rilievo dalla critica, ma non senza qualche ambiguità. In effetti, soprattutto a livello terminologico, le analogie con la metafisica neoplatonica sembrerebbero essere evidenti: per Bruno - come per Plotino - l'Uno è causa metafisica del molteplice e assolutamente non-conoscibile nella sua essenza (le sole determinazioni che si possono dare sono appunto Uno, Causa prima, Bene assoluto, Infinito), sorgente e fine ultimo di ogni essere. Plotino parla poi di due ipostasi dell'Uno - l'Intelletto e l'Anima, mentre l'ultimo grado del processo generativo è costituito dal mondo materiale. Perciò i due gradi estremi del processo sono da una parte l'Uno (identificato per analogia con la Luce infinita), dall'altra il mondo (identificato a sua volta con le tenebre, il punto più distante dalla luce). Tra i due gradi estremi vi sono quelli intermedi che nel loro allontanamento dalla perfezione dell'Uno manifestano uno svolgimento sempre maggiore verso la molteplicità. La stessa concezione della materia appare in un primo momento analoga a quella neoplatonica: per Plotino la materia è necessaria per il porsi di un essere altro rispetto all'Unum (perché altrimenti ci sarebbe solitudine assoluta): l'idea nolana della scala naturae è inoltre simmetrica a quella continuità che per Plotino unisce il mondo mediante un continuo perfezionarsi-semplificarsi, fino all'assolutamente semplice, all'Uno. Anche la concezione del male è in effetti risolta dal Bruno nell'idea del non-essere, della privazione: il male non esiste come realtà opposta al bene, ma solo come privazione del bene assoluto. Plotino inoltre aveva pensato ad un processo di elevazione dell'anima, che per molti aspetti richiama quell'idea dell'ascensus mistico che ho tentato di mostrare come fondamentale nel quadro antropologico del Bruno. L'estasi, che rappresenta anche per il Nolano un momento di sublime elevazione dell'anima e di contemplazione dell'Uno, è per Plotino l'espressione più perfetta del desiderio di trascendere ogni orizzonte finito.

 

 

2. L'arché e il molteplice.

 

Esistono tuttavia delle differenze. Malgrado siano evidenti queste analogie - soprattutto terminologiche - con il pensiero di Plotino, sono convinto che il Nolano si distacchi dagli schemi neoplatonici proprio sul terreno della concezione dell'Uno e della sua trascendenza. Per mettere in rilievo questa differente visione è necessario analizzare anzitutto il passaggio dall'arché al molteplice. Aldo Magris aveva osservato: «L'acuto sguardo di Plotino penetra nel cuore di quel problema dell'arché da cui la filosofia greca aveva avuto origine quasi otto secoli prima. Anche per lui il principio dev'essere da un lato assolutamente semplice, dall'altro capace di dar ragione di tutta la molteplicità dell'universo»[250]. Leggiamo infatti nelle Enneadi: «Se c'è qualcosa dopo il Primo, è necessario o che esso derivi direttamente da Lui, o si riporti a Lui attraverso intermediari: c'è dunque un ordine di esseri di secondo grado e un ordine di esseri di terzo grado; l'ordine di secondo grado risale al Primo, il terzo risale al secondo. E' necessario infatti che il primo sia semplice, anteriore a tutte le cose e diverso da tutto ciò che è dopo di Lui, esistente in sé, non mescolato con gli esseri che derivano da Lui e capace nondimeno di essere presente, in un suo modo, nelle altre cose»[251].

Il problema dell'arché è comune, evidentemente, sia a Plotino che a Bruno; ma le rispettive soluzioni differiscono sottilmente. Per Plotino il mondo è emanazione (nel senso di generazione) dell'Uno: l'Uno, pur «capace di essere presente, in un suo modo, nelle altre cose» tuttavia è assolutamente trascendente: «non [è infatti] mescolato con gli esseri che derivano da Lui». Il molteplice del mondo mantiene dell'Unum solo una traccia, un segno dell'arché a cui è destinato a far ritorno. Nell'atto generativo avviene il distacco dall'archè al molteplice: la distanza ontologica tra Generante e generato verrà mantenuta tramite un ordine ben preciso - gerarchico - in cui vengono a trovare posto tutti gli esseri. L'ordine degli esseri è quindi scandito da un depotenziamento a livello ontologico: l'Uno riflette la propria perfezione negli enti solo indirettamente, e sempre più debolmente, tramite la mediazione delle ipostasi. Il mondo materiale risulta quindi al di fuori della vera realtà - quella per così dire divina, dell'Unum - che si esaurisce nel mondo ipostatico.

La concezione plotiniana dell'immagine - che si risolve a livello metafisico in una assenza - risente di questa impostazione: il mondo materiale è solo apparenza, privazione della vera realtà. Il passaggio dall'archè al molteplice si verifica solo per mezzo di un decadimento ontologico: il molteplice è dispersione di luce, privazione di unità. L'archè non sarà mai equivalente a tutto il molteplice.

Nel caso del Nolano, invece, l'esigenza unitaria non conduce affatto ad un depotenziamento dell'essere dall'alto al basso, in una discesa dall'Uno verso la realtà materiale. Per Bruno infatti l'Uno è anche concepibile come totalità: l'Uno è (tutta) la realtà materiale (l'universo, se inteso come totalità, è Unum e coincide con Dio). L'Unum non è mai - ontologicamente - né superiore, né trascendente, né separato dal molteplice. Ma per mettere meglio in rilievo queste diverse prospettive è necessario analizzare in particolare le differenti concezioni del mondo e della materia.

 

 

3. La concezione del mondo e della materia: neoplatonismo e nolana filosofia a confronto.

 

Ha notato con acutezza Arrigo Pacchi: «Alla base della dottrina bruniana della natura sta una materia - prima - concepita come una delle due sostanze - l'altra è la forma - immediatamente riconducibili all'Uno: ma si noti che la forma non allontana, mediandola, la materia dall'Uno, come nel neoplatonismo, ma si colloca al medesimo suo livello; anzi, materia e forma costituiscono due aspetti di una stessa sostanza, posto che la materia non viene a ricevere le dimensioni come di fuora, ma a mandarle e cacciarle dal seno, e ciò vale anche per le altre forme della corporeità, l'aristotelica materia seconda. Ma in quanto prima, la materia è di per sé informe e inalterabile: sorge quindi il problema del modo in cui essa dà luogo alle forme e cioè alle variazioni qualitative corporee della materia seconda. Bruno risponde alla questione ricorrendo alli primi corpi indivisibili, de' quali originalmente è composto il tutto, gli atomi, corpuscoli insensibili, come del resto è insensibile la materia prima, ma solidi e sferici, le cui aggregazioni e disaggregazioni danno ragione di tutte le variazioni, chimiche e qualitative, del corporeo»[252].

Leen Spruit ha invece sostenuto che «La teoria della materia di Bruno è oggetto di cambiamenti notevoli»[253]: nel De umbris la materia sarebbe equiparata alle tenebrae e solo successivamente, nel quadro metafisico del De la Causa, vedrebbe una certa rivalutazione. In effetti all'interno della struttura metafisica del De umbris la materia è molto vicina al prope nihil plotiniano: la materia viene ancora associata all'immagine delle tenebrare, poiché nell'ordo & connexio rerum dell'universo la materia è effettivamente il punto più distante dalla lux divina[254]. Ma quando Bruno parla di materia intesa come tenebrae - è bene non dimenticarlo - sta ancora delineando la struttura della conoscenza, l'ordine epistemologico, non quello ontologico. Nella Cena il Nolano aveva seriamente condannato un utilizzo indomito del senso esterno: chi fa affidamento solo sui sensi - aveva sostenuto - coglie solo l'aspetto esteriore della realtà (cioé quello materiale, che può trarre facilmente in inganno). Per questo nel De umbris la materia era stata accostata all'immagine delle tenebrae: non per la sua distanza ontologica dall'Unum (come avviene invece in Plotino), ma per la sua incapacità di evidenziare pienamente il divino, a livello gnoseologico. L'Unum di per sé è tutt'altro che trascendente il mondo e la materia, ma è piuttosto concepito come una forza suprema che comprende il tutto. Ecco perché della divina essenza l'intelletto umano non può conoscere nulla se non per modo di vestigio, di riflesso, di immagine. La svalutazione della materia operata nel De umbris è quindi solo apparente: prevede insomma la negazione che si possa conoscere qualcosa solo tramite la materia (solo cioè tramite l'uso dei sensi). La materia è quindi considerata un prope nihil solo da un punto di vista epistemologico.

Plotino sembra invece attribuire alla materia una valenza negativa (la materia è solo immagine, priva di una consistenza ontologica pari a quella dell'Unum; il mondo materiale - essendo il luogo del molteplice - è quanto di più distante ci possa essere dalla assoluta semplicità dell'Unum). L'idea che il mondo materiale sia immagine dell'Unum ribadisce ancora una volta il fatto che l'universo è lontanissimo dalla sua Causa Prima, e ne costituisce un'immagine che viene in questo modo ad essere anche il limite estremo del reale: il mondo materiale è il punto più lontano - in fatto di distanza ontologica - dall'Unum. L'umbra, il riflesso, viene dunque ad identificarsi con l'idea del male, dell'assenza.

La realtà, derivando tutta da una contemplazione dell'Uno, può essere equiparata ad uno specchio: «Tutto [...] deriva dalla contemplazione ed è contemplazione, tanto le verità, quanto ciò che deriva dalla loro contemplazione [...]; la generazione, che parte da una contemplazione, si chiude in una forma e in un oggetto da contemplare. In generale tutte le cose che producono, in quanto sono delle immagini <delle realtà prime>, producono forme ed oggetti di contemplazione»[255]. La materia insomma è immagine, totalmente priva di una sua autonomia ontologica. La materia sensibile, proprio in virtù del cangiamento, è sempre possibile e mai reale: è sempre in potenza, è vuota «attesa d'essere. [...] Come uno specchio, la materia è il nulla sul cui fondo appare l'essere»[256].

Si chiedeva infatti Plotino: «Ma come possiamo dire che anche la materia, che vien detta esistente e della quale diciamo che è in potenza tutte le cose, sia un essere in atto? Se fosse così, essa non sarebbe tutti gli esseri in potenza. E se essa non è alcuno di questi esseri, necessariamente è un non-essere. E come sarebbe in atto, se essa non è alcun essere? [...] Se essa dunque non è alcuno degli esseri generati in lei e se questi sono esseri, essa sarà un non-essere. E poi, essendo immaginata informe, non può essere una forma, né essere considerata fra gli enti superiori: anche in questo senso essa è un non-essere»[257]. La materia è insomma solo potenza, attesa e desiderio d'atto. Il mondo materiale si riduce quindi - paradossalmente - ad una assenza della vera realtà. Detto questo, è inevitabile che le differenze con la nolana filosofia emergano anche a proposito del valore e del ruolo che vengono attribuiti all'umbra.

 

 

4. L'umbra e il problema del male.

 

Mentre per Plotino l'ombra è difetto - assenza di luce - e quindi male, Bruno sistema positivamente il concetto di umbratilità all'interno della sua magica filosofia binaria. L'ombra, essendo prima di tutto un indispensabile medium extraemorum, ha una doppia natura: costituisce sia un limite metafisico e gnoseologico, sia il luogo dell'esistenza. Per Bruno - dovrebbero essere queste le inevitabili conclusioni della sua impostazione metafisica binaria - c'è quindi dell'ombra anche nell'Unum. Si ricordi infatti che l'Unum godeva di una doppia natura: era stato definito come Mens insita omnibus ma anche come Mens super omnia. Dal punto di vista cosmologico e metafisico l'Uno coincideva infatti con l'esplicato, con l'universo infinito (con la Vita-materia infinita, per usare una classica espressione di Michele Ciliberto); e dal punto di vista epistemologico l'Unum era stato definito come assolutamente trascendente.

Più a fondo: anche dal punto di vista metafisico l'Unum mostrava una doppia natura: poteva infatti essere considerato come l'assolutamente semplice (estrema complicatio) o come l'assolutamente molteplice (estrema explicatio). In entrambi i casi manifestava però una natura umbratile: in quanto complicato veniva infatti a costituire il minimo assoluto - al di sotto di ogni umana possibilità conoscitiva; mentre in quanto esplicato rappresentava la totalità - al di sopra della sfera gnoseologica. In ogni caso, visto che non esiste nulla al di fuori dell'Unum, sia la luce che le tenebre - e quindi l'ombra che ne costituisce il medium - dovrebbero considerarsi parte dell'Assoluto.

Per Plotino invece l'Unum - assolutamente trascendente - è al di fuori della realtà materiale, ed è luce assoluta (le tenebre vengono relegate all'ambito del mondo materiale, che gode della luce dell'Uno solo in virtù di un lontanissimo riflesso). Plotino aveva sostenuto che «La natura del corpo, poiché partecipa della materia, è cattiva, ma non è il primo male; la forma che essa possiede non è vera forma, ed è priva di vita»[258]. Il non essere doveva per lui consistere nel momento della progressiva separazione dall'Uno: «Il non-essere <per me> è non il non-essere assoluto, ma solamente ciò che è altro dall'essere: non intendo, però, il non-essere <altro>, come sono altri dall'essere il movimento e la quiete che sono nell'essere, ma come l'immagine dell'essere <è altra dall'essere> o come un non-essere ancora inferiore. Sono tali tutte le cose sensibili e le relative affezioni e, in grado ancor più basso, gli accidenti di quelle»[259]. Il tema dello specchio, dell'ombra, che in Plotino assume delle connotazioni fortemente negative (lo specchio è assenza, l'ombra è lontananza dalla luce), garantisce invece in Bruno - come ho cercato di mostrare - non solo le infinite possibilità conoscitive umane, ma anche la possibilità stessa dell'essere. Se l'alterità è sentita da Plotino come separazione, allontanamento progressivo dal vero Bene, per Bruno si verifica invece una situazione diametralemente opposta: l'alterità - che è possibile solo in funzione dell'ombra metafisica - è garanzia dell'Essere, terreno dell'esistenza. L'ombra - avevo sostenuto - rappresenta infatti per Bruno la possibilità metafisica di ogni alterità.

Paradossalmente, si deve riconoscere che queste conclusioni opposte nascono dal medesimo problema, quello della solitudine assoluta. Sia per Plotino che per Bruno, se non ci fosse il mondo materiale l'Unum, il primo principio, esisterebbe in una condizione di assoluta identità con se stesso, di assoluto isolamento. Entrambi, posti di fronte a questo problema, tentano una soluzione radicale, ma per vie opposte: per Plotino l'Unum è assolutamente identico a se stesso e genera il mondo restandone però separato nella sua perfezione solitaria, per Bruno invece l'Unum si dispiega nel mondo materiale e coincide alla fine con esso.

L'umbra ha quindi per il Nolano anche una forte accezione positiva: non solo vela l'Uno, ma serve anche a proteggere la vista dell'uomo: « [...] non dico dunque l'ombra che allontana dalla luce, ma che conduce alla luce, la quale, per quanto non sia verità, tuttavia deriva dalla verità e porta alla verità; e perciò non devi credere che in essa ci sia l'errore, ma il nascondiglio del vero. [...] Parecchi hanno perso la naturale capacità della vista, avanzando repentinamente dalle tenebre alla luce: fino a tal punto essi sono lontano dal raggiungere l'obiettivo ricercato. Perciò l'ombra prepara la vista alla luce, l'ombra tempera la luce, per mezzo dell'ombra la divinità tempera e propina le apparenze che anticipano le cose all'occhio, avvolto da caligine, dell'anima che è affamata e assetata»[260]. L'umbra che separa il mondo materiale da quello divino è tutt'altro che un elemento solo negativo, tutt'altro che il riflesso di un'assenza.

Nel De umbris Bruno aveva evidenziato la profonda relazione esistente tra l'ordine della natura e le possibilità di ascensus mistico-conoscitivo. In questo ambito l'ars memoriae era stata considerata appunto come uno strumento conoscitivo efficace (l'unico, insieme alla magia e alla filosofia della natura). L'efficacia della mnemotecnica trae la sua origine proprio dall'ordine della catena infinita con cui sono legati tra loro gli elementi del Cosmo: ordine che è possibile memorizzare e ripercorrere fino a toccarne - intellettualmente e spiritualmente, ma anche materialmente, nel corso della vicissitudine infinita - gli opposti estremi (che sono nel quadro concettuale binario, di ispirazione cusaniana, il minimo, ovvero la monade, e il massimo, ovvero l'infinito). In Bruno esiste una determinazione spirituale del pensiero, anche dialettico, che è desiderio. Magia e mnemotecnica sono allora strumenti per padroneggiare l'ordine delle cose, facilitare l'ascensus della scala naturae e raggiungere così il congiungimento mistico con l'Uno.

L'Uno è indubbiamente l'oggetto del desiderio, perché l'Uno è Dio. Si ricordi a questo proposito quanto Bruno scriverà nel De magia: «[...] i maghi hanno per assioma che in ogni opera bisogna tener d'occhio il fatto che Dio influisce sugli dei, gli dei suoi corpi celesti o astri, che sono divinità corporee, gli astri sui demoni, che sono curatori e abitatori degli astri (uno dei quali è la terra), i demoni sugli elementi, gli elementi sui composti, i composti sui sensi, i sensi sull'animo, l'animo su tutto l'essere vivente: e questa è la discesa della scala. Ma ecco che l'essere vivente ascende ai sensi attraverso l'animo, ai composti attraverso i sensi, agli elementi attraverso i composti e attraverso questi ai demoni, attraverso i demoni agli astri, attraverso questi ultimi agli dei incorporei, o di sostanza e corporeità eterea, attraverso questi all'anima del mondo o spirito dell'universo, e infine attraverso questo alla contemplazione dell'unico, semplicissimo, massimo incorporeo, assoluto e sufficiente a se stesso. Così a partire da Dio c'è la discesa all'essere vivente attraverso il mondo, e dall'essere vivente attraverso il mondo, fino a Dio. Questi è la sommità della scala, puro atto ed attiva potenza, luce purissima, mentre alla base della scala vi è la materia e le tenebre, pura potenza passiva, che può divenire tutte le cose dal basso, come quegli può fare tutte le cose dall'alto. Fra il gradino più basso ed il più alto vi sono poi le specie intermedie, le superiori delle quali partecipano maggiormente della luce [...], mentre le inferiori più delle tenebre [...]»[261].

La differenza sostanziale nei confronti della metafisica neoplatonica è data quindi dal fatto che per Bruno Dio vivifica dall'interno ogni singola porzione di materia, mentre per Plotino l'Uno rimane assolutamente trascendente rispetto al mondo generato (il mondo materiale non è la vera realtà).

Si noti che Bruno preferisce seguire anche in questo caso la metafisica magico-alchemica dell'ermetismo: per il pensiero magico, come ha mostrato Mauss[262], il tutto è uno, non però nel senso che il mondo materiale deriva dall'Assoluto - e ne rappresenta in qualche modo una diminuzione di perfezione - ma nel senso che il Mondo è l'Assoluto, e non c'è ovviamente nulla al di fuori di questo. La comunicazione universale e l'idea di simpatia esigono in fondo questa posizione radicale: l'Unum - il divino - non può che essere nel mondo.

 

 

5. L'Intelletto e l'Anima del mondo.

 

Al di là delle somiglianze a livello terminologico, anche per il caso dell'Intelletto e dell'Anima del mondo esistono delle notevoli differenze tra la concezione di Plotino e quella del Nolano. Plotino, quando aveva individuato un Intelletto inteso come causa del mondo, non lo aveva affatto identificato con Dio. Alla domanda fondamentale: perché è necessario presupporre un assolutamente primo? Perché non ci si può fermare al dato di fatto della molteplicità? Plotino ha risposto sostenendo che senza un principio non potrebbe spiegarsi il fatto stesso che la molteplicità appare sempre collegata in un insieme, che l'universo sia un cosmo e non un marasma di frammenti dispersi dal caso[263]. Proprio l'unicità e la semplicità assoluta del primo principio rendono impossibile una sua identificazione con l'Intelletto. Questo non avviene invece in Bruno, dove l'Intelletto è allo stesso tempo Dio, Anima Mundi, e Unum (si tratta in questo caso di tre determinazioni diverse per significare la stessa cosa). In Plotino invece, l'Assoluto, o il «Primo», o l'«Uno», è al di là dell'Intelletto. Per Plotino l'Intelletto deriva dall'Uno, l'Anima deriva a sua volta dall'Intelletto, e la Natura deriva a sua volta dall'Anima. La natura quindi riceve le forme intellegibili dell'intelletto solo attraverso l'Anima. Per Bruno invece, l'Intelletto è una facoltà stessa dell'Anima, o, meglio sono entrambi dei nomi di Dio (che è Intelletto a livello gnoseologico e Anima a livello «mundano»). L'Intelletto stabilisce l'ordine intellegibile del reale, la scala naturae, l'Anima vivifica la materia dall'interno e le dona un movimento e una natura armonica, nel suo procedere attraverso una serie infinita di forme e movimenti. La Natura, il Mondo, è a contatto diretto con l'Intelletto, quindi con Dio. Non esistono ipostasi né mediazioni, ma solo una singola, infinita, esplicazione. E' proprio questa singolare organizzazione che, avvicinando al massimo Natura e Intelletto/Anima Mundi, porterà il Bruno a chiedersi se sono davvero due i principi in immediato contatto fra loro: il principio agente, l'Intelletto, e il principio "materia", che accoglie l'informazione dell'Intelletto; o se invece i due principi non possono meglio identificarsi nel concetto di Natura, intesa come materia che da sé si indirizza in forme intellegibili. Alla fine del De la Causa infatti, Bruno parlerà di un Intelletto così intrinseco alla Natura, da potersi considerare una sua propria attività. Causa, Principio e Uno sono per il Nolano un essere solo in tre concetti, non in tre ipostasi differenti (come in Plotino): siamo insomma sempre all'interno di una concezione rigidamente monistica.

L'Essere, non nei suoi accidenti, ma nella sua Essenza - dirà Bruno nel De Monade (ripetendo il concetto del De la Causa, ma con una diversa sfumatura) - vivifica il Tutto dall'interno, e l'intellegibilità del reale manifesta questa sorta di comunicazione diretta: «L'Essenza, rivolgendosi a tutte le cose, mirando a tutte le cose, e a tutte comunicandosi, genera la Vita, il cui eccellentissimo effetto, quasi prima specie di essa, è appunto l'Intelligenza»[264]. Naturalmente la conoscenza di questa struttura metafisica è frutto di un impegno tutto interiore, del senso interno, perché ai sensi - come al solito - viene negata ogni possibilità conoscitiva (adeguata ad un oggetto infinito): «[...] quando l'intelletto vuol comprendere l'essenzia di una cosa, va simplificando quanto può: voglio dire, della composizione e moltitudine se ritira, rigittando gli accidenti corrottibili, le dimensioni, i segni, le figure a quello che sottogiace a queste cose. Cossì la lunga scrittura e prolissa orazione non intendemo, se non per contrazione ad una semplice intenzione. L'intelletto in questo dimostra apertamente come ne l'unità consista la sustanza de le cose, la quale va cercando o in verità o in similitudine. Credi che sarebbe consumatissimo e perfettissimo geometra quello che potesse contraere ad una intenzione sola tutte le intenzioni disperse ne' principi di Euclide; perfettissimo logico chi tutte le intenzioni contraesse ad una. Quindi è il grado delle intelligenze: perché le inferiori non possono intendere molte cose, se non con molte specie, similitudini e forme; le superiori le intendeno megliormente con poche; le altissime con pochissime, perfettamente. La prima intelligenza in una idea perfettissimamente comprende il tutto; la divina mente e la unità assoluta, senza specie alcuna è ella medesima che intende e lo che è inteso. Cossì, dunque, montando noi alla perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine; come, descendendosi alla produzione delle cose, si va esplicando la unità. Il descenso è da uno ente ad infiniti individui e specie innumerabili; lo ascenso è da questi a quello»[265].

Bruno pensava all'Uno seguendo quindi una visione radicalmente monistica dell'universo, del Tutto, piuttosto che ipostatizzandolo come causa assolutamente trascendente della realtà. Per Plotino invece l'esigenza monistica ha portato a distinguere in modo netto il Generante dal generato, e a sostenere che la verà realtà è quella del Primo.

Nel De Immenso il Nolano aveva sostenuto che: «Dio è infinito, nell'infinito, dovunque in tutte le cose, non al di sopra, né fuori di esse, ma ad esse assolutamente intimo; così l'essenza non è nulla al di là e al di fuori degli esseri, la natura non è nulla al di là delle cose naturali, la bontà non è nulla al di là delle cose buone. L'essenza si può distinguere dall'essere soltanto in senso logico, come la ragione da ciò di cui è ragione. Su via, guarda dove siano la natura e Dio: qui sono le cause delle cose, la potenza dei principi, la sorte degli elementi, i semi delle cose che saranno generate, le forme archetipe [...]. Qui è anche la materia, potenza passiva sussistente, esistente, presente e che quasi sempre si manifesta nell'unità. Non esiste un artefice che presieda dall'alto e che dall'esterno predisponga e configuri [...]. La materia fa scaturire ogni cosa dal proprio grembo, la sua intima natura è abile artefice, arte vivente, mirabile potenza dotata di mente, che esplica un atto relativo alla propria materia non ad un'altra, senza indugiare [...]. Così lo spirito artefice del seme, che muove dal profondo centro, la natura efficiente, l'artefice della materia presente, il trascinatore, il modellatore, l'ordinatore non sono altro che l'intimo motore. A che servono, dunque, quelle fantasiose tecniche di Platone, quegli artifici, quegli archetipi, idee, immagini, quelle statue, quei carri della fantasia, quelle navi ricolme di quisquiglie, tutti posti fuori del mondo corporeo? [...] Non solo la natura è presente nelle cose, ma è in esse insita, da nulla è lontana poiché nulla è lontano dall'essere in nessun luogo, mai, per nulla è lontano dall'essere in nessun luogo [...]»[266]. Non esiste insomma per Bruno un mondo delle idee trascendente il mondo corporeo, e non esiste neppure un Unum concepito al di fuori del Mondo, nel senso di una prospettiva creazionista (tipica per esempio della patristica cristiana). Si noti che relativizzare la trascendenza di Dio - e limitarla al solo ambito gnoseologico - comporta anche una revisione della morale e dei suoi fondamenti. E questa sarà appunto l'operazione dei Dialoghi morali, a partire dallo Spaccio de la bestia trionfante, dove, in perfetta coerenza con l'abbattimento delle gerarchie, Bruno tenta di rifondare l'etica su basi esclusivamente naturali e razionali, a prescindere dalla religione cristiana (che anzi viene ridotta ad una stretta funzione pedagogica), mentre la vera religione diventa (o meglio ritorna ad essere) quella dei maghi egiziani, l'ermetismo e la magia. Sarà proprio l'azione magica a garantire una efficace azione trasformatrice sia del microcosmo che del macrocosmo. In base alla filosofia dei vincoli, delle occulte simpatie, Bruno costruirà un'etica tutta centrata sulla praxis e sul sapere. A questo proposito si deve notare che l'immagine neoplatonica dell'eros, inteso come struttura originaria della conoscenza, verrà innestata nel quadro della problematica gnoseologica del De umbris e dell'oggetto infinito del De la causa e del De l'infinito: «E' così che la neoplatonica frattura tra amore sensibile e amore intellegibile perde il significato morale che essa ha tradizionalmente, e viene ripensata nel quadro del rapporto tra senso e intelletto, l'uno organo della conoscenza finita, l'altro organo della conoscenza volta all'infinito. L'ascesi amorosa acquista quindi il significato di un metodo del sapere, e, contemporaneamente, di un'esperienza unica e irripetibile del filosofo illuminato»[267], osservava giustamente Fulvio Papi. Sarà infatti questa la tematica de Gli eroici furori, in cui per la verità non viene mai abbandonato il substratum ideologico dei vincoli magici che innervano il Mondo, e viene indirettamente ribadita la superiorità della conoscenza e dell'azione del filosofo-mago.

A proposito della trascendenza dell'Uno - anche nei confronti dell'Intelletto - aveva osservato Aldo Magris: «[...] l'Assoluto, essendo superiore all'intelletto, trascende entrambi gli aspetti della dualità pensante-pensato: esso quindi non è né una Mente raziocinante né qualcosa di intellettualmente conoscibile da parte della mente umana [...]. L'Uno [...] è al di là anche della vita, in quanto la vita»[268]. In Bruno questa trascendenza assoluta dell'Uno è ovviamente negata proprio in virtù della sua identità con l'Anima mundi, che, come abbiamo visto nel De la Causa, vivifica il mondo dall'interno. La trascendenza dell'Uno, lo ribadisco, è totale solo a livello gnoseologico: l'uomo non può conoscerne la sostanza; tra Dio e mente umana c'è e ci sarà sempre un velo d'ombra (il che non nega ovviamente le perfettibilità della conoscenza umana, ma richiede uno sforzo infinito). Per Plotino l'Uno, l'Assoluto, non può essere concepito neppure come la totalità degli esseri, perché altrimenti avrebbe un'esistenza, e invece, propriamente, non ce l'ha[269]. In Bruno invece l'Uno costituisce anche, all'interno della filosofia binaria, l'opposto del molteplice: nel molteplice non c'è quindi degradazione dell'essere, ma moltiplicazione di vita, alterità rispetto all'Unum.

Il discrimen è insomma tutto nella concezione dell'Assoluto: mentre per Plotino l'Assoluto non si identifica con Dio, per Bruno si tratta invece di termini equivalenti, che risultano del tutto appropriati nei rispettivi ambiti di indagine. A Dio, Plotino sembrava aver premesso l'Uno pitagorico: la fonte sovraintellegibile, anche dell'Intelletto. Anche Bruno in effetti mantiene l'idea della filiazione dell'Intelletto dall'Uno, ma si tratta di un concetto per così dire contratto: la trascendenza, come ho già detto, è fortemente limitata e ridimensionata: «L'intelletto universale è l'intima, più reale e propria facultà e parte potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo che empie il tutto, illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue specie come si conviene [...]. Questo è nomato da' Platonici fabro del mondo. Questo fabro, dicono, procede dal mondo superiore, il quale è a fatto uno, a questo mondo sensibile, che è diviso in molti; ove non solamente la amicizia, ma anco la discordia, per la distanza de le parti, vi regna. Questo intelletto, infondendo e porgendo qualche cosa del suo nella materia, mantenendosi lui quieto ed inmobile, produce il tutto. E' detto da' Maghi fecondissimo di semi o pur seminatore, perché lui è quello che impregna la materia di tutte le forme [...]»[270]. L'intelletto procede insomma dall'Uno, ed infonde a sua volta l'ordine intellegibile nella materia. Ma tra mondo e Uno non c'è mai una distanza infinita, come in Plotino. Aveva quindi ragione Augusto Guzzo quando sosteneva che nel De la Causa, «é l'Uno stesso concepito come Mente, l'Intelletto divino che dice il Bruno; ed è tutto come l'unità è, in un atto solo, l'intera molteplicità che da essa si svolge. Da tale Uno, Mente rigorosamente una, Intelligenza unitaria primitiva, procede quello che già Plotino chiamava Intelletto: ed è il fabbro del mondo, la causa dell'universo, l'Intelletto non sopramondano che dall'intimo del mondo forma e vivifica il mondo, e dall'interno fa tutte le cose»[271]. Bruno svolge insomma una delicata operazione all'interno del quadro metafisico di ispirazione plotiniana: questa operazione consiste in un aggiustamento dei rapporti tra Uno e Mondo, e alla fine la trascendenza dell'Uno ne risulterà fortemente limitata. L'intelletto (lo stesso discorso vale per l'Anima) sembra ora configurarsi non più come una ipostasi dell'Uno, ma come un modo di essere, di esplicarsi, dell'Uno.

 

 

6. Integrazione di Anima e Intelletto nell'Unum.

 

In Bruno l'operazione dell'intelletto umano ricalca la struttura e le modalità d'espressione della Natura. A proposito ho già ricordato la vera funzione della magia: permettere l'ascensus e il descensus. Come ha opportunamente notato Heléne Vedrine «il De magia nasce proprio da una tensione tra il fare e il sapere»[272]: il fare è possibile solo in base al sapere, e consiste nell'utilizzo magico dei vincoli. A proposito dell'ascensus & descensus, Leen Spruit ha rilevato opportunamente: «Bruno descrive la comunicazione tra i diversi gradi del reale in termini di ascensus & descensus, concetti che determinano altresì la direzione ed il valore di ogni conoscenza possibile»[273]. In effetti, nel De umbris leggiamo: «Tutto ciò che è dopo l'uno è inevitabilmente molteplice e numeroso. Perciò, tranne l'uno e primo, tutte le cose sono numero. Donde sotto l'infimo gradino della scala della natura c'è il numero infinito o materia; invece nel sommo gradino c'è l'infinita unità e atto puro. Pertanto, la discesa, la dispersione e l'espansione avvengono verso la materia; l'ascesa, l'aggregazione e la delimitazione avvengono verso l'atto»[274].

Sempre secondo Spruit «Nel concetto di ens di Bruno è possibile individuare delle tracce della teoria plotiniana dell'ens primum o ens unum quali indicazioni del mondo intellegibile. Bruno integra nel suo concetto di ens & unum le prime due ipostasi di Plotino»[275]. E, aggiungerei, ne limita fortemente la trascendenza.

I passi che giustificano questa interpretazione sono numerosi, e, naturalmente, presenti anche nell'altro grande capitolo della filosofia binaria, quello che segue l'esposizione dell'infinito e che delinea la struttura del finito, del minimo: leggiamo infatti nel De monade che «Uno è lo spazio, una la Grandezza, uno il Fondamento, con potenzialità infinita, esso stesso infinito. Una è la prima Essenza, la prima bontà, una la prima Verità, per cui tutte le cose sono Enti, Beni, Veri. Una è la Mente, dovunque tutta, che misura tutte le cose, uno è l'Intelletto che ordina tutto, uno è l'amore che tutto concilia con tutto. Uno è l'Alveo che concepisce tutte le cose, una l'Eternità che possiede ogni perfezione, uno il tempo, misura di ogni movimento e quiete. Una è l'Idea di tutte le specie e di tutti gli atti, uno il Verbo che esprime ogni emanazione, una la necessità del Fato che definisce tutte le cose. Uno è il principio primo da cui tutte le cose procedono. Una la causa prima di ogni effetto. Uno l'Elemento di tutto ciò che esiste. Uno l'infinito che tutto delimita. Una è la prima Misura di tutte le cose. Uno è l'universo infinito che tutto abbraccia. Una è la Monade, sostanza di ogni numero, una è la Diade prima, o opposizione, che distingue tutte le cose. Uno è il primo soggetto comune a tutti gli opposti. Una è l'intenzione che dispone tutte le cose. Uno è il primo soggetto comune a tutti gli opposti. Una è l'intenzione che dispone tutte le cose. Uno è il fine a cui tutte le cose aspirano ed uno è il mezzo con cui tutte le cose lo conseguono. Uno è il Motore che garantisce l'universale vicissitudine. Uno l'Atto che ogni cosa compie, una è l'Anima che tutto vivifica. Uno è il nome che ha in sé tutti i significati, una è la Ragione che medita ,ogni cosa, uno l'Appetito che desidera ogni cosa»[276].

L'Uno che nel De la Causa era l'Universo esplicato, l'infinito molteplice, nelle opere che trattano del Minimo diventa sintomaticamente l'infinitamente semplice, il minimo metafisico, il Primo, molto vicino al plotiniano Unum, inteso come presupposto dell'esser-ci: si tratta dell'Uno che precede il molteplice, e quindi ne fonda l'esistenza. E' a quest'Unum che si addice propriamente una severa teologia negativa, perché, proprio in quanto semplicità assoluta, priva di ogni qualificazione mundana (direbbe Bruno), proprio in quanto Essere al massimo della complicatio possibile, è impossibile da definirsi secondo il pensiero del molteplice, del differenziato, dell'altro, dell'umano.

La degradazione dell'essere di Plotino viene sostituita da una espressione vorticosa, in cui la molteplicità esprime tutta lo stesso Dio, e la degradazione della luce vale solo sul piano gnoseologico.

 

 

7. Un confronto con il neoplatonismo cristiano di S.Tommaso.

 

La differenza col neoplatonismo cristiano è presto risolta sul terreno della creazione ex nihilo: l'idea della creazione viene dal Bruno sempre fortemente negata. Michelangelo Ghio, dopo aver notato come il vocabolario del neoplatonismo, o della tradizione del platonismo cristiano, sussista anche nella Summa Theologiae, ha sostenuto giustamente: «Tale presenza del platonismo [...], lungi dall'escludere, fonda e rafforza in S.Tommaso la concezione creazionistica cristiana [...]». Nota inoltre - Ghio - che «[...] la critica più avvertita ammette come cosa pacifica la irriducibilità del tomismo al mero aristotelismo, respingendo la sua interpretazione in chiave anti-agostiniana, sottolineando anzi la necessità appunto di una lettura tomista in chiave anche neoplatonica. La presenza del tema neoplatonico dell'emanazione e del ritorno a Dio mediante le opere degli uomini è presente, in modo evidente, fin dall'inizio della Summa contra Gentiles. Il motivo dell'exitus-reditus perviene al tomismo da Scoto Eriugena [...]. Secondo C. Giacon[277], è addirittura la presenza del concetto neoplatonico dell'Uno, in quanto fondante l'assoluta semplicità del primo principio, a far sì che l'esse per se subsistens di Tommaso divenga per necessità l'unico e il perfettissimo, la causa assolutamente prima e quindi il creatore ex nihilo di tutto il reale, secondo la più schietta e ortodossa concezione del creazionismo cristiano, e quindi la dichiarata negazione di ogni concezione della causa immanente. L'antico concetto di causa emanativa, ripensato attraverso la dottrina cristiana dell'espressione, fa ormai da supporto speculativo al dogma della creazione: l'effetto - lungi dal restare nella causa come attuale inerenza d'un contenuto - si pone nettamente come altro da essa. L'antica concezione della degradazione dell'essere in ipostasi successive si trasforma in una visione gerarchica, nella quale tutti gli esseri, dal supremo all'infimo, trovano la loro collocazione. Il cammino all'in giù è costituito dall'espressione di Dio nel Verbo e nell'universo creato, e il cammino all'in sú si percorre attraverso la conversione (metànoia) come progressiva deificazione, come tensione della creatura al creatore»[278].

Il tema dell'emanazione corre quindi il rischio di essere adottato in modo ambiguo, tant'è vero che nell'art.1 della Q. XLV della Summa Theologiae, Tommaso chiarisce fin dall'inizio il senso del termine neoplatonico, ormai usato per designare - senza il minimo equivoco - il processo creativo: «designiamo con il nome di creazione [...] l'emanazione di tutti gli enti dalla causa universale che è Dio»[279]. E' fin troppo scontato rilevare che Bruno si colloca in una posizione diametralmente opposta. Lo stesso Ghio continua infatti sottolineando che «come abbiamo rilevato in S.Tommaso la presenza del linguaggio e della tradizione speculativa del neoplatonismo cristiano, per notare come siano utilizzati in modo radicalmente nuovo e volti a dare espressione speculativa della dottrina del creazionismo, con tutte le sue implicazioni (eminenza della causa, gerarchia degli esseri, predicazione analogica, concetto di espressione nella tipica accezione cristiana, ecc.), allo stesso modo, e converso, dobbiamo rilevare in Bruno la presenza dello stesso linguaggio, metafore e immagini del neoplatonismo, usati però per costruire quelle categorie dell'immanenza, che per Deleuze costituiscono gli elementi strutturali del concetto di espressione, come rapporto di complicatio-explicatio fra Dio e il mondo. In altri termini, la secolare ambivalenza del concetto platonico-plotiniano di partecipazione, includente in sé le opposte nozioni di causa emanativa e di causa immanente, è risolta da Bruno in senso diametralmente opposto a quello di Tommaso. Con lo stesso vocabolario neoplatonico, Bruno esprime un'interpretazione del rapporto tra Dio e mondo affatto incompatibile con una concezione creazionistica [...]»[280]. Ghio ha naturalmente ragione: non solo Dio non crea affatto il mondo e gli uomini traendoli dal nulla, ma non crea neppure la materia 'passiva'. Dio non crea l'universo, perché in realtà Dio é l'universo. Si ricordi l'operazione fondamentale del De la Causa, ovvero l'attribuzione della materia anche a Dio (operazione compiuta nel III Dialogo): è questo il passaggio logico e metafisico che permetterà al Bruno di superare le difficoltà medievali legate al paradosso del Dio che non può creare un oggetto (mondo) infinito, pur godendo di una potenza infinita.

In effetti il problema della creazione ex nihilo viene superato parallelamente alla esposizione di una teoria infinitista per così dire totale, che coinvolge sia Dio che l'Universo. Essendoci coincidenza tra Dio e Mondo, non ha più senso chiedersi se Dio può fare un Mondo infinito. In realtà, nella prospettiva del Nolano, viene abbandonata la contrapposizione Creatore-creatura e, come già accennato, l'idea della gerarchia. Si noti che nella prospettiva cristiana il problema della creazione presuppone la personalità di Dio che crea qualcosa di «altro da sé». Creatura e creato rimangono ontologicamente separati in modo netto. In Plotino invece, rileva Magris polemizzando con chi definisce il processo di generazione dall'Uno con il termine di emanazione[281]: «il rapporto fra il Primo e le realtà da esso derivate non corrisponde alla scissione di un oggetto, bensì all'alterità dell'immagine [corsivo mio]. L'Uno genera, e dunque fa essere qualcosa d'altro, di diverso. Ma in qual modo appare «altro»? Certo non come una realtà totalmente estranea, perché non si spiegherebbe come possa nascere da lui. Ma ciò che è generato dall'Uno non può essere neppure un altro «Uno» (perché sarebbe assurdo) o una parte dell'«Uno» (perché l'Uno non ha parti). Oltre all'Uno null'altro può esserci se non la sua immagine, la quale appunto nel contempo é e non-é l'Uno, è «altro» ed è «lo stesso» che lui. Quando ad esempio io mi guardo allo specchio, ciò che vedo è indubbiamente me stesso. Tuttavia quanto ho dinnanzi non è un'altra persona quale io sono (poniamo, un mio sosia), e neanche una parte di me, frutto di un mio sdoppiamento materiale; giacché io non sono uscito da me stesso per entrare nello specchio: sono rimasto interamente quello che sono. Pertanto ciò che vedo è sì «me stesso», ma ad un livello ontologico infinitamente inferiore, ed è questo che si vuol dire precisando che nello specchio sono io sì, però «in immagine». La mia immagine sono io, eppure al tempo stesso non sono io. Analogamente l'Uno, nel generare «l'immagine» (eikòn, éidolon), produce qualcosa d'altro senza uscire da sé, senza «emanare» nulla, ma al contrario, come sottolinea sistematicamente Plotino, «rimanendo in sé stesso» [...]. La sua immagine infatti è lui, però in quanto immagine anche non è lui, ossia è qualcosa d'«altro» dal Primo e dall'Uno: e quindi una realtà «seconda», molteplice»[282]. Anche se notevole è l'analogia col tema biblico della Genesi (Dio crea l'uomo a sua immagine e somiglianza), non si può negare che il pensiero di Plotino differisce, nella sua sostanza, dalla idea cristiana della creazione da una parte, e dall'idea del Nolano di esplicazione, dall'altra.

In Bruno la materia non è mai né ontologicamente inferiore all'Assoluto, né addirittura assenza, proprio perché non esiste un distacco tra Uno e Universo, tra Assoluto e mondo. Nella prospettiva panteistica, immanentistica ed infinitistica del Nolano, Dio modifica soltanto se stesso, ovvero l'Universo infinito. L'universo non è mai immagine - sbiadita - dell'Assoluto. Il riflesso non è mai ontologico, ma solo gnoseologico. Avevamo già visto come sia la morte, sia l'idea di creazione - in natura - sono in effetti una pura illusione determinata da un uso improprio del senso esterno (che deve sempre essere guidato da quello, superiore, dell'intelletto interno). L'immanenza è insomma, da questo punto di vista, totale. La trascendenza viene salvata solo a livello epistemologico, molto meno a livello metafisico. Dio rimane, nell'orizzonte conoscitivo possibile - in quanto semplicissima Unità divina e infinita - assolutamente al di sopra delle possibilità conoscitive umane. Tra Dio e l'uomo - a livello epistemologico - c'è l'umbra, lo specchio, l'immagine, ovvero l'universo, la materia. Ma, a differenza della concezione plotiniana, la materia è tutt'altro che inconsistente a livello ontologico: al contrario essa è l'unico luogo dell'esistenza (l'umbra è infatti il luogo dell'individuazione del singolo). La particolare coloritura che assume l'utilizzo bruniano del neoplatonismo risulta insomma nettamente antitetica a quella della teologia cristiana: il genuino pensiero di Plotino si colloca idealmente tra le due posizioni, creazionista ed immanente.

 

 


CAPITOLO VII

 

CONCLUSIONI

 

 

 

«Mercurio. [...] Ma te inganni, Sofia, se pensi che non ne sieno a cura cossì le cose minime, come le principali, talmente sicome le cose grandissime e principalissime non costano senza le minime ed abiettissime. Tutto dunque, quantunque minimo, è sotto infinitamente grande providenza; ogni quantosivoglia vilissima minuzzaria in ordine del tutto universo è importantissima; perché le cose grandi son composte de le piccole, e le piccole de le piccolissime, e queste de gl'individui minimi. [...]. L'atto della cognizione divina è la sustanza de l'essere di tutte le cose; e però, come tutte cose o finito o infinito hanno l'essere, tutte ancora sono conosciute ed ordinate e proviste. La cognizion divina non è come la nostra, la quale séguite dopo le cose; ma è avanti le cose e si trova in tutte le cose, di maniera che, se non la vi si trovasse, non sarebbono cause prossime e secondarie»[283].

 

 

Anche sul terreno metafisico della concezione dell'Unum e dei suoi rapporti con il mondo materiale, Bruno mantiene quindi uno stretto legame con la tradizione magico-ermetica, pur utilizzando il vocabolario classico del neoplatonismo. Una adesione completa alla metafisica neoplatonica avrebbe d'altra parte comportato una insostenibile incoerenza con le tesi esposte nei Dialoghi che abbiamo analizzato, con la metafisica esposta nel De umbris e soprattutto con gli ultimi scritti magico-ermetici, il cui contenuto doveva corrispondere all'esposizione di una metodica magica per completare la crescita dell'uomo nell'universo divino e quindi infinito. Ma veniamo ora alle considerazioni finali.

 

La difficoltà principale nel leggere Giordano Bruno consiste a mio avviso nella particolare tecnica espositiva del Nolano: quella che Michele Ciliberto ha efficacemente definito come tecnica della variazione. Ma l'intrecciarsi di temi e motivi - spesso assai intricato - è in fondo la conseguenza più evidente dell'adozione di quella che ho voluto definire filosofia binaria: quella filosofia che, mediante il metodo analogico, si propone di conoscere la realtà ripercorrendone la struttura metafisica e studiando il modo con cui l'Uno complica gli opposti nel Tutto.

In effetti, anche l'analisi del concetto di infinito - che era lo scopo di questa ricerca - dovrebbe essere svolta in quest'ottica binaria, assolutamente speciale: è proprio a partire dalla filosofia della coincidenza dei contrari, dalla nagazione del principio aristotelico di identità e di non-contraddizione, che è possibile collocare l'infinito nella sua giusta dimensione metafisica.

Non per nulla Bruno aveva concluso il De la Causa sostenendo che: «l'individuo non è differente dal dividuo, il simplicissimo da l'infinito, il centro da la circonferenza [...]. Ecco come non è impossibile, ma necessario, che l'ottimo, massimo, incompreensibile è tutto, è per tutto, è in tutto, perché, come semplice ed indivisibile, può esser tutto, esser per tutto, essere in tutto. E cossì non è stato vanamente detto che Giove empie tutte le cose, inabita tutte le parti de l'universo, è centro de ciò che ha l'essere, uno in tutto e per cui tutto è uno. Il quale, essendo tutte le cose e comprendendo tutto l'essere in sé, viene a far che ogni cosa sia in ogni cosa»[284]. L'anassagoreo «tutto in tutto» sta quindi alla base di ogni singola possibilità di divenire.

Più ci si avvicina all'infinito, più ci si avvicina alla Totalità, all'Assoluto, all'Unum. Nell'universo, invece, - nella nostra particolare porzione di spazio-tempo - siamo ancora nella sfera del finito, del contingente. Nella dimensione dell'infinito si perdono dunque tutte le determinazioni, perché ogni cosa equivale a ogni cosa. In quella del finito, invece, ogni cosa è solo quello che può essere in quel particolare momento (ed è quindi infinita solo a livello potenziale, mai attuale).

«Ma mi direste - obietta il Nolano - perché dunque le cose cangiano?»: se ciascuna delle singole unità dell'universo ha in se stessa l'infinito, perché c'è il divenire? «Vi rispondo - continua il Bruno - che non è mutazione che cerca altro essere, ma altro modo di essere. E questa è la differenza tra l'universo e le cose de l'universo: perché quello comprende tutto lo essere e tutti modi di essere; di queste ciascuna ha tutto lo essere ma non tutti i modi di essere»[285]. Le singole unità non mutano quindi perché mancano d'essere (hanno infatti dentro di sé l'essere infinito), ma per acquistare un altro modo d'essere (un'altra forma esteriore). Tuttavia «non falla chi dice uno essere lo ente, la sustanza e l'essenza; il quale, come infinito ed interminato, tanto secondo la sustanza, quanto secondo la durazione, quanto secondo la grandezza, quanto secondo il vigore, non ha raggione di principio né di principiato: perché concorrendo ogni cosa in unità ed identità, dico medesimo essere, viene ad avere raggione absoluta e non respettiva»[286]. La molteplicità è in sostanza un dato apparente: a livello metafisico si tratta in realtà dello stesso Unum che esplica in una moltitudine infinita di forme. La coincidenza di Unum e Universo toglie ogni possibilità di confusione tra la metafisica neoplatonica e nolana filosofia, e ribadisce parallelamente la sostanziale fedeltà del Nolano alla tradizione ermetica: Dio si esplica nel Mondo e lo vivifica dall'interno; l'uomo è un magnum miraculum (come aveva detto Ermete Trismegisto), una delle più complete espressioni del divino.

 

 

In questa ricerca ho tentato di chiarire significato che il concetto di infinito viene ad assumere nei Dialoghi metafisici di Giordano Bruno. Cercherò ora di riassumere brevemente i risultati di questa mia indagine.

 

1) L'idea dell'infinito viene accolta dal Bruno come una delle tesi fondamentali della tradizione ermetica (a cui il Nolano rimarrà sempre sostanzialmente fedele). Per questo nel primo capitolo ho particolarmente insistito sul pensiero magico, sul suo significato filosofico e sulle sue conseguenze a livello metafisico e antropologico. L'ermetismo era una dottrina religiosa - contenente in realtà molti elementi filosofici - che i Rinascimentali attribuivano al mitico Ermete Trismegisto. Secondo i testi ermetici l'universo è infinito e la materia è animata; la morte è un fenomeno soltanto apparente (in realtà non si tratta che di cangiamento, infinita mutazione delle forme esteriori che la materia stessa viene di volta in volta ad assumere). Inoltre, da un punto di vista psicologico, il pensiero magico e le sue diverse manifestazioni (magia naturalis, cerminialis, stregoneria, culti di origine celtica, etc.) risultano una rielaborazione inconscia del tema dell'assenza: il tentativo di mantenere un rapporto diretto con l'Invisibile rappresenta appunto lo sbocco naturale della dottrina soteriologica ermetica. Questa dialettica trova espressione anche nella visione antropologica: l'uomo è magnum miraculum, ma può adeguarsi all'Infinito solo attraverso l'ascesi mistica ed il culto magico.

Per tutto il corso della sua straordinaria esperienza filosofica, il Nolano si manterrà sempre perfettamente coerente con queste tesi, più che con qualsiasi altra scuola filosofica. Per troppo tempo la critica ha quindi cercato di rintracciare nel suo pensiero elementi più disparati, dal neoplatonismo all'atomismo democriteo, dal lucrezianesimo al lullismo. Bruno era un sincretista di eccezionale livello, e non deve quindi stupire se all'interno della sua magica filosofia binaria ha coagulato elementi diversi, anche adattandoli con evidenti forzature (come nel caso dell'utilizzo della cusaniana coincidentia oppositorum e del completamento delle teorie copernicane). Ma la vera fede fu ed è sempre rimasta quella nella magia: è questa l'unica possibile conclusione di una filosofia dell'infinito che non poggiava su dimostrazioni o procedimenti logico-scientifici, ma sulla dottrina della complementarietà del reale (ogni cosa ha il suo contrario, e il finito non sfugge a questa regola).

 

2) I dialoghi che comunemente vengono definiti dalla critica come metafisici sono in realtà quattro, e comprendono anche un testo fondamentale, erroneamente considerato solo mnemotecnico: il De umbris ideaum. In questo testo emergono con chiarezza gli elementi fondamentali della metafiisca nolana: il concetto di umbra, l'idea della scala naturae, l'infinita catena dell'essere, l'Unum. In particolare, la metafisica della luce esposta nel De umbris risultava fondamentale per la comprensione della struttura della realtà e delle possibilità conoscitive umane. Ancora una volta, la magia veniva presentata come unico mezzo per superare la struttura umbratile della conoscenza umana. Era poi emerso l'utilizzo della magica numerologia ermetica, misteiorsamente coordinata a quella pitagorica: l'ascesi mistica doveva certamente essere favorita da un utilizzo magico-simbolico dei numeri e delle idee.

 

3) Nel De la Causa erano poi emersi gli elementi fondamentali della metafisica nolana. L'infinito, esplicitamente equiparato alla divina unità che complica il tutto, veniva ad assumere un ruolo centrale, ma mai escludendo l'importanza e la funzionalità del finito. Il discorso procedeva parallelamente prendendo in esame minimo e massimo, complicato ed esplicato. Alla identificazione di vita e materia - sempre seguendo rigorosamente i canoni delle dottrine ermetiche - Bruno accompagnava una discussione dell'infinito che coinvolgeva sia il piano dell'Assoluto (l'Unum-tutto vivente) sia quello della materia mundana (i singoli individui). Il procedimento era sempre quello analogico: Dio è la vita, Dio è infinito, la vita è infinita: ma il mondo è l'espressione della potenza divina, quindi la materia è animata e viva, e non può che essere a sua volta infinita. A livello mundano l'infinito veniva a configurarsi più precisamente in due modi: si era parlato di una produzione infinita di forme (da parte dell'Intelletto superiore) e di una estensione infinita dell'universo (a livello cosmologico). Emergeva così l'idea della vicissitudine universale: un ciclico cangiamento della vita che permette l'adeguamento all'infinito dei singoli individui mediante un infinito susseguirsi di vite diverse.

In particolare, la distinzione tra Dio e universo era stata giustificata proprio in base alla loro diversa infinità: anche l'infinito presentava dunque una natura essenzialmente duplice, binaria: da una parte l'infinito di Dio, dall'altra l'infinito dell'universo.

L'utilizzo della cusaniana coincidentia oppositorum trovava la sua espressione più completa prorpio nella trattazione della unità divina: nell'universo infinito i contrari vengono compresi in una sola unità (e si ripete quindi per il macrocosmo quello che accade in ogni singolo microcosmo): «[...] prendi i segni e le verificazioni per le quali conchiuder vogliamo gli contrarii concorrere in uno, onde non fia difficile al fine inferire che le cose tutte sono uno, come ogni numero tanto pare quanto ìmpare, tanto finito quanto infinito, se riduce all'unità; la quale, iterata con il finito, pone il numero,e con l'infinito, nega il numero. I segni le prenderai dalla matematica, le verificazioni da le altre facultadi morali e speculative. Or, quanto a' segni, ditemi: che cosa è più dissimile alla retta che il circolo? che cosa è più contrario al retto che il curvo? Pure nel principio e minimo concordano, atteso che, come dvinamente notò Cusano, inventor di più bei segreti di geometria, qual differenza trovarai tu tra il minimo arco e la minima corda? Oltre, nel massimo, che differenza trovarai tra il circolo infinito e la linea retta? [...] Ecco dunque come non solamente il massimo ed il minimo convergono in uno essere, come altre volte abbiamo dimostrato, ma ancora nel massimo e nel minimo vengono ad essere uno ed indifferente gli contrari»[287]

 

4) La Cena de le Ceneri esponeva - per modo di passaggio - il nucleo centrale della nolana filosofia: la consapevolezza profonda della struttura binaria sia del mondo che del pensiero. La discussione cosmologica della teoria copernicana presupponeva infatti - come substraum ideologico - la teoria della binarietà del reale: non ha senso porre dei limiti assoluti proprio perché il limite presuppone l'esistenza del suo contrario, il non-limite, l'infinito. La posizione critica del Nolano nei confronti della teoria copernicana traeva spunto proprio dalla incompletezza del pensiero dell'astronomo polacco. Non era sufficiente porre il Sole al centro - relativo - di questo universo, ma occorreva disfarsi una volta per sempre di quel limite immaginario costituito dall'ultima sphaera mundi. L'unico limite assoluto - ribadisce indirettamente il Nolano - è quello che costituisce il presupposto indispensabile per ogni esistenza possibile: l'ombra metafisica.

La discussione dell'infinito doveva prevedere anche la svalutazione della scienza matematica (che si occupa del misurabile e quindi del finito): matematica e geometria servono solo per rappresentare un concetto già esistente e funzionale secondo la logica del senso interno. La logica del senso interno è quella che aspira a saper trar il contrario dopo aver trovato il punto d'unione[288].

Il rapporto tra cosmologia e metafisica faceva emergere importanti conseguenze sul piano dell'etica e dell'antropologia, legate in particolare alla perdita del centro e della gerarchia.

 

 

5) Il De l'infinito non rappresenta, come è stato spesso erroneamente sostenuto, la conclusione ultima della nolana filosofia, ma ne costituisce invece un capitolo intermedio. Non si dimentichi che il Bruno, dopo aver parlato del massimo (dell'infinito), dedicherà alla descrizione del minimo due opere fondamentali come il De triplici minimo et mensura e il De monade numero et figura[289].

Nel De l'infinito emergono tutte le ovvie conseguenze della impostazione filosofica del De la Causa: l'infinità dell'universo viene presentata come l'effetto più ragionevole di due principi fondamentali: il famoso principium plenitudis e l'argomento teologico della potentia infinita. A proposito ha osservato opportunamente Nicola Badaloni: «L'argomento fondamentale su cui si basa l'interpretazione infinitistica del copernicanesimo è stato giustamente individuato nel concetto di potentia infinita, cioè di una piena corrispondenza e identità tra Dio e lo spazio-materia e più oltre con tutte le cose viventi (astri, pianeti, piante, animali, pietra), che costituiscono l'ordinato sistema del mondo dominato dalla vicissitudine, cioè da un movimento che si svolge entro i confini di questa unità complessiva. Vicissitudine significa anche accettazione di una forma non ben precisata di metempsicosi che pone Bruno al di fuori della concezione cristiana del mondo. Per Bruno la potenza assoluta si è espressa interamente sin dall' origine nella natura. Ciò crea i problemi teologici che risultano dal processo, giacchè non ha più ragione d'essere una seconda rivelazione di Dio in Cristo. Quindi il Nolano dichiara agli inquisitori di aver stimato che la divinità del verbo assistesse a quell'humanità di Criso individualmente, e di non aver potuto capire che in quest'ultimo fosse una unione che havesse similitudine d'anima e di corpo, ma un'assistentia, [...] come è tra l'anima e il corpo, o qualsivoglian' due altre cose. Teologicamente Bruno si presenta dunque quale seguace dell'unitarismo di Ario, come risulta anche dai sarcasmi sulla doppia natura del Cristo nello Spaccio. La questione però ha una portata teoretica più vasta perchè dà una giustificazione filosofica dell'assoluta unità tra divino e realtà materiale, mediata dal concetto, pur accolto da Cusano, della teologia negativa»[290].

 

6) Il rapporto con il neoplatonismo è caratterizzato da una evidente somiglianza a livello terminologico ma anche da una netta divergenza per quanto riguarda il livello metafisico: per Plotino l'infinità dell'Uno è superiore a quella del mondo perché rispecchia la differenza ontologica tra Generante e generato. In Bruno invece l'Uno si esplica nel Mondo e alla fine coincide con esso.

 

7) L'infinito che viene presentato nei Dialoghi che abbiamo preso in considerazione non è affatto l'unico centro della metafisica nolana. L'infinito è il nome di Dio quando viene considerato come massimo esplicato, ovvero come Tutto. Ma Dio è anche il minimo: nell'Uno infatti si verifica la coincidenza di tutti i contrari. L'applicazione magica del principio anassagoreo tutto in tutto prevede che ogni singola cosa possa diventare ogni cosa, all'infinito.

L'infinito è stato presentato sempre all'interno di un quadro speculativo di tipo analogico: l'infinito ha come suo presupposto l'esistenza di un Assoluto e di un assolutamente Minimo: l'Uno. L'universo è infinito perché esplicazione di Dio. Dio è infinito perché in Lui si verifica una assoluta coincidentia oppositorum: nell'Uno si trovano tutte le determinazioni possibili che si ritrovano poi nell'Universo esplicato. Anche per questo è possibile sostenere che il discorso sull'infinito è sempre rimasto nei limiti teologici (l'infinito è una delle determinazioni di Dio).

I presupposti costanti per la discussione dell'infinito sono dunque la filosofia binaria (o degli opposti), la dottrina dell'umbra e la magia. Il vero scopo della filosofia consiste infatti in un utilizzo appropriato dei segreti della magia e nella contemplazione: se infatti nel De magia il Nolano definirà la magia come «transnaturalis seu metaphysica» e dirà che si deve chiamare «proprio nomine [...] Jeourgia»[291], nel De la Causa aveva scritto che «Quelli filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovata questa unità. Medesima cosa a fatto è la Sofia, la verità, la unità»[292]. La filosofia della natura mira alla contemplazione estatica del Tutto: diventa quindi misticismo.

 

 

La profonda coerenza che ha caratterizzato lo sviluppo della nolana filosofia non poteva che illuminare le ultime scelte, drammatiche, del grande Mago di Nola.

Il 23 maggio del 1592 il Mocenigo presenta agli Inquisitori veneti una denuncia per eresia contro il suo Ospite e Maestro. Bruno viene arrestato la sera stessa e condotto nelle carceri di S.Domenico di Castello.

Il 18 settembre del 1596 (Bruno è già stato trasferito a Roma) la Congregazione del S.Offizio stabilisce che una commissione di teologi esamini le opere bruniane per individuare le proposizioni eretiche.

Il 24 marzo del 1597 viene esortato ad abbandonare la sua teoria relativa alla pluralità dei mondi. Viene poi interrogato sotto tortura.

Il 17 febbraio 1600 viene denudato, legato ad un palo e bruciato vivo in Campo dei Fiori a Roma. Le sue ceneri, sparse al vento.

 

 

Il 21 dicembre del 1599, rispondendo alle ultime accuse, aveva dichiarato che non era disposto a ritrattare perché non aveva di che pentirsi.

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

 

OPERE DI BRUNO

 

 

Commedie

 

Il candelaio, 1582.

 

 

Scritti lulliani

 

De compendiosa architectura et complemento artis Lulli, 1582. Animadversiones circa lampadem lullianam, 1587. Artificium perorandi, 1587. De lampade combinatoria lulliana, 1587. De progressu et lampade venatoria logicorum, 1587. De specierum scrutinio, 1588. Lampas triginta statuarum, 1591.

 

 

Scritti mnemotecnici

 

Ars memoriae, 1582; Cantus Circaeus, 1582; De umbris idearum, 1582; Sigillus sigillorum, 1583; Triginta sigillorum explicatio, 1583; De imaginum compositione, 1591.

 

 

Scritti didattici, esposizioni, commenti e polemiche

 

Acrotismus camoeracensis, 1586; Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos, 1586; Dialoghi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione, 1586; Figuratio Aristotelici physici auditus, 1586; Centum et sexaginta articuli adversos huius temporis matematicos atque philosophos, 1588; Libri physicorum Aristotelis explanati, 1588.

 

 

Scritti magici.

 

De magia; De magia mathematica; De vinculis in genere; Medicina lulliana; Theses de magia (tutti composti tra il 1589 e il 1591).

 

 

Scritti metafisici e di filosofia naturale.

 

De la Causa, principio et Uno, 1584; De l'infinito, Universo et Mondi, 1584; La cena de le ceneri, 1584; De innumerabilibus immenso et infigurabili, 1591; De monade numero et figura, 1591; De triplici minimo et mensura, 1591; Summa terminorum methaphisicorum, 1591.

 

 

Scritti morali.

 

Spaccio de la bestia trionfante, 1584; Cabala del cavallo Pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino Cillenico, 1585; De gl'heroici furori, 1585.

 

 

Scritti d'occasione

 

Oratio valedictoria, 1588; Oratio consolatoria, 1589.

 

 

Scritti inediti o perduti.

 

Arca di Noé, 1570-71 (?) Poema, 1570-71 (?); De segni de' tempi, 1576; Sfera, 1576-81; Invettive contro il Dela Faye, 1579; Clavis magna, 1579-81; De anima, 1579-81; De' predicamenti di Dio, 1581-82; Purgatorio de l'Inferno, 1582-1583; Arbor philosophorum, 1585; Delle sette Arti inventive, 1589-91; Delle sette Arti liberali, 1589-91; De sigillis Hermetis et Ptolomaei, 1589-91; Libretto di congiurazioni, 1589-91; De rerum imaginibus, 1591; De astrologia, 1591; De multiplici Mundi vita, 1591; De Naturae gestibus, 1591; De principiis Veri, 1591(?); Gli pensier gai, 1591 (?); Il Tronco d'Acqua viva, 1591 (?).

 

 


Bibliografia di Riferimento

 

 

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Scienza e filosofia dell'infinito, Muzzio, Padova, 1991, pp. 367 380. Una rassegna imponente di titoli di area matematica e psicologica si trova in IGNACIO MATTE BLANCO, L'inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi logica. Einaudi, 1981, pp. 517 527. Notevole per l'argomento è anche l'Introduzione (Pensiero, mondo e problemi di fondazione, a cura di Pietro Bria, pp. XIX CVII, con relativa bibliografia, pp. CIX CXI). Per quanto riguarda l'infinito in ETICA, si veda E. LEVINAS, Totalità e Infinito, Saggio sull'esteriorità, Jaca BooK, Milano, 1990. SULLA RIVOLUZIONE ASTRONOMICA; SULLA STORIA DELLA SCIENZA E SUL RINASCIMENTO SCIENTIFICO IN GENERALE; LA COSMOLOGIA. D. FRACCARI, L'impostazione antimatematica del problema della natura nella «Cena de le ceneri» di Giordano Bruno, in «Rivista critica di storia della filosofia», V, 1950, pp. 179 193. P. DUHEM, Le système du monde, Paris, 1954. L. GIUSSO, Scienza e filosofia in Giordano Bruno, Napoli, 1955. A. 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Sommario

 

 



[1] Cfr. V. SPAMPANATO, Documenti della vita di Giordano Bruno, Olschki, Firenze, 1933, p. 183.

[2] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, Laterza, Bari, 1992, p. 29.

[3] C. MONTI, Introduzione a Opere latine di Giordano Bruno, UTET, Torino, 1980, p. 42.

[4] De la Causa, Principio et Uno, p. 241.

[5] N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento: Giordano Bruno fra gli 'antichi' e i 'moderni', in «L'infinito nella Scienza», a cura di Giuliano Toraldo di Francia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1987, p. 267.

[6] De la Causa, Principio et Uno, pp. 241-242.

[7] U. ECO, L'irrazionale ieri e oggi, in «Alfabeta», n. 101, p. 36. Si veda anche P. ZAMBELLI, L'ambigua natura della magia, Il Saggiatore, Mondadori, Milano, 1991, Prefazione, p. VII.

[8] La Cena delle Ceneri, pp. 19-22.

[9] De vinculis in genere, p. 208: «Vincoli veri e propri e particolarmente efficaci sono quelli che si attuano per accostamento del contrario».

[10] Ibid., Introduzione (a cura di Albano Biondi), p. IX.

[11] B. RUSSEL, Misticismo e logica, Longanesi, Milano, 1980, p. 3.

[12] De magia, pp. 6-7: «e questa è magia transnaturale o metafisica, e si chiama, propriamente, teurgia».

[13] Ibid., pp. 68-69: «In fine si deve dichiarare con fermezza e tenere saldo nella mente il principio che tutte le cose sono piene di spirito, anima, nume, dio o divinità e l'intelletto è tutto dovunque, e l'anima è tutta dovunque [...]».

[14] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, La Nuova Italia, Firenze, 1971, p. XV.

[15] R. RUCKER, La mente e l'infinito, Muzzio, Padova, 1991, p. 5.

[16] In questi ultimi tempi, l'opera della Yates, dopo aver influenzato la critica per anni, è stata rivista criticamente. Ciliberto, già nell'86, aveva sostenuto «i limiti di quel lavoro straordinario appaiono oggi evidenti. Assorbita nello stereotipo del mago ermetico, la figura di Bruno si è ridotta, contratta, semplificata» (Cfr. M. CILIBERTO, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 10). A proposito credo invece che quella dell'ermetismo sia in Bruno una questione radicale. In questi ultimi anni la critica ha più volte denunciato la creazione di un nuovo stereotipo (il mago-ermetico, che avrebbe sostituito quello del martire della libertà del pensiero e della scienza); e gli studi della Yates sarebbero i principali responsabili di questo fraintendimento. Ma in realtà escludere la matrice ermetica dall'analisi del pensiero di Bruno significa trascurare l'evidenza delle opere. Dal De Umbris Idearum, alle opere magiche finali e alla disperata ricerca di dissimulazione che Bruno provò di fronte agli inquisitori veneti e romani, il tema costante della «nolana filosofia» appare l'interesse per la magia, per la sapienza ermetica, per il progresso e la divinizzazione dell'uomo. Ma non solo. Dall'ermetismo Bruno sembra aver assimilato alcuni nodi concettuali di estrema importanza (che saranno qui di seguito discussi), come ad esempio l'idea della materia viva ed animata, dell'Unum, della catena infinita, della scala naturae, della morte apparente, etc. Si tratta di temi fondamentali per la formulazione di una «teoria infinitista» completa. In realtà sembra addirittura che l'idea di un universo infinito e animato direttamente dall'azione vivificatrice di Dio fosse già presente nella stessa tradizione ermetica, come ha brillantemente messo in rilievo la Yates. Occorre quindi, a mio parere, tener ben presente l'opera della Yates, come punto di partenza per un'analisi critica sensata, che non rigetti il vecchio per un nuovo forse troppo ipotetico e riduttivo. Un'opera quindi, quella della studiosa inglese, che se è carente e ha dei limiti dal punto di vista della creazione di stereotipi, ha comunque l'innegabile merito di aver approfondito un aspetto fondamentale del pensiero di Bruno la centralità dell'influenza ermetica.

[17] Cfr. F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari, 1992, pag. 275: «Il problema della concezione filosofica di Bruno è reso estremamente complesso dal fatto che anch'egli, alla pari di Ficino e di Pico, era un sincretista e sintetizzava nella sua posizione, basata su larghissime letture, motivi di altre filosofie e letterature concresciute nell'ambito della tradizione ermetica».

[18] C. GINZBURG, Storia notturna, Einaudi, Torino, 1989, p. 244.

[19] Carlo Ginzburg (Cfr. Storia Notturna, cit., pp. 5-36), con una nutrita serie di documenti, ha recentemente mostrato come il concetto cumulativo di stregoneria prese piede da una «paura del complotto» che si diffuse nelle comunità cristiane, nella zona delle Alpi occidentali, a partire dalla fine del '300. Le prime cronache che danno notizia dello sterminio di lebbrosi, perché accusati di spargere veleni, risale al 1321: «i lebbrosi furono bruciati in quasi tutta la Francia - racconta un cronista - perché avevano preparato dei veleni per uccidere tutta la popolazione». Molti di questi, dopo essere stati imprigionati, avevano confessato di aver partecipato a riunioni segrete. Ben presto alla figura del lebbroso venne avvicinata quella dell'ebreo. Un altro cronista, che scriveva nel 1328, riferiva: «si diceva che gli ebrei fossero complici dei lebbrosi, e per questo molti furono bruciati come lebbrosi». Alcuni riportano una versione dei fatti ancor più complessa, secondo la quale i lebbrosi erano stati convinti dagli ebrei con il denaro. In realtà a loro volta gli ebrei sarebbero stati convinti dal re di Granada. Costui, incapace di vincere i cristiani con la forza, aveva pensato di disfarsene con l'astuzia. Si era rivolto allora agli ebrei, offrendo denaro perché allestissero un piano per distruggere la cristianità. Gli ebrei avevano accettato, ma avevano dichiarato di non poter agire da soli, perché troppo sospetti meglio affidare l'esecuzione ai lebbrosi che, frequentando continuamente i cristiani, avrebbero potuto avvelenare le loro acque senza difficoltà. Ma la congiura era stata scoperta, ed i lebbrosi bruciati. In varie parti della Francia, soprattutto in Aquitania, gli ebrei erano stati mandati indistintamente al rogo. In seguito la paura del complotto si diffuse, e la reazione violenta colpì nuove figure sociali. Lo schema era sempre quello personaggi appartenenti a gruppi socialmente sospetti confessavano di esser stati corrotti con denaro da nemici esterni perché diffondessero il contagio. Solo l'identità dei personaggi era cambiata. I lebbrosi erano scomparsi dalla scena (del resto la lebbra stava ormai scomparendo); i re musulmani erano stati sostituiti da nemici non nominati, ma verosimilmente inglesi (data la guerra, poi denominata dei Cent'Anni, allora in corso); al posto degli ebrei c'erano altri gruppi marginali - i poveri e i mendicanti (solitamente vecchi). La figura della strega rientra appunto in questa categoria.

[20] Ibid., p. 280.

[21] Ibid., p. 288.

[22] Ginzburg, a proposito della credenza nella metamorfosi in animali e del viaggio nel mondo dei morti, parla esplicitamente di «identificazione profonda tra animali e morti due espressioni dell'alterità» (Cfr. op. cit. p. 245).

[23] De magia, p. 7.

[24] De la Causa, Principio et Uno, p. 94.

[25] De magia,  p. 31.

[26] PLOTINO, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, Milano, 1992, p. 915.

[27] Ibid. p. 687.

[28] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, Bibliopolis, Napoli, 1988, p. 145.

[29] La tecnica dei loci è estremamente attuale, ed è anche quella più in voga in tutte le moderne tecniche di memorizzazione veloce (alcune delle quali sviluppano questa metodica in modo originale, integrandola con sistemi subliminali di vario tipo). Si tratta in verità di una tecnica molto antica. Nel De oratore Cicerone ne fa risalire l'invenzione a Simonide di Ceo. «Storicamente è nel De memoria di Aristotele che si trovano i primi fondamenti di una tecnica della memoria, poi sviluppati nell'opera citata di Cicerone e nel De institutione oratoria di Quintiliano. In questi trattati la mnemotecnica è vista come componente essenziale della tecnica dell'oratore. Per aiutarsi a ricordare, l'oratore deve avvalersi di questo espediente: escogitare a suo arbitrio dei luoghi, formarne le immagini dei fatti o dei concetti che vuole ricordare, e collocare quelle immagini nei luoghi. In questo modo la memoria naturale è corroborata e invcrementata da unamemoria artificiale costruita mediante l'impiego di luoghi e di immagini. Tale concezione ritorna nel Medioevo con Alberto Magno e in Tommaso d'Aquino che, fondendo testi aristotelici e ciceroniani, teorizzano a loro volta la possibilità di perfezionare la memoria mediante l'arte. A partire dal Trecento un'ampia trattatistica di mnemotecnica si diffonde in tutta l'Europa, animata da intenti prevalentemente tecnico-pratici: sviluppare le regole della disposizione dei luoghi e della formazione delle immagini, che aiutino a ricordare facilmente e ordinatamente quanto, con le sole forze naturali, non si riuscirebbe a rammentare. La mnemotecnica acquista invece una notevole rilevanza filosofico-speculativa durante il Cinque e Seicento nell'ambito di quella corrente di pensiero che si richiama a Raimondo Lullo e alla sua ars magna, nota come lullismo. Il problema della mnemotecnica viene qui sviluppato in stretta connessione con quello di un'arte suprema o scienza perfettissima che, includendo in sé ogni altra scienza, sia in grado di pervenire ad una conoscenza totale dell'intera realtà. In autori come Giulio Camillo, Agrippa di Nettesheim, Bernardo de Lavinheta, Giordano Bruno, Giovan Battista Della Porta, Enrico Alsted, e ancora Leibniz, la mnemotecnica assume l'aspetto di una logica memorativa che, se da una perta costituisce l'arte suprema o lo strumento universale in gradoi si esaminare coordinare e classificare gli enunciati delle varie scienze particolari, dall'altra si configura come esaustivo sistema mnemonico o universale enciclopedia dell'intero scibile» (Cfr. voce mnemotecnica, in Enciclopedia Filosofica Garzanti, 1981, p. 607).

[30] A. INGEGNO, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana del Bruno, Bibliopolis, Napoli, 1985, pp. 89-90.

[31] De immenso, p. 478.

[32] De magia, pp. 35-37.

[33] Ibid., p. 35.

[34] Ibidem

[35] A proposito del Corpus Hermeticum, e dell'influenza che questi scritti esercitarono sui filosofi rinascimentali (in particolare Bruno e Agrippa), gli studi più convincenti sono ancora quelli di F. A. Yates. Ha scritto tra le altre cose la studiosa inglese «fra i numerosi scritti attribuiti ad Ermete Trismegisto il gruppo di gran lunga più interessante è costituito da diciassette trattati (di cui il primo reca il titolo di Pimandro), più uno scritto pervenutoci solo in una versione latina di un trattato dal titolo Asclepio. E' appunto questo gruppo di scritti che viene denominato Corpus Hermeticum. La tarda antichità ha accettato tutti questi scritti come autentici. I Padri Cristiani, che vi trovarono accenni a dottrine bibliche ne furono grandemente impressionati, e, di conseguenza, convinti che risalissero all'epoca dei Patriarchi biblici, pensarono che fossero opera di una sorta di profeta pagano. Così pensò, ad esempio, Lattanzio, e così pensò in parte anche S. Agostino. Ficino consacrò solennemente questa convinzione e tradusse il Corpus Hermeticum, che divenne tosto un testo basilare del pensiero umanistico-rinascimentale, e, così, verso la fine del XV secolo, nella cattedrale di Siena Ermete venne accolto solennemente, ed effigiato sul pavimento con la scritta Hermes Mercurius Trismegistus Contemporaneus Moysi. Dio viene concepito in funzione dei concetti d'incorporeo, della trascendenza e dell'infinitudine; viene anche concepito come Monade e Uno, principio e radice di tutte le cose; infine, viene espresso anche in funzione dell'immagine della luce. Teologia negativa e positiva s'intrecciano. Il Dio supremo, inoltre, è concepito come esplicantesi in un numero infinito di potenze, e anche come forma archetipa, e come il principio del principio, che non ha fine (Cfr. F. YATES, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, cit, p. 161). Sempre a proposito dell'ermetismo, Eugenio Garin aveva sostenuto: «nel '400 la nuova immagine del l'uomo acquista consapevolezza e dimensioni caratteristiche sotto il segno di Ermete Trismegisto, e si viene modellando sulle linee già decisamente fissate nei libri ermetici [...]. La distanza fra Medioevo ed età nuova è la distanza medesima che corre fra un universo conchiuso, astorico, atemporale, immoto, senza possibilità, definito, ed un universo infinito, aperto, tutto possibilità. Nell'ordine del primo il mago è solamente la tentazione demoniaca che vuole incrinare un mondo pacificato e perfetto. [...] Fra la filosofia medievale, che è una teologia dell'ordine stabile, cristallizzata ad un certo momento dell'aristotelismo, e la magia, non poteva esserci accordo» (Cfr. E. GARIN, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari, 1954, pp. 150-169). Sempre riguardo all'influenza che il Corpus Hermeticum avrebbe esercitato su Bruno, un autore attento come Leen Spruit non sembra invece accorgersi delle profonde analogie strutturali che emergono dalla lettura parallela del De umbris e De la Causa da una parte e le opere magiche tarde dall'altra. Scrive infatti l'Autore olandese: «soltanto nello Spaccio de la bestia trionfante e nelle opere magiche tarde il Corpus Hermeticum acquista un'importanza maggiore venendo a svolgere un ruolo essenziale nell'economia della sua speculazione etico-religiosa. Nel suo pensiero metafisico sviluppato nei primi scritti, Bruno rimanda di tanto in tanto al Corpus Hermeticum, ma di solito per illustrare una tesi da lui stesso progettata, come ad esempio quella della divinità nella natura. Il citare esplicitamente un testo ermetico in quei casi non è altro che voler proiettare il proprio pensiero in un passato lontano» (Cfr. L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit., p. 25).

[36] F. YATES, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Laterza, Bari, 1988, p. 112.

[37] Ibidem.

[38] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, cit., p. XV.

[39] De la Causa, Principio et Uno, p. 87.

[40] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit. p. 208.

[41] De la Causa, Principio et Uno, p. 45.

[42] F. YATES, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, cit., p. 161.

[43] ERMETE TRISMEGISTO, Poimandres, a cura di Paolo Scarpi, Marsilo Editore, Venezia, 1987, p. 47.

[44] IL KYBALION, studio sulla filosofia ermetica dell'antico Egitto e della Grecia, a cura di Remo Fedi, Brancato, Catania, 1991, pp. 48-49.

[45] Ibid., p. 51.

[46] Importanti analogie si possono trovare nella tradizione esoterica ebraica. Nella Qabbalah troviamo una visione di Dio intesa come unità assoluta. L'anima umana può innalzarsi attraverso l'estasi fino allo stato divino. Certamente pur essendo presenti nella Qabbalah tendenze panteistiche, la concezione di base resta teistica pur riconoscendo la presenza di Dio in ogni ordine della realtà, la dottrina non trascura mai l'aspetto del Dio trascendente, e non cade mai nella concezione impersonale di Dio, caratteristica invece del panteismo genuino. E' importante comunque notare come anche nella Cabala di fatto era presente un'idea della «scala naturae», idea che permette l'ascesi per gradi.

[47] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p.17.

[48] Presso i Greci Ermete è un nume intimamente legato alla parola, è padre della parola e come tale interprete e messaggero di Zeus; per gli Stoici è la parola personificata; anche per gli gnostici Ermete è il logos. Quando nell'età ellenistica i Greci paragonarono i loro dei a quelli Dell'egitto, furono colpiti dall'analogia esistente tra Ermete e l'egiziano Thot, dio delle lettere, della misura, dei numeri (cfr. Platone, Phaedr., 274 C) per coloro che vantavano l'origine egizia della loro cultura, era Thot-Hermes egiziano il padre delle lettere. E poiché gli Egiziani chiamavano grandi, grandi i loro dei, Ermete, identificato con Thot, fu detto tris meghistos, tre volte grandissimo attributo che appartiene a lui solo. [...] Ermete fu considerato persona umana, mantenendo il suo titolo di Trismegisto e la sua funzione di rivelatore della verità e perciò mediatore fra Dio e gli uomini. (dal Dizionario dei Filosofi, Sansoni, Firenze, 1976, p. 360).

[49] M. CILIBERTO, La ruota del Tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Editori Riuniti, 1986, p.226. La citazione di Bruno è tratta da Ciliberto dallo Spaccio de la bestia trionfante in  Dialoghi Italiani, nuovamente ristampati con note di Giovanni Gentile, terza edizione a cura di Giovanni Aquilecchia, Firenze, Sansoni, 1958, p. 781

[50] Spaccio de la bestia trionfante, Rizzoli, Milano, 1985, Introduzione e commento di Michele Ciliberto, pp. 268-270

[51] M. CILIBERTO, Introduzione a Spaccio de la bestia trionfante, Rizzoli, Milano, 1985, pp. 268-270.

[52] Anche in Bruno appare netto il rifiuto della «magia cerimoniale», almeno intenzionalmente.

[53] Cfr. E. GARIN, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari, 1954, pp. 150-169

[54] A proposito della magia rinascimentale, della sua ambiguità, dei rapporti tra magia naturale e stregoneria e dei rapporti tra magia ed ermetismo si veda l'ottimo lavoro: P. ZAMBELLI, L'ambigua natura della magia, Mondadori, Milano, 1991.

[55] De la Causa, Principio et Uno, p. 210.

[56] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 38-47.

[57] De la Causa, Principio et Uno, p. 212.

[58] De umbris idearum, pp. 81-83.

[59] De umbris idearum, p. 61: «Invero nell'orizzonte della luce e delle tenebre nient'altro possiamo comprendere che l'ombra. Quest'ombra si trova nell'orizzonte del bene e del male, del vero e del falso; quest'ombra è proprio ciò che può essere reso buono e cattivo, falsato e conformato a verità, e che, tendendo in qua, si dice che sia sotto l'ombra di questo (cioé del male e del falso), ma che, tendendo in là, si dice che sia sotto l'ombra di quello (cioé del bene e del vero)».

[60] Ibid., p. 75: «non dico dunque l'ombra che allontana dalla luce, ma che conduce alla luce, la quale, per quanto non sia verità, tuttavia deriva dalla verità e porta alla verità; e perciò non devi credere che in essa ci sia l'errore, ma il nascondiglio del vero».

[61] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit., p. 44.

[62] Ibid., p. 14.

[63] Ibid., p. 95. Più avanti Spruit sostiene che «Le considerazioni epistemologiche di Giordano Bruno nel De umbris idearum fanno parte di una tradizione gnoseologica ben precisa, in cui si sono intrecciati tesi ed elementi aristotelici e neoplatonici; è partendo da questa tradizione dunque che esse vanno comprese. Un quadro interpretativo di carattere magico-astrologico, quale è stato adoperato generalmente fino ad ora, ne impedisce una giusta comprensione, perché presuppone un fondamento magico-astrologico del pensiero di Bruno non giustificato da una circostanziata analisi dei testi». Quello che trovo sorprendente, in affermazioni di questo tipo, è che autori così esperti ritornino al vecchio ritornello dell'aut-aut, quasi come se una interpretazione «magico astrologica» (ermetica, per essere più precisi) impedisse di collocare Bruno all'interno della tradizione filosofica che gli è propria.. Al contrario, penso che entrambi i tipi di interpretazione, se affiancati con criterio, possono comprendere l'analisi e la spiegazione di un maggior numero di elementi, molto più di quanto non si sia fatto fino ad oggi.

[64] De Umbris Idearum, p. 35

[65] Ibidem.

[66] Ibidem.

[67] Ibid. pp. 38-39.

[68] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 228.

[69] De Umbris, p. 63.

[70] Cfr. ERMETE TRISMEGISTO, Poimandres, a cura di Paolo Scarpi, Marsilio Editore, Venezia, 1987, p. 47 «...sollevò lo sguardo ed io contemplai nel Nous la luce esplicarsi in un numero incalcolabile di potenze, luce divenuta parimenti un mondo senza limiti (kòsmon aperiòriston)».

[71] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 166.

[72] A proposito dell'influenza che Agrippa ha esercitato sul pensiero di Giordano Bruno, si deve dire che ancora oggi continua a mancare uno studio completo e convincente. Il "blocco psicologico" e la riluttanza dimostrata da gran parte della critica nel discutere la magia rinascimentale in ambito filosofico fa sentire le sue conseguenze anche in questo caso, peraltro - a mio parere - di notevolissimo interesse sia storico che scientifico.

[73] De Umbris idearum, pp. 66-67.

[74] Ibidem.

[75] De la Causa, Principio et Uno, p. 137.

[76] De Umbris idearum, pp. 71-73.

[77] Ibid., p. 73.

[78] Ibid., p. 77.

[79] Ibid., p. 93.

[80] Ibidem.

[81] Ibid., p. 95.

[82] Ibid., p. 109.

[83] Ibid., p. 111.

[84] Ibid., p. 115.

[85] Ibid., p. 117.

[86] Ibidem.

[87] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p. 17. Ciliberto si riferisce esplicitamente alle dimostrazioni della Yates in Giordano Bruno e la tradizione ermetica, che a sua volta aveva ripreso delle indicazioni di Eugenio Garin.

[88] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit. p. 220.

[89] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p. 18.

[90] De Umbris idearum, p. 71.

[91] Ibid., p. 101.

[92] Ibid., p. 35

[93] Ibid., p. 35

[94] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p. 256-257.

[95] De la Causa, Principio et Uno, p. 241.

[96] Ibid., p. 244.

[97] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 19.

[98] E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna, Newton Compton, 1983, p. 260.

[99] De la Causa, Principio et Uno, pp. 94-97.

[100] Ibid., p 97.

[101] Ibid., p. 112.

[102] Ibid., p. 140.

[103] Corpus Hermeticum, Paris, 1945 et 1954. Vol I, XI, p. 147-57, texte établi par A.D. Nock et traduit par A.J. Festugière, pp. 147-57; Marsilio Ficino, Opera omnia, Basiela, 1576 (due volumi con numerazione progressiva), pp. 1850-2 (Tutto il brano e le indicazioni bibliografiche sono state tratte da F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari, 1992, p. 45).

[104] Ibidem.

[105] A. INGEGNO, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana del Bruno, cit., p. 123.

[106] Cfr. Ibid., p. 124.

[107] A. DELCO', Moduli e pratiche di ermeneutica, criteri per una interpretazione del 'De la Causa' di Giordano Bruno, in «Filosofia», 1988, n. 39, pp. 113 - 30.

[108] De la Causa, Principio et Uno, p. 93.

[109] Ibid., p. 109.

[110] Ibid., p. 111.

[111] De vinculis in genere, p. 191.

[112] Corpus Hermeticum, cit., Vol II, Asclepius, p. 297.

[113] De la Causa, Principio et Uno, p. 132.

[114] Ibid., p. 137.

[115] Ibidem.

[116] Ibid., p. 158.

[117] Ibid., p. 159.

[118] Ibidem.

[119] Ibid., pp. 159-160.

[120] Ibid., p. 161.

[121] Ibid., p. 160.

[122] Ibid., p. 163.

[123] Ibid., p. 164.

[124] Ibidem

[125] Ibid., p. 165.

[126] Cfr. M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., parte prima.

[127] De la Causa, Principio et Uno, p. 197.

[128] Ibid., pp. 197-198.

[129] Ibid., pp. 210.

[130] Ibidem.

[131] Ibid., p. 211.

[132] Ibidem.

[133] Ibidem.

[134] Ibid., p. 212

[135] R. RUCKER, La mente e l'infinito, cit. Il passo citato è reperibile in G. CANTOR, Gesammelte Abhandlungen, a cura di Abraham Fraenkeln e Ernest Zermelo, Springer Verlag, Berlin, 1932, p. 404. (Ristampa anastatica Olms, Hildesheim, 1966).

[136] Ibid., p. 7.

[137] Ibid., p. 6.

[138] La monade, il numero e la figura, p. 315.

[139] F. PAPI, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 56.

[140] L'immenso e gli innumerevoli, p. 422.

[141] De magia, p.5.

[142] De la Causa, Principio et Uno, p. 219.

[143] A. INGEGNO, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana del Bruno, cit., pp. 83-84.

[144] De magia, p. 19

[145] De vinculis in genere, p. 197.

[146] Ibid., p. 123.

[147] Ibid., p. 193

[148] De magia, p. 13

[149] Ibid., p 25.

[150] F. PAPI, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno. La Nuova Italia, Firenze, 1968. p. 278.

[151] M. MAUSS, Teoria generale della magia, Newton Compton, Roma, 1976, pp. 73-74.

[152] M. CILIBERTO, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, p. 107.

[153] La Cena delle Ceneri, pp. 19-22.

[154] Ibid., pag. 106

[155] De umbris idearum, pp. 81-83.

[156] Le notizie riguardanti il teorema di incompletezza di Gödel sono state tratte da R. RUCKER, La mente e l'infinito, cit., pp. 186-196.

[157] La spiegazione del teorema è presentata da Rucker nei termini seguenti (Cfr. p. 192, op. cit.)

1) Qualcuno presenta a Gödel una supposta macchina della verità universale (chiamata qui MVU), capace naturalmente di risolvere ogni problema [...].

2) Gödel scrive la proposizione seguente MVU non dirà mai che questa proposizione è vera. Chiamando G questa proposizione, avremo G = MVU non dirà mai che G è vera.

3) Ora Gödel chiede a MVU se G è vera o no.

4) Si noti se MVU dice che G è vera, allora la proposizione MVU non dirà mai che G è vera è falsa (G è falsa). Quindi se MVU dice che G è vera, allora G è falsa. Ma in questo caso MVU avrebbe prodotto una proposizione falsa.

5) Stabilito che MVU non dirà mai che G è vera, risulta evidente che G è vera, e che quindi Godel era in grado di raggiungere una verità che MVU non è in grado di afferrare.

[158] La Cena delle Ceneri, p. 28.

[159] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit. p. 262.

[160] De umbris idearum, p. 35.

[161] Ha scritto la studiosa inglese «Nel Corpus Hermeticum traovai l'affermazione di Ermete Trismegisto secondo cui la terra si muove perché è viva e il rimpianto appassionato per la religione magica degli egiziani [...]. L'universo eliocentrico era un simbolo della religione magica di Bruno, di cui egli annunciava il ritorno e di cui si sentiva il profeta [...]. Bruno, che si sentiva e si proclamava filosofo-mago, si sentiva impegnato in un'opera di riforma filosofico-religiosa. Riforma religiosa che consisteva nel ritorno all'antica sapienza egizia, in una parola alla sapienza ermetica. Bruno credeva che l'antica religione 'egizia', che risale all'antico sapiente Ermete Trismegisto, fosse superiore alla religione ebraica e a quella cristiana, e che l'autentica riforma universale che i filosofi occulti, quale era egli stesso, attendevano, consistesse in un ritorno all'antica religione magica 'egizia' descritta nell'ermetico Asclepius».

[162] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 265.

[163] Si ricordino i passi fondamentali del testo ermetico già citato dalla Yates «L'intelletto, o Tat, deriva dalla sostanza stessa di Dio [...]. Anche il mondo è un dio, immagine di un dio più grande. Unito a questo, e osservante l'ordine e la volontà del Padre, esso è la totalità della vita. Non c'è niente in esso, per tutta la durata del ritorno ciclico voluto dal Padre, che non sia vivo. Il Padre ha voluto che il mondo viva fin quando conservi la sua coesione dunque, il mondo è necessariamente dio. Come può essere, allora, che in ciò che è dio, che è l'immagine del Tutto, ci siano cose morte? Infatti la morte è corruzione, la corruzione è distruzione, ed è impossibile che alcunché di Dio possa essere distrutto.  Ma non muoiono nel mondo gli esseri viventi, o Padre, sebbene siano parte del mondo? Taci, figlio mio, perché tu sei indotto in errore dalla denominazione del fenomeno. Gli esseri viventi non muoiono, ma, essendo corpi composti, si dissolvono; e questa non è morte, ma la dissoluzione di un miscuglio. Se si dissolvono non è per andare incontro alla distruzione ma a un rinnovamento. Che cos'è infatti l'energia della vita? Non è movimento? E che cosa c'è nel mondo che sia immobile? Niente. Ma almeno la terra non sembra immobile? No. Al contrario, sola fra tutti gli esseri essa è soggetta ad una moltitudine di movimenti, ed è insieme stabile. Sarebbe assurdo supporre che questa nutrice di tutti gli esseri sia immobile, essa che dà nascita a tutte le cose, perché senza movimento è impossibile generare. Tutto ciò che è nel mondo, senza eccezione, si muove, e ciò che si muove è anche vivo. Contempla dunque il bel sistema del mondo, e vedi che è vivo, che tutta la materia è piena di vita. Nella materia c'è dunque Dio, Padre?

E dove potrebbe essere posta la materia, se esistesse al di fuori di Dio? [...] Le energie che operano in essa sono parti di Dio. Sia che tu parli di materia, o di corpi, o di sostanza, sappi che queste sono energie di Dio, di Dio che è il Tutto. Nel Tutto non c'è niente che non sia Dio. Adora queste parole, figlio mio, e rendi ad essa culto» (Corpus Hermeticum, cit., pp. 1852-4. Il brano e le indicazioni bibliografiche sono state tratte da F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., pp. 47-48).

[164] Il Nolano aveva infatti sostenuto che «Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura» (Cfr. La Cena delle Ceneri, p. 148).

[165] Curiosamente, Manlio Ciardo ha sostenuto che «la scoperta della verità dell'indipendenza della ragione matematica dal senso e dal sensibile, la scoperta, cioé, dell'autonomia di tale ragione si pone alle origini della rivoluzionaria scoperta copernicana [...]. Con Copernico, pertanto, dalla fase di una matematica astronomica, per così dire ancora mitica, si passava alla fase di una matematica astronomica pura e insieme oggettiva., quella liberata, appunto, dal velo mitico e immaginativo dell'attestazione sensibile che, ad esempio, portava la suddetta ragione ad accettare il dato parvente della rotazione del sole intorno alla terra, considerata, perciò, erroneamente, centro di un universo conchiuso e circoscritto» (Cfr. M. CIARDO, Infinità dell'universo o infinità della storia, in «Rivista di studi crociani», VII, 1970, pp. 420-436, in particolare p. 420-21).

Sempre sul tema del valore che Bruno attribuisce alla scienza, Biagio de Giovanni aveva opportunamente rilevato che «L'infinito di Bruno è idea, immaginazione che nasce nella filosofia e [...] nella sintonia magico-ermetica di una mente col mondo. Essa non poteva nascere dalla ragione calcolatoria di Copernico, che ricercava misure. E Bruno lo sa e lo dice: altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura. Non son le linee e gli angoli, che fanno saldar più il fuoco, ma le vicine e distanti situazioni, lunghe e brieve dimore. L'infinito stenta ad essere presente nella dimensione della scienza, proprio perchè smisurato, proprio perchè rompe l'immagine di un universo geometrico, formato, misurabile. Se si dà infinito, l'universo rischia di diventare caos, indifferenza alla determinatezza» (Cfr. B. DE GIOVANNI, L'infinito di Bruno, in «Il centauro», 1986, n° 16, pp. 3-21, in particolare pp. 10-11).

[166] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 34.

[167] Ibid., p. 37.

[168] Ammetteva il Koyré: «io penso che sia stato Bruno il primo a presentarci il disegno o l'abbozzo di quella astronomia che divenne dominante nei due secoli successivi» (Cfr. A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 37).

[169] Si veda P. R. BLUM, Aristoteles bei Giordano Bruno. Studien zur philosophischen Rezeption, Munchen, 1980.

[170] N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento. Giordano Bruno fra gli antichi e i moderni, cit., pp. 257-271.

[171] La Cena delle Ceneri, p. 34.

[172] Ibid., p. 41.

[173] AA.VV. La coppia nei Padri, Edizioni Paoline, Milano, 1991, pag. 32.

[174] B. DE GIOVANNI, L'infinito in Bruno, in Centauro, Guida Editori, n° 16, 1986, pag. 9.

[175] La Cena delle Ceneri, p. 103.

[176] Ibid., pp. 103-104.

[177] Ibid., p. 104.

[178] P. BIANUCCI, Dopo Galileo la Chiesa riabilita Giordano Bruno, in La Stampa, Torino, Domenica 15 Novembre 1992.

[179] La Cena de le Ceneri, p. 104.

[180] Cfr. S. PAOLO «In realtà non è stato creato l'uomo per la donna, ma la donna per l'uomo» (1 Cor. 11,7-8).

[181] Del citato convegno sono usciti gli Atti Anselmo d'Aosta, figura europea. A cura di Inos Biffi e C. Marabelli, Edizioni Jaka Book, Milano, 1988, pp. 163-168.

[182] Osserva Angelo Marchesi, che «G. Colombo allude qui alle famose condanne parigine del vescovo Tempier contro certe tesi filosofico-aristoteliche anche di Tommaso» (Cfr. A. MARCHESI, Pensiero medioevale e pensiero contemporaneo, Edizioni CUSL «A. Rublev», Parma, 1992. Nota n. 89, pag. 81.

[183] L'esposizione della prova ontologica anselmiana è stata tratta da A. MARCHESI, Pensiero medievale e pensiero contemporaneo, cit., pp. 44-49. A sua volta Marchesi fa riferimento alla traduzione italiana delle Opere filosofiche di S.Anselmo, curata da S. Vanni Rovighi (Laterza, Bari, 1969, con Introduzione).

[184] N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento. Giordano Bruno fra gli antichi e i moderni, cit., p. 271. Il testo di Mersenne riportato da Badaloni è reperibile in M. MERSENNE, L'impieté des deisters et des plus subtilis découverte et refutée par raisons de Théologie et Philosophie, Seconde Partie, Paris MDCXXIV, pp. 402-403.

[185] La Cena de le Ceneri, p. 106.

[186] Ibidem.

[187] Ibidem.

[188] Ibid., pp. 109-110.

[189] De Umbris Idearum, pp. 71-73.

[190] De la Causa, Principio et Uno, pp. 94-97.

[191] Ibid., p. 97.

[192] La Cena de le Ceneri, p. 111.

[193] Ibid., p. 112.

[194] Ibid., pp. 120-121

[195] Ibid., p. 143.

[196] Ibid., p. 146.

[197] Ibid., pp. 149-150.

[198] Ibid., p. 153.

[199] Ibid., pp. 154-155.

[200] Corpus Hermeticum, cit., Vol I-XI, p. 180-1; Marsilio Ficino, Opera omnia, cit., pp. 1854. (Tutto il brano e le indicazioni bibliografiche sono state tratte da F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 267).

[201]La Cena delle Ceneri, p. 148.

[202] De l'infinito, Universo e Mondi, p. 347.

[203] A. GUZZO, Giordano Bruno uomo inquieto, in «Giornale di metafisica», n. 21, 1966, p. 281.

[204] De l'infinito, p. 360.

[205] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 38.

[206] LUCREZIO, De rerum natura, Libro I, 968-983.

[207] De l'infinito, pp. 369-370.

[208] Ibid., p.  376.

[209] Ibid., p. 368.

[210] De la Causa, Principio et Uno, p. 87.

[211] Ibid., p. 212.

[212] De l'infinito, pp. 369-370.

[213] B. DE GIOVANNI, L'infinito in Bruno, cit., p. 12.

[214] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, cit., Introduzione, XVIII.

[215] De l'infinito, p. 362.

[216] Ibid. pp. 370-71.

[217] Ibid., pp. 372-376.

[218] Ibid., pp. 372-376

[219] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 44.

[220] De L'infinito, pp. 372-376.

[221] Ibid., pp. 377.

[222] Ibidem.

[223] Ibid., pp. 380-381.

[224] Ibid., pp. 381-382.

[225] Ibid., pp. 381-382.

[226] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 40.

[227] ENCICLOPEDIA FILOSOFICA, Firenze, 1967, vol. I, ad vocem.

[228] M. GHIO, Causa emanativa e causa immanente S.Tommaso e Giordano Bruno, in «Filosofia», 1979, n. 2, pp. 105-133.

[229] De L'infinito, p. 383.

[230] Ibid., p. 398.

[231] Ibid., pp. 401-402.

[232] Ibid., p. 425.

[233] Ibid., pp. 425-426.

[234] Ibid., p. 433.

[235] Ibidem.

[236] Ibid., p. 436.

[237] Ibid., p. 449

[238] Cfr. M. FRIGERIO, Invito al pensiero di Bruno. Mursia, Milano, 1991, p. 61

[239] De l'infinito, p. 447.

[240] Ibid., p. 465.

[241] Ibid., pp. 477-478.

[242] Ibid.,  p. 481.

[243]A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., pp. 47-48.

[244] De l'infinito, p. 498.

[245] Ibid., p. 501

[246] Ibid., p. 524.

[247] Ibid., pp. 525-526.

[248] Ibid., p. 518.

[249] PLOTINO, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, MIlano, 1992, p. 1073

[250] A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, Mursia, Milano, 1986, p. 94.

[251] PLOTINO, Enneadi. cit., p. 857.

[252] A. PACCHI, Materia, Enciclopedia filosofica ISEDI, Milano, 1976, p. 46.

[253]  L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit., p. 46, nota n. 17.

[254] La metafisica della luce che Bruno aveva esposto nel De umbris aveva come oggetto d'indagine la relazione dell'Unum col molteplice, ovvero il diffondersi della luce dall'Unità alla molteplicità dei soggetti. Come ha rilevato Leen Spruit «La luce divina che pervade la realtà, rende possibile all'uomo di risalire nella conoscenza e di ritornare alla fonte della luce, fondamento ultimo della realtà [...]. Conoscere è quindi esaminare le cose secondo exitus & reditus, il che vuol dire seguire l'ordo & connexio rerum dell'universo, un ordo che collega della realtà l'alto al basso e ne esprime l'unità»  (Cfr. L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit. p. 45).

[255]  PLOTINO, Enneadi, cit., pp. 517.

[256] A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit. p. 115 e p. 117.

[257]  PLOTINO, Enneadi, cit., p. 263.

[258] Ibid., p. 153.

[259] Ibid., p. 151.

[260] De umbris idearum, pp. 75-77.

[261] De magia, p. 13.

[262] Cfr. M. MAUSS, Teoria generale della magia, cit., pp. 73-74.

[263] Cfr. A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit., pp. 94-95. Magris rimanda ai seguenti passi, tratti dalle Enneadi «Tutto deriva da un'unità e tutto, per una necessità naturale, vi ritorna, cosicché anche cose diverse e persino contrarie, qualora derivino da un'unità, sono state tratte insieme verso un ordine unico» [Plotino, Enneadi, cit., p. 387, III, 3]; e anche «[...] se le cose sono in quella quantità non a caso, il numero è anteriore ed è causa di quella precisazione. Cioè mentre il numero già esisteva, le cose che nascevano partecipavano via via della numerazione, e nello stesso tempo ciascuna di esse partecipava dell'uno per poter essere una. Eppure, ciascuna di esse è un ente perché deriva dall'Essere, poiché anche l'Essere deriva da se stesso; ed una perché deriva dall'Uno; e ciascuna cosa è una, se l'uno che è in essa è insieme molteplice, come è unità la triade in questo modo tutte le cose sono uno, non come uno che corrisponde all'unità, ma come è uno la miriade o un altro numero qualsiasi» [VI 6, 10; pag. 1185].

[264] De monade, numero et mensura, p. 331.

[265] De la Causa, p. 230.

[266] De immenso, pp. 804-806.

[267] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, cit. p. 113.

[268] A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit., p. 96.

[269] Ibid., p. 97.

[270] De la Causa, pp. 94-95.

[271] Ibid., p. 98, nota n. 75.

[272] H. VEDRINE, Della Porta e Bruno natura e magia, in «Giornale Critico della filosofia italiana», 1986, n.65, p. 301.

[273] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giodano Bruno, cit., p. 50.

[274] De umbris, p. 117.

[275] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giodano Bruno, cit., p. 53.

[276] De monade, numero et mensura, pp. 314-315.

[277] Si vedano, fra l'altro, Le grandi tesi del tomismo, Bologna, 1967; Interiorità metafisica, ivi, 1964.

[278] Cfr. M. GHIO, Causa emanativa e causa immanente: S.Tomaso e Giordano Bruno, cit., p. 530.

[279] Ibid., p. 533.

[280] Ibid., p. 540.

[281] Cfr. A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit., pp. 99-102: «Per troppo tempo questo processo è stato preentato dagli storici come la cosidetta emanazione, che solo di recente un autorevole studioso ha dimostrato trattarsi di una delle più grosse falsificazioni della storiografia filosofica (Magris cita a questo proposito H. DOERRIE, Emanation. Ein unphilosophisches Wort im spätantikes Denken, in AA. VV., Parusia. Festschrift J. Hirschberger, Francoforte s.M., 1965, pp. 119-141). Emanazione (in greco apòrroia) designa l'efflusso di un liquido (per esempio mestruale) o di una sostanza odorosa (profumo), oppure in senso traslato l'influsso che gli astrologi attribuivano ai corpi celesti, pianeti e costellazioni. Mettendo in rilievo tale termine riguardo a Plotino i vecchi interpreti volevano sottolineare in primo luogo la necessità della derivazione del molteplice dall'Uno (contrapposta alla libertà della creazione divina nel giudaismo e nel cristianesimo) e in secondo luogo una diminuzione di sé che l'Uno subirebbe, nell'emanare, paragonabile all'evaporazione del liquido oppure alla dispersione di un profumo quando se ne lasci scoperto a lungo il recipiente. Contro questa interpretazione basterebbe far notare che il termine apòrroia non si trova nel testo delle Enneadi se non di rado, e meno che mai a proposito delle generazione dal principio. In realtà esso è diametralmente opposto al pensiero di Plotino da ogni punto di vista. Più volte Plotino ribadisce con vigore un concetto che si trova del resto in Numenio: il Primo non si esaurisce generando il Secondo [...]. Il primo trascendente, infatti, non può logicamente essere quantificato in alcun modo e quindi non può perdere nulla, a differenza delle cose composte, che hanno sempre misure definite [...]. Plotino [...] proprio analizzando il processo generativo come creazione di immagini poté constatare le implicanze negative del concetto di emanazione. Secondo Plotino il processo di derivazione da principio o, come egli la chiama, la processione (pròodos) corrisponde ad una scala gerarchica e perciò comporta un certo depotenziamento: il Primo è infatti di necessità superiore al Secondo e rispettivamente ciò che è generato è inferiore a chi lo genera. Tale depotenziamento riguarda però la natura del generato e non del generante. Del tutto diverso è invece il fenomeno dell'emanazione. Un'apòrroia suppone che una parte della sostanza si distacchi da un ente per disperdersi o per formarne e alimentarne un altro; così l'uno si depaupera e l'altro si arricchisce, ma nel complesso la sostanza emanata subisce un frazionamento e perciò perde di concentrazione. Viceversa, il generare non significa togliere una parte di sé, ma piuttosto produrre la propria immagine, allo stesso modo in cui il figlio è l'immagine dei genitori e non una parte staccata del loro organismo [...]».

[282] Ibid., pp. 102-103.

[283] Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, introduzione e commento a cura di Michele Ciliberto, Rizzoli, Milano, 1985, p. 151.

[284] De la Causa, Principio et Uno, pp. 215-216.

[285] Ibid., p. 216.

[286] Ibid., p. 217.

[287] Ibid., pp. 234-235.

[288] Cfr. Ibid., p. 241.

[289] A Francoforte, nel 1591, il Nolano farà infatti pubblicare i poemi latini De triplici minimo et mensura, De monade numero et figura, con l'aggiunta del De innumerabilibus immenso et infigurabili. Nell'agosto dello stesso anno farà ritorno in Italia su invito del nobile Mocenigo.

[290] Cfr. N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento: Giordano Bruno fra gli antichi e i moderni, cit., pp. 258-260.

[291] De magia, pp. 6-7: «e questa è magia transnaturale o metafisica, e si chiama, propriamente, teurgia»

[292] De la Causa, Principio et Uno, p. 219.