«non deve, né vuole pentirsi
[...], non sa di che cosa si debba pentire»[1].
Giordano Bruno arriva a Londra nella
primavera del 1583. Al termine della sua esperienza inglese, in meno di tre
anni, il mago di Nola avrà scritto e fatto pubblicare un numero impressionante
di volumi: tra il 1584 e il 1585 vengono infatti dati alle stampe La Cena de
le Ceneri, il De la Causa, principio et Uno, il De l'infinito,
Universo et Mondi, lo Spaccio de la Bestia trionfante, la Cabala
del cavallo Pegaseo e il De gl'heroici furori. Si tratta, come ha
giustamente commentato Michele Ciliberto, di «autentici capolavori del pensiero
europeo»[2]: ma proprio alle dottrine cosmologico-metafisiche e religiose che
questi testi esponevano il Nolano dovrà l'arresto, la carcerazione e il rogo.
Per contenuto e per impostazione, i
primi tre dialoghi inglesi sono stati appropriatamente definiti e considerati
dalla critica come «metafisici». In effetti, nella Cena, nel De
la causa e nel De l'infinito, Bruno esprime, anche per il tono
divulgativo, il meglio della sua filosofia ermetica, soprattutto a
livello metafisico-cosmologico. Emergono qui i tratti fondativi di tutto il suo
pensiero, dal concetto di Anima Mundi alla nuova religione magica, dalla
distruzione delle gerarchie al completamento della rivoluzione copernicana,
dalla concezione dell'Unum e del misterioso numero binario alla
teoria dei mondi infiniti, vivi come grandi animali animati, e popolati da
creature razionali anche più perfette dell'uomo.
Ma, soprattutto, l'universo che
viene presentato in questi dialoghi è attualmente infinito, e
rappresenta l'espressione più adeguata della infinita potenza di Dio: la luce
divina pervade la realtà; il reale segue a sua volta e ricalca fedelmente una
struttura metafisica ben precisa, i cui opposti estremi - l'Unum e il
molteplice - sono indissolubilmente connessi dalla scala naturae, da un
ordine meraviglioso.
Ci troviamo quindi di fronte al
coerente completamento di quella metafisica della luce che Bruno già a
partire dalla sua prima opera filosofica (il De umbris idearum,
pubblicato a Parigi nel 1582) aveva cominciato a delineare, sebbene
seguendo più fedelmente i criteri del linguaggio magico-ermetico (gli stessi
che adotterà scrivendo le sue ultime opere: il De magia, il Theses de
magia, il De magia mathematica e il De vinculis in genere).
Il concetto di infinito assume nei
dialoghi metafisici una centralità tale da coinvolgere tutte le dimensioni
dell'esperienza umana: dalla gnoseologia al mondo naturale, dalla religione
all'etica: si tratta quindi di un'idea che non si lascia affatto ridurre al
solo ambito metafisico, e che viene invece a coinvolgere - simultaneamente -
tutti i nodi concettuali della nolana filosofia. Da questo punto di
vista, se è vero che ogni filosofia è condizionata da un tema centrale, e come
tale si presenta come sviluppo di una intuizione originaria, allora si potrebbe
pacificamente concordare con Carlo Monti quando sostiene che «il motivo
dominante della filosofia bruniana è costituito da una continua spiegazione
dell'idea di infinito, dove l'infinito è insieme Dio, Verità, Bene, Uno e tutto
l'universo [...]. Il discorso bruniano sull'infinito è dunque discorso
cosmologico e metafisico insieme; esso dovrà essere analizzato e seguito in
tale sua duplice dimensione»[3]. In effetti l'analisi del concetto di infinito in
Bruno deve necessariamente passare attraverso lo studio di tutti i grandi temi
del suo pensiero filosofico, dalla cosmologia alla metafisica, dall'etica alla
religione, dalla teologia alla magia. E' addirittura possibile sostenere che
tutti questi motivi possono essere coordinati proprio dalla teoria infinitista,
che a molti di essi fornisce anche una relativa impalcatura concettuale.
Ma alla fine, proprio grazie
all'analisi dei testi metafisici, si dovrà sorprendentemente concludere che
l'infinito non è il nocciolo teoretico esclusivo della nolana
filosofia. La centralità dell'infinito infatti non presuppone mai
l'abbandono del finito, del minimo, del limitato. Lo scopo di questo
studio è appunto quello di mostrare come l'infinito sia una delle tante
conseguenze logico-metafisiche dell'adozione spregiudicata della filosofia
binaria, cui fa eco un utilizzo altrettanto spregiudicato della magia
naturalis, sia a livello teoretico che pratico. Il mio tentativo è quindi
quello di mostrare come la teoria dell'infinito non sia in Bruno comprensibile
a prescindere dalla considerazione del suo contrario: il finito.
In realtà - questo è quello che
emerge dai dialoghi metafisici - la discussione dell'infinito trova una sua
collocazione precisa solo all'interno della misteriosa, magica, filosofia
binaria, quella dei contraii: «chi vuol sapere massimi secreti di
natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi degli contrarii e opposti.
Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto d'unione»[4], aveva dichiarato Teofilo-Bruno nel De la
Causa. Come aveva ben compreso Nicola Badaloni - senza peraltro
approfondire adeguatamente questa tematica - secondo Bruno Aristotele non ha
saputo vedere in ogni soggetto (e nell'Essere totale) l'elemento della
contrarietà. Aristotele ha mantenuto l'opposizione logica «ma non seppe vedere
la forza che sprigionava dalla contrarietà fisica, certo impastata di anima del
mondo, che fa della materia un principio attivo, non solo privativo, e un punto
fermo per la ricerca sulla natura che, quando è stata feconda, mai si è
lasciata fermare dalle barriere rigide della non contraddizione logica»[5].
E infatti dichiarerà il Nolano: «A
questo [a saper trar il contrario dopo aver trovato il punto d'unione] tendeva
con il pensiero il povero Aristotele, ponendo la privazione (a cui è congionta
certa disposizione) come progenitrice, parente e madre della forma; ma non vi
poté aggiungere. Non ha possuto arrivarvi, perché fermando il pié nel geno de
l'opposizione, rimase inceppato di maniera che, non descendendo alla specie de
la contrarietà, non giunse, né fissò gli occhi al scopo; del quale errò a tutta
passata, dicendo i contrarii non posser attualmente convenire in soggetto
medesimo»[6]. Il principio di non-contraddizione doveva insomma negare - per
Bruno - il divenire, e quindi la vita dell'universo stesso. Ma nel mondo divino
ogni cosa diventa ogni cosa: c'è sempre compresenza di essere e non-essere-ancora.
L'esistenza non è mai immobile, ed è impossibile bloccare l'infinita catena
dell'essere, anche solo per un istante.
Da un punto di vista epistemologico
queste posizioni erano già state chiarite nel De umbris idearum, e
mostrerò in seguito come esse siano perfettamente coerenti con gli sviluppi
finali della metafisica binaria. La negazione del principio di identità
e di non-contraddizione rappresenta appunto il momento fondamentale della filosofia
binaria di Bruno e, ovviamente, di ogni filosofia magica.
Anche Umberto Eco, pur confessando
da parte sua di credere ancora al principio di identità, ha ricordato
che «si può parlare di simpatia e somiglianza universale solo se si rifiuta
questo principio e quello di non-contraddizione. La simpatia universale
è effetto di una emanazione di Dio nel mondo, ma all'origine dell'emanazione
sta un dio inconoscibile, che è la sede stessa dell'emanazione [...]. Il
pensiero ermetico dice che il nostro linguaggio, quanto più ambiguo,
polivalente, e si avvale di simboli e metafore, è particolarmente adatto a
nominare un Uno in cui si realizza la coincidenza degli opposti. Ma dove
trionfa la coincidenza degli opposti cade il principio di identità»[7].
Utilizzando in modo spregiudicato la
cusaniana coincidentia oppositorum, Bruno sostiene che l'Uno si svolge
esplicandosi in una infinità di forme, che esso poi complica come totalità. E'
quindi possibile risalire dalla molteplicità all'Uno, attraverso però la
mediazione dell'umbra: il sistema magico mnemotecnico del De umbris
è appunto costruito su questa idea e sulla convinzione di poter conoscere
tutto da tutto. Questa possibilità è data evidentemente proprio dalla
negazione esplicita del principio di non-contraddizione.
La logica dei contrari, in aperta
opposizione a quella aristotelica, coinvolge sintomaticamente anzitutto il
piano metafisico, l'Unum. Nell'Uno vi è infatti - assolutamente -
coincidenza di complicatio ed explicatio, di minimo e massimo, di
ombra e luce. Il mistero che avvolge la modalità di questo essere - allo stesso
tempo - minimo e massimo, provoca il sistema dell'analogia
razionale e della magia teurgica: due metodiche meno che mai
antitetiche, che devono essere invece sapientemente coordinate dal
mago-filosofo al fine di ottenere non solo la reale affermazione dell'autonomia
umana in campo religioso ed etico, ma anche una crescita spirituale che
permetta il divinizzarsi della vita e il realizzarsi di un progresso infinito.
In sostanza è ancora una volta operante il sistema analogico:
dall'infinità di Dio Bruno giunge all'infinità della natura e dell'uomo che in
essa vive. La distruzione di tutte le gerarchie, cosmologiche o morali che
siano, è il frutto di questa operazione analogica.
Né si deve concludere che Bruno
abbia optato per una divinizzazione totale e completa dell'uomo grazie al
semplice abbattimento dell'ultima sphaera mundi: il progresso richiede
infatti un tempo infinito, un contatto diretto con la divinità, una ciclica vicissitudine
universale. Per di più, tra l'uomo e Dio è posto un limite metafisico,
un'ombra che - sempre all'interno della filosofia dei contrari - risulta di
doppia natura. Si tratta infatti di un'ombra che può essere rischiarata, ma mai
definitivamente. Questo limite misterioso è quindi - magicamente - frangibile
ed infrangibile al tempo stesso.
Questa idea mi è stata suggerita da
un passaggio apparentemente di scarso rilievo, esposto proprio nelle prime
battute della Cena. All'apertura del dialogo metafisico, Bruno aveva
infatti definito il numero binario come misterioso. Sollecitato a
dare una spiegazione («perché avete detto, Teofilo, che il numero binario è misterioso?»),
Teofilo-Bruno risponderà per modo di passaggio: «Perché due sono le
prime coordinazioni, come dice Pitagora, finito ed infinito, curvo e retto,
destro e sinistro, e via discorrendo. Due sono le spezie di numeri pare ed
impare, de' quali l'una è maschio, l'altra è femina. Doi sono gli Cupidi,
superiore e divino, inferiore e volgare. Doi sono gli atti della vita,
cognizione ed affetto. Doi sono gli oggetti di quelli, il vero e il bene. Due
sono le specie di moti: retto, con il quale i corpi tendeno alla conservazione,
e circulare, col quale si conservano. Doi son gli principi essenziali de le
cose, la materia e la forma. Due le specifiche differenze della sustanza: raro
e denso, semplice e misto. Doi primi contrarii ed attivi principii, il caldo e
il freddo. Doi primi parenti de le cose naturali, il sole e la terra»[8].
Quello che si è appena letto è a mio
parere il vero centro della nolana filosofia: l'esposizione chiara e
precisa della legge binaria, dei contrari. L'infinito non può non
essere, perché esiste il finito. E così nella realtà binaria, ogni cosa
ha il suo contrario: si tratta solo di saper decifrare la natura seguendo gli
insegnamenti dell'antica sapienza egizia, dell'ermetismo, che Pitagora aveva
mostrato di aver ben capito.
Lo scopo di questo studio è quindi
anche quello di mettere in rilievo come il concetto di infinito sia stato
accolto dalla tradizione ermetica (e come sostanzialmente, nonostante siano
passati 30 anni, siano ancora valide le tesi di Frances A. Yates), e come
dall'altra le idee fondamentali dell'ermetismo siano funzionali non solo alla
comprensione dell'infinito, ma anche di tutti i nuclei concettuali della «nova
filosofia» (come, ad esempio, dell'ars memoriae, dell'Anima mundi,
dell'ascesi mistica al divino, etc.). In particolare, proprio
l'accettazione della numerologia magico-simbolica e pitagorico-ermetica metterà
alla fine in evidenza come l'infinito non sia affatto l'unico perno cui
gira attorno tutta la fantastica ruota della filosofia nolana, ma come esso
deve invece essere collocato in una concezione magico animistica del mondo (di
cui l'infinito rappresenta appunto la maxima explicatio, mentre il
finito, rappresentando la minima complicatio, ne garantisce la
possibilità ontologica).
«Propria haec sunt vincula et
potentissima, quae sunt per approximationem contrarii»[9], ripeterà il Nolano in uno dei suoi ultimi
scritti, poco prima della cattura e della fine della sua esistenza libera. A
Venezia, nel 1592, Bruno veniva infatti arrestato dall'Inquisizione.
Imprudentemente, aveva accolto l'invito di un nobile veneziano, tale Mocenigo,
che voleva apprendere dal grande Mago di Nola i segreti per sviluppare una
memoria prodigiosa. A casa del patrizio veneto, nonostante gli scarsi progressi
del discepolo, che diventerà poi il suo traditore, Bruno continuava a studiare
l'arte mnemotecnica, ed era totalmente immerso nell'esplorazione della antica
magia, «la cui restaurazione assumeva la valenza di una piena restaurazione dei
modi della religione antica [quella egizia], da riproporre in tempi nuovi»[10]. Bruno si interessò quindi attivamente di magia e
mnemotecnica fino alla fine della sua esistenza libera, fino alla fine della
sua produzione letteraria: questo è un elemento che non può non far riflettere
chi si vuole avvicinare alla nolana filosofia.
Bertrand Russel, nelle prime righe
del suo saggio Misticismo e Logica, ha sostenuto che «la metafisica,
ossia il tentativo di concepire il mondo come un tutto per mezzo del pensiero,
si è sviluppata fin dall'inizio grazie all'incontro e al conflitto di due
impulsi umani diversissimi, uno dei quali spinge gli uomini verso il
misticismo, l'altro verso la scienza»[11]. In Bruno questo conflitto ha visto una completa
vittoria di un misticismo di tipo magico, votato a divinizzare l'uomo mediante
il contatto con una divinità che è nella natura e che la trascende al tempo
stesso.
CAPITOLO
I
«et
haec magia est transnaturalis seu metaphysica, et proprio
nomine appellatur jeourgiéa»[12]
«In
fine illud esi firmiter asserendum et mente tenendum, quod spiritu, anima
numine, Deo seu divinitate omnia sunt plena, et intellectus et anima ubique
totus et tota est...»[13]
Nella formulazione del concetto di
infinito il primo punto di riferimento è, naturalmente, l'Assoluto, Dio.
L'analogia su cui si regge la teoria infinitista è però a sua volta sostenuta
da una posizione panteista del tutto particolare, che trae le sue origini
soprattutto dall'Ermetismo. Se l'aspetto più evidente dell'infinito bruniano è
la sua relazione con una precisa impostazione cosmologica e teologica, allora
risulta maggiormente chiaro il nesso universo-Dio: l'universo è infinito perché
è esplicazione di un Dio infinito. Fulvio Papi aveva del resto fatto già
osservare che «il ragionamento che fonda l'infinito è di ascendenza teologica»[14]: negare un effetto infinito significava negare la
infinita potenza di Dio. Posizione questa chiaramente ambigua, paradossale, che
era stata risolta dai medievali con una certa eleganza: per S.Tommaso, per
esempio, Dio, nonostante abbia una potenza infinita, tuttavia non può creare
qualcosa di increato (il che sarebbe far coesistere due cose contraddittorie),
e così non può nemmeno creare una cosa assolutamente infinita[15]. Bruno, come vedremo, capovolge di fatto il
ragionamento: è inammissibile che Dio crei (e si manifesti in) un mondo finito,
perché ammettere questa ipotesi sarebbe come voler porre un limite alla sua
infinita potenza. Un Dio che è in qualche modo limitato, o che non gode di una
reale potenza assoluta, non è un Dio. Appare quindi chiaro un primo elemento,
di cui cercheremo conferma nella lettura circostanziata dei testi: l'infinito è
uno degli attribuiti di Dio, o meglio la determinazione che qualifica in modo
appropriato la sua essenza e quindi le sue qualità, il suo modo di essere, di
esplicarsi. Poiché l'universo è espressione di questa potenza infinita, su di
esso si riflettono - per analogia - le stesse caratteristiche di infinità e
perfezione che rivestono l'Assoluto. Infinito è allora propriamente il
modo con cui Dio è il Tutto. Ma questo è solo un primo livello di lettura,
l'inizio di un vero e proprio labirinto di idee.
Ho sostenuto che per Bruno sarebbe
assurdo limitare la potenza divina sostenendo l'idea di un universo finito. E'
bene precisare subito che sotto questa affermazione si cela una precisa
posizione metafisica, cosmologica ed epistemologica insieme. L'universo non può
essere finito non solo perché è opera di Dio, ma perché Dio stesso è nell'universo.
La teoria infinitista di Bruno nasconde una posizione radicalmente panteista,
forse precedente e addirittura originaria. Credo che in realtà questo
panteismo, più volte fermamente ribadito, provenga dalla tradizione ermetica
(che Bruno accolse con fervore, probabilmente leggendo Ficino), elemento che importanti
autori contemporanei hanno voluto fortemente ridimensionare o addirittura
escludere dal quadro interpretativo di Giordano Bruno. Mi riferisco in
particolare a Michele Ciliberto e Leen Spruit[16]. Più avanti questi autori saranno ripetutamente
citati, insieme e in contrapposizione a Frances Amelia Yates, che per prima ha
interpretato tutto lo svolgimento storico della nolana filosofia (e non
solo le opere tarde, come ha fatto invece Corsano) all'interno di un
quadro interpretativo magico-ermetico. Questa ricerca ha però la presunzione di
staccarsi sia dall'una che dall'altra scuola interpretativa, e casomai, se
possibile, cercare di conciliare i due indirizzi. Pur conferendo una importanza
fondamentale agli elementi magico-ermetici, credo sia importante non cadere
nella trappola dell'aut-aut. E' possibile coordinare, senza che si
escludano a vicenda, entrambe le correnti. Anzi, dal loro opportuno
coordinamento possono nascere nuove prospettive, finora negate da una
esclusione vicendevole abbastanza netta. Il pensiero di Bruno è frutto di una
costruzione stratificata e complessa, che include una molteplicità
disorientante di elementi eterogenei: uno sguardo d'insieme che non tenga conto
di tale molteplicità risulta perciò compromesso fin dall'inizio. Il sincretismo
bruniano si riflette infatti direttamente su tutti i livelli del suo pensiero,
al punto che il discorso cosmologico non è concepibile senza quello metafisico,
quello metafisico non lo è a prescindere da quello teologico, e così via[17]. E il magismo ermetico entra a pieno titolo a far
parte di questi livelli di pensiero, in particolare di quello metafisico
e gnoseologico.
Anche una questione importante come
quella gnoseologica viene risolta su questo piano: sulla connessione, strettissima,
tra cosmologia e metafisica-ermetica. La problematica epistemologica si
collega infatti direttamente al concetto di scala naturae: una scala,
non solo ideale ma anche reale, di elementi e individui che unisce l'Unum
al molteplice. L'essere - che per Bruno è equivalente al concetto di vita, nel
senso di animato - coinvolge sia il piano della fisica che quello della
metafisica. Il punto di unione tra questi due livelli è costituito
proprio dal concetto di scala naturae, che fornisce quindi un notevole
supporto teoretico al panteismo bruniano. Ma del concetto di scala naturae
e di come sia un elemento fondamentale nel pensiero del Nolano, parleremo più
avanti. Per ora ritorniamo per un momento alla questione dell'essere
(che possiamo già distinguere in assoluto - quello di Dio - e relativo
- quello del mondo) e sulle implicazioni della sua infinitudine a livello
epistemologico. Poiché l'essere è infinito (sia quello del mondo che quello di
Dio - ma, come vedremo, in modo qualitativamente diverso), la sua
conoscenza è possibile solo per ascesi. Da qui le ripercussioni in campo
teologico sono evidenti: l'unica teologia possibile sarà quella negativa, o
meglio quella naturale. La teologia diventa filosofia della natura,
ossia, così come la intendeva Bruno, ascesi.
L'ascesi, come vedremo, non è
però alla portata di tutti. Si tratta infatti di ripercorrere la scala degli
esseri che dalla materia porta a Dio: sarà quindi indispensabile l'utilizzo
della mnemotecnica (di ispirazione lulliana), della sapienza (ermetica
e razionale, cioé quella caratteristica della nova filosofia), il
rifiuto netto e deciso del sapere tradizionale, della «pedanteria», nonché,
ovviamente, l'uso di tecniche magiche. Si tratterà in effetti di una teologia
tutt'altro che «negativa», proprio perché intrisa di elementi cosmologici e
«naturali». Ovvie le ripercussioni - di tutto rilievo - in ambito morale: alla
distruzione del sapere pedantesco (della tradizione aristotelica, ma
soprattutto della sua interpretazione medievale e del suo utilizzo in ambito
teologico e morale) si affianca la nuova visione dell'uomo, inteso secondo
l'espressione ermetica come «magnum miraculum» - un uomo che vive nel cosmo
infinito - e l'affermazione di una religione tutta naturale, intrisa di
elementi ermetici (culti solari, magia naturale, etc.).
Ora ci interessa però scoprire da
dove nasce la concezione infinitista. Si tratta di un'acquisizione scientifica?
E' forse il frutto di una speculazione filosofica? E' il necessario correlato
alla corretta posizione teologica (ossia al riconoscimento della infinità
divina)? Certamente si tratta di elementi tutti più o meno presenti nel
pensiero dell'infinito, ma a mio parere la «provenienza» deve essere ricercata
piuttosto nella formazione giovanile, quando Bruno studiò Pitagora, Platone e
con loro la filosofia greca, il neoplatonismo, e venne anche a contatto con la
filosofia ermetica, ovvero con il «pensiero magico». L'incontro con le teorie
di Copernico avviene in realtà quando la concezione infinitista, almeno a
livello embrionale, è già formata; e si tratterà di un incontro tutt'altro che
facile. L'inizio di questa ricerca è dato quindi dalla relazione tra infinito e
magia, relazione che, se non ho preso un abbaglio, costituisce il nucleo
originario del pensiero infinitista bruniano.
Come si può allora definire la
morfogenesi dell'idea dell'infinito in Bruno? Affermare che l'infinito è
fondato su un «ragionamento teologico» non deve certamente portare a limitare
il discorso alla sola teologia ed ampliarlo al massimo alla cosmologia. In
realtà le cose sembrano essere più complicate: ho sostenuto poc'anzi che la
problematica infinitista coinvolge direttamente anche la dimensione
epistemologica ed etica, tanto per fare due esempi lampanti. Ma cercando in una
prospettiva più ampia, la genesi del pensiero infinito porta ad allargare
enormemente il campo d'analisi. In effetti sembra che in Bruno si siano
congiunte due tradizioni infinitiste: una relativa alla filosofia greca (dai
presocratici e Plotino, fino al neoplatonismo rinascimentale), l'altra propria
dell'ermetismo e del magismo in generale. Mia convinzione è che Bruno abbia
tratto l'idea dell'infinito anzitutto dalla tradizione ermetica, che essendo
anche e soprattutto «religione», è venuta saldando intuizioni già accolte dallo
studio dei greci. Per di più la filosofia tradizionale viene continuamente
inserita nelle esposizioni bruniane con modificazioni e adattamenti «di
comodo». Naturalmente non è opportuno chiudere il discorso al solo ambito
ermetico, perché sappiamo che in Bruno si mescolano apporti diversi in un'unica
sintesi. In particolare, il quadro neoplatonico è particolarmente funzionale
alla comprensione della «nolana filosofia», perché operante già a partire dal De
umbris idearum: l'idea della catena infinita che emerge nel quadro
epistemologico e metafisico del testo richiama appunto l'idea della degradazione
dell'Essere nell'esistente, e del relativo ritorno dell'esistente
all'Ente: idea, questa, di evidente matrice neoplatonica. Ma cercherò di
mostrare poi come in realtà esistano delle forti differenze tra la metafisica
del Nolano e quella di Plotino, soprattutto per il discorso della trascendenza
dell'Unum e della sua consistenza materiale.
Anche da un punto di vista
strettamente storiografico è bene non dimenticare che storicizzare il pensiero
di Bruno significa anzitutto ricollocarlo immediatamente nell'ambito della
corrente del «magismo rinascimentale», di cui egli stesso si sentiva in qualche
modo l'interprete più autorevole. Da un punto di vista psicologico, inoltre,
sappiamo che il pensiero magico è il risultato di processi inconsci - e
collettivi - che partono da lontano, nel tempo e nello spazio; essi sono stati
spesso considerati come strutture archetipiche collettive, originarie. Nulla da
stupirsi dunque, se Bruno restò sempre molto interessato all'occulto, o meglio,
all'umbratile.
Una prima, evidente caratteristica
dell'Infinito è che non è di-mostrabile. Nessuno può di-mostrare fisicamente
che l'universo (o qualsiasi altro ente) sia infinito. La critica del senso
esterno (che per sua natura non può cogliere l'infinito) che Bruno esporrà
nella Cena de le ceneri si basa appunto sull'idea che all'infinito si
giunge per intuizione, per analogia: mediante insomma l'uso di quella
particolare capacità cognitiva che il Nolano definisce con il termine intelletto
interno. L'infinito è quindi, per sua natura, absconditus, assente
dal panorama naturale dell'esperienza comune.
Alcuni autori hanno sostenuto, con
validi argomenti, che esiste nell'uomo una sorta di predisposizione
psicologica, inconscia, al mito e alla credenza nella magia. Altri, a ragione,
collegano il pensiero magico al tema dell'alterità. Carlo Ginzburg, per
esempio, ha evidenziato come «la capacità di oltrepassare l'ambito
dell'esperienza sensibile immediata è il tratto che contraddistingue il
linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall'elaborazione
dell'assenza»[18]. Viene così messo in evidenza (per un caso
apparentemente non legato in modo diretto alla tematica dell'infinito, ossia
per la decifrazione del fenomeno del sabba) il nesso che collega meccanismi
psicologici del profondo, linguaggio, magia e significazione dell'assenza,
ovvero dell'Alterità nascosta. Definire questa alterità Dio, Assoluto, Unum,
o Infinito, non è un problema, visto che in ogni caso all'infinito (o Assoluto
che dir si voglia) viene riconosciuto il massimo dell'alterità possibile
(rispetto alla finitezza umana).
Per comprendere come mai
l'accettazione della teoria infinitista sia da mettere in relazione
all'acquisizione delle dottrine ermetiche, è necessario anzitutto capire in che
cosa consiste la magia professata dai cultori di Ermete Trismegisto (come Bruno
del resto si considerava apertamente, e con grande soddisfazione).
La magia, come spero di mostrare con
sufficiente chiarezza, è per Bruno conoscenza, sapienza, capacità pratica
mirabile e, soprattutto, ascesi. L'infinito costituisce appunto la meta
paradossale di questa ascesi: meta cui si può giungere solo per
illuminazione, tramite una scala fatta di sapienza, tecnica, linguaggio,
razionalità e, appunto, magia. In questo senso è possibile affermare fin da ora
che l'infinito in Bruno ha una natura non matematica, non «scientifica», ma
genuinamente religiosa. Magia e religione sono infatti in Bruno la stessa cosa,
coincidono assolutamente. Ecco perché è importante considerare l'infinito
anzitutto in rapporto alla magia, alla magia intesa come sistema di pensiero in
cui è possibile trovare elementi eziologici e teleologici.
Bruno pensava infatti alla magia
come una metodica per accelerare il progresso. La magia ha infatti aspetti
sorprendentemente simili a quelli della Nuova Scienza, ed in essa è possibile cogliere
lo sforzo di spiegare la natura con un discorso mitico. I passi che verranno
citati, a partire dal De Umbris idearum, sembrano confortare ampiamente
queste congetture.
A proposito è può essere utile
aprire una parentesi. Si ricorderà che che Bruno è stato condannato al rogo
come eretico. Come mago-eretico era certo stato considerato dagli Inquisitori,
che per molti aspetti non avevano neppure compreso bene i particolari della sua
dottrina. In realtà essi compresero però immediatamente la tesi fondamentale
del Nolano, quella più pericolosa per l'ordine costituito:
l'accettazione delle conseguenze filosofiche della teoria copernicana
(l'abbattimento dell'ultima sphaera mundi, l'assenza di un centro
dell'universo, l'esistenza dell'Anima del mondo: in breve, la
distruzione di tutte le gerarchie assolute e la parallela esaltazione dei
poteri dell'uomo e del mago-dio in particolare). Un uomo che vive in un
universo infinito, senza centro né perfiferia, e che tramite i poteri magici
riesce ad elevarsi sul mondo, non può essere considerato creatura, ma espressione
del divino. La radicale distinzione ontologica del neoplatonismo cristiano
tra Creatore e creatura viene qui scossa nelle sue fondamenta: l'uomo si può
mutare in dio. Vengono così definitivamente abbattute tutte le gerarchie -
anche morali - che seguivano la distinzione tra mondo sublunare e mondo divino.
Bruno, da parte sua, si doveva certo
considerare una sorta di mago-profeta, visto l'ammirazione continuamente
espressa in tutte le opere nei confronti della magia e della sapienza egiziana.
Sul magismo rinascimentale che comprese - nonostante le accademiche distinzioni
dei filosofi-maghi rinascimentali tra magia naturalis e magia cerimonialis
- il fenomeno della caccia alle streghe e i processi di eresia, ci sarebbe
molto da dire, e molto di tutto questo ha in realtà a che fare con il problema
dell'infinito.
Dalla metà del Trecento si andava
consolidando nell'Europa centro-occidentale il concetto cumulativo di
stregoneria, e le inquisizioni delle diocesi europee cominciavano, agli
inizi del '400, a dar vita al fenomeno della caccia alle streghe. Il fenomeno
si esaurì solo alla fine del Seicento, e vide più di 100.000 persone condannate
al rogo. Sarebbe interessante soffermarsi su tutti i passaggi che dalla «paura
del complotto» hanno portato le comunità cristiane a perseguitare prima i
lebbrosi, poi gli ebrei e infine le vecchie streghe di campagna (accusate di
minare alla base l'ordine delle comunità con l'uso dei maleficia)[19].
Per la nostra indagine è comunque
necessario passare oltre per concentrare la nostra attenzione, per un attimo,
sulla figura della strega e sull'oggetto delle accuse inquisitoriali: la
stregoneria. Con una certa sorpresa si vedrà alla fine che la stregoneria (per
ora usiamo questo termine improprio) e l'infinito di Bruno hanno molto in
comune.
Gli storici che si sono occupati del
fenomeno della stregoneria hanno da tempo individuato due elementi
fondamentali. Da una parte c'è l'opera degli inquisitori, che con la
carcerazione o la tortura raccoglievano le confessioni dei sospetti e degli
imputati. Le confessioni erano di solito proporzionate ai metodi che erano
stati usati per estorcerle, tant'è vero che la Chiesa stessa aveva tentato in
qualche modo di fornire agli inquisitori una qualche regolamentazione per
evitare l'abuso della carcerazione e della tortura. Gli inquisitori si
trovavano spesso di fronte delle persone che, pur di sfuggire alla tortura (o
farla cessare se questa era già in atto) raccontavano qualsiasi cosa, prendendo
spunto dalle stesse domande, che già contenevano chiare indicazioni su ciò che
l'inquisitore voleva sapere. Il fenomeno della stregoneria sembrerebbe quindi
una creazione involontaria della stessa azione inquisitoria.
Ma questa conclusione non tiene
conto di un secondo elemento, importantissimo, che ci interessa da vicino. Dai
documenti dei processi e dai resoconti delle confessioni, emerge tutta una
serie di elementi particolari, che erano senza dubbio fuori dalla portata
conoscitiva degli inquisitori. Ginzburg ha sapientemente ricollegato tutta una
serie di manifestazioni, credenze e riti (sconosciuti agli inquisitori e perciò
erroneamente interpretati come stregoneria), ad un culto antichissimo, di
origine celtica. In particolare la metamorfosi in animali, i riti orgiastici,
l'adorazione di una dea notturna dai molti nomi, l'estasi (ottenuta mediante
l'uso di sostanze allucinogene o vere e proprie droghe, come per esempio la claviceps
purpurea) e le cerimonie particolari che le streghe confessavano di
praticare: sono tutti elementi che vanno ricondotti alla cultura celtica e in
quest'ottica interpretati. In particolare il rito del volo notturno,
della metamorfosi in animali e le orgie rituali vanno
interpretati all'interno di un contesto magico-folklorico di sedimentazione
antichissima. Il significato psicologico che in essi si può trovare, credo sia
direttamente assimilabile alla ricerca magica del Deus absconditus,
dell'Alterità assente, dell'infinito.
Nell'immagine del sabba
rinascimentale Ginzburg aveva riconosciuto due filoni culturali di provenienza
eterogenea: «da un lato il tema, elaborato da inquisitori e giudici laici, del
complotto ordito da una setta o da un gruppo sociale ostile; dall'altro,
elementi di provenienza sciamanica ormai radicati nella cultura folklorica,
come il volo magico e le metamorfosi animalesche»[20]. Questi elementi di provenienza celtica sono in
realtà tutti riconducibili ad un tema comune: riandare nell'aldilà, tornare
dall'aldilà: «questo nucleo [...] ha accompagnato l'umanità per millenni»[21]. La sua permanenza può essere spiegata in questo
modo: il viaggio ed il ritorno dal mondo dei morti equivale ad instaurare un
discorso mitico che collega il visibile all'invisibile. Il sabba sarebbe quindi
il risultato storico di una lunga cristallizzazione di riti e miti in cui
natura, animali e morti vengono sentiti come espressione dell'«alterità»[22].
Si tratterebbe quindi di un rito in
cui si verifica, in forma magica, l'incontro tra uomo e natura: in cui l'uomo
incontra il «di fuori», il «diverso», l'Altro. Il circolo si è chiuso:
il rito magico porta all'incontro con l'Alterità, per di più attraverso l'estasi.
Siamo ritornati di colpo al discorso sull'infinito. L'infinito, l'infinitamente
in-conoscibile, la «infinita, semplicissima, unissima, altissima e
absolutissima causa, principio e uno», come Bruno dirà concludendo il De la
Causa, è immediatamente rappresentabile come alterità, rispetto alla
contingente situazione umana di finitezza, se non di aporia assoluta.
Nonostante il legame profondo, per Bruno sia fisico che metafisico, che ci
unisce alla divinità infinita, di fatto, in concreto, l'uomo è anzitutto
limite, finito. Lo sforzo di rappresentazione dell'Invisibile, caratteristico
del pensiero magico di ogni tempo e luogo, corrisponde alla distruzione e alla
dispersione - solo momentanea - dell'uomo nell'universo infinito, privo di
punti di riferimento assoluti. Il De vinculis, vero e proprio trattato
di magia pratica, servirà proprio a spiegare come vincolare le anime dei corpi
al fine di ottenere una elevazione dell'anima.
Per il caso di Bruno, dove
l'infinito non poggia mai su di una convinzione e argomentazione «scientifica»,
ma sempre su di un impeto mistico-religioso, credo che sia possibile
identificare la ricerca magica del contatto con l'Alterità abscondita
proprio con lo slancio religioso verso l'Infinito. La magia mira quindi anche
alla realizzazione dell'unione con la divinità, l'alterità per
eccellenza. La magia nolana va intesa quindi come teurgia, ossia come
arte che si serve di azioni ineffabili per realizzare l'unione con la divinità,
infinita, e operare in virtù di questo contatto. Magia «transnaturale o
metafisica [...], propriamente, teurgia»[23]: così il Bruno stesso definiva la sua concezione
dell'arte magica. Da questo punto di vista, la miglior definizione della nolana
filosofia è, semplicemente, la parola desiderio.
La mia convinzione è quindi che
l'infinito in Bruno sia «geneticamente» connesso al pensiero magico. Se è vero
che il ragionamento che fonda l'infinito è di «ascendenza teologica», credo sia
altrettanto possibile sostenere che è anche di «ascendenza magica», o meglio,
«ermetica». Il Dio di Bruno è infatti un Dio magico, sentito alla maniera
ermetica: religione e magia formano in questo caso un tutt'uno, si
identificano. Questa identità appare in tutta la sua chiarezza nella esplosione
mistica alla fine del De la Causa, dove Bruno identifica Dio e Universo
infinito nella Unità assoluta del Tutto.
La critica troppo spesso si è
soffermata esclusivamente sugli aspetti metafisici o addirittura soltanto
cosmologici del pensiero del Nolano, senza concedere alle motivazioni
religiose della sua filosofia un giusto spazio. In realtà - questa è una
mia convinzione personale - è assolutamente indispensabile cercare di chiarire
quale era la religione che Bruno professava e in che modo questa abbia fatto
sentire la propria influenza in ambito propriamente teoretico. In particolare,
per quanto concerne la teoria infinitista, è quindi necessario, prima di
affrontare l'infinito a livello cosmologico, mettere in evidenza il significato
che il concetto di infinito aveva per Bruno dal punto di vista teologico,
e chiarire che cosa realmente rappresenti l'universo e quali siano le leggi che
ne regolano la vita, perché di vita, e non di semplice movimento di astri, si
tratta. Da una parte si pone quindi il problema di Dio, della sua natura e
della sua relazione col mondo. Dall'altra si pone anche il problema del Mondo e
della materia, problema che non può essere risolto senza la considerazione di
un'opera come il De la Causa, Principio et Uno. Citerò ampiamente
quest'opera per due motivi. Anzitutto il De la Causa è il testo
archetipo per l'interpretazione della cosmologia bruniana. Qui infatti vengono
impostate e discusse tutte le premesse metafisiche che porteranno
all'accettazione della teoria copernicana e alla infinitizzazione dell'Universo.
L'identità del Tutto con l'Uno è infatti uno dei primi risultati teoretici
raggiunti nel De la Causa, ma non solo. Il parallelismo, che sfocia a
volte in veri e propri isomorfismi, tra il De la Causa e le opere
magiche, suggerisce appunto di considerare questo testo proprio in riferimento
all'analisi dell'influenza della tradizione ermetica sulla genesi della teoria
infinitista.
Nel De la Causa, Principio et Uno,
dove Bruno espone chiaramente la sua concezione della realtà, ci si trova di
fronte alla visione di un universo attualmente infinito, regolato da
leggi magiche: dalla lettura parallela delle opere magiche «tarde» emergono
limpide analogie strutturali, che dovranno essere prese in seria
considerazione. Sempre nel De la Causa vengono per la prima volta
apertamente superate tutte le incertezze medievali, a volte assai imbarazzanti,
sul dibattito infinito attuale/potenziale: il mondo del De la Causa è
già apertamente un mondo infinito, in cui la causalità fisica, la legge
astrale, è sostituita da una volontà armonizzatrice divina, direi da una sorta
di legge magica universale. I passi che sembrano confermare questa tesi sono
assai numerosi. Alla fine si vedrà che questa legge magica altro non è che il
«pensiero di Dio» (il discorso non è quindi a-teologico): in Dio il pensare si
identifica col produrre, e la regolazione dei mondi viventi avviene mediante
l'incessante flusso di nuove forme, mediante quindi la categoria del divenire,
ma «magicamente». Più che di «produzione», visto che non si tratta mai di una
creazione ex nihilo, si dovrebbe parlare però di «modificazione» delle
forme esteriori che di volta in volta assume la materia, tutta viva e animata.
Dio è l'ordine meraviglioso, l'intelletto, la legge magica dell'Universo
infinito: «l'intelletto universale è l'intima, più reale e propria facultà e
parte potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo che empie il tutto,
illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue specie come si
conviene [...]»[24], scriverà con entusiasmo il Nolano.
In effetti potrebbe sembrare strano
collegare direttamente l'idea di uno Spirito divino onnipervadente,
all'immagine di un mondo regolato da leggi magiche. In altre concezioni
panteistiche infatti non compare per nulla questo legame tra mondo e leggi
«irrazionali». Ma è bene precisare subito che per Bruno «magia» non ha nulla a
che fare con «irrazionale». Anzi, propriamente, l'irrazionale non esiste:
casomai si dovrà parlare di sconosciuto, di misterioso, di umbra.
Al contrario l'instaurazione della
magia coincide col massimo della razionalità umana, ossia con il linguaggio.
Magia significa infatti prima di tutto chiamare le cose con il loro
nome. E questa affermazione è meno banale di quanto non possa sembrare.
Riguardo alla fantastica capacità degli antichi egizi di operare magicamente
sul mondo, scrive infatti il Nolano: «[gli egizi] avevano a disposizione, per
designare le singole cose, immagini determinate, desunte dalle cose della
natura o da loro parti; tali scritture e tali voci adoperavano gli egizi per
intrecciare colloqui con gli dei ad esecuzione di effetti mirabili. Ma quando
Theut o qualcun altro inventò le lettere del genere che ora utilizziamo in
altro tipo di attività, si verificò una perdita gravissima sia per la memoria
sia per la scienza divina e la magia. Perciò, a similitudine degli egizi, i
maghi oggi, costruite immagini e descritti caratteri e cerimonie, che
consistono in gesti e in certi culti, comunicano i loro desideri quasi per
mezzo di cenni definiti, e questa è quella lingua degli dei che, mentre le
altre tutte si sono mutate mille volte e nuovamente mutano, rimane sempre la
stessa, come resta la stessa la specie della natura. Per la stessa ragione le
divinità ci parlano per via di visioni o sogni, che certo da noi sono chiamati
enigmi, per la mancanza d'abitudine, l'ignoranza e la ottusità della nostra
capacità, ma che tuttavia sono le stessissime voci e gli stessissimi termini
delle cose rappresentabili. E così come queste voci si sottraggono alla nostra
percezione, così anche le nostre voci latine, greche, italiane sfuggono
all'ascolto e all'intelligenza delle divinità superiori ed eterne, che
differiscono da noi nella specie, sicché non ci può essere facilmente uno
scambio fra noi ed esse, come non c'è fra le aquile e gli uomini. E come, in
assenza di comune idioma, gli uomini di una stirpe non hanno conversazione e
rapporto con uomini d'altra stirpe, se non per gesti, così anche non vi può
essere partecipe contatto tra noi e una determinata categoria di esseri divini,
se non per definiti segni, sigilli, figure, caratteri, gesti e altre cerimonie.
E senza voci e scritture di questa specie difficilmente un mago potrebbe
ottenere qualche risultato»[25].
Ho riportato per esteso questo lungo
passo, tratto dal De magia, perché mette bene in evidenza la connessione
che Bruno istituisce tra scienza divina e tecnica magica. La magia degli
antichi egizi è una scienza divina perché prodotto di una rivelazione
divina (secondo i canoni della tradizione ermetica). Questa scienza trovava la
sua espressione compiuta in un linguaggio, in una «razionalità» particolare.
Era un modo di vivere ed interpretare il mondo, che ora (a causa dell'oblio) è
diventato enigmatico. In questa ottica l'ars memoriae esprime il legame
ad un passato recente e remoto, e la possibilità di costruire un sapere
universale.
Si ricordi che anche il
neoplatonismo ha conosciuto un certo interesse per la sapienza egizia e per la
magia. A proposito, per esempio, ho trovato una interessante analogia in un
passo delle Enneadi: «A me sembra che anche i saggi di Egitto abbiano
compreso tutto questo o per scienza esatta o per intuizione innata: essi,
quando volevano rilevare la loro sapienza, non si servivano dei segni delle
lettere, che designano parole e proposizioni ma non corrispondono alla
pronuncia e al significato delle cose dette, ma disegnavano figure
<geroglifici>, ciascuna delle quali significava una singola cosa, e ne
decoravano i templi per mostrare che il procedimento discorsivo non appartiene
al mondo di lassù, in quanto ciascun individuo è anche una scienza e ciascuna
figura è sapienza, soggetto e sintesi, e non un pensiero discorsivo né un
progetto. Più tardi da questa scienza così sintetica derivò un'immagine che è
tutta dispiegata in altra cosa e si esprime nel processo discorsivo e scopre le
cause da cui una cosa deriva, sicché ci si meraviglia di una cosa tanto bella
[...]»[26].
A proposito della magia, Plotino si
interrogava: «Ma come spiegare le forze magiche? - e rispondeva - Mediante la simpatia
[corsivo mio]: fra le cose affini regna naturalmente un accordo e fra le
dissimili un contrasto; eppure nella loro varietà le molteplici potenze
contribuiscono all'unità dell'organismo universale. E infatti, anche senza
alcuna pratica magica, molte cose nascono come per magico incanto: poiché
nell'universo la vera magia sono l'Amore e la Contesa»[27]. Sorprendenti sono le analogie con il De
vinculis e il De magia, dove il Nolano si esprimerà in termini
praticamente identici: la simpatia occulta, che lega le cose tra loro,
permette l'unità armonica dell'universo infinito.
La magia, il linguaggio
magico-ermetico, seguendo «le specie della natura», coincide con il massimo
della razionalità possibile, perché si adegua in realtà all'ordine delle cose
naturali. Si tratta insomma di un qualcosa di molto simile all'analogia
strutturale che Leen Spruit aveva individuato a proposito dell'imitatio
naturae, sostenendo che «nell'imitatio naturae si tratta [...] di
un'analogia strutturale: le attività della natura e le operazioni dell'artefice
hanno una struttura parallela. L'ars si conforma alla ratio naturae,
perché nella natura è inclusa la fons omnium artium. In questa maniera
la filosofia deve aver cura di farci diventare cooperatori della natura»[28]. Questa analogia strutturale, che Spruit
ha individuato per le attività dell'ingegno umano, corrisponde perfettamente
all'idea del linguaggio magico. A sua volta questo linguaggio magico deve
essere inserito in un contesto epistemologico e metafisico-cosmologico ben
preciso: il linguaggio magico va insomma interpretato all'interno della
concezione della «catena infinita dell'essere».
L'ars memoriae, inserita in
questo contesto, deve ovviamente tutta la sua importanza e funzionalità proprio
al concetto di concatenazione degli elementi e di simpatia. Ma in
che cosa consiste l'ars memoriae di Giordano Bruno? Si tratta in modo
evidente di una elaborazione magica della tecnica dei loci[29]. All'arte mnemnotecnica del Nolano è quindi
possibile attribuire anche un preciso significato filosofico: essa
rappresenta una vera e propria metodica magica per ottenere il superamento dei
limiti naturali, non solo del sapere, ma anche dell'essere.
L'ars memoriae costituisce
indubbiamente un elemento essenziale all'interno di quella sapienza esoterica
che caratterizza, con tinte diverse, tutta la fantastica filosofia
magica rinascimentale. Bruno utilizza però questa particolare tecnica
all'interno della sua filosofia magica, per un fine particolare. La mnemotecnica
serve al Nolano per memorizzare gli elementi, i vincoli, che compongono
la divina scala naturae, cioé quell'aurea catena che stringe in
vincoli e somiglianze tutti gli esseri. Un'opera tarda come il De vinculis
in genere servirà appunto a spiegare come il mago-filosofo, servendosi di
quelle occulte simpatie che innervano la natura, può ottenere un ascensus
mistico-conoscitivo proporzionato al suo desiderio, al suo sapere e al
suo grado di perfezione tecnico-magica.
Il passo che ho citato in apertura,
tratto dal De vinculis, spiega appunto che i «vincoli veri e propri e
particolarmente efficaci sono quelli che si attuano per accostamento del
contrario»: ogni essere, ogni singolo individuo, è di fatto una unione di
contrari. L'accostamento del contrario è quindi il modo con cui si attua
ogni singola esistenza: nel Sigillus Sigillorum Bruno aveva parlato di divina
contrazione, riferendosi - paradossalmente - al modo in cui l'Unità si
trasforma in molteplicità e più direttamente al processo conoscitivo umano (che
capovolge la dispersione del divino). Il termine contractio può essere
utile per cogliere il parallelismo esistente tra processo conoscitivo ed agire
magico: «Il valore conoscitivo della contractio - ha sostenuto
giustamente Alfonso Ingegno - è in effetti inscindibile dal riconoscimento dei
modi in cui il divino si partecipa al cosmo, non è che la conseguenza che può
venir tratta da questo riconoscimento e nel Bruno, in modo estremamente
consapevole, agire magico ed ampliamento della portata della nostra conoscenza
vengono a coincidere, se non nelle procedure, nella premessa teorica che li
rende possibili. Sia la magia che la realizzazione di 'arti universali' si
identificano con la consapevolezza che il processo del comunicarsi del divino
al tutto può essere invertito, risalendo dalla dispersione di esso nelle cose
attraverso i gradi intermedi sino a quell'unità fondamentale da cui emana tale
partecipazione, per utilizzare le possibilità che vengono ad offrirsi tanto sul
piano operativo quanto su quello conoscitivo, secondo una collocazione
dell'uomo nel cosmo che ne fa [...] un punto dotato di decisione autonoma nella
catena dell'essere. Si presti attenzione tuttavia ad un aspetto essenziale, al
fatto che il 'contrarsi' della divinità indica un suo raccogliersi e limitarsi
in punti isolati che coincide con una sua ideale dispersione, mentre la
contrazione attuata dall'uomo consiste precisamente nell'invertire questo
processo»[30].
Naturalmente sarebbe sbagliato
credere che la centralità della magia stia a significare una generale
irrazionalità o caos dell'universo. A muovere ogni elemento animato il Bruno
pone infatti un Intelletto universale, e una grande Anima Mundi. L'intelletto
universale dispone la materia vivente secondo una scala o ordine
naturale che regola tutto l'Universo.
La Vita infinita si genera
all'interno di questa scala o ordine: l'idea della morte è in realtà
un'illusione, data dal mutamento continuo delle forme materiali esteriori: «la
materia, stanca dell'antica specie, sta in aguato, bramosa della nuova, poiché
desidera divenire ogni cosa e, in ragione delle proprie forze, essere simile ad
ogni ente»[31]. Muore in realtà non la sostanza ma l'accidente,
la forma esteriore. La «vita-materia» infinita si riproduce in un ritmo senza
fine, dando luogo ad innumerabili composti, magicamente.
La vita è presente in ogni porzione
della materia in virtù della onnipresenza dello «spirito del mondo»: «attraverso
questo spirito - sostiene Bruno - si formano in diversi modi diversi corpi ed
esseri viventi. Se non tutti i corpi composti sono animali, tuttavia bisogna
intendere tutte le cose come animate, cioé che sia in tutte un'anima di un sol
genere, benché non sia un solo e stesso atto, a causa di sempre altre
disposizioni della materia ed oggetti delle idee»[32]. Ovviamente, anche l'azione magica trova la sua
giustificazione proprio nella concezione della materia universalmente viva e
infinita.
Non sarebbe infatti possibile, sono
termini che usa Bruno stesso, «convincere», «vincolare», «influenzare» uomini,
animali, vegetali o materia apparentemente inerme, se il Tutto non fosse
«animato» e dotato di «sentimento». L'azione magica si sviluppa attraverso il
«corpo insensibile» dello spirito universale, o anima del mondo: «corpo davvero
continuo è il corpo insensibile, cioé lo spirito aereo o etereo; ed esso è
attivissimo ed efficacissimo, come quello che è particolarmente congiunto all'anima»[33]. Esiste quindi una stretta analogia tra la
relazione esistente tra anima e corpo particolare e anima e corpo universale.
La magia opera grazie a questa occulta corrispondenza. E' in sostanza l'idea
della comunicazione universale della materia infinita, tutta viva e dotata di
spirito. L'anima del mondo è in Tutto.
Nè si deve pensare ad una sorta di
animazione universale «impersonale», perché Bruno si dice convinto che «certi
spiriti prendono a dimora i corpi umani, altri i corpi degli altri viventi o le
piante, le pietre, i minerali: e insomma non vi è realtà che sia senza
accompagnamento di uno spirito e di un'intelligenza e in nessun luogo lo
spirito ha raggiunto la sede eterna a lui destinata, ma la materia fluttua da
uno spirito all'altro e lo spirito fluttua da una ad altra materia. E questo
vuol dire alterazione, mutamento, passione e infine corruzione, cioé
separazione di certe parti da certe altre e ricomposizione con altre parti; la
morte infatti non è altro che il dissolversi dei legami. Ma nessuno spirito e
nessun corpo perisce: solo vi è un variare perpetuo di combinazioni e
realizzazioni»[34].
Si tratta di una posizione
estremamente coerente con la tradizione ermetica, tanto che sembra quasi
ricalcata passo per passo dal Corpus Hermeticum[35]: la materia è tutta animata e piena di vita; la
morte, è solo un'apparenza ingannevole. Ma che cosa succede se dividiamo
all'infinito la materia, anch'essa infinita? E' possibile «uccidere» il mondo,
dividere la materia all'infinito? Proprio perché la materia è viva e
quantitativamente sempre la stessa, nell'universo infinito, è impossibile arrivare
al vuoto, al nulla. Dividendo la materia in parti, secondo Bruno, ci si imbatte
nelle unità viventi fondamentali: le monadi. La materia, pur essendo
infinita, non è divisibile all'infinito, perché è costituita da unità viventi minime,
che ne garantiscono la vita e ne formano la struttura. Le monadi sono delle
unità indistruttibili: gli «atomi della vita».
Ovviamente è proprio il contatto
degli atomi-vita a permettere il fluire della suggestione magica,
e con essa l'effetto reale della magia. Il termine «suggestione» sta ad
indicare non l'illusione dell'azione magica, ma il modo in cui essa opera:
mediante l'influenza sullo spirito delle cose. Importanti riscontri vengono a
questo proposito dal De minimo, dove l'atomo viene presentato come la
struttura elementare ed irriducibile della Materia-Vita, come l'aspetto
costitutivo ed originario della sua pienezza ed infinità: «il minimo è la
sostanza delle cose, tuttavia vedrai che esso è pur sempre maggiore di ogni
altra cosa. Dal minimo derivano la monade, l'atomo, lo spirito che tutto
pervade, che non ha dimensioni e che tutto costituisce con la sua impronta,
essenza universale e, se bene osservi, tutto è costituito da esso, perfino la
materia stessa. Poiché il minimo vivifica tutte le cose, esso non può essere
nascosto né considerato un'inezia da trascurare». Questa concezione della
materia e del minimo è analoga e parallela a quella dell'Ermetismo.
L'idea del «minimo che vivifica
tutte le cose» rappresenta il punto di intersezione tra fisica e metafisica,
così come il concetto di monade. Siamo in questo modo all'interno di una
visione ermetica del mondo: si tratta evidentemente dell'adorazione della Mens
insita rebus, di origine stoica.
«L'essenza degli scritti ermetici
sta nel fatto che essi suscitano uno slancio religioso verso il mondo»[36], aveva scritto la Yates. Credo che sia proprio
questo «slancio religioso verso il mondo» il vero tema costante della filosofia
di Bruno. Lo slancio religioso corrisponde infatti precisamente al tema dell'ascesi
all'Infinito, ascesi che si realizza tramite l'azione teurgica
della magia. La coincidenza dell'Uno nel Tutto garantisce all'uomo la
possibilità di contatto con la divinità: l'uomo che vive nell'Universo infinito
è un uomo che vive materialmente in Dio. Ancora riemerge la visione
ermetica dell'uomo e della divinità: l'uomo è magnum miraculum, la
divinità è direttamente accessibile, perché parte vivificatrice del mondo e
delle cose del mondo.
Per questo è importante mettere in
rilievo la relazione tra concezione della materia come viva, animata e infinita,
e magismo ermetico. Tramite l'azione magica è possibile soprattutto entrare in
contatto con la divinità, con l'Alterità nascosta, con l'Infinito. Ecco quindi
il significato profondo del panteismo bruniano: rendere possibile la
divinizzazione dell'uomo. L'identità del Tutto nell'Uno (fondata a livello
metafisico nel De la Causa e ribadita nelle opere cosmologiche e
magiche) fornisce ovviamente la possibilità dell'ascesi e quindi del
contatto con la divinità. Si ritorna in questo modo all'influenza ermetica,
visto che, come ha sostenuto del resto anche la Yates, «l'unità del Tutto
nell'Uno è un tema fondamentale degli scritti ermetici»[37]. L'infinito del mondo, altro non è che l'immagine
della infinita divinità. Anche in questo senso è possibile concordare con le
affermazioni di Fulvio Papi: «il ragionamento che fonda l'infinito è di
ascendenza teologica»[38]. Si tratta, in questo caso, di un infinito
«analogico», che deriva direttamente dalla infinità di Dio e mira alla
divinizzazione del creato e dell'uomo che vive in esso.
L'assimilazione all'infinito si
realizza mediante l'ascesi per gradi, la cui conclusione ultima è la
visione della totalità in sé, dell'Unum, e l'immedesimazione con esso. A
livello metafisico sembrerebbe quindi trattarsi di un panteismo simile a quello
hegeliano. Ma se per Hegel l'infinito coincidendo con l'Assoluto, si svolge
razionalmente, per Bruno l'infinito si svolge invece magicamente. Dio e mondo,
nell'ordine dell'intellegibilità, restano concettualmente separati. L'idea
stessa della conoscenza umbratile nasce dalla consapevolezza che non è
possibile conoscere Dio così come si conosce il mondo.
D'altra parte resta vero che l'uomo
ascende all'Infinito tramite il mondo, attraverso la scala naturae.
La visione filosofica della magia che fa affidamento su scale di occulte
simpatie poggia infatti proprio sul concetto di scala naturae. Anche in
questo caso è allora preminente l'idea della conoscenza umbratile: «ecco
dunque che della divina sustanza, sì per essere infinita, sì per essere
lontanissima da quelli effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra
discorsiva facultade, non possiamo conoscer nulla se non per modo di vestigio,
come dicono i Platonici, di remoto effetto, come dicono i Peripatetici, di
indumenti, come dicono i Cabalisti, di spalli o, posteriori, come dicono i
Thalmutisti, di specchio, ombra ed enigma, come dicono gli Apocaliptici»[39].
Conoscere l'universo significa
conoscere l'effetto infinito della volontà divina. Non si tratta quindi di
conoscere l'essenza divina in se stessa. L'infinità della divina
sostanza garantisce l'infinità dell'universo e ne impedisce una comprensione
diretta da parte dell'uomo. Se la natura divina è infinita, e «lontanissima da
quelli che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade»,
allora la conoscenza di Dio non può che essere, a livello intellettuale, negativa.
Le cose cambiano se si passa al piano teurgico, proprio della magia. Qui la conoscenza
umbratile viene superata grazie alla possibilità dell'ascesi per
gradi. L'ascesi per gradi è il fine supremo dell'azione magica.
Ho più volte citato una valida
affermazione di Papi, secondo il quale il ragionamento che fonda l'infinito è
di ascendenza teologica. A proposito forse è opportuna una precisazione.
Alcuni autori hanno curiosamente sostenuto che Bruno non ha mai voluto fare
teologia, ma solo filosofia «naturale».
Leen Spruit, per esempio, cita un
passo del De la Causa da cui si dovrebbe evincere l'avversione di Bruno
per ogni tipo di filosofia «teologica»: «dico però che non si richiede dal
filosofo naturale, che ameni tutte le cause e principii: ma le fisiche sole, e
di queste le principali e proprie». Per Spruit «nel De la Causa Bruno
vuole filosofare in modo naturale, intende cioé mantenere il discorso entro i
limiti naturali. Questa presa di posizione metodologica va intesa all'interno
del contesto dichiaratamente a-teologico di Bruno»[40].
Personalmente, credo che quella di
Spruit non sia una posizione facilmente sostenibile. Quando parla di teologia
Bruno intende quella dell'ortodossia, e non si accorge di derivare in realtà
tutti i principi primi della sua filosofia proprio da deduzioni teologiche, o
comunque di ascendenza magico-religiosa.
Per quanto riguarda il discorso
sull'infinito, per esempio, si è già detto che la infinitizzazione del cosmo
sarebbe il risultato di una operazione analogica, in cui il termine di
paragone è proprio la divinità. L'universo è infinito perché è esplicazione di
Dio, e perché sarebbe moralmente male che Dio, potendo fare un mondo infinito,
ne facesse invece uno piccolo e limitato. Che ne sarebbe, in questo caso, della
infinita potenza di Dio? Sono questi gli argomenti principali della Cena de
le Ceneri e del De l'infinito, dialoghi tutt'altro privi di
riferimenti teologici.
In realtà è possibile sostenere che
l'intera filosofia di Bruno non è mai a-teologica, nonostante le riluttanze del
Nolano per le filosofie dogmatiche. Nella Proemiale epistola del De
la Causa, ad esempio, anticipando il contenuto del terzo Dialogo, Bruno
sostiene come «il suggetto e principio di cose naturali per diversi modi di
filosofare può essere, senza incorrere calunnia, diversamente preso; ma più
utilmente secondo modi naturali e magici, più variamente secondo matematici e
razionali»[41].
Filosofia naturale è per Bruno la filosofia dell'imitatio naturae,
della magia. La filosofia naturale segue l'ordine della natura, scopre i
vincoli segreti che uniscono le cose. Ma seguire l'ordine della natura è
esattamente quello che si proponeva l'antica religione egizia, la religione che
professa Bruno.
La stessa visione dell'universo
infinito era di matrice religiosa-ermetica e così fu anche l'accettazione della
teoria copernicana, come ha ben messo in rilievo Frances A. Yates: «il suo
copernicanesimo era strettamente collegato alla sua concezione magica della
natura; egli associava l'eliocentrismo alla magia solare di Ficino e basava le
sue argomentazioni in favore della teoria del moto terrestre su di un testo
ermetico nel quale si asseriva che la terra si muove in quanto essa è viva»[42].
Una lettura circostanziata dei testi
sembra confermare nettamente queste affermazioni. Per quanto riguarda la
morfogenesi del concetto di infinito, che è il tema di questo capitolo, è
quindi di fondamentale importanza il chiarimento dei contenuti metafisici e
cosmologici del Corpus Hermeticum.
Ma qual è il nucleo centrale
dell'ermetismo? Il tema centrale della filosofia ermetica è il rapporto
dell'uomo con Dio. Il problema quindi della realtà e della salvezza dell'uomo.
Da qui la centralità dell'idea dell'uomo che si innalza all'Infinito, alla
Divinità. Il problema soterico viene però a delinearsi in uno sfondo del tutto
particolare: caratteristica dell'ermetismo è anche la visione della materia
intesa come sede dello spirito divino. L'anima del mondo è presente in ogni
cosa, e nell'anima è presente l'intelletto universale, il pensiero di Dio, se
non Dio stesso. E' quindi la vitalizzazione della materia a fondare la realtà
soterica dell'azione magica. Più che attività tesa alla realizzazione di fini
personali, la magia è infatti, prima di tutto, sapienza, ascesi. Da qui
il collegamento con il concetto di scala naturae, centrale nella
dottrina della materia infinita. In realtà, la stessa concezione della
infinitudine del tutto sembra provenire direttamente dall'ermetismo..
Nello scritto Poimandres,
attribuito a Ermete Trismegisto, già nelle prime battute, dopo l'estasi di
Ermete e l'epifania di Poimandres, al momento della rivelazione cosmogonica, si
legge:
«Ciò detto, [Poimandres] tenne a
lungo il suo sguardo fisso nel mio, così che un tremore si impadronì di me alla
sua vista. Poi sollevò lo sguardo ed io contemplai nel Nous la luce esplicarsi
in un numero incalcolabile di potenze, luce divenuta parimenti un mondo senza
limiti [kòsmon aperiòriston]. E vidi che il fuoco, avvinto da enorme
potenza, aveva raggiunto una visione stabile, dominato da quella forza. Questa
è la visione che io contemplai nella mente, guidato dalla parola di Poimandres.
Visto il mio smarrimento, egli riprese a dire: "nel Nous tu hai visto la
forma archetipica, il Principio anteriore del Principio infinito". Questo
mi disse Poimandres. Ed io gli chiesi: "da dove hanno tratto la loro
esistenza gli elementi della natura?". Egli di nuovo mi rispose:
"Dalla volontà di Dio, la quale, una volta ricevuto il logos e visto il
meraviglioso modello di quel cosmo, ne produsse un'imitazione ordinandosi
anch'essa in un cosmo, con i suoi elementi e con le anime da lei
generate"»[43].
Ma possiamo citare anche alcuni
esempi di altri trattati ermetici, oggetto di culto dei moderni seguaci di
Ermete Trismegisto. Nel Kybalion, ad esempio, l'idea di Dio è quella di
una mente infinita che crea ed è partecipe del Tutto; il Tutto è un ente
divino: «il Tutto crea nella sua mente infinita innumerevoli universi. Vi sono
milioni e milioni di mondi»[44]. In questo trattato è anche espressa la dottrina
dell'immortalità dell'anima e della scala naturae[45]. Per l'ermetismo esiste insomma una «materia
prima» in tutto, materia che sussiste quando la forma attuale del corpo è
distrutta, perché nulla muore. E' quindi ben presente l'idea di un divenire
infinito, di una vicissitudine universale. Ci sarebbe nella natura qualche cosa
di nascosto sotto le forme esteriori, che ne è il substratum. Questo substratum
non è generato e non si annienta per corruzione. Questa sarebbe la «materia
prima», materia non prodotta, eterna, infinita ed indistruttibile. Non ci
sarebbe quindi vuoto nello spazio. Lo spazio è eterno, infinito, immobile[46].
L'adesione all'infinito come essenza
del mondo, qualità primaria dell'Unum metafisico (come di quello
fisico), sembra quindi provenire da una visione magica dell'universo. Un
universo che è - al tempo stesso - immagine di Dio e sostanza divina.
L'universo, rispecchiando fedelmente la struttura metafisica del reale, è sede
dell'indagine conoscitiva. All'uomo è concesso di conoscere non la sostanza, ma
l'immagine, l'umbra, il riflesso. E' questa la teoria della conoscenza
umbratile, in stretto rapporto con la concezione dell'infinito e con la
religione magica ad esso correlata. Il concetto di umbra, come ha ben
messo in rilievo Ciliberto, è fondamentale per la comprensione di tutto il
quadro speculativo bruniano: «E' dal nesso ombra-luce - sviluppato nel De
Umbris dal punto di vista della mente umana e delle sue strutture
costitutive - che nei dialoghi italiani scaturiscono l'universo, la differenza
tra Dio e l'universo, tra infinità dell'uno e infinità dell'altro. Si può
essere netti su questo punto: senza fondamento umbratile, la concezione dei
mondi innumerabili e dell'universo infinito appare genericamente e
sistematicamente inconcepibile. Non solo: è in questo quadro che si individua,
sul piano etico, il limite specifico dell'uomo, da cui germinano da un
lato l'eroico furore, dall'altro la possibilità stessa delle nostre civiltà»[47]. Credo anch'io che ci sia una stretta connessione
tra l'idea di una potenza divina che si esplica in un simulacro infinito e il
concetto di umbrae idearum. La conoscenza umbratile, cui la magia
può in certo senso ovviare, poggia d'altra parte proprio sull'idea
dell'infinito. L'universo può essere conosciuto solo sotto il codice dell'umbra
proprio perché infinito ed infinitamente variante nelle sue forme. Ci si trova
così di fronte ad un altro classico motivo ermetico: il limite della conoscenza
umana.
E' possibile riscontrare l'influenza
ermetica anche nel programma di riforma religiosa di Bruno. La religione che il
Nolano auspicava corrispondeva infatti - sostanzialmente - al ritorno della
antica religione egiziana: la religione magica di Ermete Trismegisto[48]. Si trattava per Bruno del ripristinamento di un
linguaggio particolare, che permetteva all'uomo di vivere in stretto contatto
con la divinità. Un linguaggio andato perduto che, assegnando alle cose il loro
vero nome, conferiva all'uomo il potere di ordinarle, magicamente, e di
dominarle. Nel suo desiderio di riforma Bruno non intendeva certo
proporre un nuovo sistema magico. Anzi, in questo era del tutto un
restauratore: era necessario ricominciare a parlare come l'antico
Ermete, ritornare all'età dell'oro. Bruno credeva infatti che il
linguaggio, espressione della razionalità, il modo di pensare «conveniente»
fosse quello di Ermete Trismegisto: un linguaggio antichissimo, usato dagli
antichi maghi egiziani, ora perduto nei secoli.
Si tratta del linguaggio magico,
fatto di immagini e numeri, simboli in grado di corrispondere perfettamente
alla natura e operare quindi concretamente e con successo su di essa. Un
linguaggio perduto, che solo il mago ha conservato, un linguaggio che permette
all'uomo una effettiva imitatio naturae, in grado quindi di mettere
l'uomo in comunicazione con l'Anima del mondo, (attraverso la scala naturae),
e che supera l'aporia imposta dalla struttura umbratile della conoscenza
umana. L'azione magica, che ha per oggetto e fine l'ascesi all'Infinito,
parte proprio dal riconoscimento della natura umbratile, invalicabile,
della conoscenza umana.
Il problema del linguaggio,
nell'impianto teoretico bruniano in generale e nella discussione della sua
concezione di infinito in particolare, è naturalmente di fondamentale
importanza. Importanti conferme del rapporto linguaggio-magia vengono anche
dalla lettura dello Spaccio de la bestia trionfante, dove, come ha
osservato Michele Ciliberto «la messa a fuoco della infinità dei linguaggi
umani e naturali è strettamente congiunta all'individuazione delle forme di
comunicazione della divinità semplice e absoluta. Una, ribadisce Bruno,
è la divinità che si trova in tutte le cose, la quale, come in modo
innumerabili si diffonde e comunica, così ave nomi innumerabili, con raggioni
proprie ed appropriate a ciascuno, si ricerca, mentre con riti innumerabili si
onora e cole, perché innumerabili geni di grazia cercano di impetrar da quella.
Infinità e innumerabili sono il principio della divinità, della realtà, della
vita. La esplicazione del dio coincide con la innumerabiltà dei modi, dei nomi,
delle vie, dei riti. Senza conoscere questa innumerabile pluralità non è dunque
possibile né conoscere Dio né trasformare la natura. Eppure - continua
Ciliberto - non a tutti è dato di intendere e capire questa verità: bisogna
- osserva Bruno - quella arte, industria ed uso di lume intellettuale, che
dal sole intellegibile a certi empi più ed a certi tempi meno, quando massima e
quando minimamente viene rivelato al mondo. Il qual abito si chiama Magia...
Verità, magia, conoscenza della divinità non sono infatti scontate, acquisite
una volta per tutte»[49].
L'infinità dei linguaggi umani e
naturali riflette quindi la infinità di Dio. Così come Dio ha «nomi
innumerabili», la natura rispecchia questa pluralità di vie. Si tratta di un
passo rivelatore di un altro aspetto inedito della filosofia bruniana: la
tolleranza dei riti (che possono essere, appunto, infiniti: una corrispondenza
con l'idea dell'«una religio in rituum varietate» di Nicola Cusano?).
Nonostante questa «apertura», viene
comunque ribadita la validità della dottrina ermetica, secondo la quale la
verità è stata rivelata all'uomo in certi tempi stabiliti, che si ripetono
secondo una sequenza prestabilita. Appunto un profeta si sentiva Bruno, e così
concepiva la sua «missione» fra gli uomini. Leggiamo infatti, sempre nello Spaccio:
«quel dio come absoluto, non ha a che far con noi; ma per quanto si comunica
alli effetti della natura, ed è più intimo a quelli che la natura istessa; di
maniera che se lui non è la natura istessa, certo è la natura de la natura; ed
è l'anima del mondo, se non è l'anima istessa: però secondo le raggioni
speciali che voleano accomodarsi a ricevere l'aggiuto di quello, per la via
delle ordinate specie doveano presentarli avanti: come chi vuole il pane va al
fornaio, chi vuole il vino, va al cellaraio [...] e cossì va discorrendo per
tutte l'altre cose: in tanto che una bontà, una felicità, un principio absoluto
de tutte ricchezze e beni, contratto a diverse raggioni, effonde gli doni
secondo l'exigenze de particulari. Da qua puoi inferire, come la sapienza de li
Egizii, la quale è persa, adorava gli coccorilli, le lacerte, li serpenti
[...]; non solamente la terra, la luna, il sole ed altri astri del cielo; il
qual magico e divino rito (per cui tanto comodamente la divinità si comunicava a
gli uomini) viene deplorato dal Trismegisto, dove, raggionando ad Asclepio,
disse: - Vedi, o Asclepio, queste statue animate, piene di senso e di spirito,
che fanno tali e tante degne operazioni? Queste statue, dico, prognosticatrici
di cose future [...]? Non sai, o Asclepio, come l'Egitto sia la imagine del
cielo [...]? A dir il vero, la nostra terra è tempio del mondo. Ma, oimè, tempo
verrà che apparirà l'Egitto in vano essere stato religioso cultore della
divinitade; perché la divinità, remigrando al cielo, lascierà l'Egitto deserto
[...] si troveranno nuove giustizie, nuove leggi, nulla si trovarà di santo,
nulla di relligioso»[50].
A questo punto legherei l'idea di un
Dio che si produce in una natura infinita alla immediata distinzione tra Dio
inteso come Assoluto e Dio inteso come Mondo - ossia alla distinzione, a
livello di teoria infinitista, tra infinito attuale e potenziale. Distinzione
correlata alla pluralità - sulla terra - dei «doni divini», che come tali
possono e devono essere adorati come segni, indicazioni, rivelazioni.
Ed è proprio alla molteplicità di
forme che ha assunto storicamente la Rivelazione, che viene legato, subito
dopo, il lamento ermetico: la religione egizia - la magia - sarà
dimenticata dall'uomo, e la divinità se ne tornerà in cielo, perché inutili
saranno state tutte le sue manifestazioni, tutti i suoi doni. La renovatio
mundi sarà possibile solo quando sarà ristabilita questa comunione tra
uomini e déi, resa possibile dall'antico linguaggio perduto, quello degli
Egizi.
Ancora una volta si deve notare come
il progresso non sia da ricercare nel futuro, ma nel passato - quando l'uomo
era in grado di cogliere la pluralità dei messaggi che in linguaggi infiniti la
divinità gli annunciava. Come ha osservato Ciliberto, «alla luce del Lamento,
cambia, al fondo, il concetto di giovinezza e di vecchiaia del mondo, di
sapienza, e di religione. La giovinezza coincide con il massimo sviluppo dei
linguaggi; la vecchiaia con la massima decadenza della comunicazione umana,
civile, naturale»[51].
Emerge già con chiarezza la costante
del tema della «crisi universale», non solo della intrinseca aporia umana, ma
della contemporanea tragica decadenza. Si tratta ovviamente di un tema
strettamente legato alla infinitizzazione del cosmo e alla conseguente
divinizzazione dell'uomo. Ed è proprio dal nesso conoscenza umbratile - scala
naturae che si sviluppa la possibilità di superare l'aporia umana, la
tragica crisi in cui è sprofondata l'umanità. Del resto, proprio confidando
nell'azione magica che si adegua all'infinito, Ermete Trismegisto aveva
descritto l'uomo come magnum miraculum: esiste quindi nell'uomo la
potenzialità del divino.
Occorre inoltre notare che la nuova
visione dell'uomo in cosmo senza limiti corrisponde anche ad una nuova
concezione della magia[52], come ha ben sottolineato Eugenio Garin: «l'uomo
centro del cosmo è appunto l'uomo che, afferrato il ritmo segreto delle cose,
si fa sublime poeta, ma, come un Dio, non si limita a scrivere parole
d'inchiostro su carte caduche, bensì inscrive cose reali nel grande e vivente
libro dell'Universo»[53]. Questa è la concezione della magia che
presentava Bruno. La netta distinzione della sua magia naturalis
rispetto alla magia cerimonialis, che per tutto il Medioevo aveva subìto
gli attacchi dei teologi cattolici, viene ribadita di continuo[54]. Per di più, dagli atti degli interrogatori degli
inquisitori, sembra che Bruno pensasse di poter addirittura conciliare la
religione cristiana con il magismo ermetico, che ormai professava apertamente.
Inoltre si può anche notare come,
nella nuova visione del cosmo, la scienza sia relegata a tecnica, per di
più alla sua stretta funzione di utilitas. L'infinito non è giustificato
da un punto di vista matematico, scientifico, ma religioso, magico. La stessa
esplosione di Teofilo-Bruno nel Dialogo quinto del De la Causa ha un
sapore squisitamente religioso, di estasi mistica: «è dunque l'universo uno,
infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la
forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo
ed ottimo; il quale non deve posser esser compreso; è però infinibile ed
interminabile, e per tanto infinito ed interminato, e per conseguenza immobile»[55].
Anche là dove Bruno spiega
l'infinità dell'Uno con argomenti pseudo matematici, astronomici e geometrici,
(e Alexander Koyrè ha spiegato perché la maggior parte di questi argomenti sono
in Bruno difettosi o frutto di illusioni ottiche[56]), ci troviamo sempre di fronte ad un uso
strumentale, ancillare, della scienza. La scienza non porta alla scoperta
dell'Infinito, casomai sorregge e giustifica un'ideologia precedente. E il caso
della discussione delle tesi copernicane risulterà emblematico per chiarire la
posizione del Nolano nei confronti del sapere scientifico.
Copernico da parte sua fornito un
appoggio teoretico sensato e buono alla nolana filosofia, ma è rimasto
matematico, è rimasto cioé solo alle porte della nova filosofia. Il
rapporto tra Bruno e Copernico verrà comunque meglio definito quando si
analizzerà, in sede cosmologica, il problema dell'infinito. Per ora si deve
semplicemente contestare l'idea che in Bruno l'infinito trovi un qualsiasi
fondamento scientifico. La scienza serve solo a spiegare l'infinito con
l'analogia, ma la teoria dell'infinito non poggia mai, in Bruno, su basi
scientifiche. Anzi, all'infinito corrisponde la perdita totale dei sistemi di
riferimento del finito, del misurabile, della scienza: «nella sfera, medesima
cosa è lunghezza che larghezza e profondo, perché hanno medesimo termino; ma ne
l'universo infinito medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché
medesimamente non hanno termine e sono infinite»[57].
Trattare l'infinito solo con metodo
scientifico è per Bruno assurdo: si tratterebbe infatti di misurare e
comprendere Dio, I'Inconoscibile. La matematica può misurare gli
accidenti, non la sostanza. L'infinito non ha parti misurabili: se ne avesse -
e non ne ha - le parti maggiori sarebbero equivalenti alle minori: i secoli non
sarebbero più lunghi dei minuti, né i chilometri più estesi dei centimetri. Ma
nell'infinito tutte queste determinazioni vengono a cadere, perché l'infinito è
appunto il non-misurabile, ciò che «non posser esser compreso», l'Insondabile,
Dio. L'unica visione che di esso si può avere è appunto un'umbra, un
riflesso.
E' un'idea, quella dell'umbra,
certamente non nuova nella storia della filosofia. In Bruno però essa assume (a
differenza del platonismo) forti connotazioni magiche. L'umbra rientra
infatti nel quadro epistemologico presentandosi come punto d'unione tra il
concetto di scala naturae e infinità dell'Unum. Si tratta di
un'ombra metafisica, ovviamente, la cui individuazione nel sistema magico del
mago deve poter permettere all'uomo l'ascensus nella scala, fino alla
contemplazione dell'Unum. «L'ombra segue contemporaneamente il moto del
corpo e della luce. Il corpo si muove? L'ombra si muove. La luce si muove?
L'ombra si muove. Si muovono l'una e l'altra? L'ombra si muove [...]. Non ti
sfugga infine la somiglianza delle ombre con le idee»[58], aveva scritto Bruno nel De umbris.
Da qui l'unione tra conoscenza,
memoria magica, ascensus, scala, Unum infinito (Dio).
Attraverso l'ars memoriae è possibile memorizzare l'ordine magico in cui
si dispongono gli elementi che formano la scala naturae e ripercorrere i
gradi intermedi dell'universo mediante la conoscenza dei vincoli universali. Si
può parlare a questo punto di assimilazione, all'interno dell'arte magica,
dell'uso della mnemotecnica.
La prima opera filosofica di Bruno,
il De Umbris Idearum serve appunto a chiarire appunto tutta questa
impalcatura concettuale. In realtà il De umbris costituisce il primo momento
della struttura metafisica del Nolano, ed è quindi assolutamente funzionale
alla comprensione dell'infinito nei dialoghi propriamente definiti metafisici.
CAPITOLO
II
«In Orizonte quidem lucis &
tenebrarum, nil aliud intelligere possumus quam umbram. Haec in orizonte boni
& mali: veri & falsi. Haec est est ipsum quod potest bonificari, &
maleficari, falsari, & veritate formari: quodque istorsum tendens sub
istius, illorsum verò sub illius umbra esse dicitur»[59].
«[...] non inquam umbra abducens à
luce; sed conducens ad lucem, quae etiam si non sit veritas: est tamen à
veritate, & ad veritatem, ideòque in ipsa non credas esse errorem sed veri
latentiam»[60].
Leen Spruit aveva giuistamente
sostenuto che «il quadro metafisico della conoscenza nel De umbris idearum
è quello della metafisica della luce: la luce divina che pervade la realtà,
rende possibile all'uomo risalire nella conoscenza e di ritornare alla fonte
della luce, fondamento ultimo della realtà»[61]. L'analisi del problema epistemologico che segue
a questa felice affermazione tende però a escludere drasticamente l'importanza
e la centralità dell'elemento ermetico, e a fare un esclusivo riferimento alla
tradizione genuinamente filosofica che ha preceduto il Nolano: «Le
considerazioni epistemologiche di Bruno vanno interpretate [...] quali termini
costitutivi di una tradizione gnoseologica, e non ermetica, che comprende sia
autori platonici che aristotelici»[62]. Nonostante le conclusioni di Spruit, che saranno
poi riprese in parte da Michele Ciliberto, non mi sembra però possibile
togliere al testo quel sapore ermetico che caratterizza non solo lo stile, ma
anche la struttura e il significato. Credo infatti che quella del De umbris
sia una metafisica anzitutto di tipo magico-religioso, e, visto che in sostanza
la modalità epistemologica ricalca in Bruno la struttura metafisica della
realtà, credo sia possibile sostenere che anche il tipo particolare di
conoscenza che il Nolano propone è tutt'altro che esente da pesanti influenze
magico ermetiche.
Del resto lo stesso Spruit aveva
notato che «lo scopo finale dell'uomo non è la visio beatifica o la visio
Dei. La finalità della conoscenza è diretta alla transformatio sui in
rem & transformatio rei in seipsum, nelle quali si verifica l'unione
dell'intelletto con la cosa conosciuta»[63]. Non si tratta quindi di una conoscenza
filosofica, ma direi alchemica, magica: vera e propria teurgia. Passiamo
dunque ad una breve analisi della metafisica magica del De umbris idearum.
Già all'apertura del testo, appare evidente che il
maestro di Filotimo-Bruno è Ermete Trismegisto in persona. Nel Preliminare
dialogo apologetico in difesa delle ombre delle idee per la sua invenzione
della memoria[64], Filotimo chiede infatti ad Ermes: «per qual
motivo, o Ermes, parli fra te? Qual è mai il libello che hai tra le mani?»; ed
Ermes gli risponde: «E' il libro Le ombre delle idee, raccolte per una
scrittura interna; sono incerto se debba essere pubblicato oppure continuare a
rimanere nelle stesse tenebre in cui un tempo è stato nascosto»[65]. Bruno si sentiva un Mercurio inviato dagli déi,
e prevedeva che avrebbe incontrato difficoltà e nemici. Filotimo sostiene
infatti che «la provvidenza degli dèi (lo dissero i sacerdoti egiziani) non
smette di mandare agli uomini alcuni Mercuri in certi tempi stabiliti, benché
sappiano in anticipo che questi non saranno accolti per niente o saranno male
accolti»[66].
Due elementi devono fermare per un
attimo la nostra riflessione. Anzitutto il tema della rivelazione concessa
dagli dèi secondo una sequenza ciclica, tema collegato a quello della crisi
universale. Il secondo elemento è la preoccupazione che Bruno doveva sentire
per la comprensione della sua magia naturale, e quindi per la sua filosofia.
Bruno temeva che la sua magia-filosofica fosse malamente interpretata coma
magia cerimoniale:
«Logifero. Cosa risponderai
al maestro Antoch, il quale considera maghi o indemoniati o uomini di qualche
altra specie siffatta quelli che presentano operazioni della memoria oltre alle
solite volgari?
Filotimo. Non dubiterei che costui è nipote di quell'asino
che fu salvato sull'Arca di Noé per la conservazione della specie!»[67].
Significativo è poi che il De
umbris sia organizzato in base a suddivisioni trigesimali. La stessa
impostazione strutturale dell'opera rievoca quindi la numerologia magica
caratteristica dell'ermetismo e dell'esoterismo magico in generale. Il magico
numero trenta ricompare anche in altre opere di Bruno, come ad esempio nell' Explicatio
triginta sigillorum, dove, come ha notato la Yates, «il raggruppamento dei
sigilli nel numero di trenta indica che Bruno si sta ancora muovendo sul piano
mistico-magico del De umbris idearum»[68].
Nel De umbris il lettore deve
anzitutto affrontare trenta brevi paragrafi denominati «intentiones». Di
questi, la quinta intenzione è particolarmente interessante: «Noi
consideriamo soprattutto quelle ombre che sono obiettivi degli appetiti e della
facoltà cognitiva, concepiti sotto l'aspetto del vero e del bene, che
lentamente allontanandosi da quell'unità sovrasostanziale avanzano, attraverso
una moltitudine crescente fino all'infinita moltitudine (per dirla alla maniera
dei pitagorici); queste ombre di quanto si separano dall'unità, di tanto si
allontanano anche dalla verità stessa. Infatti, l'allontanamento avviene
proprio dal sovraessenziale alle essenze, dalle essenze alle cose che sono, da
quelle alle tracce, alle immagini, ai simulacri e alle ombre: sia verso la
materia, perché siano prodotte nel suo seno, sia verso il senso e la ragione,
perché siano riconosciute attraverso la facoltà sensibile e razionale»[69].
L'immagine delle ombre che si
staccano dall'Unità per formare un'infinita moltitudine è evidentemente
parallela a quella proposta nella rivelazione cosmogonica del Poimandres
ermetico[70]. Credo poi che il richiamo alla dottrina pitagorica debba essere inteso
come richiamo alla «religione del numero». Sappiamo che il rinato interesse
rinascimentale per la magia, la cabala e il simbolismo numerico, avevano
portato alla rivalutazione della filosofia pitagorica. Per Pitagora il numero
costituiva la radice di ogni verità. Già Pico della Mirandola, prima di Bruno,
nella sua Apologia «aveva collegato la magia e la cabala alla matematica di
Pitagora»[71]. La stessa considerazione vale per il mago filosofo Cornelio Agrippa,
che esercitò una pesante influenza sul pensiero di Bruno[72].
Ma a parte il richiamo al numero e
alla sua straordinaria valenza magico-simbolica, considero questo passo
particolarmente significativo perché in esso è per la prima volta abbozzata
l'idea di una «infinita catena dell'essere» (per usare un'espressione
felicissima di A. Lovejoy) costituita appunto da una «infinita moltitudine». La
moltitudine crescente, fino a diventare infinita, è data, a livello metafisico,
dalla catena delle ombre che si separano dall'unità. La struttura fisica del
reale, le cose mundani, rispecchiano fedelmente questa metafisica: la
disposizione del reale segue infatti l'ordine impresso dall'Intelletto
superiore in una varietà infinita di gradazioni diverse - nella Luce.
La settima intenzione svela e
precisa il significato di questa «metafisica della luce»: «Ma poiché in tutte
le cose c'è una connessione ordinata, in modo che i corpi inferiori succedono a
quelli mediani e questi ai superiori, allora i composti si uniscono ai semplici
e quelli semplici ai più semplici, quelli materiali agli spirituali e quelli
spirituali a loro volta a quelli immateriali, sicché uno solo è il corpo
dell'Ente universale, uno solo l'ordine, uno solo il governo, uno solo il
principio e una sola la fine, uno solo il primo e uno solo l'ultimo. E poiché è
data [...] una migrazione continua dalla luce alle tenebre [...], niente
impedisce che al suono della cetra universale di Apollo le cose in basso a poco
a poco siano richiamate a quelle alte, e quelle più basse attraverso le mediane
si accostino alla natura delle superiori [...]. Quindi, qualunque cosa sia la
discesa da un'altra specie [...], dobbiamo assolutamente sforzarci - avendo
davanti agli occhi, secondo le eccelse operazioni dell'animo, la scala della
natura - di tendere sempre, attraverso operazioni intrinseche, dal moto e dalla
moltitudine allo stato e all'unità; quando eseguiremo ciò secondo la nostra
facoltà, anche secondo la facoltà ci conformeremo alle opere divine, ammirate
da tutti. A ciò stesso ci confortino e esortino il vincolo prestabilito delle
cose e le conseguenti connessioni»[73].
Un importante libro magico, il De
vinculis in genere spiegherà appunto come individuare e servirsi di queste
occulte connessioni. In questa settima intenzione è chiaramente espressa la
dottrina della comunicazione universale, di centrale importanza per l'idea
dell'infinito cosmologico e metafisico. Bruno, lo vedremo bene nel De la
Causa, attribuisce la materia anche a Dio. Se la materia è sostanzialmente
una, allora è possibile considerarla come un unico percorso che giunge fino al
Cielo. La teoria della comunicazione universale espressa per la prima volta nel
De umbris, porta quindi a credere che non solo l'uomo può intervenire
magicamente sul mondo materiale (operando sui vincoli che uniscono le monadi),
ma tramite la filosofia naturale, arrivare fino alla unione con Dio,
partecipare - almeno in modo estatico - alla sua divina infinità.
Sempre nella settima intenzione
affiora un motivo che si ritrova poi, quasi identico, nel De la Causa.
Se nel De umbris Bruno sostiene la possibilità di «conoscere tutte le
cose da tutte» e afferma che «la materia, spogliata della forma dell'erba, non
immediatamente assume la forma di questo animale, ma attraverso le forme
mediane di chilo, sangue seme. Di conseguenza, chi conoscerà i medi connessi
ali estremi, potrà ricavare naturalmente e razionalmente tutte le cose da
tutte»[74], nel De la Causa, dirà che «nella natura, variandosi in infinito
e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una la materia medesima [...].
Non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si
fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da
questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo
terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte le
forme naturali?»[75]. Il motivo è chiaramente quello della variazione
infinita dell'essere. In questa infinità di forme e mutamenti è però
possibile «conoscere tutte le cose da tutte»; e questo in virtù del sistema dei
vincoli magici. Naturalmente sono i vincoli, e non i soggetti naturali
(numericamente e per forma esteriore infiniti) a permettere l'ascensus
della scala - e quindi la conoscenza. Quello che voglio dire è che la quinta e
la settima intenzione del De umbris anticipano in qualche modo uno dei
punti fondamentali della discussione sull'infinito presente nel De la Causa:
l'infinita catena dell'essere. Se nel De umbris questa infinita
catena costituisce la premessa per la discussione epistemologica, su di un
piano magico, nel De la Causa invece essa è la rappresentazione, a
livello fisico, della struttura metafisica della realtà, ossia della unità
sostanziale dell'Essere.
Il tema della infinita catena
dell'essere viene poi immediatamente affiancato da quello dell'«ordine
meraviglioso», affinché l'idea del Caos (a volte assimilabile a quella
dell'Infinito) venga immediatamente lasciata alle spalle: «il vero Caos di
Anassagora è una varietà senza ordine. Proprio così come nella varietà stessa
delle cose distinguiamo un ordine meraviglioso, che, instaurando una
connessione degli elementi sommi con gl'infimi e degl'infimi con i sommi, fa
concorrere tutte le parti insieme a costituire il bellissimo aspetto di un solo
grande essere animato (qual è il mondo), poiché tanta diversità richiede tanto
ordine e un così grande ordine tanta diversità»[76]. E quello che nel De umbris viene
descritto come un «ordine meraviglioso» (proprio perché collega in una trama o
catena ordinata un numero infinito di elementi), nel De la Causa sarà
chiamato Intelletto superiore, o Anima del Mundi (anche se per la
verità già nel De umbris il mondo viene descritto come un grande
animale, dotato di anima).
Il problema gnoseologico viene
ulteriormente definito subito dopo, nella tredicesima intenzione: «Certamente,
se una concordia pressoché indissolubile connette le estremità finali dei primi
elementi agli inizi dei secondi e unisce il calcagno di quelli che precedono
alle teste di quelli che seguono immediatamente, tu sarai capace di abbracciare
con la mente quell'aurea catena che si forma sempre tesa dal cielo alla terra;
così pure, come puoi avere fatto una discesa dal cielo, facilmente potrai
ritornare in cielo per una salita ordinata»[77]. L'idea della scala naturae, simboleggiata
dall'immagine dell'«aurea catena» era centrale anche nell'immagine
dell'infinito ermetico. Ma come è possibile percorrere l'ascensus della
scala, se essa è composta da una moltitudine infinita di elementi, collegati
tra loro in virtù di un «ordine meraviglioso»? Ovvero: come si può percorrere
uno spazio infinito in un istante? Sembrerebbe a prima vista la riproposizione
di uno dei classici paradossi che i medievali avevano ripreso dalla filosofia
di Zenone di Elea. Si tratta evidentemente di un problema che riguarda sia la
conoscenza sia la struttura metafisica della realtà.
La soluzione di questo paradosso è
data dalla formulazione di una teoria magica e metafisica
insieme: la teoria dei «vincoli». Il sistema mnemotecnico bruniano può servire
come introduzione al discorso dei vincoli (sviluppato ampiamente in un'opera
magica importante, il De vinculis in genere). Nel De umbris viene
proposta una sapienza ermetica che, imparando a ripercorrere attraverso i suoi
gradi intermedi l'universo intero, non soltanto ne memorizza l'ordine, ma
ambisce ad affidare alla conoscenza magica poteri d'intervento sui fenomeni.
Tutto questo è possibile proprio in virtù dei «vincoli» che uniscono in
somiglianze tutti gli esseri. Eccoci allora aperta la strada alla soluzione del
paradosso: l'inifnità degli elementi è relativa alla loro esteriorità, alla
loro numerabilità, perché al profondo, nella materia «di base» (e per Bruno, è
bene ribadirlo, non c'è niente al di fuori della materia), le monadi concorrono
alla formazione di schemi semplici, di strutture ordinate secondo una regola
fissa, che il mago può raggiungere e di cui il filosofo si può servire. Sono
quindi le combinazioni degli elementi, i vincoli che li uniscono, a garantire
la possibilità della conoscenza e dell'elevazione dell'uomo, e non i singoli
elementi presi in se stessi.
La filosofia della natura mira
appunto alla valutazione di queste «occulte simpatie». Si noti che l'unità
della realtà è quindi possibile solo in base al concetto sottostante di scala
naturae. Attraverso questo concetto si esprime la infinità del cosmo
materiale, e di essa si serve il mago-filosofo per conoscere il mondo e operare
su di esso. Naturalmente, anche per il mago, l'unica conoscenza possibile è
quella umbratile, dell'ombra che contemporaneamente vela la Verità e
protegge gli uomini dalla sua luce accecante.
Ricordo che la teoria dell'ombra che
serve non a nascondere ma a proteggere la vista degli uomini dalla luce
accecante della verità era presente anche nella tradizione esoterica ebraica,
che Bruno mostra di ammirare: «questa ombra, o una simile a questa, l'hanno
figurata coloro che son detti Cabalisti, poiché il velo, che era
allegoricamente o fiugurativamente sul volto di Mosé, ma figurativamente sul
volto della legge, non mirava ad ingannare, ma a spingere avanti ordinatamente
gli occhi degli uomini, nei quali si provoca una visione nel caso che
all'improvviso passino dalle tenebre alla luce»[78]. L'ombra quindi - paradossalmente - è stata posta
da Dio stesso a protezione e guida dell'umanità. Si noti che - secondo Bruno -
anche la vita civile deve essere impostata seguendo i criteri della legge
divina rivelata all'uomo tramite certi mercurii - messaggeri degli dèi - che
scendono sulla terra secondo tempi e modalità prestabilite, ed hanno il compito
di far risorgere la verità sepolta (quella - ovviamente - ermetica). Bruno
certamente si sentiva uno di questi, ed il suo tentativo di restaurazione
dell'antica religione egizia deve essere interpretato proprio in questo senso:
anche l'ordine civile, non solo quello etico, deve essere impostato seguendo i
criteri della rivelazione ermetica (ovvero: la divinità si comunica all'uomo
tramite la Natura, ed in questo suo dispiegarsi è possibile trovare i segni
della legge). La magia serve appunto a riscoprire i segni divini nella Natura e
a renderli comprensibili all'uomo.
Proprio nella trentesima
intenzione (quasi a voler ribadire la straordinaria valenza simbolica del
magico numero trenta), Bruno mette in scena l'Uno e il problema della sua l'infinità.
Nell'Uno si ritrovano le differenze, tutte, non a livello potenziale, ma
attuale. Proprio per questo si tratta di un Uno assoluto, perfetto: «Ma come
comprendi che tutte le differenze delle ombre si possono infine ricondurre a
sei fondamentali, nondimeno devi sapere che tutte infine dovrebbero essere
ridotte a una sola fecondissima e a una generalissima fonte delle altre»[79]. L'idea della riduzione degli enti infiniti ad un
numero limitato di vincoli (o concetti magici) viene qui ripetuta in modo
analogo per il mondo delle ombre (metafisiche). Come le cose possono essere
ricondotte ad un'unica materia, viva ed infinita, così i concetti nascono da un
Uno fecondissimo e assoluto.
Specifica infatti poco più avanti il
Nolano: «una certa analogia, infatti, ammettono la metafisica, la logica e la
fisica, cioé le cose prenaturali, naturali e razionali, come verità, immagine e
ombra»[80]. Espone poi un esempio «geometrico», quasi a significare che la
struttura metafisica è identica a quella della realtà: «Ecco l'esempio di una
sola idea, la quale ha in atto infinite differenze delle cose, e di una sola
ombra nella possibilità d'infinite differenze. La linea orizzontale AB riceve
la linea CD che cade perpendicolarmente e forma due angoli retti. Ora, nel caso
che la linea perpendicolare inclini verso B, renderà l'angolo da una parte
acuto, ma dall'altra ottuso. Inclinata sempre più in E, F, G, H, I, L e così
via, darà gli angoli più acuti di qua e più ottusi di là. Così risulta chiaro come
nella possibilità di quelle due linee rette ci siano infinite differenze di
angoli acuti e ottusi. Questa possibilità non differisce dall'atto nella prima
causa, la quale e nella quale è tutto ciò che può essere, dal momento che
essere e potere s'identificano in essa. Pertanto nel punto D stesso le
differenze degli angoli sono nel tempo stesso infinite e una sola cosa»[81].
Terminata la presentazione delle
«trenta intenzioni», si passa a «Trenta concetti di idee». Ancora la
discussione dell'umbra e della intelligibilità delle cose viene
significativamente legata alla tematica dell'infinito e alla metafisica
della luce: «qui io intendo la luce come intelligibilità delle cose [...].
Queste cose, quando sgorgano quale da una quale e quale da un'altra, diverse da
diverse, si moltiplicano all'infinito, tanto che le può determinare solo chi
conta il numero delle stelle; quando invece rifluiscono, si uniscono fin
proprio a quell'unità che è fonte di tutte le unità»[82]. Siamo di fronte ad una chiara esposizione della
teoria della vicissitudine universale. In questa credenza si inserisce la
teoria bruniana della metempsicosi, della quale abbiamo per esempio una diretta
testimonianza dalle accuse portate dal Mocenigo agli inquisitori veneti.
Nell'undicesimo concetto viene poi ribadito che «La ragione forma specie nuove
e in modo nuovo all'infinito»[83]. L'intelletto universale - Dio - provvede dunque
alla costituzione di quell'ordine armonico, mediante l'attribuzione di infinite
forme alla materia.
Il motivo dell'ascesi mistica
e allo stesso tempo intellettuale, che ho considerato fin dall'inizio come uno
dei momenti fondamentali della filosofia dell'infinito in Bruno, è espressa
chiaramente già a partire dal De Umbris: «Perciò ascendi là dove le
specie sono pure, dove niente è informe e dove ogni essere formato è la forma
stessa»[84]. In forma germinale, sono già presenti le successive speculazioni
metafisiche del De la Causa. Subito di seguito viene infatti presentata
la tecnica, intrisa di elementi mistici e magici, per percorrere la scala:
«Plotino comprese che è fatta di sette gradini (cui ne aggiungiamo due) la
scala per la quale si ascende al principio. Il primo gradino è la purificazione
dell'animo, il secondo l'attenzione, il terzo l'intenzione, il quarto la
contemplazione dell'ordine, il quinto il confronto proporzionale secondo
l'ordine, il sesto la negazione o separazione, il settimo il desiderio, l'ottavo
la trasformazione di sé nella cosa, il nono la trasformazione della cosa in se
stesso. Così si aprirà la via, l'accesso e l'ingresso dalle ombre delle idee»[85]. Si tratta evidentemente di una serie di
predisposizioni psicologiche atte a raggiungere l'estasi, quindi la
trasformazione e l'unione con Dio: magia teurgica quindi. Per di più,
all'idea dell'ascesi mistica viene riaffiancata l'idea della infinita
unità del tutto (che permette appunto la possibilità dell'ascesi):
«Tutto ciò che è dopo l'uno è inevitabilmente molteplice e numeroso, perciò,
tranne l'uno e il primo, tutte le cose sono numero. Donde sotto l'infimo
gradino della scala della natura c'è il numero infinito o materia; invece nel
sommo gradino c'è l'infinita unità e atto puro. Pertanto, la discesa, la
dispersione e l'espansione avvengono verso la materia; l'ascesa, l'aggregazione
e la delimitazione avvengono verso l'atto»[86]. La scala della natura serve quindi ad
unire nel mondo fisico ciò che concettualmente resta separato: la infinità di
Dio e quella del Mondo. Al di là delle evidenti influenze neoplatoniche, la
messa in primo piano del numero, inteso come categoria metafisica, deve
ricordare il pitagorismo e l'ermetismo, da cui Bruno attinge continuamente.
Michele Ciliberto ha notato come,
nella parte teorica del De Umbris, Bruno si colleghi alla tradizione
magica nella presentazione delle immagini celesti, ricordando inoltre che «si è
mostrato come l'elenco dei trentasei Decani, attribuito a Teuco Babilonese, sia
ripreso dal De occulta philosophia di Cornelio Agrippa»[87]. Detto questo Ciliberto sostiene come sia «meno
persuasiva [...] la tesi mirante a vedere nel De umbris un testo di
carattere magico, interpretandolo alla luce della visione - assai diffusa negli
anni passati - di Bruno come mago ermetico (le ombre delle idee, si è detto,
non sono altro che le «immagini magiche», «immagini archetipe»[88]). E questo non perché nel De Umbris non
siano presenti motivi di questo tipo [...]. Tutt'altro. Nei suoi punti
essenziali, l'ars memoriae è imperniata nell'idea secondo cui
nell'universo è presente e operante una trama fondamentale di cui vanno
individuati gli elementi principali, le modalità del loro intreccio, le loro
possibili combinazioni, al fine di acquisire un potere operativo in grado di
conoscere e trasformare la realtà. Sono appunto queste posizioni che si
esprimono nelle varie arti della memoria bruniane: sia la tesi del mondo come
unità vivente di piani strettamente connessi e correlati in un circuito di
comunicazione universale; sia la tesi di un'ispirazione pratico operativa
strutturalmente intrinseca al pensiero, sfociata, infine, nella elaborazione
delle opere magiche. Da questo punto di vista, tra mnemotecnica e magia c'è una
radice comune, costituita appunto dal tema della praxis. Ma constatare un nesso
non vuol dire giustificarlo. Nè si tratta, va ribadito, di un problema di
fonti. La messa a fuoco della tematica magica suppone due elementi, nel caso di
Bruno: la concezione della Vita-materia infinita elaborata compiutamente nel De
la Causa (non a caso nel De vinculis si farà riferimento sia all'una
che all'altro); la assunzione della "crisi" universale come tema
centrale di riflessione. E' dall'intreccio di questi due motivi che germinerà
nel periodo finale, la riflessione magica di Bruno. Ma in questa forma
specifica, essi sono entrambi estranei al De Umbris»[89]. Si tratta di affermazioni importanti, che
meritano una riflessione.
Dopo aver osservato opportunamente
che l'ars memoriae è imperniata sull'idea secondo cui nell'universo è
presente e operante una trama fondamentale, Ciliberto opera uno «strappo»
abbastanza netto, sostenendo che, in fondo, nel De umbris sarebbero del
tutto assenti due motivi fondamentali da cui germina in Bruno il pensiero
magico, ossia la concezione della Vita-materia infinita (elaborata nel De la
Causa) e la assunzione della «crisi universale» come tema centrale di
riflessione. Il De umbris non avrebbe insomma neppure i germi del futuro
pensiero magico. Non possiamo condividere queste affermazioni per due motivi.
Anzitutto il De umbris è apertamente presentato e strutturato come un
testo magico, ma non solo. In esso sono presenti sia il tema della «crisi
universale», sia quello della vita-materia infinita. Abbiamo già visto
come nel De umbris (settima intenzione) venga considerata da Bruno la
presenza di una scala naturae e quindi di un «ordine meraviglioso che,
instaurando una connessione degli elementi sommi con gl'infimi e degl'infimi
con i sommi, fa concorrere tutte le parti insieme a costituire il bellissimo
aspetto di un solo grande essere animato qual è il mondo»[90].
Mi riesce a questo punto difficile
capire come Ciliberto non abbia considerato il fatto che la concezione della
«vita-materia infinita» poggia proprio sull'idea di scala naturae, e
come sia intrinseca a questa. A parte il fatto che è chiaramente espressa la
dottrina della animazione universale del mondo, e che questo è più volte
considerato infinito, nel De umbris Bruno ha scritto anche che «non è
lecito pensare che questo mondo abbia più signori e di conseguenza abbia più
ordini tranne uno solo. E, conseguentemente, se uno solo è l'essere ordinato,
le sue parti sono unite e subordinate alcune a alcune parti, altre a altre,
sicché le parti superiori si collocano subito dopo l'essere più vero,
espandendosi in una mole estesa e in molteplice numero verso la materia»[91]. E' quindi chiaro come la teoria dei vincoli e
della scala naturae non possano essere considerate estranee alla
concezione della «vita-materia infinita» di cui parla lo stesso Ciliberto. Ma
facciamo un passo indietro.
A proposito dell'assunzione della
crisi universale come tema centrale di riflessione, è necessario ritornare alle
prime righe dell'opera. Qui Ermes (Ermete Trismegisto, come ho già precisato),
con grave tono pessimista, afferma la sua indecisione riguardo alla diffusione
del testo (magico): «sono incerto se (il De umbris idearum) debba essere
pubblicato oppure continuare a rimanere nelle stesse tenebre in cui un tempo è
stato nascosto»[92]. E, come ho già ricordato, continua: «la
provvidenza degli dèi (lo dissero i sacerdoti egiziani) non smette di mandare
agli uomini alcuni Mercuri in certi tempi stabiliti, benché sappiano in
anticipo che questi non saranno accolti per niente o saranno male accolti»[93]. La «crisi universale» è dunque così profonda e
grave, che Ermes stesso dubita: teme che gli uomini non accolgano il Mercurio
inviato dagli déi. Il testo intero, inoltre, parte proprio dalla consapevolezza
della crisi, della dimenticanza che ha portato l'uomo lontano dal magico
linguaggio ermetico. Il motivo della crisi universale accompagna dunque
quello della scala naturae: ecco quindi che ci troviamo di fronte --
stando alle considerazioni dello stesso Ciliberto - ad entrambi gli elementi
che presuppongono la messa a fuoco della tematica magica. Ma ancora: la magica
arte della memoria deve essere considerata assolutamente complementare alla
magia pratica, quella che sarà esposta nel De magia e nel De vinculis
in genere. E' chiaro che Bruno promuove una sola metodica per il
superamento della crisi: il ritorno ai magici geroglifici egiziani, al
linguaggio ermetico, di cui l'ars memoriae rappresenta la continuazione
nel presente. Ma anche la magia pratica acquista una nuova dimensione di
utilizzo: l'arte dei vincoli può servire non solo all'ascensus del
singolo ma anche ad una elevazione di tutta la società civile. Lo stesso
Michele Ciliberto ha osservato con lucidità: «Nel De vinculis, uno degli
ultimissimi scritti di Bruno [...], si ripresenta con la massima chiarezza,
un'accentuazione verso la materia di cose inferiori, verso l'universo, il tema
centrale dell'ontologia del De la Causa: la concezione della Vita-materia-infinita,
a conferma, se ce ne fosse bisogno, del fatto che questo è il nocciolo
speculativo di tutta la nova filosofia. Al di là delle continue,
straordinarie, variazioni, è l'ontologia del De la Causa che accomuna,
sul piano teorico, le varie fasi della ricerca del Nolano. Qui stanno anche le
radici delle opere magiche [...]. Intrecciandosi strutturalmente, come sempre,
all'analisi e alla interpretazione della crisi universale, rappresentano
[...] il più alto e più organico punto d'approdo dell'originaria ispirazione
pratica del pensiero di bruno, mostrando, al tempo stesso, la direzione
schiettamente operativa che, egli, allora, aveva in animo di prendere. In
secondo luogo, avviano la saldatura di due motivi della nova filosofia
che a lungo si erano affiancati [...]. Pongono, cioé, le basi di una
compenetrazione, attraverso la magia, della dimensione ontologica e della
dimensione etico-civile della filosofia bruniana, dischiudendole nuove,
eccezionali prospettive»[94].
CAPITOLO
III
«Chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa
gli minimi e massimi degli contrari e opposti. Profonda magia è saper trar il
contrario dopo aver trovato il punto d'unione»[95].
«Il sommo bene, il sommo appetibile, la somma perfezione, la somma
beatitudine consiste nell'unità che complica il tutto»[96].
Il De la Causa, non è
propriamente un testo magico. Ciò nonostante è possibile considerarlo come un
momento indispensabile per la successiva elaborazione delle teorie magiche.
Insieme al De umbris idearum, è infatti un vero e proprio testo
archetipo del magismo bruniano. Ma perché è tanto importante la credenza nella realtà
magica? La concezione bruniana della magia si basa su due concetti
fondamentali: 1) la scala naturae; 2) l'Anima mundi intesa come
principio vivificatore dell'Uno-Tutto infinito, fonte di una vera e propria
animazione universale. Terzo elemento, substratum ideologico, è la
profonda ammirazione per l'antica sapienza egizia, l'ermetismo.
Si tratta evidentemente di elementi
tutt'altro che estranei alla struttura metafisica, e quindi alla giustificazione
della teoria infinitista. In realtà l'ammirazione per l'antica sapienza dei
maghi egiziani era un sentimento assai diffuso tra i circoli culturali del
Rinascimento italiano, ma non solo. Lo splendido mosaico del Duomo di Siena,
ritraente Ermete Trismegisto, definito (e creduto) «contemporaneus Moysi», era
stato piazzato propio all'ingresso della cattedrale, e non a caso. Si trattava
di una credenza generalmente diffusa e condivisa, anche da una parte del clero
dotto. «Era su una base di eccellente autorità che il Rinasciemnto considerava
Ermete Trismegisto una persona realmente vissuta in tempi antichissimi e autore
di scritti ermetici, poiché tutto ciò era stato implicitamente creduto dai
principali Padri della Chiesa, in particolare da Lattanzio e Agostino»[97], aveva scritto la Yates; ed ha avuto ragione
nell'attribuire ad Ermete Trismegisto una notevolissima influenza sul pensiero
di Bruno, perché in effetti il Nolano accolse dai trattati ermetici,
erroneamente attribuiti a questo personaggio mitico, proprio la credenza dell'Anima
Mundi che vivifica e regola il Mondo dall'interno, e di tutta la struttura
metafisica ad essa correlata. E' quindi necessario ribadire l'importanza del pensiero
magico nell'analisi del concetto di infinito in Bruno.
Nel De la Causa Bruno espone
la sua concezione della realtà. Eliminata ogni trascendenza, Dio è concepito
come la natura stessa, intesa come infinita potenzialità ed infinita attualità.
Una sola è la divina sostanza che genera ogni elemento del reale, uno solo è lo
Spirito artefice, principio di ogni cosa. Nel De la Causa Bruno arriva
alla fondazione metafisica della realtà animata: la concezione preminente è
quella di un mondo animato dallo spirito di Dio, che si muove e respira
seguendo leggi magiche. Una concezione assolutamente corrispondente ai canoni
ermetici.
Anche Ernst Cassirer ha messo in rilievo
la centralità e la funzione dell'animazione universale, magica, nel discorso
sulle leggi che regolano l'universo: «il concetto moderno di causalità
matematica resta del tutto estraneo al Bruno. Per lui, tutta l'interazione fra
i singoli elementi dell'universo vien fatta conoscere dal predominio di un
principio spirituale comune di cui quelli partecipano egualmente. Il concetto
di anima del mondo è il necessario correlato dell'idea di collegamento causale»[98]. Nel De la Causa è possibile trovare
importanti riscontri alle affermazioni del Cassirer.
Nel Dialogo secondo, dove Bruno
giunge alla fondazione metafisica della realtà animata, dell'Uno-tutto vivente,
leggiamo infatti: «l'intelletto universale è l'intima, più reale e propria
facultà e parte potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo che empie
il tutto, illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue specie
come si conviene; e cossì ha rispetto alla produzione di cose naturali, come il
nostro intelletto alla congrua produzione di specie razionali. Questo è
chiamato dà Pitagorici motore ed esagitator de l'universo, come esplicò
il Poeta che disse totamque infusa per artus, Mens agitat molem et toto se corpore
miscet. Questo è nominato da' Platonici fabro del mondo. Questo
fabro, dicono, procede dal mondo superiore, il quale è a fatto uno, a questo
mondo sensibile, che è diviso on molti; ove non solamente la amicizia, ma anco
la discordia, per la distanza de le parti, vi regna. [...] E' detto da' Maghi fecondissimo
de semi o pur seminatore; perché lui è quello che impregna la
materia di tutte forme e, secondo la raggione e condizion di quelle, la viene a
figurare, formare, intessere con tanti ordini mirabili, li quali non possono
attribuirsi al caso [...]. Da noi si chiama artefice interno, perché forma la
materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed
esplica il stipe; da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate
brance; da dentro queste ispiega le gemme; da dentro forma, figura intesse,
come di nervi, le frondi, gli fiori, gli frutti»[99]. L'artefice interno, lo spirito che pervade la
realtà, provvede alla generazione costante di nuove forme, «opra continuamente
tutto in tutto»[100]. Il mondo è quindi in divenire perché la materia
è animata, viva. L'immobilità non è altro che sinonimo di morte. Siamo
all'interno di una visione magica della materia e quindi del mondo: il mondo si
muove perché in esso c'è uno spirito che lo anima. La struttura stessa della
materia, il cui minimo metafisico è costituito dalle monadi, ed il
concetto di scala naturae, sono da mettere in rapporto al pensiero
magico: è da questa relazione che prende corpo l'idea di un universo divino e
infinito. La magia in Bruno è religione, come è stato osservato. Ma la magia è
in Bruno anche metafisica, e per questo ha profonde relazioni con l'infinito.
Essa, come sistema di pensiero, coinvolge infatti sia il piano teleologico
che il piano eziologico. La magia è azione teurgica. Le opere che
seguiranno alla pubblicazione dei dialoghi metafisici vedranno tutte porsi in
primo piano l'elemento magico: ma non si tratterà di un cambiamento di
prospettiva rispetto all'esordio, né della conseguenza di un nuovo interesse
del Bruno. La magia è un tema centrale, a partire dal De umbris, e
rimarrà costante per tutta la discussione dell'infinito. Ma l'attenzione che
Bruno ha mostrato per la realtà magica non sarebbe comprensibile senza la
straordinaria rivalutazione della materia che viene compiuta, con coerenza, dal
De umbris al De la Causa.
Considerare la materia come animata,
divina ed infinita è stato, assieme alla conseguente distruzione dei limiti
dell'universo, il primo risultato teoretico conseguito nel De la Causa.
Il problema principale di tutta l'opera è infatti la fondazione metafisica e
della vita-materia infinita, problema che troverà la sua soluzione nella identificazione
di questi due elementi, vita e materia. Da qui il superamento delle
tradizionali distinzioni tra atto e potenza, forma e materia, corporeo e
incorporeo. Tutte queste determinazioni saranno congiunte nell'Uno-Tutto
vivente. L'universo verrà presentato come una unità vivente infinita, dotata di
un'anima o Intelletto superiore; il mondo è visto come un gigantesco animale,
che si muove nello spazio insieme agli altri esseri-mondi, infiniti, grazie
alla coordinazione impressagli dall'Intelletto superiore. Questa intelligenza,
superiore ed interna al tempo stesso, armonizza e regola la vita di tutta la
Natura: in questa Natura ogni singola porzione di materia è animata, viva; la
coordinazione dell'intelletto superiore viene inoltre dall'interno, perché Dio
è nel mondo: un «artefice interno», appunto. Riemerge l'immagine
dell'«ordine meraviglioso», della struttura metafisica delineata nel De
umbris, e con essa la scala di occulte simpatie, di vincoli i magici
che legano misteriosamente le monadi, i minimi centri metafisici che
costituiscono gli atomi della materia infinita. Riemerge allora ancora
una volta (si tratta d'altra parte di un tema costante) il problema della
conoscenza e delle possibilità umane in questo mondo. L'etica e la gnoseologia
si mescolano continuamente alla cosmologia e alla metafisica. Chi è alla
ricerca dell'essenza del mondo - Bruno lo lascia intendere - deve cercare
proprio ciò che non si può conoscere né direttamente, né pienamente, perché in
incessante divenire: l'anima del mondo, che si manifesta nelle forme
esteriori: «se dunque il spirito, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose
e, secondo certi gradi, empie tutta la materia, viene certamente ad essere il
vero atto e la vera forma de tutte le cose. L'anima, dunque, del mondo è il
principio formale constitutivo de l'universo e di ciò che in quello si
contiene. Dico che, se la vita si trova in tutte le cose, l'anima viene ad
esser forma di tutte le cose: quella per tutto è presidente alla materia e
signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consistenza de le parti.
E però la persistenza non meno par che si convenga a cotal forma che a la
materia. Questa intendo essere una di tutte le cose; la qual però, secondo la
diversità delle disposizioni della materia e secondo facultà de' principi
materiali attivi e passivi, viene a produr diverse figurazioni ed effettuar
diverse facultadi [....]»[101]. Si noti che l'anima universale è definita
«persistente», ossia eterna, non meno della materia universale. Siamo allora di
fronte alla identificazione compiuta della vita con la materia. Una la
forma dell'universo, infinite le forme particolari che in esso si vanno
delineando per opera dell'Intelletto. E' quindi in primo piano l'immagine di
uno spirito onnipervadente che regola la vita del mondo dall'interno, proprio
come indicano le suggestioni ermetiche.
L'azione dell'Anima mundi si
esplica attraverso due azioni fondamentali: una produzione infinita di forme e
la regolazione armonica del tutto. Ed è in questo ambito che deve essere
affrontata la problematica della morte: è infatti in relazione alla teoria
della animazione universale che Bruno affronta questo tema. La morte, intesa
come fine della vita, è una illusione «ottica» degli uomini. Ciò che muore è
l'accidente della materia, la forma esteriore. La sostanza, viva della vita di
Dio, non muore mai: essa è, come Dio, eterna e infinita, indissolubile
indivisibile e indistruttibile: «nessuna cosa si anichila e perde l'essere,
eccetto la forma accidentale esteriore e materiale»[102]. Certo, il continuo morire dei corpi particolari
potrebbe essere spiegato con l'ipotesi di una potenza che genera vita
all'infinito. In questo modo sarebbe possibile spiegare l'incessante divenire
di forme a cui è soggetto il mondo. Ma questa ipotesi ha come conseguenza
diretta l'estraneità sostanziale della divinità dal suo creato. Se invece Dio è
nel mondo, ecco spiegato come mai la sostanza non muore, ma si prodiga
continuamente in una infinita varietà di forme. Nell'Uno non c'è possibilità di
morte, la sostanza non può «annichilarsi».
E' necessario a questo punto
ribadire l'intreccio con l'ermetismo. Nel Corpus Hermeticum, tradotto da
Ficino, ad un certo punto la Mens, rivolgendosi ad Ermete, asserisce che
«Tutto è pieno di anima, e tutte le cose sono in movimento. Chi ha creato
queste cose? Il Dio-Uno, perché Dio è Uno. Tu vedi come il mondo è sempre uno,
il sole, uno; la luna, una; la divina attività, una; anche Dio è Uno. E poiché
tutto vive, e anche la vita è una, Dio certamente è Uno. E' per opera di Dio
che tutte le cose vengono in essere. La morte non è la distruzione degli
elementi collegati in un corpo, ma la rottura della loro unione. Il mutamento
si chiama morte perché il corpo si dissolve, ma io ti dichiaro, mio caro
Ermete, che così si dissolvono sono soltanto trasformati»[103]. Il passo viene poi ripetuto, ampliato, nel
dialogo successivo del Corpus Hermeticum, il XII: «L'intelletto, o Tat,
deriva dalla sostanza stessa di Dio [...]. Anche il mondo è un dio, immagine di
un dio più grande. Unito a questo, e osservante l'ordine e la volontà del
Padre, esso è la totalità della vita. Non c'è niente in esso, per tutta la
durata del ritorno ciclico voluto dal Padre, che non sia vivo. Il Padre ha
voluto che il mondo viva fin quando conservi la sua coesione: dunque, il mondo
è necessariamente dio. Come può essere, allora, che in ciò che è dio, che è
l'immagine del Tutto, ci siano cose morte? Infatti la morte è corruzione, la
corruzione è distruzione, ed è impossibile che alcunché di Dio possa essere
distrutto.
Ma non muoiono nel mondo gli esseri
viventi, o Padre, sebbene siano parte del mondo?
Taci, figlio mio, perché tu sei
indotto in errore dalla denominazione del fenomeno. Gli esseri viventi non
muoiono, ma, essendo corpi composti, si dissolvono; e questa non è morte, ma la
dissoluzione di un miscuglio. Se si dissolvono non è per andare incontro alla
distruzione ma a un rinnovamento. Che cos'è infatti l'energia della vita? Non è
movimento? E che cosa c'è nel mondo che sia immobile?
Niente.
Ma almeno la terra non sembra
immobile?
No. Al contrario, sola fra tutti gli
esseri essa è soggetta ad una moltitudine di movimenti, ed è insieme stabile. Sarebbe
assurdo supporre che questa nutrice di tutti gli esseri sia immobile, essa che
dà nascita a tutte le cose, perché senza movimento è impossibile generare.
Tutto ciò che è nel mondo, senza eccezione, si muove, e ciò che si muove è
anche vivo. Contempla dunque il bel sistema del mondo, e vedi che è vivo, che
tutta la materia è piena di vita.
Nella materia c'è dunque Dio, Padre?
E dove potrebbe essere posta la
materia, se esistesse al di fuori di Dio? [...] Le energie che operano in essa
sono parti di Dio. Sia che tu parli di materia, o di corpi, o di sostanza,
sappi che queste sono energie di Dio, di Dio che è il Tutto. Nel Tutto non c'è
niente che non sia Dio. Adora queste parole, figlio mio, e rendi ad essa culto»[104].
Questo lungo passo, tratto dalla
traduzione di Ficino del Corpus Hermeticum, contiene due elementi
fondamentali, che Bruno ha ricalcato punto per punto, e che ha mantenuto
inalterati anche nelle opere posteriori. Si tratta della discussione sul
problema della morte e della teoria dell'Unum vivente, della
attribuzione della materia anche a Dio, della identità ontologica tra Cielo e
Terra. La morte è impossibile perché la materia è viva della stessa vita di
Dio. Questa concezione riconduce immediatamente all'idea dell'Unum, e
così il circolo si chiude. Ecco dunque come il punto più alto della metafisica
di Bruno trova indiscutibili analogie con la tradizione Ermetica, più che con
il neoplatonismo. La vera realtà è quella del mondo materiale, vivo ed animato,
di cui l'uomo fa parte. Nello Spaccio de la bestia trionfante, Bruno
sosterrà che il timore della morte, che dalla nascita tiranneggia il spirito
degli animanti, è il veleno che rovina l'esistenza dell'uomo, togliendole
alla radice ogni serenità e piacere (e che potrà essere sradicato solo
mostrando la vera natura dell'anima): «conoscerne il carattere composto e
materiale, quindi perituro - ha osservato Alfonso Ingegno - era il solo mezzo
per ottenere questo scopo, dal momento che l'apparizione delle immagini dei
defunti faceva credere ad una immortalità delle nostre anime e quindi
all'esistenza di regni ultraterreni che fossero la loro dimora»[105]. In realtà, ancora una volta, Bruno si mostra
convinto che l'ignoranza sia la causa di tutti i mali: è infatti a causa di
questa che si è venuta radicando nell'uomo la credenza nell'Inferno e nel
Paradiso, regni immaginari che hanno realtà solo nella nostra mente e che fanno
sì che le pene dell'Ade e del Tartaro sussistano realmente ma solo quaggiù[106].
Ho sostenuto che l'operazione
fondamentale conseguita nel De la Causa è la fondazione metafisica della
«Vita-materia-infinita», per usare la felice espressione di Ciliberto. La Vita
materia infinita, Dio, risulta però assolutamente inconcepibile al di fuori del
tema della umbratilità dell'esistenza e della conoscenza umana.
Nel Dialogo secondo Bruno riprende
appunto l'esposizione della dottrina della conoscenza umbratile (già
messa a fuoco nel De umbris), strettamente legata - come ho precisato -
all'idea di una materia viva ed attualmente infinita che viene coordinata da
Dio in forme apparentemente mortali. Ma della divina sostanza, proprio a causa
della sua infinitudine e della sua divinità, non possiamo conoscere nulla, se
non «per modo di vestigio»: è quindi negata la visione «d'insieme», perché si
tratta - ovviamente - di un insieme infinito. L'interrogativo, come ha
acutamente spiegato Alessandro Delcò, è di ordine metafisico[107]: ogni cosa che non è primo principio, e prima
causa, ha principio et causa? Perché ogni cosa che non è il principio primo
e la causa prima deve avere per forza un principio e una causa? La risposta è
data sia dall'intelletto (per logica necessità tutto ciò che non è primo è
secondo rispetto al primo) che dalla disposizione de le cose naturali.
Il Mondo si presenta infatti ordinato secondo leggi specifiche. Ma senza la
successione ontologica non ci sarebbe neppure un ordine, e quindi il Mondo non
sarebbe. Chiarito poi come «causa» e «principio» non siano sinonimi,
Teofilo-Bruno spiega come devono essere intesi e distinti. Il principio concorre
intrinsecamente alla costituzione delle cose e rimane nell'effetto, mentre la
causa concorre esteriormente. In Dio, Intelletto artefice, che opera
continuamente tutto in tutto, causa e principio sono la stessa cosa: causa
intrinseca ed estrinseca in Lui coincidono. Alle insistenze del Dicson,
che vuole ulteriori specificazione prima delle cause e poi «circa gli
principii», Teofilo Bruno chiarisce definitivamente la sua dottrina. Il Dicson
ha interrogato Teofilo anzitutto sulla «causa efficiente prima»: si tratta di
ricercare quindi la causa del mondo. La risposta consiste nella esposizione
della teoria animistica: «dico l'efficiente fisico universale essere
l'intelletto universale, che è la prima e principal facultà de l'anima del
mondo, la quale è forma universale di quello»[108]. La teoria dell'animazione universale porta in
primo piano il problema dell'apparenza:
«Dicson. Volete voi che non
sia cosa che non abbia anima e che non abbia principio vitale?
Teofilo. Questo è quel ch'io voglio al fine.
Poliinnio. Dunque un corpo morto ha anima?
Teofilo. Sì, messer sì [...]»[109].
C'è qualche prova che tutte le cose
sono, se non animali, almeno animate? Riemerge a questo punto il legame tra
pensiero magico e teoria dell'animazione universale. Gli effetti della magia, i
«poteri magici» di elementi apparentemente inanimati, sono la dimostrazione
dell'onnipresenza dell'anima. La capacità che hanno certe gemme e lapilli di
alterare affetti e passioni dell'anima, non meno di alcune sterpi e radici,
dimostra che anche l'ingannevole inanimato è in realtà pervaso dalla
vita-universale: «[...] voglio supersedere circa la proprietà di molti lapilli
e gemme; le quali, rotte e recise e poste in pezzi disordinati, hanno certe
virtù di alterar il spirito ed ingenerar nuovi affetti e passioni ne l'anima,
non solo nel corpo. E sappiamo noi che tali effetti non procedono, né possono
provenire da qualità puramente materiale, ma necessariamente si riferiscono a
principio simbolico vitale ed animale; oltre che il medesimo veggiamo
sensibilmente ne' sterpi e radici smorte, che, purgando e congregando gli
umori, alterando gli spiriti, mostrano necessariamente effetti di vita. Lascio
che non senza caggione li Necromantici sperano effettuar molte cose per le ossa
de' morti; e credeno che quelle ritengano, se non quel medesimo, un tale però e
quale atto di vita, che gli viene a proposito a effetti estarordinarii»[110].
La citazione dimostra come siano
complementari i concetti di animazione universale della materia infinita
e azione magica. Ciò che non ha un'anima propria ha tuttavia un'anima,
perché anche in esso è presente l'anima universale. E' questa anima universale,
sostrato universale, che permette il fluire dell'azione magico-sentimentale:
«in universale le cose sono disposte in modo che stanno in rapporto reciproco,
in una sorta di coordinazione, per cui si realizza il passaggio da tutte a
tutte come per un continuo fluire»[111]. Inutile riportare a questo punto l'intero passo
del Corpus Hermeticum che indica queste tesi. Ci basti ricordare questo
passaggio: «Tutto discende dal cielo, dall'Uno che è il Tutto [...]. Dai corpi
celesti vengono diffusi per tutto il mondo continui effluvi, attraverso le
anime di tutte le specie e di tutti gli individui, da un estremo all'altro
della natura. La materia è stata predisposta da Dio come ricettacolo di tutte
le forme; e la natura, imprimendo le forme per mezzo dei quattro elementi,
prolunga fino al cielo la serie degli esseri»[112]. Si tratta, evidentemente, della riproposizione
dell'idea di scala naturae.
E' comunque nel Dialogo terzo che
viene compiutamente esposta la dottrina della materia viva e infinita. Si attua
qui il superamento della concezione democritea ed epicurea, e si giunge alla
individuazione di due principi: «avendo riguardo a più cose, troviamo che è
necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza, l'uno che è forma,
l'altro che è materia»[113]. Si riconosce quindi nel mondo la con-presenza di
due principi: forma e materia, di cui forma equivale al concetto di potenza
attiva (il fare), mentre materia equivale a potenza passiva (l'esser fatto).
Teofilo, messo alle strette dalle insistenze di Gervasio, chiarisce che cosa si
debba intendere per materia e per «materia nelle cose naturali»: la materia è
propriamente un principio sostanziale, ciò che rende possibile e sopravvive al
divenire delle forme: «nella natura, variandosi in infinito e succedendo l'una
all'altra le forme, è sempre una materia medesima»[114].
L'identificazione più netta della
materia si ha proprio sul piano del divenire, ossia della produzione delle
forme: «non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era
erba si fa spica, da che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue,
da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da
questo terra, da questa pietra o altra cosa, e cossì oltre, per venire a tutte
forme naturali? [...] Bisogna dunque che sia una medesima cosa che da sé non è
pietra, non terra, non cadavero, non uomo, non embrione, non sangue o altro; ma
che, dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo l'essere embrione; dopo che
si fa embrione, riceva l'essere uomo, facendosi omo: come quella formata dalla
natura, che è soggetto de la arte, da quel che era arbore, è tavola e riceve
l'esser tavola; da quel che era tavola, riceve l'esser porta ed è porta»[115]. Riemerge così il tema del divenire infinito, e
riemerge anche la figura dell'artefice interno, che regola la produzione
delle «cose naturali» secondo le regole - magiche - dell'intelletto universale.
Ci sono infatti tre principi, a livello di produzione e coordinazione delle
«cose naturali»: l'intelletto, datore delle forme, l'anima, fonte delle forme,
la materia, ricetto delle forme. La distinzione bruniana tra Dio e mondo si
attua proprio in virtù di questa dualità di livello, ed è comprensibile in
virtù della duplice valenza della materia, intesa come attiva o come passiva.
L'infinità di Dio è sempre superiore all'infinità alle forme prese
concretamente dalla materia. Non che la materia non sia infinita, ma per il
fatto che essa «riceve» le forme dall'intelletto superiore, e non le possiede
dunque tutte in sé, si deve concludere che la sua infinità è diversa
dall'infinità di Dio.
Si tratta in sostanza un discorso
equivalente e simmetrico alla analoga distinzione tra la potenza attiva
(propria dell'intelletto) e passiva (della materia). La materia infatti, come
principio, può essere considerata in due modi, come soggetto e come potenza. La
potenza, che corrisponde in sostanza al concetto di possibilità, può essere
intesa sia come potenza attiva che passiva. Questo al livello
dell'intellegibile, perché «di fatto», nella natura sono la medesima cosa. Atto
e potenza, in Dio, coincidono assolutamente. Nelle «cose naturali», esplicate,
nessuna è attualmente tutto ciò che può essere, ma solo potenzialmente. Si
attua così la migliore definizione dell'Uno: ciò che è tutto ciò che può
essere è Uno, e nella sua esistenza comprende quindi ogni essere particulare.
Potenza e atto sono quindi Uno nel primo principio e molti nelle
cose particolari. E' la teorizzazione della complicatio ed explicatio:
dall'Uno al molteplice. Il passaggio dall'Unum al molteplice non
comporta però una degradazione o dell'essere, ma casomai una sua
moltiplicazione infinita. Da notare che per Bruno la materia è già tutta
presente nell'Universo, ed è viva in modo quasi personale. L'inganno di
una produzione delle cose è dato dal mutamento delle forme, che si avvicendano
nello spazio-tempo infinito.
Concettualmente, si devono tener ben
distinti l'universo dal suo primo principio: nell'universo atto e potenza
coincidono, ma non assolutamente, come nel primo principio. Se è possibile
operare una distinzione - a livello epistemologico - tra Dio inteso come implicatio
e Dio come explicatio e se questa è il Mondo, oggetto della conoscenza
naturale, mentre la prima è la Divinità, oggetto della contemplazione superiore
e dell'ascesi mistico-estatica, se si vengono quindi a distinguere due piani
del conoscere, questo rientra perfettamente nell'area della filosofia binaria.
Nel primo principio ciò che nell'universo è infatti esplicato, è unità: «ogni
potenza dunque ed atto che nel principio è come complicato, unito ed uno, nelle
altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato. Lo universo che è il grande
simulacro, la grande imagine e l'unigenita natura, specie e membri principali e
continenza di tutta la materia, alla quale non si aggionge e dalla quale non si
manca, di tutta ed unica forma; ma non già è tutto quel che può essere per le
medesime differenze, modi, proprietà ed individui. Però non è altro che
un'ombra del primo atto e prima potenza, e per tanto in esso la potenza e
l'atto non è assolutamente la medesima cosa, perché nessuna parte sua è tutto
quello che può essere»[116].
La differenza tra Dio e l'universo
si può riscontrare anche a livello di imperfezione. Teofilo-Bruno sottolinea
infatti come la morte, «la corrozione i difetti e i mostri» siano presenti solo
nella natura esplicata, nel «simulacro», dove la potenzialità non è tutta
assolutamente in atto, dove la materia cerca ancora la sua esplicazione più
perfetta: «queste cose non sono atto e potenza, ma sono difetto e impotenza,
che si trovano nelle cose esplicate, perché non sono tutto quel che possono
essere, e si forzano a quello che possono essere»[117]. Quando mai l'universo sarà assolutamente
coincidenza di atto e potenza? Nel ripetersi ciclico - infinito - della
vicissitudine universale. Per ora, l'universo rimane immagine, umbra, ma
a livello epistemologico, non ontologico. Riemerge allora il tema del De
umbris, il problema della conoscenza. L'universo, pur considerato come un
animale assolutamente perfetto, è solo umbra di Dio. E' ombra, infinita,
di un Essere infinito. Solo in Dio, principio dell'universo, non si ritrovano
estensione, tempo: «il principio suo [dell'universo] è unitamente ed
indifferentemente; perché tutto è tutto ed il medesimo semplicissimamente,
senza differenza e distinzione»[118].
Dio comprende, in un atto solo,
tutto quello che nell'universo è esplicato, diviso, nell'infinita estensione
dello spazio e del tempo. Per questo Dio rimane assolutamente inconoscibile, ed
oggetto di ascesi mistica. Si viene così ad una discussione centrale per
la definizione della infinitezza di Dio e quella dell'Universo: «Or tornando al
proposito, il primo principio assoluto è grandezza, è magnitudine; ed è tal
magnitudine e grandezza, che è tutto quel che può essere. Non è grande di tal
grandezza che possa esser maggiore, né che possa esser minore, né che possa
dividersi, come ogni altra grandezza che non è tutto quel che può essere; però
è grandezza massima, minima, infinita, impartibile e d'ogni misura. Non è
maggiore, per essere minima; non è minima, per esser quella medesima massima; è
oltre ogni equalità, poiché è tutto quel che ella possa essere. Questo, che
dico della grandezza, intendi di tutto quel che si può dire: perché è
similmente bontà che è ogni bontà che possa essere; è bellezza che è tutto il
bello che può essere; e non è altro bello che sia tutto quello che può essere,
se non questo uno. Uno è quello che è tutto e può essere assolutamente»[119]. Il primo principio dunque - Dio - è grandezza,
ma non tale che possa essere contata, misurata, paragonata: per questo essa è
il massimo e il minimo, nello stesso momento. Coincidentia oppositorum?
In parte. Forse semplice conseguenza della magica filosofia binaria, di
cui parlerò più avanti. Per ora toniamo al De la Causa. Subito dopo, e
dubito si tratti di una identificazione solo metaforica, Bruno passa a
spiegare come sia possibile pensare l'Assoluto che nello stesso tempo è atto e
potenza. L'esempio è dato dalla identità del Sole e di Dio (identità
ovviamente non assoluta ed esclusiva: Dio è il Sole, la Terra, la Luna e così
via, all'infinito): «or se vogliamo mostrare il modo con il quale Dio è il
Sole, diremo (perché è tutto quel che può essere) che è insieme oriente,
occidente, meridiano, merinoziale e di qualsivoglia di tutti i punti de la
convessitudine della Terra; onde, se questo Sole o per sua revoluzione o per
quella della Terra) vogliamo intendere che si muova e muta loco, perché non è
attualmente in un punto senza potenza di essere tutti gli altri, e però ave
attitudine a esservi; se dunque è tutto quel che può essere, e possiede tutto
quello che è atto a possedere, sarà insieme per tutto e in tutto [...]»[120]. Bruno ha appena sostenuto che, essendo tutta
quella che può essere, la grandezza divina non ha alcun termine di paragone. Si
tratta allora di un infinito diverso da quello del mondo, in cui per la
verità ci sono parti misurabili. La grandezza divina, ci pare di capire,
viene qui intesa come l'unità di misura, minima e massima per il
fatto di comprendere in se stessa l'infinitamente piccolo e l'infinitamente
grande. Dio sembra essere quasi il confine (metafisico e gnoseologico)
dell'universo. Là dove l'umbra decreta l'insondabilità da parte
dell'uomo, comincia Dio; là dove la materia si fa così semplice da
ridursi a monade (minimo metafisico), o atomo (minimo fisico), oppure là dove
la vita si moltiplica fino a farsi infintia, si trovano i confini minimi
e massimi del reale.
Bruno sostiene infatti che la
grandezza divina «non è maggiore, per esser minima; non è minima, per esser
quella medesima massima; è oltre ogni equalità, perché è tutto quel che ella
possa essere»[121]. Alla infinità dell'universo viene quindi
paragonata l'infinità del primo principio, di Dio. Da questo paragone
scaturiscono le differenze essenziali, a livello teoretico ma anche sul campo
della reale infinità. L'infinità di Dio, essendo assoluta, non può manifestarsi
in se stesso con la materia, che per quanto infinita nello spazio e nel tempo è
sempre rappresentabile solo mediante determinazioni particolari. L'universo è a
sua volta umbra, simulacro, specchio dell'essenza divina. In questo modo
Bruno voleva salvare una trascendenza puramente concettuale, perché, anche se a
livello intellegibile si possono fare differenze tra Dio e l'Universo, a
livello dell'esperienza reale, naturale, Dio è nell'universo, nel mondo. Dal
punto di vista dell'esperienza della filosofia della natura la trascendenza
perde il suo carattere di realtà oggettiva e sfuma nel mondo delle idee.
L'infinità coinvolge chiaramente
tutte le determinazioni qualitative: grandezza, bellezza e così via. Sembra in
qualche modo un passo indietro rispetto alle precedenti affermazioni: prima
infatti Bruno aveva mostrato la coincidenza di atto e potenza nella materia,
poi però spiega che questa coincidenza è limitata e diversa, radicalmente
diversa da quella di Dio. La coincidenza di atto e potenza, a livello della
materia, significa essere tutto quello che può essere, immediatamente. Bruno
vede benissimo che nelle cose naturali questo non è possibile e che
ciascuna cosa, presa in se stessa, di fatto non è simultaneamente tutto ciò
che può essere, ma delle infinite possibilità, assume una forma sola. La
coincidenza di atto e potenza viene allora salvata mediante l'idea della vicissitudine
universale: il passare della materia da una forma ad un'altra, all'infinito,
corrisponde al momento della coincidenza di atto e potenza. A livello
epistemologico si attua quindi una distinzione complementare a quella esistente
tra Dio e l'Universo: per l'uomo è impossibile conoscere la divina sostanza,
mentre invece rimane la possibilità di un certo progresso (infinito) in ambito
naturale. E' possibile insomma conoscere tutto ciò che non vede una coincidenza
assoluta tra atto e potenza: tutto, tranne l'infinito in atto. E' da qui che
germina l'idea di teologia negativa, di fatto smentita da una serie di
determinazioni dell'Unum che vanno ben al di là di semplici negazioni, e
che devono essere d'altra parte connesse alla rivelazione ermetica.
A livello razionale è possibile, e
lo abbiamo visto, indagare sulle leggi della natura, cioé su come funziona il
mondo. Ma alla natura di Dio è possibile avvicinarsi solo con una sorta di
teologia negativa tutta «naturale»: «questo atto absolutissimo, che è medesimo
che l'absolutissima potenza, non può esser compreso da l'intelletto se non per
modo di negazione: non può, dico, esser capito né in quanto può esser tutto, né
in quanto è tutto. Perché l'intelletto, quando vuole intendere, gli fia
mestiero di formar la specie intellegibile, di assomigliarsi, conmesurarsi ed
eguagliarsi a quella; ma questo è impossibile, perché l'intelletto mai è tanto
che non possa essere maggiore; e quello per essere inmenso da tutti lati e modi
non può esser più grande. Non è dunque l'occhio ch'approssimar si possa o
ch'abbia accesso a tanto altissima luce e sì profondissimo abisso»[122]. L'intelletto umano, quindi, è solo una parte
del Tutto, e come tale non può comprendere l'infinito. Non si tratta però
di una ri-edizione della dotta ignoranza, né di una negazione definitiva
delle capacità umane. Là dove Bruno afferma e definisce il limite, subito si
apre la strada al progresso umano, infinito. Si tratta chiaramente di due
infiniti diversi. L'infinito progresso umano non raggiungerà mai l'infinita
grandezza del Tutto, ma, di fatto, entrambi non hanno limiti. Il soggetto
dell'ombra sfugge continuamente alla ricerca. Ma la ricerca continua. Quando
l'attività umana gli si avvicina, il Soggetto si sposta di un poco e rimane
nell'ombra. Di fatto questo non impedisce l'idea del progresso, coerente con la
divinizzazione della natura umana: «[questo absolutissimo] non può, dico, esser
capito né in quanto può esser tutto né in quanto è tutto»[123]. Da parte sua, l'intelletto «mai è tanto che non
possa esser maggiore»[124]. La differenza che emerge sembra essere la stessa
che c'è tra infinito potenziale ed attuale, solo che in questo caso
l'intelletto umano non è mai infinito, ma sempre finito e perfettibile: Dio
invece è attualmente infinito.
Una analoga differenza emerge a
livello del rapporto Dio-Natura. Mentre Dio è attualmente infinito, non è
perfettibile perché è già perfetto in se stesso, la natura, l'esplicatio,
è perfettibile: la materia è sempre alla ricerca di nuove forme, si sviluppa
continuamente nella vicissitudine universale.
E' sempre in questo fondamentale
terzo Dialogo che Bruno attribuisce apertamente la materia anche a Dio:
«conchiudendo, dunque, vedete quanta sia l'eccellenza della potenza, la quale,
se vi piace chiamarla raggione di materia, che non hanno penetrato i filosofi
volgari, la possete, senza detraere alla divinità, trattar più altamente che
Platone nella sua politica ed il Timeo. Costoro, per averno troppo alzata la
raggione della materia, son stati scandalosi ad alcuni teologi. Questo è
accaduto o perché non si sono bene dechiarati, o perché questi non hanno bene
inteso, perché sempre prendono il significato della materia secondo che è
soggetto di cose naturali, solamente come nodriti nelle sentenze d'Aristotele,
e non considerano che la materia è tale appresso agli altri, che è comune al
mondo intellegiile e sensibile, come essi dicono, prendendo il significato
secondo una equivocazione analoga»[125]. Materia è quindi - a livello concettuale -
equivalente a potenza. La materia intesa in questo modo può e deve essere
quindi attribuita anche a Dio: la potenza è infatti il correlativo dell'atto.
Emerge poi prepotentemente la critica alla filosofia tradizionale e ai suoi
seguaci, «filosofi volgari»: nella loro trattazione della materia sono andati
soggetti alla «equivocazione». La materia è potenza, ed è quindi anche in Dio.
I teologi che si sono scandalizzati
per l'attribuzione della materia anche a Dio sono stati acritici seguaci della
filosofia aristotelica: materia non è solo sostrato passivo della natura, ma
principio della potenzialità, ovviamente, infinita. L'idea che Bruno va
proponendo è quella dell'animazione universale mai sciolta - absoluta -
dalla materia. La coincidenza di atto e potenza si attua in modo diverso,
secondo la proporzione dovuta, a seconda che si tratti di Dio o dell'universo.
Non è però possibile sostenere che Bruno abbia fondato la sua filosofia sullo
studio della natura, perché è proprio dal soprannaturale che ha preso le mosse
per identificare la struttura della natura. Ecco perché concordiamo con
Ciliberto quando parla di identificazione tra metafisica e cosmologia[126]. In realtà con il De la Causa Bruno prima
ha fatto teologia, e poi filosofia naturale. Non si possono accettare quindi le
posizioni di Spruit, secondo il quale Bruno va interpretato secondo quadri
concettuali che gli sono propri e che rimangono sostanzialmente estranei alla
corrente ermetica. E' vero precisamente il contrario: Bruno va interpretato
secondo l'ermetismo e la sua filosofia naturale prende significato da esso.
Ricordo ancora una volta che per il Nolano l'ermetismo è la vera religione.
Il Dialogo quarto vede snodarsi il
rapporto tra filosofia e teologia. L'inizio è dato dalla discussione della
concezione plotiniana della materia, intesa come prope nihil. Ormai Teofilo-Bruno
ha definito l'universo come infinito effetto della causa infinita. Dopo questa
definizione, la materia non sarà più concepibile come un prope nihil, e
così viene a cadere anche la distinzione tra materia intellegibile e corporea.
Viene quindi chiarito il fine della
filosofia:
«Teofilo. [possete quindi]
montar al concetto, non dico del summo ed ottimo principio, escluso dalla
nostra considerazione, ma de l'anima del mondo, come è atto di tutto e potenza
di tutto, ed è tutta in tutto: onde al fine, dato che sieno innumeraili
individui, ogni cosa è uno, ed il conoscere questa unità è il scopo e termine
di tutte le filosofie e contemplazioni naturali; lasciando ne' suoi termini la
più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale a chi non crede
è impossibile e nulla»[127]. E Dicson ribatte: «E' vero; perché se vi monta
per lume sopranaturale, non naturale.
Teofilo. Questo non hanno quelli che stimano ogni cosa
esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto, come li astri e le cose
astrali; e non cercano la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose,
ma dentro quello ed in quelle.
Dicson. In questo solo mi par differente il fidele
teologo dal vero filosofo»[128]. Il passo riportato per esteso, dopo aver
delimitato le possibilità della ricerca «naturale», ed aver precisato che all'unità
infinita si arriva solo mediante l'ascesi, fissa in un unico momento la
distinzione tra filosofia e teologia. Importante è dare rilievo alla funzione
del «lume sopranaturale», che rischiara l'ascesi, e che è negato a
coloro che «cercano la divinità fuor de l'infinito mondo». Al concetto di
infinità è dunque strettamente legato il concetto di lume sopranaturale,
legato al tema dell'ascesi. L'ascesi è una strada aperta al
filosofo naturale, che muove dall'osservazione della natura, per contemplare in
essa la infinita potenza di Dio.
La celebrazione dell'universo
infinito si chiude nel De la Causa con il Dialogo Quinto, dove
Teofilo-Bruno dichiara la infinità attuale della Unità divina:
«Teofilo. E' dunque l'universo
uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l'atto, una
la forma o anima, uno il massimo ed ottimo, il quale non deve posser esser
compreso; è però infinibile ed interminabile, e per tanto infinito ed
interminato, e per conseguenza immobile»[129]. La questione dell'infinità dell'universo non
rimane più nella indeterminatezza cusaniana, ma si risolve, positivamente,
nell'affermazione della sia infinità attuale. Dalle determinazioni metafisiche
di Dio Bruno passa, per analogia, alle determinazioni dell'Unum fisico:
«non si genera, perché non è altro essere che lui possa desiderare o aspettare,
atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in
cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso
che è infinito [...]»[130].
La coincidentia oppositorum,
di matrice cusaniana, trova finalmente la sua ragione nella infinità
dell'universo. Nell'unico universo infinito i contrari vengono compresi in una
sola unità, senza quella contraddizione che, nel mondo visto come particolare,
era solo relativa. Nell'Uno vengono a cadere tutte quelle determinazioni che
riguardavano le cose particolari: «non è materia, perché non è figurato né
figurabile, non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non informa né
figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo»[131].
Lo stesso discorso vale per il
concetto di misura: «non è misurabile né misura. Non si comprende, perché non è
maggior di sé. Non si è compreso, perché non è minor di sé»[132]. Il concetto di infinito manda all'aria tutte le
determinazioni del mondo: «ne l'universo medesima cosa è larghezza, lunghezza,
profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite. Se non hanno
mezzo, quadrante, ed altre misure, se non vi è misura, non vi è parte
proporzionale, né assolutamente parte che differisca dal tutto. Perché se vuoi
dir parte de l'infinito bisogna dirla infinito; se è infinito, concorre in uno
essere con il tutto: dunque l'universo è uno, infinito, impartibile. E se ne
l'infinito non si trova differenza, come di tutto e parte e come di altro e
altro, certo l'infinito è uno»[133]. L'idea dell'unità porta quindi con sé l'idea
dell'infinità del Tutto e viceversa. Dell'infinito non potrebbero darsi parti
se non infinite, il che, per Bruno, è assurdo. Le geniali intuizioni di Cantor
verranno solo verso la fine del XIX secolo.
In ogni caso quella di Bruno è
l'esposizione chiara e precisa della infinità «attuale» dell'universo. Non
poteva certo Bruno formulare una teoria precisa sull'infinito matematico, in
cui, come ha dimostrato Cantor, è possibile concepire diversi tipi di infiniti,
e dominarli con sistemi insiemistici. In questo senso la sua posizione è precisa:
«sotto la comprensione de l'infinito non è parte maggiore e parte minore;
perché alla proporzione de l'infinito non si accosta più una parte quanto si
voglia maggiore che un'altra quanto si voglia minore»[134]. Per Bruno l'infinito è uno e non ha parti. In
ogni caso si deve mettere in rilievo come di fatto Bruno abbia seguito lo
stesso ragionamento cantoriano secondo cui «l'infinito potenziale ha solo una
realtà presa a prestito, dato che un concreto di infinito potenziale rimanda
sempre a un concetto i infinito attuale che lo precede logicamente e ne
garantisce l'esistenza»[135]. Il processo logico che ha portato alla
affermazione dell'esistenza di un infinito attuale sembra identico. Come
l'infinito potenziale rimanda ad una realtà precedente che ne fonda la possibilità
(è quindi un infinito che vive per analogia), così l'universo, fondandosi su
una realtà infinita attualmente, ed essendo analogo ad essa, non può che essere
infinito. Da qui forse la consapevolezza di Bruno che infinità dell'Universo e
infinità di Dio sono diverse. Era noto infatti il paradosso medioevale secondo
il quale esistono in matematica due infiniti uguali ma differenti allo stesso
tempo: si tratta di un famoso paradosso, che col tempo, a causa della curiosa
soluzione che ne diede, venne chiamato «paradosso di Galileo».
Il paradosso di Galileo consiste nel
fatto che «da un lato l'insieme dei quadrati perfetti è più piccolo
dell'insieme dei numeri naturali, dato che non tutti i numeri naturali sono
quadrati perfetti, dall'altro sembra che ci siano tanti quadrati perfetti
quanti numeri naturali, dato che ogni numero naturale è la radice quadrata di
un unico quadrato perfetto»[136]. Si tratta di un paradosso analogo ad un altro,
assai famoso, del periodo medievale. Questo doveva aver fatto impazzire diversi
monaci, e risultava di difficile soluzione: il paradosso è dato dal fatto che
una circonferenza è composta da infiniti punti. Ma «poiché la circonferenza di
un cerchio di raggio due è lunga il doppio di quella di raggio uno, la prima
dovrebbe comprendere una infinità di punti più grande della seconda»[137]. Bruno doveva essere consapevole delle difficoltà
in cui si erano imbattuti i medievali trattando l'infinito. E il passo che lo
porta a sostenere l'infinità attuale dell'universo è senza dubbio quello
dell'analogia: così come Dio è infinito, l'universo è infinito. Ma mentre per
S.Tommaso in questo c'era contraddizione, perché Dio è cristianamente sentito
come Assoluto, sciolto dal mondo creato, per Bruno invece, trattandosi di due
realtà da intendersi secondo la sua teoria monistica, si trattava solo di
eliminare le barriere del mondo, l'ultima sphaera mundi. L'eliminazione
dei muri celesti è conseguita, è bene sottolinearlo, non con passaggi
matematici o fisici, ma per «intuizione».
L'intuizione porta infatti
all'analogia, mentre la scienza fisico-matematica serve solo per una conferma
ulteriore. Siamo sempre all'interno della trattazione dell'infinito spaziale,
quello dell'universo. Ma, chiaramente, la definizione dell'infinità
dell'universo coinvolge anche l'infinito temporale, riallacciandosi alla teoria
della metempsicosi. Così è confermata l'idea che il tempo si ripete
ciclicamente, all'infinito e da sempre: la Verità stessa è data all'uomo
mediante la rivelazione in tempi stabiliti, ciclici. Ovviamente, viene così
sradicata alla base la dottrina della creazione dal nulla, propria del
Cristianesimo.
L'infinitamente grande corrisponde
all'infinitamente piccolo: Dio è la monade. La celebrazione dell'Uno porta la
soluzione degli estremi, dei contrasti, in un solo essere: il principio vitale
dell'universo. Notevoli analogie con questi passi si possono rilevare nel De
monade, dove Bruno asserisce che «Uno è lo spazio, una la Grandezza, uno il
Fondamento, con potenzialità e possibilità infinita, esso stesso infinito.
[...] Una è la Mente, dovunque tutta, che misura tutte le cose, uno è
l'intelletto che ordina tutto, uno è l'amore che tutto concilia con tutto.
[...] Uno è l'infinito che tutto delimita. [...] Uno è l'universo infinito che
tutto abbraccia [...]. Una è l'intenzione che dispone tutte le cose. Uno è il
fine a cui tutte le cose aspirano ed uno è il mezzo con cui tutte le cose lo
conseguono. Uno è il Motore che garantisce l'universale vicissitudine. Uno è
l'Atto che ogni cosa compie, una è l'Anima che tutto vivifica. Uno è il Nome
che ha in sé tutti i significati, una è la Ragione che media ogni cosa [...].
Uno è il Microcosmo, unico è il cuore da cui gli spiriti vitali si diffondono
per tutto quanto l'animale, in cui è infisso e radicato l'albero universale
della vita e ad esso gli stessi spiriti vitali rifluiscono per conservarsi»[138].
La teoria infinitista bruniana
poggia quindi su di uno slancio mistico verso l'Unità divina, ed in esso
trova il suo significato. Siamo evidentemente all'interno di una concezione
«analogica», che non si preoccupa di definire né di approfondire le
problematiche delle proprietà dell'infinito. L'infinità è, assieme alla
assoluta unità, la prima caratteristica di Dio: è quindi impossibile cercare
una qualsiasi definizione di proprietà in senso positivo. La teologia può solo
essere negativa. Il campo d'indagine dell'infinito, a livello metafisico,
esclude la conoscenza umana: l'infinito corrisponde, a livello metafisico,
all'assoluto, e come tale è umbra. Le cose cambiano se si passa alla
cosmologia, alla fisica. Certo, il mondo è sempre umbra, ma la sua
infinità non corrisponde, lo abbiamo già visto, alla infinità di Dio. La
infinità del mondo è quindi soggetta a regole comprensibili: qui entra in gioco
il carattere pragmatico e conoscitivo della magia.
L'omogeneità fisica e metafisica
dell'universo infinito garantiscono ovviamente una immediata relazione
dell'uomo con la Totalità, con l'Unum. Si tratta evidentemente di una
relazione non conoscitiva, ma definibile in termini di partecipazione passiva.
L'attività di tale partecipazione è condizionata alla conoscenza delle regole
magiche di connessione delle cose: il controllo sui vincoli permette l'ascensus
della scala mediante il superamento dei gradi gerarchici degli enti. Si
tratta ovviamente di una gerarchia che riflette l'ordine impresso
dall'Intelletto per garantire il corretto funzionamento della macchina del
mondo: non si tratta mai di una gerarchia che è anche separazione dell'umano
dal divino.
Come ha acutamente osservato Fulvio
Papi: «La conoscenza magica si sostituisce alla rassicurazione che deriva dalla
fede religiosa dell'essere creatura privilegiata di Dio»[139]. La dottrina magico-infinitista è evidentemente
legata alla volontà di esaltare la dignità umana. Vivere in un mondo
illimitato, infinito, non più centro dell'universo (e quindi luogo più lontano
dalla bontà divina, posizione diabolocentrica, come l'ha definita Lovejoy),
cambia radicalmente la posizione dell'uomo di fronte a Dio e di fronte a se
stesso. La teoria infinitista è insomma strettamente legata al tema dell'ascesi
dell'uomo, e quindi alla magia. Non a caso, nel De immenso Bruno, per
definire l'uomo che si innalza all'infinito, cita esplicitamente Ermete
Trismegisto «allora l'uomo da Trismegisto sarà definito un grande miracolo,
l'uomo che si trasforma in dio, quasi che fosse egli stesso dio, che tenta di
divenire tutto, come dio è tutto; si rivolge all'oggetto senza limite (che talvolta
tuttavia necessita di un limite), come infinito è dio, immenso dovunque tutto»[140].
L'ascesi per gradi si
realizza anzitutto mediante l'imitatio naturae. Questa è un'azione
pratica e conoscitiva al tempo stesso, perché per imitare la natura occorre
conoscere i vincoli che operano in essa e la scala naturae da essi costituita.
La realizzazione più completa dell'imitatio si trova nella filosofia naturale,
che per bruno corrisponde alla magia, alla sapienza antica. Nel De magia
Bruno spiegava infatti che «mago va inteso in primo luogo come sapiente: tali
erano i Trismegisti in Egitto, i Druidi presso i Galli, i Gimnosofisti in
India, i Cabalisti presso gli Ebrei, i Maghi in Persia [...]»[141]. A livello metafisico l'infinito corrisponde
all'Assoluto, a Dio. Come tale non è conoscibile. A livello mundano,
cosmologico e fisico, l'infinito corrisponde all'estensione del mondo, alla sua
infinita variazione di forme, alle sue leggi, al minimo e al massimo fisico
(Monade e Unità Assoluta), e quindi al concetto di scala naturae.
L'infinità del Mondo è umbra dell'infinità di Dio.
A livello gnoseologico l'idea
dell'infinito è relata alla conoscenza dell'oggetto. Essendo l'oggetto
infinito, la conoscenza naturale è infinita, ma è presente l'idea di una
«illuminazione», frutto dell'ascesi. L'imitatio naturae è un
progresso infinito, ma l'azione del mago prevede il raggiungimento dell'ascesi
e quindi del contatto, anche se momentaneo con la divinità. Questo contatto conferisce
al mago conoscenza e quindi straordinari poteri: si tratta dell'elevazione più
completa della sua dignità. L'uomo-mago (che non è l'uomo qualunque) parla la
lingua degli déi, l'antica lingua egizia. In questo modo sa usare simboli e
numeri che corrispondono alle cose e agli esseri, è padrone del mondo.
L'infinito coinvolge quindi anche la dimensione etica. Se dal macrocosmo ci
spostiamo al microcosmo vediamo che con la predominanza del concetto di
infinito cambia la posizione dell'uomo nel mondo dell'uomo verso il mondo. Il
soggetto umano è lo specchio dell'universo, ricostruito mediante l'idea analoga
della scala naturae.
Nella Lampas triginta statuarum
si incontra infatti una «scala di Minerva» che organizza percezione, conoscenza
e saggezza, secondo un preciso ordine che prevede alla sommità (trentesimo
grado) la «Sapienza». La «Sofia» corrisponde alla unità, sostanziale,
dell'universo: «ogni produzione, di qualsivoglia sorte che la sia, è una
alterazione, rimanendo la sustanza sempre la medesima; perché non è che una,
uno ente divino, immortale. Questo lo ha possuto intender Pitagora che non teme
la morte, ma aspetta la mutazione. [...] Questo lo ha inteso Salomone che dice non
esser cosa nova sotto il sole; ma quel che è, già fu prima. Avete dunque
come tutte le cose sono ne l'universo, e l'universo è in tutte le cose; noi in
quello, quello in noi: e cossì tutto concorre in perfetta unità. [...] Quelli
filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovata questa
unità. Medesima cosa a fatto è la Sofia, la verità, la unità»[142]. La filosofia è quindi contemplazione estatica
del Tutto e della sua unità divina. La filosofia naturale diventa misticismo.
Si noti che il tema dell'unità con
il divino è fondamentale anche nella discussione dell'ordinamento civile:
questo deve essere costituito in base al rapporto con la divinità che si
comunica direttamente all'uomo per mezzo della Natura. A questo proposito
Alfonso Ingegno ha rilevato opportunamente che la saldatura tra momento
propriamente civile e momento religioso si realizza «sul piano del culto. In
effetti se l'antica religione conteneva anche un rapporto 'vero' [...], con il
divino, non potrà non presentare questo rapporto secondo uno stretto parallelismo
con ciò che Bruno ha affermato della vita civile e della sua dipendenza in
maniera corretta dalla divinità. Quest'ultima, nella sua accezione suprema, non
provvede all'uomo solo attraverso leggi e statuti ma partecipando se stessa
alla natura, digradando ancora una volta dalla sua unità inaccessibile a forme
che possano essere colte dall'uomo e volte non diversamente che nel caso della
vita civile, alla sua utilità, pur determinando ancora una volta un livello
religioso inveitabilmente imperfetto se posto in relazione con un culto
dell'assoluto che ci è d'altra parte precluso nella sua purezza. Anche qui -
quasi a sottolineare maggiormente il rilievo di questo parallelisnmo - ci viene
ricordato cbhe la divinità in quanto è absoluta non ha a che fare con
noi ma in quanto si partecipa, contraendosi alle varie parti della natura in
forme e misure diverse, può essere onorata e volta ai suoi fini dall'uomo
attraverso il culto magico. (La scala discendente attraverso cui essa si
partecipa verrà ancora illustrata nella Cabala ma ormai solo per un fine
satirico, per rappresentare l'ideale, puramente immaginaria scala metafisica da
cui discende il sapere, anzi, il non sapere dell'asino.) Le pagine riservate
alla religione egizia e in genere al paganesimo sono così destinate ad
illustrare una superiorità metafisica nei confronti del cristianesimo che è
andata smarrita e deve essere recuperata [...]»[143].
Ora che abbiamo delineato la struttura portante del De la Causa appare più chiara l'analogia con altre due opere fondamentali di Bruno, il De magia e il De vinculis in genere. Vedremo che queste due opere di carattere magico seguono in realtà l'impostazione filosofica dei primi anni. Nel De magia la tesi ricorrente è che l'uomo può influenzare la natura in virtù della sua animazione, del suo spirito onnipervadente. Come nel De la Causa si era individuata l'Unità del Mondo, e si era affermato che questa Unità è viva, e dotata di uno Spirito universale, intelligente, che informa la Natura, così nel De magia si ribadisce che «la natura, come dette alle specie l'essere [...], così v'impresse anche un certo spirito interno o senso, grazie al quale riconoscono e fuggono i più feroci nemici, come per un'iscrizione che li dichiari tali, e questo non lo constatiamo solo nelle specie degli esempi precedenti, ma anche in tutte quelle che sembrano morte o manchevoli, in cui è pur insito uno spirito che brama con tutte le forze di conservare la specie presente...»[144].
Nel De vinculis, confutando le posizioni aristoteliche, Bruno sosterrà: «coloro che filosofano più a fondo capiscono ciò che noi abbiamo chiarito altrove; come la materia contenga nel proprio seno l'avvio di tutte le forme, sicché da esso tutte le produce e le emette [...]. A chi dunque rifletta sul vincolo [...] deve esser chiaro come in tutta la materia o in una parte della materia, in ognoi individuo o nell'individuo singolo, vivono allo stato latente tutti i semi delle cose e di conseguenza, con accorto artificio, si possono attivare le applicazioni di tutti i vincoli»[145]. Ecco quindi come, proprio in virtù dell'unità e dell'animazione universale della materia (sostenuta nel De la Causa), il mago può operare sul Mondo: attraverso la conoscenza dei «vincoli».
Chi conosce il linguaggio segreto dei vincoli può ottenere tutto da tutto, avendo la materia in se stessa i semi per generare qualsiasi cosa. Il mago deve saper «vincolare», operazione possibile solo tramite l'apprensione della Totalità vivente, solo con la consapevolezza della ratio universi: «sa vincolare solo colui che penetra la ragione di tutto»[146]. C'è un vincolo supremo che regola l'attività degli altri: «in tutte le cose risiede una forza divina, l'amore, padre, fonte, Anfitrite dei vincoli». E subito di seguito anche questa concezione viene legata alla unità del Mondo, che si realizza concretamente nella «scala naturae», e alla perfezione dell'Universo Infinito: «E noi conseguiremo il livello più alto e primario della dottrina del vincolo quando volgeremo gli occhi all'ordine dell'universo: qui, per mezzo di questo vincolo, le cose superiori provvedono alle inferiori, le inferiori si volgono alle superiori, le parti si associano in mutuo vincolo, e si celebra infine la perfezione dell'universo in conformità alla ragione della sua forma»[147].
Ho sostenuto che la magia opera in virtù dell'animazione della materia e della «catena dell'essere», ossia del legame che unisce gli enti e gli esseri l'un l'altro, dal primo all'ultimo, dal più basso al più alto, da Dio alla materia: «i maghi hanno per assioma che in ogni opera bisogna tener d'occhio il fatto che Dio influisce sugli dei, gli dei sui corpi celesti o astri, gli astri sui demoni, che sono curatori e abitatori degli astri (uno dei quali è la terra), i demoni sugli elementi, gli elementi sui composti, i composti sui sensi, i sensi sull'animo, l'animo su tutto l'essere vivente: e questa è la discesa della scala. Ma ecco che l'essere vivente ascende ai sensi attraverso l'animo, ai composti attraverso i sensi, agli elementi attraverso i composti e attraverso questi ai demoni, attraverso i demoni agli astri, attraverso questi ultimi agli dei incorporei, o di sostanza e corporeità eterea, attraverso questi all'anima del mondo o spirito dell'universo, e infine attraverso questo alla contemplazione dell'unico, semplicissimo, massimo incorporeo, assoluto e sufficiente a se stesso. Così a partire da Dio c'è discesa all'essere vivente attraverso il mondo, e dall'essere vivente ascesa attraverso il mondo fino a Dio. Questi è la sommità della scala, puro atto e attiva potenza, luce purissima, mentre alla base della scala vi è la materia e le tenebre, pura potenza passiva, che può divenire tutte le cose dal basso, come quegli può fare tutte le cose dall'alto. Fra il gradino più basso ed il più alto vi sono poi specie intermedie, le superiori delle quali partecipano maggiormente della luce, dell'atto e della capacità attiva, mentre le inferiori più delle tenebre, della potenza e della capacità passiva».[148]
Nel De magia Bruno
sosteneva che «qualunque mago voglia compiere opere simili alla natura deve
conoscere soprattutto il principio ideale, specifico della specie, numerale per
il numero o individuale per l'individuo. Di qui discende la fabbricazione delle
immagini e la porzione di materia formata in un certo modo e, non senza causa
evidente, rafforzando la capacità e il sapere del mago, molti praticano fatture
e guarigioni attraverso alcune figure collegate con parti determinate, in
particolare con quelle che hanno qualche comunicazione o partecipazione con
l'oggetto della stregoneria o della cura, cosicché l'opera si concentra e
delimita ad un individuo determinato. Dall'esperienza di tutto ciò [...]
diventa evidente che ogni anima e ogni spirito ha una certa continuità con lo
spirito dell'universo, sicché si può comprendere che lo spirito non solo è e
sta incluso dove sente e produce la vita, ma è diffuso anche nell'immensità,
per sua essenza e sostanza, come supposero molti platonici e pitagorici»[149].
L'idea della Unità della
Natura vivente è quindi alla base della concezione magica bruniana. Come notava
Fulvio Papi «questa concezione è tutt'altro che originale: Marcel Mauss nella
sua Teoria generale della magia quando prende in considerazione
l'orizzonte mentale degli alchimisti afferma che in esso ritorna sempre l'idea
che "il mondo è un organismo unico, le cui parti, per quanto distanti,
sono legate tra loro in modo necessario. In esso tutto si somiglia e tutto si
tocca. Questa specie di panteismo magico dovrebbe dare la sintesi delle diverse
leggi". Se noi consideriamo opere bruniane come le Theses de Magia,
il De Magia e il De Vinculis in genere è proprio questa la
concezione cui si può ricondurre l'analisi dei diversi fenomeni naturali.
Quando ad esempio Bruno sostiene che ogni anima è in tutto l'orizzonte della
vita naturale e da tutto l'orizzonte subisce un influsso e partecipa il proprio
agli altri esseri viventi, ed in questa relazione consiste il presupposto
dell'azione magica, non è difficile far rientrare la sua concezione nel
macro-modello magico proposto da Mauss»[150].
Marcel Mauss ha inoltre notato che «Gli alchimisti hanno un principio generale che ad essi sembra la
formula perfetta delle loro riflessioni teoriche e che amano anteporre alle
loro ricette: "Uno è il tutto e il tutto è in uno"», e mostra poi un esempio concreto: «Ecco [...]
preso a caso, uno dei passaggi in cui il principio si esprime nel modo più
felice: "Uno è il tutto ed è da lui che il tutto si è formato. Uno è il
tutto e se tutto non contenesse il tutto, il tutto non si formerebbe"
[...]. Questo tutto che è in tutto, è il mondo. Ora, qualche volta ci si dice,
il mondo è concepito come un animale unico le cui parti, quale che sia la loro
distanza, sono legate tra loro in maniera necessaria. All'interno di esso tutto
si somiglia e tutto si tocca»[151]. Credo che proprio questa specie di panteismo,
caratteristico del pensiero magico di tutti i tempi, sia servito da base
concettuale per la formulazione della teoria infinitista, di cui, peraltro,
conteneva esso stesso i germi.
Il percorso fin qui proposto era
mirato non tanto a mettere in evidenza una continuità cronologica del concetto
di infinito nelle prime opere di Bruno, che pure esiste e meriterebbe
un'analisi psicologica approfondita, quanto piuttosto a far emergere quel continuum
ideologico che dall'originaria accettazione delle tesi ermetiche porta
all'affermazione metafisica dell'unità universale della vita-materia infinita,
ed alla eliminazione, a livello cosmologico, dell'ultima sphaera mundi.
Per questo avevo premesso una breve analisi del quadro epistemologico entro cui
si muove Bruno. A proposito ho sostenuto che un'opera come Il De umbris
idearum si proponeva appunto di rispondere a queste domande: come e che
cosa possiamo conoscere. La risposta di Bruno corrispondeva in realtà alla
presentazione di una mnemotecnica magica, unico organo adatto alla conoscenza
perchè in grado di decifrare i messaggi divini contenuti nell'ordine della
natura.
Ma nel De umbris avevo
individuato anche i primi abbozzi della futura metafisica bruniana, che fonda
appunto la struttura della natura e ne garantisce l'unità sostanziale. Per
questo ero subito passato all'analisi del dialogo metafisico per eccellenza: il
De la Causa, Principio et Uno. Risultate evidenti le analogie
strutturali con le opere magiche tarde (qui abbiamo considerato solo il De
magia e il De vinculis in genere), avevo sostenuto che anche la
metafisica bruniana è fortemente intrisa di elementi magico-ermetici. Era
quindi emerso un nuovo carattere della comprensione bruniana dell'infinito: il
profondo misticismo magico.
Proprio in questo particolare tipo
di misticismo, intriso di caratteri ermetici, ho cercato di individuare la
genesi della teoria infinitista di Bruno. Avevo anche sostenuto, e in questo
non sono stato ovviamente il solo, che in Bruno metafisica e cosmologia sono
strettamente collegate, se non addirittura coincidono. Questa affermazione
trova i suoi immediati riscontri se ci si sposta dal piano metafisico a quello
cosmologico, e cioé se si passa ad analizzare la concezione dell'universo vivo
ed animato nonché, ovviamente, infinito. In questo senso risulta necessaria la
considerazione delle altre opere contemporanee al De la Causa. Lo scopo
di questo capitolo è appunto l'analisi del concetto di infinito nella Cena
delle Ceneri e nel De l'Infinito, universo et Mondi, opere, come il De
la Causa, scritte e pubblicate in Inghilterra nel 1584.
Le tesi sostenute nella Cena
e nel De infinito sono ovviamente del tutto coerenti con gli sviluppi
dell'esperienza inglese, di cui il De la Causa rappresenta il vertice
metafisico. A Londra, nel 1584, Bruno scrive e fa pubblicare i dialoghi
italiani La cena delle ceneri, il De la Causa, Principio et uno,
il De l'infinito, universo et Mondi e lo Spaccio de la bestia
trionfante. In parte questi seguono l'impronta metafisica e gnoseologica
del De umbris idearum (pubblicato a Parigi due anni prima), ma
certamente il lettore dei dialoghi inglesi vede moltiplicarsi e perfezionarsi
in modo originale molte delle tesi iniziali della nolana filosofia,
soprattutto a livello cosmologico. In realtà il De infinito, il testo
della cosmologia compiuta, segue e sviluppa le premesse del De la Causa
e ancor prima i motivi copernicani della Cena, e perciò su di questa
sarà necessario soffermarsi.
Nella Cena de le Ceneri, il
primo dei dialoghi italiani pubblicati in Inghilterra, vengono imponendosi gli
sviluppi fondamentali della cosmologia bruniana. Si tratta di temi che saranno
approfonditi nel De infinito e portati a compimento con la replica
del De Immenso, l'ultimo dei poemi francofortesi. Certo, come osserva
anche Ciliberto «la Cena è altrettanto importante per lo sforzo teorico
che Bruno vi compie sul terreno delicatissimo del rapporto tra religione e
filosofia, Sacra Scrittura e filosofia nolana»[152]. Ma in questa sede sarà necessario rimanere nei
limiti di una lettura cosmologica.
CAPITOLO IV
«Smitho. Parlavan ben latino?
Teofilo. Sì.
Smitho. Galantuomini?
Teofilo. Sì.
Smitho. Di buona reputazione?
Teofilo. Sì.
Smitho. Dotti?
Teofilo. Troppo mediocremente.
Smitho. Dottori?
Teofilo. Messer sì, padre sì, madonna sì, madesì, credo
da Oxonia.
Smitho. Qualificati?
Teofilo. Come non? uomini da scelta, di robba lunga,
vestiti di velluto; un de' quali avea due catene d'oro lucente al collo, e
l'altro, per Dio, con quella preziosa mano, che contenea dodeci anella in due
dita, sembrava uno ricchissimo gioielliero, che ti cavava gli occhi ed il core,
quando la vagheggiava.
Smitho. Mostravano saper di greco?
Teofilo. E di birra eziandio.
Prudenzio. Togli via quell'eziandio, poscia è una obsoleta
ed antiquata dictione.
Frulla. Tacete, maestro, ché non parla con voi.
Smitho. Come eran fatti?
Teofilo. L'uno parea il connestabile della gigantessa e
l'orco, l'altro l'amostante della dea de la riputazione.
Smitho. Sì che eran doi?
Teofilo. Sì per esser questo un numero misterioso.
Prudenzio. Ut essent duo testes?
Frulla. Che intendete per quel testes?
Prudenzio. Testimoni, essaminatori della nolana
sufficienza. At, me hercle, perché avete detto, Teofilo, che il numero
binario è misterioso?
Teofilo. Perché due sono le prime coordinazioni, come
dice Pitagora, finito ed infinito, curvo e retto, destro e sinistro, e va
discorrendo. Due sono le spezie di numeri pare ed impare, de' quali l'una è
maschio, l'altra è femina. Doi sono gli Cupidi, superiore e divino, inferiore e
volgare. Doi sono gli atti della vita, cognizione ed affetto. Doi sono gli
oggetti di quelli, il vero e il bene. Due sono le specie di moti: retto, con il
quale i corpi tendeno alla conservazione, e circulare, col quale si conservano.
Doi son gli principi essenziali de le cose, la materia e la forma. Due le
specifiche differenze della sustanza: raro e denso, semplice e misto. Doi primi
contrarii ed attivi principii, il caldo e il freddo. Doi primi parenti de le
cose naturali, il sole e la terra»[153].
Prima di assistere come spettatori
silenziosi al teatro della Cena, è necessario fermarsi un attimo proprio
sulle prime battute, a mio parere importantissime. Paradossalmente, lo spunto
più interessante di tutto il dialogo, viene lasciato lì, distrattamente,
proprio all'inizio, quasi per caso. Per tutta la Cena, la tematica
ermetica del magico numero due non sarà più ripresa, almeno
esplicitamente. Anzi, Bruno si guarderà bene dall'esporre chiaramente la sua
metafisica magica, e quando parlerà dei fantastici mondi-animali che popolano
l'universo infinito, lo farà solo «per modo di passaggio»[154], attento a non portare il discorso su di un
terreno assai particolare, ed essendo in terra straniera, forse anche pericoloso.
L'insidia velenosa, nascosta in queste prime battute ingannevolmente distratte,
corrisponde naturalmente al problema del limite e della gerarchia. Questo era
già emerso prepotentemente nel De umbris, dove, passando abilmente dalla
gnoseologia alla metafisica, Bruno aveva introdotto con malizia il concetto
fondamentale di «ombra metafisica». In realtà credo che il De umbris sia
stato anzitutto un grande testo di filosofia dell'inconscio: in questa sede
però è necessario attingere specialmente alla tematica umbratile del
testo magico-mnemotecnico. Proprio nella posizione epistemologica che esso
esprime sta la particolarità e l'attualità della nolana filosofia. Nel De
umbris il concetto di umbra sembrava corrispondere perfettamente sia
alla situazione conoscitiva che a quella psicologica: si adattava quindi
perfettamente sia all'oggetto che al soggetto. Dalla gnoseologia nolana si
capisce che l'umbra ha a che fare con il limite, e quindi immediatamente
con la teoria dell'infinito. Ma su questo punto è necessario fermarsi un
attimo, ritornando alla Cena e alla discussione del numero binario.
Che cosa significa «per esser questo
[il due] un numero misterioso»? Risposta: il due è la conditio sine qua non.
E' possibile sostenere che occulto, dietro il «misterioso numero binario», sta
tutto il vero significato della filosofia nolana. Cerco di precisare
meglio i termini del discorso. Bruno aveva ben presente il modo di presentarsi
della vita, dell'esistente. Aveva ben inteso che tutto è due, che
generalmente umana è l'esperienza della bipolarità, del contrasto. L'uomo può
pensare solo se c'è una destra e una sinistra (proprio a partire dalla
costituzione, funzione e disposizione degli emisferi cerebrali), se c'è un alto
e un basso, la notte e il giorno, la vita e la morte, il vero e il falso, il
giusto e l'ingiusto, il bene e il male, e così via. L'Essere, in quanto coincidentia
oppositorum, sembra allora quasi essere relegato all'area dell'astrazione,
del pensiero: la realtà, ciò che è dato, è invece per sua natura di essenza binaria.
Il modo stesso di sperimentare la realtà che noi ci troviamo ad adottare per
natura risponde all'esigenza di mettere odine nel disordine (apparente, direbbe
Bruno), di distinguere e di separare. Questo non sarebbe possibile senza
l'essenza binaria delle cose. Questo non sarebbe possibile senza la luce
e il buio. Ma si noti: il buio e la luce sono in realtà degli estremi assoluti
(mai raggiungibili pienamente). L'esistenza si svolge invece per intero
nella dimensione umbratile.
Metaforicamente: sia nella luce
totale, sia nel buio, non è possibile vedere. L'ombra è quindi conditio sine
qua non, un medium indispensabile sia all'essere sia al conoscere.
Il problema, all'interno della teoria infinitista, non è più allora quello di dimostrare
l'infinito, ma casomai di qualificarlo, conoscerlo. Al limite, di
raggiungerlo. L'infinito, nella teoria della realtà binaria, rappresenta la
naturale corrispondenza del finito, del misurabile. Se si assume qusto
particolare punto di vista non ha allora più senso chiedere di di-mostrare
l'infinito: l'infinito è necessario per definire il finito, e viceversa. A
livello ontologico l'esistenza dell'uno garantisce la presenza dell'altro. Il
problema è allora la determinazione della forma, della conoscibilità e
delle possibilità di unione con questo infinito divino. Più a fondo: se ci si
sposta sul piano ontologico, il problema passa dal piano dell'essere a
quello del non-essere. Come introdurre il concetto di non-essere
all'interno del quadro teoretico infinitista? Sappiamo che per Bruno tutto ciò
che esiste ha una forma, occupa uno spazio, non importa se materiale o
spirituale. Persino l'infinito ha una sua forma precisa, che corrisponde all'individuo.
E il non-essere? Rappresenta forse il limite dell'infinito? Niente
affatto: in Bruno il non-essere è semplicemente ridotto al non-essere-più
o, meglio, al non-essere-ancora. E, ovviamente, si tratta di una
situazione che riguarda solo il singolo, mentre è assolutamente estranea al
Tutto, che è in se stesso perfettamente immobile e completo (perché è -
simultaneamente - tutto quello che può essere).
Il problema del non-essere
viene quindi risolto all'interno della teoria del divenire, della vita-materia
infinita, della vicissitudine universale. Il motto parmenideo che doveva
suonare più o meno così: «l'essere è, il non essere non è», doveva risultare
(insolitamente) come del tutto adatto per inserisri nella filosofia
dell'infinito. E il tema originale della filosofia parmenidea, il contrasto tra
la verità e l'apparenza, doveva essere assolutamente accettato da Bruno. La Cena
è infatti tutta imperniata proprio sulla distruzione del senso comune, basato
sull'apparenza.
Emerge da questa prospettiva una
nuova determinazione del ruolo dell'umbra, all'interno del quadro
speculativo del Nolano. L'umbra è esattamente il luogo del
movimento, del divenire, della conoscenza, uno verbo: dell'esistenza.
Metaforicamente: il passaggio non è mai dalla luce alle tenebre, ma da una
specifica gradazione d'ombra ad un'altra. Nell'umbra ci muoviamo,
pensiamo, esistiamo noi e tutto il reale che ci circonda, di cui facciamo
inspiegabilmente parte: umbra profunda sumus. Si noti: se da una parte
l'umbra rappresenta il limite invalicabile (perché nasconde e ad un
tempo disvela la luce della Verità, che in quanto tale risulterebbe accecante),
dall'altra l'umbra è mobile. Di nuovo metaforicamente: «L'ombra segue
contemporaneamente il moto del corpo e della luce. Il corpo si muove? L'ombra
si muove. La luce si muove? L'ombra si muove. Si muovono l'una e l'altra?
L'ombra si muove [...]. Non ti sfugga infine la somiglianza delle ombre con le
idee»[155]. L'idea del limite viene per così dire disciolta in quella del
movimento: il limite esiste, ma si tratta ora di un limite mobile, sempre e per
sempre infrangibile in se stesso, ma allo stesso tempo frangibile nella sua
contingenza. Il discorso vale ovviamente a tutti i livelli: dalla cosmologia
all'etica.
Questa è del resto l'unica direzione
che poteva prendere una filosofia che ha scelto la scorciatoia dell'infinito.
Ad un tempo un genere di pensiero di questo tipo risolve molti paradossi legati
ad una sterile e compromettente prospettiva finitista, e ammette senza mezzi
termini la condizione umbratile dell'esistenza e della conoscenza umana.
Ma si noti: questa confessione non è per Bruno l'ultima tappa, ma solo il punto
di partenza, l'inizio dell'avventura. Ammettere l'umbratilità
dell'Essere significa non concedere tregua all'ignoranza. Di nuovo un salto di
livello: dal gnoseologico siamo passati al metafisico e dal metafisico
all'etico. L'etica degli Eroici furori si basa appunto su questa nuova
intepretazione del limite e delle reali capacità umane di oltrepassarlo. Eroico
furore è appunto l'atteggiamento di fronte a quest'ombra conoscitiva che sempre
si sposta, sempre si rischiara, ma in qualche modo sempre vela e nasconde la
Verità, che come tale, nella sua interezza, è inaccessibile all'uomo (comune).
Pensare come pensa Bruno significa allora da una parte ammettere pacificamente
una sostanziale inconcludenza conoscitiva, dall'altra aggrapparsi alle ombre
delle idee con eroico furore, a caccia di nuovi limiti da
infrangere. La forma dell'individuo, cui prima avevamo accennato si attua
appunto in questo percorso infinito, in questa ricerca amorosa senza termine.
Nel 1930 Gödel dimostrò uno strano
teorema: la matematica è una storia senza fine[156]. Non può esistere una formulazione definitiva e
comprensiva di tutta la matematica: comunque si proponga una sistemazione
assiomatica della matematica, si potrà sempre trovare qualche semplice problema
che sfuggirà a tale sistemazione. Questo è il significato profondo del teorema
di incompletezza di Gödel: l'uomo non verrà mai a conoscenza del segreto
finale dell'universo.
Ovviamente tutti possono dire che la
scienza non può fornire tute le risposte, ma ciò che rende così importante il
lavoro di Gödel è che egli riuscì a dimostrarlo, formulando la sua
dimostrazione nel linguaggio estremamente preciso della logica matematica.
Gödel dimostrò che una macchina della verità universale non può esistere, e non
può esistere nemmeno un insieme completo di assiomi per la verità matematica.
Ogni sistema di conoscenza del mondo è, e resterà, fondamentalmente incompleto,
sempre suscettibile di miglioramento. L'universo rifiuta di essere catturato da
una rete finita di assiomi. La realtà è essenzialmente infinita al suo livello
più profondo. Con questa teoria si dimostra quindi che nessuna teoria
finitamente descrivibile può codificare tutte le verità matematiche. Vale a
dire che l'insieme di tutte le proposizioni vere riguardanti la matematica è
finitamente innominabile e quindi è nella sua sostanza infinito[157]. Ovviamente, l'idea del progresso non viene
affatto negata: casomai essa deve adattarsi alla struttura metafisica della
realtà. Se la realtà è al suo livello più profondo, allora la conoscenza del
reale non può che richiedere un tempo infinito.
Il misterioso numero binario doveva
certo essere particolarmente caro alla fantasia del Nolano, visto che entra a
far parte anche della teoria infinitista. A livello metafisico avevamo
assistito nel De la Causa alla equiparazione delle due
fondamentali componenti dell'essere: materia e forma. Bruno aveva affermato che
anche in Dio c'è la materia, e che la sua forma corrisponde all'Universo. Entrambi,
sia Dio che l'Universo sono infiniti. Rimane il problema, puramente concettuale
della loro distinzione. La soluzione di questo problema viene presentata nei
termini di una nuova qualificazione dell'infinito: esiste l'infinito attuale
del Tutto (Dio) e della parte (singola porzione dell'Universo). Gli infiniti,
quindi, sono ancora una volta, due. La doppiezza, credo sia questo il
messaggio nascosto di Bruno, va attribuita anche alla natura stessa
dell'infinito.
Dalla tematica dell'umbra ci
si è quindi spostati alla dualità (della quale l'umbra è medium). Il
circolo si chiude ricordando la cusaniana coincidentia oppositorum, che
Bruno sembra accettare con gioia, se pur trasfigurata. La filosofia dell'Unum
sembra esigere il passaggio nella dualità. L'Unum è tale proprio nei
confronti della natura binaria del reale. Ma l'Unum in questo modo
diventa un'idea alquanto astratta. In fondo, Dio e Universo sono un'unica cosa
solo nel loro porsi come realtà. Al livello del pensiero, essi rimangono
separati.
Passiamo ora all'analisi della Cena.
Il 7 febbraio 1584 Bruno viene invitato a cena dal nobile inglese Fulke
Greville per prendere parte ad un dibattito con due dottori oxoniensi intorno
ai temi filosofici ed astronomici del copernicanesimo. Ovviamente il racconto
di Bruno, che vuole essere un vero e proprio resoconto dei temi trattati
durante la cena, è del tutto unilaterale, ma questo credo francamente sia poco
importante. Quel che è notevole è invece l'atteggiamento, chiaro fin dall'inizio,
che il Nolano ha avuto nei confronti delle tesi copernicane:
«Smitho. Di grazia, fatemi
intendere, che opinione avete di Copernico?
Teofilo. Lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo
ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti lui,
se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale,
è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo e tutti gli altri, ch'han
caminato appo i vestigi di questi. Al che è dovenuto per essersi liberato da
alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio di
cecità. Ma però non se n'è molto allontanato; perché lui, più studioso de la
matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che
potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii, onde
perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficultà e venisse a liberare e
sé ed altri da tante vane inquisizioni e fermar la contemplazione ne le cose
costante e certe»[158].
Fin dall'inizio, la discussione
delle tesi copernicane nell'ottica della nolana filosofia presenta
dunque delle difficoltà. Copernico, per Bruno, ha avuto una buona intuizione,
ma in qualche modo è rimasto seriamente legato ad una erronea visione
filosofica del mondo. Quella del copernicanesimo è insomma una rivoluzione
difettosa di un elemento fondamentale, quello filosofico. Alla formula
astronomica manca la relativa interpretazione filosofica del mondo. Subito dopo
Bruno precisa infatti che la teoria copernicana è soltanto simile ad una aurora
«che doveva precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera filosofia, per
tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed
invida ignoranza».
Evidenti sono le analogie con i temi
ermetici, già individuati e considerati come fondamentali per la comprensione
della filosofia bruniana e quindi anche del suo nucleo infinitista. Come Ermete
aveva previsto, con Copernico si comincia ad uscire dalle «ignoranze» e dai
«travagli». Come ha acutamente sostenuto la Yates «Il sole copernicano annuncia
il risorgere vittorioso dell'antica e verace filosofia dopo il lungo periodo in
cui era rimasta sepolta nelle tenebre. Bruno ha qui in mente quell'immagine
della veritas filia temporis, del tempo che fa emergere alla luce la
verità»[159] secondo tempi prestabiliti e per mezzo di
«Mercurii e Apollini».
L'immagine è la stessa del De
umbris (dove Bruno aveva sostenuto che la «provvidenza degli dei é (lo
dissero i sacerdoti egiziani) non smette di mandare agli uomini alcuni Mercurii
in certi tempi stabiliti»[160]. Ma anche se la Yates insiste diffusamente e con
una certa insistenza sugli elementi ermetici presenti nella Cena de le
ceneri[161], personalmente ritengo invece che in un testo
come questo debba essere messo in primo piano soprattutto il ragionamento
cosmologico.
Certo, il sole di cui parla Bruno è
un sole religioso, divino. La stessa ragione del movimento terrestre, espressa
nella Cena, è di natura filosofico-religiosa, non matematica. Dice il
vero la Yates quando sostiene che Bruno saluta entusiasticamente il movimento
terrestre «non al livello inferiore del ragionamento matematico»[162], ma nei termini di una rivalutazione della
dignità della materia terrestre, sempre nell'ottica della vita infinita e dei
corpi che non si dissolvono, come precisavano le dottrine ermetiche[163]. Ma nella Cena comincia già una presa di
posizione precisa, su un terreno teologico-filosofico e non più solo
mistico-religioso. Bruno (e lo dimostrano il tipo di dialogo, i personaggi e i
molti disegni tecnici che accompagnano la giustificazione e l'interpretazione
delle tesi copernicane) vuole farsi capire, e sa che il metodo non può essere
quello dell'illuminazione (valido per il filosofo maturo), ma piuttosto quello
della comunicazione filosofica. A questo servono in fondo la matematica e la
geometria. Certo, la sua cosmologia è comprensibile solo in relazione alle
premesse metafisiche del De umbris e alle conclusioni del De la Causa,
ma nella Cena credo che il livello di ragionamento sia squisitamente
«divulgativo». Bruno vuole anzitutto farsi capire dai dottori oxionensi,
instaurare con loro un dialogo.
Teofilo-Bruno sostiene appunto che
le tesi copernicane sono «come una aurora che doveva precedere l'uscita di
questo sole de l'antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle
tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza». Quello
di Bruno era un vero e proprio programma di riforma, da portare avanti su tutti
i livelli: dalla cosmologia, all'etica, alla religione. La prima cosa da fare era
ovviamente creare dei canali di comunicazione con le autorità intellettuali del
tempo. Credo che in quest'ottica vada letto sia l'approdo in Inghilterra che le
dispute filosofiche tenute con i dottori di Oxford (e le conseguenti
«rotture»).
Il De revolutionibus orbium
coelestium era stato pubblicato nel 1543, e Bruno ne aveva assimilato
profondamente il significato cosmologico, filosofico e teologico. Lo stesso
aveva fatto il teologo Andrea Osiander, e a questi Bruno aveva dato dell'«asino
ignorante e presuntuoso», perché nella anonima premessa la De revolutionibus
aveva inteso limitare a pura ipotesi matematica l'intuizione copernicana,
«quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper computare e misurare e
prospetivare non è altro che un passatempo da pazzi ingegnosi». Nonostante la
difesa della validità oggettiva delle tesi copernicane, Bruno espone
chiaramente anche le sue riserve. Come avevo anticipato, il rapporto tra Bruno
e Copernico è tutt'altro che risolvibile nell'idea di un'accettazione
entusiasta delle «novità» copernicane da parte del Nolano. In realtà, a parte
l'utilizzo e l'inglobamento del copernicanesimo nella nolana filosofia,
penso che la critica abbia troppo insistito sugli entusiasmi di Bruno per le
"nuove" teorie ed abbia lasciato troppo in ombra le pesanti critiche,
rivolte all'astronomo polacco soprattutto sul piano strettamente filosofico.
Queste critiche riguardano anzitutto la questione del metodo.
Copernico è rimasto in un orizzonte
essenzialmente matematico: è rimasto astronomo, non è diventato filosofo.
Quando Bruno dice «più studioso de la matematica che de la natura» intende
ovviamente mettere in evidenza i limiti dell'orizzonte matematico, entro cui
questi ha continuato a muoversi, senza mai uscirne, ma anche ribadire una
convinzione epistemologica di fondo. Questa era già stata delineata nel De
umbris, dove Bruno aveva esposto la sua «metafisica della luce». Il punto
centrale del De umbris era appunto l'idea di conoscenza umbratile,
di cui abbiamo già chiarito il significato. Credo che l'idea della conoscenza
umbratile neghi alla base le pretese conoscitive delle scienze esatte e quindi
della matematica, della geometria, e della stessa astronomia[164]. Il concetto di umbratilità informa sia la
struttura della materia sia la situazione gnoseologica umana. L'unica
conoscenza certa cui l'uomo può aspirare è quella che si ottiene tramite l'ascensus
mistico, per mezzo della scala naturae. A questo serve del resto la
«filosofia naturale». Ma i metodi naturali, come ho già sottolineato, sono in
realtà metodi magici: sono le tecniche segrete di un filosofo che ha fatto
della mistica e della magia uno strumento conoscitivo. Fra le righe dei testi
magici e mnemotecnici è possibile leggere una profonda convinzione di Bruno,
forse riservata agli adepti più stretti: solo la magia ricompone la scissione
tra Essere, pensiero e parola. A questo proposito abbiamo già parlato della
funzione del linguaggio e della praxis ad esso connessa. A questo
proposito occorre ricordare anche la forte relazione con il tema dell'alterità,
che coinvolge sia la discussione delle tesi infinitistiche che
l'interpretazione della praxis magica.
In questo contesto la matematica
appare ridotta a semplice espediente divulgativo-artistico, a strumento per
così dire di propaganda: un semplice metodo esplicativo. La matematica
non può offrire certezze naturali, ma solo corrispondenze geometriche e
razionali di un ordine metafisico, conoscibile solo grazie all'ascesi
per gradi e non tramite il calcolo o addirittura l'esperimento[165]. In questo senso la distanza tra un filosofo
mistico come Giordano Bruno ed un matematico come Isaac Newton è la stessa di
quella che separa il mito e la magia dalla scienza sperimentale. La Cena,
che è straordinariamente ricca di esempi geometrici e fisici, vede appunto
questo utilizzo strumentale, ancillare, della geometria e della matematica:
esse servono per supportare una tesi puramente intellettuale, filosofica,
valida al di là e prima di qualsiasi argomentazione scientifica. L'esperimento,
alla luce di questa filosofia non è né utile né concepibile. Sono certo che se
avesse potuto, Bruno avrebbe mantenuto il discorso entro i limiti teologici e
metafisici, sul suo terreno. Ma ad Oxford il Nolano aveva a che fare con
«pedanti» aristotelici e tolemaici: c'era poco da fare, occorreva abbassarsi
alla disputa strettamente fisica e cosmologica.
Bruno aveva ovviamente ben capito
che le tesi copernicane in se stesse non portavano a nessuna rivoluzione, se si
esclude un cambiamento della concezione antropologica. L'universo di Copernico,
come ha ben chiarito Alexander Koyré, «rispetto all'infinito, non è affatto più
grande di quello dell'astronomia medievale: ma entrambi sono un nulla, poiché inter
finitum et infinitum non est proportio. Non ci si approssima all'universo
infinito aumentando le dimensioni del nostro mondo: possiamo ampliare
quest'ultimo quanto vogliamo, ciò non ci porta affatto più vicini a quello»[166]. L'universo di Copernico insomma è ancora finito,
limitato dalla ultima sphaera mundi, che contiene se stessa e tutto il
resto (se ipsam et omnia continens). Copernico ha continuato a credere
che i corpi celesti si muovano seguendo moti uniformi e regolari, portati da
sfere concentriche solide, mentre invece Bruno già nel Sigillus Sigillorum,
aveva sostenuto che essi si muovono quodam intimo incitamento, alla
ricerca dei luoghi ad essi convenienti.
In realtà si può pensare che
Copernico non cercasse altro che una teoria matematica per spiegare il
funzionamento dell'universo che fosse solo più semplice e quindi formalmente
elegante delle precedenti. Nel X capitolo del I° libro, afferma infatti
chiaramente che l'argomento decisivo per la verità dell'eliocentrismo è quello
della maggior razionalità, del maggior ordine, della maggiore armonia che esso
propone. L'universo in tal modo risulta retto da una perfetta legge divina,
esprimibile matematicamente. In questa sua argomentazione, si fa largo
l'esigenza platonico-pitagorica. Infatti la circolarità perfetta del movimento
planetario, la sfericità perfetta dei corpi celesti, costituiscono tutti
elementi a favore della divinità dell'universo. Dio non poteva esprimersi in
una legge universale che non avesse queste caratteristiche di perfezione.
Il problema è che questa legge
divina è una legge matematica, e mentre Bruno, come è già stato notato, ha una
concezione magica della matematica e delle leggi naturali, Copernico sembra
invece dirigersi verso una concezione moderna della scienza. Qui sta il limite
del polacco: si è basato sui calcoli matematici e per di più non ha compreso
neppure le implicazioni profonde delle sue intuizioni. Per Bruno infatti, se la
legge che regola l'universo è espressione della perfezione (ed infinità) divina,
se l'universo stesso è divino, allora non è possibile rimanere all'interno di
una concezione finitista. L'universo non può che essere infinito: si tratta di
pura necessità. Quello che più infastidiva il Nolano era il fatto che
Copernico, avendo intuito la divinità dell'universo (pur se da un altro punto
di vista, diremmo noi), non avesse avuto il coraggio o il convincimento di
procedere verso una infinitizzazione di questo, del tutto coerente con le sue
stesse premesse. E invece l'astronomo polacco sembrava propendere ancora verso
una concezione finitista: la sfera delle stelle fisse, l'ultima sphaera
mundi, continuava ad essere il limite dell'universo, anche se di
proporzioni molto maggiori rispetto alle precedenti.
Il primo ad interpretare le teorie
copernicane in senso infinitistico fu l'inglese Thomas Digges, autore di una Perfit
Description of the Caelestial Orbes (Perfetta descrizione delle sfere
celesti, Londra, 1576). Per Digges il cielo delle stelle fisse, essendo
immobile, era anche infinito e questo cielo era sede della azione di Dio. Cielo
astronomico e cielo teologico si confondevano. Questo risulta evidente a
partire dalla sostituzione del noto diagramma copernicano con uno nuovo, nel
quale le stelle sono disposte sull'intera pagina, sia sopra che sotto la linea
con la quale Copernico rappresenta l'ultima sphaera mundi. Giustamente Koyrè
aveva scritto: «E' dunque chiaro che Tomas Digges colloca le sue stelle in un
firmamento teologico, non in un cielo astronomico»[167]. In tutti i casi, avesse Digges voluto lasciar
intendere o no una identità strutturale tra cielo teologico e cielo
astronomico, un grande passo in avanti verso la infinitizzazione del cosmo era
stato compiuto. L'ultimo, decisivo passo sarà ad opera di Bruno, come ha
rilevato lo stesso Koyré[168].
A questo proposito penso che sia
rilevante il fatto che Bruno, nel presentare apertamente uno spazio infinito,
infinito effetto di una infinita causa, non si sia affatto proposto come inventore
di una nuova teoria, ma piuttosto come profeta di una verità antica, già
rivelata all'uomo, e per di più già difesa apertamente da illustri pensatori
dell'antichità. Questo elemento si ricollega alla posizione epistemologica ed
etica di Bruno, già delineata nel De umbris e successivamente
specificata in una costante polemica col sapere pedantesco e sofistico
dell'aristotelismo medievale e moderno. Concordiamo quindi con il suggerimento
di Nicola Badaloni: «questo concetto di antichità risorgente, dopo il dominio
dei 'sofisti', è tutt'altro che esclusivo; è infatti accompagnato
dall'apprezzamento per Plotino, per la teologia negativa, per Lullo, per
Cusano, ecc. Esso è tuttavia il fondamentale riferimento storico
dell'antiaristotelismo bruniano (anche in relazione allo spazio-materia) ed è
forse giusto, dopo i recenti studi di P.R. Blum sul rapporto di Bruno con
Aristotele[169], prendere in attento esame anche la riflessione
del Nolano sugli 'antichi'»[170]. Ovviamente dobbiamo sottolineare che per Bruno
gli antichi sapienti sono solo coloro che in qualche modo si sono avvicinati
alle tesi ermetiche, o ne sono stati direttamente illuminati.
I dibattiti intorno a Copernico
sviluppatisi in Inghilterra col Digges intorno al 1580 influenzarono certamente
il pensiero di Bruno. Personalmente, credo però che il Nolano sia approdato in
terra inglese con idee del tutto francesi, maturate a partire dal Sigillus.
Queste idee erano uno svolgimento coerente sul piano cosmologico di ciò che già
la metafisica del De umbris aveva cominciato a delineare: la centralità
del concetto di infinito. Già all'apertura del primo dialogo della Cena
delle ceneri emerge l'immagine di un universo inteso come unità infinita e
infinito effetto della infinita causa: «Conoscemo che non è ch'un cielo,
un'eterea reggione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie
distanze, per comodità de la partecipazione de la perpetua vita. Questi
fiammegianti corpi son que' ambasciatori, che annunziano l'eccellenza de la
gloria e maestà di Dio. Cossì siam promossi a scuoprire l'infinito effetto
dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio de l'infinito vigore»[171]. Il discorso prende evidentemente le mosse dal
nucleo originario della teoria infinitista: l'universo infinito è «infinito
effetto dell'infinita causa». Il ragionamento è quindi anche in questo luogo di
chiara «ascendenza teologica», come Fulvio Papi aveva fatto notare. Negare
l'infinità dell'universo significa negare la verità antica, che la
tradizione ermetica aveva già svelato, ossia che Dio è infinito e vivifica
direttamente ogni singola porzione di materia.
12. Cosmologia e metafisica: la
perdita del centro e gli effetti di questa operazione.
Nella Cena comincia dunque ad
emergere con forza il nesso fondamentale della teoria infinitista bruniana,
ossia il legame profondo tra cosmologia e metafisica: la vita infinita (effetto
necessario dell'infinita potenza divina) non può che prodursi in un universo
infinito. Questa verità, continua Teofilo-Bruno, non è né sopportabile da tutti
né comunicabile a tutti. Si tratta infatti di una verità «da profeti», essendo
stata rivelata già ai Caldei, agli Egizii, ai pitagorici, e presto dimenticata
nelle tenebre dell'ignoranza: prima questa verità «fu quella degli caldei,
egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria conforme al nostro
capo; da' quali prima si ribellarono questi insensati e vani logici e
matematici, nemici non tanto de l'antiquità, quanto alieni da la verità»[172]. Ancora una volta siamo insomma di fronte alla
congiunzione di cosmologia, metafisica, religione ed epistemologia.
Esplicitamente: la vita infinita, eterna ed omogenea, manda all'aria ogni
distinzione gerarchica tra mondo terrestre e mondo celeste. L'unità metafisica
si esplica in una unità cosmologica: l'infinito divino si esplica in quello
«mundano». Implicitamente: l'unità metafisica colpisce alla base la
trascendenza divina e il creazionismo. Viene così assolutamente compromessa la
verità fondamentale del Cristianesimo, mentre a livello filosofico viene
completata la già incerta distinzione tra infinito attuale e potenziale. A
livello teologico l'unica teologia possibile diventa quella negativa.
Nell'universo infinito, senza centro né periferia, svaniscono tutte le
gerarchie e i tradizionali punti di riferimento. Ma non solo. Perdendo la Terra
la sua posizione centrale, nel quadro cosmico, la visione antropologica
dell'uomo soggetto, destinatario, della creazione, viene minata alla base.
L'uomo perde il suo punto di riferimento originario: la Genesi. Nella
prospettiva dell'universo infinito è appunto l'idea genesiaca del
riconoscimento all'uomo, e all'uomo solo, di una «preminenza assiologica
nell'ordine della creazione»[173] che viene distrutta, appunto perché l'uomo non è
più al centro del creato, ha perso il rapporto diretto e privilegiato con il
Creatore. L'uomo, in un universo infinito, non solo perde ogni punto di
riferimento oggettivo, ma cessa lui stesso di essere creatura privilegiata. Se
cade il geocentrismo, cade anche l'antropocentrismo: «l'uomo non è più centro
di niente, esso è un punto disperso nell'universo»[174].
Il problema del centro nella
filosofia di Bruno è fondamentale, ed emerge nettamente già nella discussione
delle tesi copernicane, l'argomento centrale della Cena. Nel dialogo
terzo, Nundinio, l'interlocutore che afferma per fede e nega per novità,
sostiene che «non può essere verisimile che la terra si muove, essendo quella
il mezzo e centro de l'universo, al quale tocca essere fisso e costante
fundamento d'ogni moto»[175]. Teofilo-Bruno proseguendo il racconto, spiega
dettagliatamente i termini della risposta: «rispose il Nolano, che questo
medesimo può dir colui che tiene il sole essere nel mezzo de l'universo, e per
tanto immobile e fisso, come intese Copernico ed altri molti, che hanno donato
termine circonferenziale a l'universo; di sorte che questa sua raggione (se pur
è raggione) è nulla contra quelli, e suppone i proprii principii. E' nulla anco
contra il Nolano, il quale vuole il mondo essere infinito, e però non esser
corpo alcuno in quello, al quale simplicemente convenga essere nel mezzo, o
nell'estremo, o tra que' dua termini, ma per certe relazioni ad altri corpi e
termini razionalmente appresi»[176]. Alla solita argometanzione aristotelica Bruno
aveva dunque risposto rovesciando il ragionamento: non solo cambiando la
prospettiva cadono i falsi problemi della teoria aristotelico-tolemaica (se si
assume che il Sole è al centro dell'universo, non è più contraddittorio pensare
che la Terra si muova), ma di più, se si considera l'universo come infinito,
cade di colpo anche tutta la problematica del centro e del movimento. Se
l'universo è infinito, allora non ha alcun centro assoluto, proprio perché non
ci sono margini o confini per determinarlo. Non solo, perché «come di corpi
naturali nessuno si è verificato semplicemente centro, cossì anco de' moti, che
noi veggiamo sensibile e fisicamente ne' corpi naturali, non è alcuno, che di
gran lunga non differisca dal semplicemente circulare e regolare circa qualche
centro» e si possono sfozare all'infinito coloro «che vogliono sostenere che
ogni moto è continuo e regolare circa il centro»[177]. La prospettiva rimane apertamente cosmologica,
ma sono evidenti le ripercussioni a livello teologico e antropologico.
A differenza della maggior parte dei
critici, credo che siano state proprio queste posizioni di Bruno, rispetto alla
problematica del centro e dell'infinità dell'Universo, a portarlo al rogo. Le
tesi magiche potevano al limite essere discusse sempre all'interno della
prospettiva cristiana (una prospettiva ovviamente creazionista in cui l'uomo è
oggetto della Rivelazione). Ma una prospettiva per così dire assolutamente
rovesciata, eliminava alla base ogni possibilità di discussione. Si noti: se
nell'universo infinito si perde il centro, allora si perde anche la periferia.
Cadono di conseguenza anche quei confini tra cielo teologico e cielo astronomico
che pure Digges aveva mantenuto: l'universo e Dio si confondono. Ma se
l'universo e Dio si con-fondono, a livello di unità infinita, allora non ha più
senso né l'idea di creazione e nemmeno quella di rivelazione: Dio non può
creare se stesso, così come certo non può auto-rivelarsi.
Indubbiamente la perdita della posizione
centrale della Terra costituisce un passo gravido di conseguenze perfettamente
prevedibili. Bruno, più che un mago eretico, rappresentava un'idea
pericolosissima per l'ordine stabilito: idea da eliminare assolutamente. Essa
minava alla base non solo l'ordinamento religioso della società, ma anche
quello morale e civile, perché se Dio non si è rivelato, allora si può credere
che non esiste alcuna verità consegnata nelle mani della creatura umana. Anzi,
propriamente, non esiste più nemmeno la creatura. La tesi del «tutto in
tutto» capovolge immediatamente e nettamente l'ordine stabilito, non solo
metafisico e cosmologico, ma anche antropologico, morale e religioso. E il
pericolo maggiore per la Chiesa del Cinquecento è appunto una minaccia
informale all'ordine stabilito. In quest'ottica è interessante notare come
ultimamente la Chiesa abbia valutato ed attuato un notevole cambio di
prospettiva.
In un recente articolo, apparso in
un quotidiano italiano, Padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana
dal 1978, ammette che oggi «la Chiesa non esclude l'esistenza di altri esseri
nell'universo. Oggi Giordano Bruno, condannato per le sue idee eretiche, e tra
queste l'affermazione della pluralità dei mondi abitati, non darebbe più
scandalo. Io stesso da anni faccio ricerche su stelle neonate per vedere se
hanno sistemi planetari come il nostro, premessa indispensabile perché altre
forme di vita possano svilupparsi»[178]. Coyne prosegue ricordando che già nella seconda
metà dell'Ottocento, Padre Angelo Secchi, allora direttore della Specola
Vaticana, affermava che la scoperta di extraterrestri non metterebbe affatto in
crisi la fede cattolica. Mi permetto naturalmente di dissentire con l'opinione
espressa a suo tempo dal Secchi, ma quello che qui interessa non sono opinioni
personali, quanto piuttosto le conseguenze teologiche dell'infinità
dell'universo e della possibilità di infiniti mondi abitati. Anche al giorno
d'oggi, di fatto, la Chiesa potrebbe accettare l'idea dell'esistenza di mondi
abitati, di un universo attualmente infinito (contro le teorie della relatività
e le ipotesi del Big-Bang), solo a patto di salvare la trascendenza di Dio, la
creazione, e quindi l'idea portante del Cristianesimo: Dio che si rivela
all'uomo nell'Incarnazione. La concezione bruniana, è fin troppo ovvio
sottolinearlo, esce nettamente da questi canoni e non soddisfa nessuna di queste
esigenze. Al contrario, le ribalta tutte: «Ma noi,- scrive Bruno - che
guardiamo non a le ombre fantastiche, ma a le cose medesime; noi veggiamo un
corpo aereo, etereo, spirituale, liquido, capace di loco di moto e di quiete,
sino immenso e infinito, - il che dovamo affermare almeno, perché non veggiamo
fine alcuno sensibilmente né razionalmente, - sappiamo certo che, essendo
effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve, secondo
la capacità sua corporale e modo suo, essere infinitamente infinito»[179]. L'universo è dunque uno spazio infinito,
«principio infinito». Parallela all'idea dell'infinità dell'universo è quella
del «corpo spirituale», ossia dell'anima mundi. Siamo in pieno
ermetismo: Dio è nelle cose, e non va cercato al di fuori di esse. Ma allora
non ha più ragion d'essere la gerarchia universale, che dalla Creazione ha
regolato l'esistenza umana, fin nei suoi minimi dettagli.
Nella Genesi l'uomo viene presentato
come eikon (immagine) e doxa (gloria) di Dio. L'uomo è fin
dall'inizio creatura posta fra gli angeli e il Signore. Da qui l'idea di una
successione gerarchica, massimamente evidente poi con la creazione di Eva, che
manifesta fin dall'inizio la sua insufficienza ontologica (essendo stata creata
per l'uomo, e non viceversa)[180]. Inutile sottolineare come l'idea di gerarchia
sia poi stata alla base della struttura della Chiesa e del tipo di società che
essa ha poi regolato, dall'interno. Importante
è invece rilevare che il monumentale edificio sociale costruito e regolato, in
gran parte direttamente, dalla Chiesa, ha cominciato ad emettere scricchiolii
proprio in concomitanza alle prime discussioni sul valore scientifico dei testi
sacri. Quello che era un blocco monolitico, non discutibile proprio perché
totalizzante, è stato colpito a morte nella sua pretesa unitaria sia
dall'interno (Lutero, a livello teologico) che dall'esterno (la filosofia
naturale, fino a Cartesio). In verità c'è chi ha sostenuto che questa
spaccatura risale a molti anni prima, ed è da addebitarsi nientemeno che a
S.Tommaso d'Aquino. Mi riferisco in questo caso alla posizione di mons.
Giuseppe Colombo (Preside della Facoltà teologica interregionale di Milano),
espressa al convegno tenutosi ad Aosta nel marzo 1988, sul tema: Anselmo
d'Aosta, figura europea[181].
Colombo, definendo Anselmo come un
«maestro solitario», passa a lamentarsi dei mali di cui soffrirebbe la teologia
moderna: mali che provengono certamente (a suo dire) dalla autonomizzazione
della filosofia dalla fede. Subito precisa poi che «se la nascita è sempre un
venire alla luce, la concezione avviene sempre nella notte [...]. Se la nascita
della filosofia moderna nel suo carattere di filosofia separata è correntemente
registrata sotto il nome di Cartesio, in realtà la concezione di separare la
fede e la ragione [...] va cercata a monte e si sussurra possa trovarsi nella
condanna di Tommaso[182], che impone l'interruzione brusca della relazione
intrecciata da S.Tommaso con Aristotele, denunciata come pericolosa per la
fede». Come teologo Colombo sostiene che tale divisione «riuscì fatale alla
teologia», infatti «nella polarizzazione moderna di fede e filosofia la
teologia è pregiudizialmente emarginata». Insomma la conclusione
dell'intervento di Colombo è che la vera figura della teologia si è realizzata
non già in un S.Tommaso, ma in un S. Anselmo d'Aosta, che nella sua «prova
ontologica» riportava di colpo la teologia nella sua indiscutibile area
autonoma. Sul tema della divisione tra teologia e filosofia, e dalle successive
divisioni all'interno della teologia stessa (che hanno segnato, insieme ad
altri notevoli fattori, la fine del periodo medievale e la nacita dell'era
moderna) ci sono quindi pareri contrastanti. In questa sede noi non possiamo
però non osservare la rilevanza della posizione ontologica anselmiana nei confronti
della metafisica di Giordano Bruno.
S.Anselmo, nel suo famoso Proslogion,
cerca di arrivare alla verità sull'esistenza di Dio mediante una riflessione
razionale cui possa accedere anche l'insipiens. Rilevante è che il
tentativo della dimostrazione dell'esistenza di Dio passi attraverso una
esposizione insiemistica. Dio viene pensato come la corrispondenza di quel
pensiero di cui non si può pensare alcunché di più grande: « [...] credimus te
esse aliquid quo nihil maius cogitari possit». Credo che in linguaggio
logico-matematico il concetto equivalga all'insieme più grande, che comprende
tutti gli altri. Ma la prova ontologica, per funzionare, deve proseguire oltre.
Ammettendo che si può pensare la totalità, non si è di fatto dimostrato nulla:
dal livello del pensiero occorre passare a quello della realtà. Ed è qui che il
pensiero di Anselmo comincia a farsi complicato: «certamente ciò di cui non si
può pensare nulla di più grande, non può trovarsi solo nella mente [...]. Se
infatti esiste almeno nell'intelletto, si può pensare che esista anche nella
realtà; e ciò è qualcosa di più. Se dunque ciò di cui non si può pensare
qualcosa di più grande è solamente nell'intelletto: ciò stesso di cui non si
può pensare qualcosa di maggiore, sarebbe ciò di cui si può pensare qualcosa di
maggiore. Ma questo certamente non può essere»[183]. Di fronte a questa contraddizione, Anselmo conclude
che «esiste dunque e nell'intelletto e nella realtà un qualcosa
di cui non si riesce a pensare qualcosa di più grande». Gaunilone, nel Liber
pro insipiente, colpirà Anselmo proprio sull'indebito passaggio tra realtà
pensata e realtà esistente, ed avrà naturalmente ragione. Ma procediamo oltre.
Anselmo, è evidente, rimane intrappolato nel labirinto degli insiemi in-finiti,
dei quali non si sa mai qual è quello che raccoglie tutti. Certamente Anselmo,
malgrado l'idea di comparazione, pensava ad un salto di qualità, all'ambito
della fede. L'avvicinamento a questo salto viene però compiuto mediante un
passo logico ben preciso, ed è questo quello che ci interessa in questa sede.
In termini insiemistici, Bruno non
avrebbe difficoltà a rispondere che l'insieme infinito più grande è
quello di Dio, l'unico ad essere attualmente infinito. Se però Anselmo avesse
dovuto accettare questa posizione, non avrebbe potuto salvaguardare
adeguatamente la trascendenza divina. Al contrario, spostando il discorso sulla
totalità, non riesce a mantenere la personaità di Dio. Dio è
diventato il Tutto. Ma il Tutto è Persona? Bruno si trova evidentemente in una
posizione affatto diversa: Dio è il Tutto, perde quindi la sua personalità -
cristianamente intesa - e non può essere oggetto di alcuna dimostrazione. Dio
non è alla base della gerarchia, non è possibile risalire alla sua divina
essenza tramite un rapporto di causa-effetto. A Dio ci si approssima solo
mediante l'ascensus mistico e la magia, e il rapporto col Vero, che si
esprime mediante la Natura infinita, sgretola alla base ogni concezione
religiosa o morale basata sulla gerarchia finito/infinito. Nicola Badaloni,
riferendosi alla concezione nolana, aveva opportunamente osservato: «Un esperto
frate, avverso al Bruno, M. Mersenne percepisce la pericolosità di questa
concezione, attraverso la quale il rapporto col vero stimola la distruzione di
vecchie gerarchie. L'anima universale, egli dice "spezza i fondamenti
della vita umana, della ragione, della vita associata, della morale e di tutto
ciò che serve a mantenere gli uomini in buona intelligenza fra loro. Se questa
anima universale informa tutto, a che scopo i servitori si assoggetterebbero ai
loro padroni?". Tanto più che potrebbe accadere che un servitore
"fosse più lesto e coraggioso del suo padrone"»[184]. Spero di aver mostrato, solo sfiorando questi
temi, come in realtà le pretese metafisiche di Bruno finissero per coinvolgere
tutti i piani dell'esistenza: la teoria dell'infinito coinvolge -
simultaneamente - sia la vita civile che l'ambito rigorosamente religioso
dell'esistenza umana. L'antropologia non può che vedere una coordinazione di
due elementi a questo punto fondamentali: il rapporto impossibile con
l'Infinito - mediato dall'umbra - e la possibilità di superare questo
limite assoluto solo mediante un progresso infinito - mediante, cioé la vicissitudine
universale. L'agire magico interessa appunto il momento pratico e conoscitivo
di questo ascensus. E' naturale quindi che la vita civile deve essere
riformata a partire dalla religione e dall'etica degli eroici furori:
l'amore spregiudicato per la verità è l'unica strada che l'uomo può percorrere
nella direzione di una completa divinizzazione (ovvero: per raggiungere un vero
adeguamento all'infinito).
La nolana filosofia, e Bruno
se ne rendeva perfettamente conto, non era dottrina facile né da capire né da
accettare nella sua interezza. Nella Cena infatti vengono presentati
molti intermezzi, quasi a concedere fiato al lettore, in cui si riconosce la
difficoltà della «proposta» e delle sue conseguenze: «Perché il Nolano, per
modo di passaggio, disse essere terre innumerabili simile a questa, or il
dottor Nundinio, come bon disputante, non avendo che cosa aggiongere al
proposito, comincia a rimandar fuor di proposito; e da quel che diceamo della
mobilità o immobilità di questo globo, interroga della qualità degli altri
globi, e vuol sapere di che materia fusser quelli corpi, che son stimati di
quinta essenzia, d'una materia inalterabile e incorrottibile, di cui le parti
più dense son le stelle»[185]. Siamo nel mezzo di una scena dalle tinte
comiche, tant'è vero che interviene addirittura Frulla: «Questa
interrogazione mi par fuor di proposizio benché io non m'intendo di logica»[186]. Continua Teofilo: «Il Nolano, per cortesia, non
gli volse improperar questo; ma, dopo avergli detto che arebbe piaciuto che
Nundinio seguitasse la materia principale, o che interogasse circa quella, gli
rispose che li altri globi, che son terre, non sono in punto alcuno differenti
da questo in specie; solo in esser più grandi e piccoli, come ne le altre
specie d'animali per le differenze individuali accade inequalità»[187]. Bruno insomma capisce durante la cena che non
può presentare ai dottori di Oxford la nolana filosofia nella sua
completezza, tanto che punti fondamentali vengono citati solo per modo di
passaggio. Ho già notato che in Inghilterra Bruno vuole solo farsi notare,
per poter divulgare con milgior agilità le proprie idee: deve quindi evitare di
essere «indigesto». Cosa che naturalmente, a dispetto delle sue intenzioni e a
causa del suo temperamento tutt'altro che adatto alla comunicazione
«tranquilla», non gli riuscì affatto. Qui mi preme comunque rilevare che molti
aspetti della nolana filosofia, sicuramente già presenti nella mente di
Bruno e nelle sue intenzioni, vengono nascosti o citati solo en passant.
Teofilo, proseguendo il racconto,
ricorda l'intervento del Nolano: «se ben consideriamo, trovarremo che la terra
e tanti altri corpi, che son chiamati astri, membri principali de l'universo,
come danno vita e nutrimento alle cose che da quelli toglieno la materia, ed a'
medesimi la restituiscano, cossì e molto maggiormente, hanno la vita in sé; per
la quale, con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se
muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi. E non sono altri motori
estrinseci, che col muovere fantastiche sfere vengano a trasportar questi corpi
come inchiodati in quelle [...]. Tutto avviene dal sufficiente principio
interiore per il quale naturalmente viene ad esagitarse, e non da principio
esteriore, come veggiamo sempre accadere a quelle cose, che son mosse o contra
o extra la propria natura. Muovensi dunque la terra e gli altri astri secondo
le proprie differenze locali dal principio intrinseco, che è l'anima propria. -
Credete, disse Nundinio, che sii sensitiva quest'anima? - Non solo sensitiva,
rispose il Nolano; non solo intellettiva, come la nostra, ma forse anco più. -
Qua tacque Nundinio, e non rise»[188]. Il momento è quasi drammatico: affiora con
prepotenza l'immagine dell'anima mundi, di cui abbiamo notato le
profonde implicazioni a livello etco ed antropologico. Di colpo compare anche quello che io considero l'elemento
equilibratore di tutto l'impianto filosofico del Nolano: l'armonia, di
matrice evidente pitagorica.
L' anima mundi si esplica in
una azione che è anzitutto «armonica». Questo era stato chiarito già nel De
Umbris, dove Bruno aveva parlato di un ordine meravilglioso,
pitagoricamente inteso: «Proprio così come nella varietà stessa delle cose
distinguiamo un ordine meraviglioso, che, instaurando una connessione degli
elementi sommi con gl'infimi e degl'infimi con i sommi, fa concorrere tutte le
parti insieme a costituire il bellissimo aspetto di un solo grande essere
animato (qual è il mondo), poiché tanta diversità richiede tanto ordine e un
così grande ordine tanta diversità»[189]. Ma l'ordine meraviglioso non è ancora sublimato
in armonia divina, come sarà invece nel De la Causa, dove Bruno in una
pagina veramente poetica descriverà la vita universale che si produce in una
serie infinita di forme.
Nel Dialogo secondo del De la
Causa, dove Bruno giunge alla fondazione metafisica della realtà animata,
avevamo infatti letto che: «l'intelletto universale è l'intima, più reale e
propria facultà e parte potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo
che empie il tutto, illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue
specie come si conviene [...]. E' detto da' Maghi fecondissimo de semi o
pur seminatore; perché lui è quello che impregna la materia di tutte
forme e, secondo la raggione e condizion di quelle, la viene a figurare,
formare, intessere con tanti ordini mirabili, li quali non possono attribuirsi
al caso [...]. Da noi si chiama artefice interno, perché forma la materia e la
figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il stipe; da
dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance; da dentro
queste ispiega le gemme; da dentro forma, figura intesse, come di nervi, le
frondi, gli fiori, gli frutti»[190]. Per Bruno, lo avevo ricordato, l'artefice
interno, «opra continuamente tutto in tutto»[191], conferendo all'universo una inesauribile armonia
di forme e movimenti. Il «tutto in tutto» è insomma perdita di ogni punto di
riferimento, ma tutt'altro che confusione e caos. Nell'universo
infinito, lo smarrimento è solo momentaneo.
Alla luce delle considerazioni
sull'ordine della scala naturae e del percorso prestabilito che segue la
natura nel suo prodursi infinito, nella alternanza delle forme e
nell'incessante divenire, credo si possa considerare l'armonia come una
delle possibili categorie per interpretare il pensiero del Nolano. Anche l'idea
di dissoluzione del centro e periferia, e quindi dell'ordine stabile
dell'universo, a mio parere, può e anzi deve essere letta alla luce del
concetto di armonia. La distruzione dei limiti e degli ordini prestabiliti non
comporta mai in Bruno una sorta di anarchia. Al contrario: là dove era
un ordine stabile, ora splende un ordine mutevole, una armonia divina che è
percettibile solo al filosofo, sempre mediante l'ascesi mistica. Credo
che anche qui Bruno non voglia intendere una sorta di illuminazione diretta,
quanto di incontro mistico, riflessivo, contemplativo. Una sorta di estasi
plotiniana. Solo il filosofo che ha a lungo praticato la filosofia della
natura (ossia la vera teologia) può cominciare a percepire quell'armonia
divina che regola da dentro tutto l'universo. E' ovviamente ben
difficile distinguere a questo punto l'armonia divina da Dio stesso, visto che
il Dio di Bruno è affatto impersonale. Nei dialoghi metafisici Dio è inteso
infatti come una forza cosmica, semplicemente definibile con l'idea della
Vita-materia-infinita (secondo una felice espressione di Michele Ciliberto).
La problematica della distinzione
tra Dio e universo viene risolta sul terreno della doppia infinità, come
preannunciava il De la Causa e come si vedrà esplicitamente nel De
l'infinito. Parallelamente credo che il problema della personalità di Dio
venga risolta proprio in termini infinitistici: Dio è Persona in quanto
trascende l'infinito dell'universo. L'infinito di Dio, per così dire
comprendendo l'infinito dell'universo, ed essendo qualitativamente superiore
(l'universo infatti non è mai attualmente infinito, almeno che non lo si
intenda come totalità: ma in questo caso non è più universo, ma Dio, che è
appunto tutto in tutto, ossia attualmente infinito, proprio perché Uno)
determina la differenza tra Dio e l'universo, e così mette il luce la
personalità di Dio. Credo che questo sia l'unico modo per salvare sia la
trascendenza che la personalità divina, all'interno del quadro teologico
bruniano.
Nel processo sopra riportato
possiamo distinguere due momenti: una pars construens ed una denstruens.
L'infinitizzazione del cosmo porta alla cancellazione degli ordini precedenti,
e questo è il momento negativo. Ma i vecchi ordini vengono sostituiti da un
nuovo ordine divino, che è anzitutto armonia: e questa è la parte
positiva. Alle fredde leggi matematiche di Copernico possiamo ora affiancare la
più intima convinzione di Bruno: le intuizioni del polacco non sono altro che
l'esposizione matematica di una verità precedente, antecedente, fondativa:
Dio regola il mondo dall'interno, mediante leggi magiche che seguono una loro
armonia intrinseca.
Riemergono a questo punto anche i
motivi ermetici tenuti finora sapientemente in ombra: «Come è più che
verisimile, essendo che ogni cosa partecipa de vita, molti ed innumerabili
individui vivono non solamente in noi, ma in tutte le cose composte; e quando
veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto credere quella
morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e
concordia»[192]. Dove concordia sta ad esprimere appunto
l'idea dell'armonia, i molti ed innumerabili individui che vivono
non solo in noi ma anche nei composti rendono estremamente concreta l'idea
della vita-materia infinita e divina, propria della tradizione ermetica. Si
tratta (è questo lo stile caratterstico della Cena) solo di una toccata
e fuga, perché subito il discorso ritorna all'astronomia.
Per confutare le tesi copernicane
viene addotto anche l'argomento delle nuvole dell'aria: «se fusse vero la terra
muoversi verso il lato che chiamiamo oriente, necessario sarebbe che le nuvole
d'aria sempre apparissero discorrere verso l'occidente, per raggione del
velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spacio di ventiquattro
ore deve aver compito sì gran giro. - A questo rispose il Nolano, che questo
aere, per il quale discorrono le nuvole e gli venti, è parte della terra;
perché sotto il nome di terra vuol lui (e deve essere cossì al proposito) che
se intenda tutta la macchina e tutto l'animale intero, che costa di sue parti
dissimilari [...]. Le nuvole dunque da gli accidenti, che son nel corpo de la
terra, si muoveno e son come nelle viscere di quella, cossì come le acqui»[193]. La risposta di Bruno è chiara e del tutto
coerente: non vale l'argomentazione delle nuvole perché queste sono parte della
terra, e la terra è un grande animale animato che si autoregola dall'interno,
con tutto ciò che contiene. La teoria dell'infinito poggia insomma su una sua logica
coerenza interna, e le argomentazioni che si possono addurre contro di essa non
valgono in partenza, perché sono solo parte di altri ragionamenti, rimangono
cioé all'interno di un'ottica finitista. Una volta che si sono accettati i
presupposti della teoria copernicana, non si possono non trarre le dovute
consuguenze, sia astronomiche che filosofiche che teologiche.
A proposito del rapporto tra
teologia e filosofia, il Dialogo quarto vede porsi in primo piano proprio
questo discorso:
«Smitho. Volete ch'io vi dica
la causa?
Teofilo. Ditela pure.
Smitho. Perché la divina Scrittura (il senso della quale
ne deve essere molto raccomandato, come cosa che preocede da intelligenze
superiori che non errano) in molti luoghi accenna e suppone il contrario.
Teofilo. Or, quanto a questo, credetemi che, se gli Dei
si fussero degnati d'insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne ha
fatto favore di proporci la prattica di cose morali, io più tosto mi accosterei
alla fede de le loro rivelazioni, che muovernmi punto della certezza de mie
raggioni e proprii sentimenti. Ma, come chiarissimamente ognuno può vedere,
nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le
demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia;
ma, in grazia de la nostra mente ed affetto, per le leggi si ordina la prattica
circa le azioni morali. Avendo dunque il divino legislatore questo scopo avanti
gli occhii, nel resto non si cura di parlar secondo quella verità, per la quale
non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male e appigliarse al bene; ma
di questo pensiero lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo in
maniera che, secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire
quel ch'è principale.
Smitho. Certo è cosa conveniente, quando uno cerca di
far istoria e donar leggi, parlar secondo la comone intelligenza, e non esser
sollecito in cose indifferenti. Pazzo sarebbe l'istorico, che, trattando la sua
materia, volesse ordinar vocaboli stimati novi e riformar i vecchi, e far di
modo che il lettore sii più trattenuto a osservarlo e interpretarlo come
gramatico, che intenderlo come istorico»[194].
Emerge quindi con forza il ruolo
pedagogico della teologia: ad essa non spetta un compito speculativo, ma
pratico. Mentre lo studio delle cose naturali è affidato all'intelletto che
ragiona, alla teologia spetterebbe invece il compito di legiferare e regolare
sulla fede le azioni morali dei volgari. La Bibbia non cerca la verità
delle cose fisiche, ma la bontà dei costumi, e non va quindi presa alla
lettera.
Col dialogo Quinto viene ripresa e
conclusa definitivamente la problematica del centro dell'Universo e della sua
supposta sfericità: «Perché non son più né altramente fisse le altre stelle al
cielo, che questa stella, che è la terra, è fissa nel medesimo firmamento, che
è l'aria; e non è più degno d'esser chiamato ottava sfera, dove è la coda de l'Orsa,
che dove è la terra, nella quale siamo noi; perché in una medesima eterea
reggione, come in un medesimo gran spacio e campo, son questi corpi distinti e
con certi convenienti intervalli allontanati gli uni da gli altri; considerate
la caggione, per la quale son stati giudicati sette cieli degli erranti, ed uno
solo di tutti gli altri»[195]. E' ovvio rilevare che il discorso sulla dignità
coinvolge direttamente ancora una volta il piano antropologico, secondo le
linee che abbiamo già individuato: la scomparsa della gerarchia non significa
affatto confusione e dispersione, assenza di leggi, perdita di valore della
Terra e dell'uomo. Al contrario: l'uomo viene in qualche modo divinizzato al
pari degli altri astri (che prima in funzione della gerarchia si credevano più
vicini a Dio) e al pari della nuova legge universale: la legge dell'armonia
divina che regola il tutto dall'interno. A ripetere che l'idea di uno spazio
infinito è tutt'altro che nuova, Bruno ricorda che «Questa distinzion di corpi
ne la eterea reggione l'ha conosciuta Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora,
Parmenide, Melisso, come ne fan manifesto quei stracci che n'abbiamo: onde si
vede, che conobbero uno spazio infinito, regione infinita, selva infinita,
capaità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì
compiscono i loro circoli, come la terra il suo; e però anticamente si
chiamavano ethera, cioé corridoi, corrieri, nuncii della manificenza de l'unico
altissimo, che con musicale armonia contemprano l'ordine della constituzion
della natura, vivo specchio dell'infinita deità». Bruno interpreta quindi
l'etere degli antichi a suo modo: «il qual nome di ethera dalla cieca ignoranza
è stato tolto a questi, ed attribuito a certe quinte essenze, nelle quali, come
tanti chiodi, siino inchiodate queste lucciole e lanterne. Questi corridoi
hanno il principio di moti intrinseco, la propria natura, la propria anima, la
propria intelligenza»[196].
Nell'infinito, Bruno insiste
parecchio su questo punto, si perdono tutte le determinazioni relative, a
partire dalle tradizionali distinzioni tra corpi gravi e lievi: «Teofilo.
Sappi, che né la terra, né altro corpo è assolutamente grave o lieve. Nessuno
corpo nel suo loco è grave né legiero; ma queste differenze è qualità accadeno
non a' corpi principali e particolari individui perfetti dell'universo, ma
convengono alle parti, che son diverse dal tutto, e che se ritrovano fuor del
proprio continete, e come peregrine»[197]. La questione della gravità viene allora risolta
in questi termini: né la terra né altro corpo è in senso assoluto
pesante o leggero, questa differenza si prouce solo se in generale i corpi o
meglio le loro parti si allontano dal loro luogo naturale: «Perciò si potrebbe
concedere, che il sole si muova circa il proprio centro, ma non già circa altro
mezzo; atteso che basta, che tutti gli altri corpi si muovano circa lui, per
tanto che di esso quelli han bisogno»[198]. Ma qual è la causa del moto locale della terra?
«Teofilo. La caggione di
cotal moto è la rinovazione e rinacenza di questo corpo; il quale, secondo la
medesima disposizione, non può esser perpetuo [...]. Perché, essendo la materia
e sustanza delle cose incorrottibile, e dovendo quella secondo tutte le parti
esser soggetto di tutte le forme, a fin che secondo tutte le parti, per quanto
è capace, si fia tutto, sia tutto, se non in un medesimo tempo ed istante
d'eternità, al meno in diversi tempi, in varii istanti d'eternità successiva e
vicissitudinalmente; perché, quantumque tutta la materia sia capace di tutte le
forme insieme, non però de tutte quelle insieme può esser capace ogni parte
della materia; però a questa massa intera, della qual consta questo globo,
questo astro, non essendo conveniente la morte e la dissoluzione, ed essendo a
tutta natura impossibile l'annichilazione, a tempi a tempi, con certo ordine,
viene rinovarsi, alterando, cangiando, le sue parti tutte»[199]. E' evidente la ripresa del motivo ermetico della
materia e sustanza delle cose incorruttibile, proprio come Tat aveva
rivelato ad Ermete Trismegisto: «gli esseri viventi non muoiono, ma, essendo
corpi composti, si dissolvono: e questa dissoluzione non è morte ma
dissoluzione di una commistione. E se si dissolvono, non si distruggono, ma si
rinnovano. Che cos'è infatti l'energia della vita? Non è forse movimento? O
cosa c'è nel mondo che sia immobile? Niente, figlio mio.
Ma almeno la terra, padre, non sembra
immobile?
No, figlio, al contrario, sola fra tutti gli
esseri, essa è soggetta ad una moltitudine di movimenti, ed è insieme stabile.
Non sarebbe forse ridicolo supporre che questa nutrice di tutti gli esseri
fosse immobile, essa che dà la nascita a tutte le cose? Senza movimento, in
realtà, è impossibile generare. E' del tutto assurdo chiedere, come fai tu, se
la quarta parte del mondo non sia per caso inerte: essere immobile, per un
corpo, non può infatti aver altro significato che quello di essere inerte.
Sappi dunque, figlio, che tutto ciò che è al mondo, senza eccezione, si muove,
o per diminuire o per accrescersi; e che ciò che si muove è nello stesso tempo
vivo, senza però alcuna necessità che ogni essere vivente debba conservare la
propria identità»[200].
Nella Cena insomma, Bruno
ripete meno, e meno apertamente, la provenienza delle sue idee. L'idea di una
riforma religiosa esige ovviamente una serie ragionata di cautele. Il discorso
della Cena non è apertamente magico né mistico. Non emergono
direttamente le critiche e le polemiche anti-cristiane, né l'immagine della
crisi universale. La Cena è in realtà il resoconto di una disputa
cosmologica e filosofica, in cui gli elementi ermetici sono o del tutto
mascherati o costituiscono una sorta di substratum ideologico tenuto
sempre, con grande abilità, in secondo piano. Certamente la filosofia
cosmologica che propone Bruno è ben lontana da quella dei dottori di Oxford, e
questo è evidente anzitutto a partire dal giudizio del Nolano su Copernico. Per
Bruno, è bene non dimenticarlo, «altro è giocare con la geometria, altro è
verificare con la natura»[201]: questa sua convinzione si farà sentire
soprattutto nelle ultime opere, quelle dedicate sintomaticamente alla magia
naturalis.
CAPITOLO V
Or ecco, vi porgo la mia
contemplazione circa l'infinito, universo e mondi innumerabili.[202]
Il De l'infinito è
sicuramente, insieme al De la Causa, il Dialogo bruniano più studiato,
più citato, e, naturalmente, più frainteso. Generalmente la posizione che è
prevalsa, almeno negli ultimi anni, è stata infatti quella propensa a
considerare il dialogo inglese come l'esposizione più completa della filosofia
nolana. Augusto Guzzo, per esempio, aveva addirittura scritto: «Il De
l'infinito era, per il Bruno, la sua filosofia, di cui gli altri scritti
volevano essere una semplice preparazione»[203]. Personalmente, credo che non sia possibile
sostenere queste posizioni. In realtà il De infinito, insieme al De
immenso, costituisce una esplicazione completa a livello cosmologico di
risultati teorici raggiunti altrove, a partire dalle opere
magico-mnemotecniche, nelle quali, come abbiamo visto, Bruno aveva già
cominciato a delineare in modo abbastanza preciso la sua metafisica. Credo che
insomma che il De infinito sia ancora un punto intermedio della nolana
filosofia, certo fondamentale, ma assolutamente non conclusivo. La
conclusione della filosofia di Bruno è infatti la magia, ovvero la proposta di
una nuova (ma ad un tempo antica) religione, una tecnica teurgica, tutta
impostata al fine di realizzare l'unione umana con la divinità.
Il pensiero di Bruno non si è dunque
fermato al "nuovo" panteismo cosmologico e infinitistico. La
conclusione naturale (ed esplicita, anche se per lo più trascurata o
addirittura ignorata dalla critica), della filosofia di Bruno è infatti il misticismo
magico, ossia quel particolare atteggiamento spirituale che tende
all'unione col divino mediante il superamento dei limiti naturali. Bruno si
sente il profeta di una dottrina ben precisa: non solo annuncia che Dio è
presente come fons vitae, come principio animatore, nell'universo
infinito (secondo i canoni della rivelazione ermetica), ma rivela all'uomo la
vera religione, lo rende finalmente consapevole della sua possibilità di
raggiungere l'Assoluto.
Scriverà infatti nella Proemiale
Epistola: «questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il
spirito, magnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera beatitudine che può
avere come uomo; perché lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco
sentimento di dolori, lo fa godere dell'esser presente, e non più temere che
sperare del futuro; perché la providenza o fato o sorte, che dispone della
vicissitudine del nostro essere particolare, non vuole né permette che più
sappiamo dell'uno che ignoriamo dell'altro, alla prima vista e primo rancontro
rendendoci dubii e perplessi. Ma mentre consideramo più profondamente l'essere
e sustanza di quello in cui siamo inmutabili, trovaremo non esser morte, non
solo per noi, ma né per veruna sustanza; mentre nulla sostanzialmente si
sminuisce, ma tutto, per infinito spacio ricorrendo, cangia il volto. E perché
tutti soggiacemo ad ottimo efficiente, non doviamo credere, stimare e sperare
altro, eccetto che come tutto è da buono; cossì tutto è buono, per buono e a
buono; da bene, per bene, a bene»[204].
L'unica beatitudine che l'uomo può
avere come uomo si attua insomma nel corso infinito della vicissitudine
universale, nella quale non c'è morte, ma solo bene, essendo il male assorbito
in una dinamica del tutto positiva, razionale, divina. Essendoci coincidenza
tra Dio e Universo, non è infatti possibile che in questi ci sia il male, a
meno che non si voglia cadere in contraddizione attribuendolo anche a Dio. La
dottrina della infinità dei mondi ha in serbo una antica novità: la divinità
ontologica dell'uomo non più creatura ma parte dell'infinito. La vera religione
è naturalmente quella egizia, quella mitica, autentica religione dell'età
dell'oro. Mito, magia, misticismo, filosofia si fondono in un intreccio
fantastico.
Il De l'infinito insomma è
solo un capitolo del nuovo vangelo bruniano, e per di più viene completato da
un ulteriore opera latina, il De immenso. Possiamo quindi condividere
quello che già Alexander Koyré, in uno studio ormai classico, aveva notato: «la
più chiara e potente presentazione del nuovo evangelo dell'unità ed infinità
del mondo si trova nel dialogo italiano De l'infinito, universo e mondi
e nel poema latino De immenso et innumerabilibus»[205].
Il dialogo inglese è notevole
soprattutto a causa dell'utilizzo, estremamente radicale, di due princìpi che
risultano fondamentali per la comprensione della teoria infinitista a livello
cosmo-teologico: il famoso principium plenitudis (per cui è bene che uno
spazio infinito contenga infiniti mondi come il nostro), e l'argomento
teologico, secondo il quale l'infinita potenza divina, nella sua
esplicazione, non può che manifestarsi in un universo infinito. Bruno distingue
nettamente i due momenti, e conferisce ad essi un particolare rilievo.
Nel De infinito vengono
portate a compimento tutte le premesse metafisiche e cosmologiche della Cena
e del De la Causa. L'universo che Bruno presenta nei cinque dialoghi che
compongono l'opera è apertamente infinito, e lo stesso concetto di infinito
viene qui completamente purificato dalle sue interpretazioni ambigue, sia da un
punto di vista formale, sia da un punto di vista ontologico. Viene infatti
totalmente eliminato l'aspetto negativo dell'infinito, evidente a partire dalla
denominazione greca (àpeiron significava appunto mancanza di limite, per
cui infinito era anche l'equivalente di indeterminato).
Parallelamente viene messo in primo piano l'aspetto positivo, che corrisponde
ad una delle caratteristiche più evidenti dell'infinito, ovvero quella di
essere l'essenza di Dio, la somma delle perfezioni possibili (e quindi la
perfezione assoluta), la forza che fonda il finito e ne garantisce la
sussistenza ontologica. Teoreticamente, l'infinito viene presentato come uno
dei due aspetti della realtà binaria: finito e infinito, costituiscono
apertamente, con pari diritto, l'essenza della realtà. Al finito corrisponde
l'idea del minimo, all'infinito quella del massimo. In questa
visione, profondamente panteistica, il problema del male e della morte sembra
essere assorbito all'interno della dialettica degli opposti, del movimento: il
male e la morte sono solo apparenti, perché in Dio c'è solo il bene e in Lui
non si può pensare che ci sia corrozione.
La filosofia nolana, con l'adozione
del magico numero binario all'interno del quadro speculativo
panteista-vitalistico è diventata formalmente matura, e il De l'infinito
sembra avere proprio lo scopo di provarlo. Viene qui abbandonata senza mezzi
termini (per la prima volta in un modo così radicale) la tradizione
aristotelica di un universo limitato: sono maturati, ed ora emergono con forza,
sul piano cosmologico, i risultati ottenuti nel De la Causa ad un
livello metafisico. Non si tratta più di un resoconto di una disputa
dialettica, come nel caso della Cena delle Ceneri, ma dell'esposizione
chiara e precisa della nuova teoria cosmologica. Si può dire allora che
il De l'infinito risponda alla semplice domanda: quali sono le
conseguenze - cosmologiche - di un'opera come il De la Causa?
Ovviamente, e ormai siamo abituati
ad una lettura per così dire «stratificata» del pensiero di Bruno, emergono
anche importanti considerazioni ed implicaziobni di carattere gnoseologico e
morale. Dal punto di vista della teoria della conoscenza i limiti
dell'esperienza umana, del senso comune, vengono infatti definitivamente
superati dall'intelletto, unico affidabile organo gnoseologico e teurgico.
Ma la rivoluzione cosmologica si mostra gravida di conseguenze anche sul piano
dell'etica civile.
Ancora una volta, già nella Proemiale
Epistola, affiora per esempio la critica del sapere pedantesco, nella
formula che ormai ben conosciamo: la verità è già stata data all'uomo, e poi
sepolta nelle tenebre dell'ignoranza. Il sapere del logico e del matematico
(dell'aristotelico) è vuoto e astratto: forma senza sostanza. Bruno vuole
confermare invece l'antica sapienza egizia, e, conformemente ai canoni della filosofia
ermetica, ripetere che la rinascenza dell'antico passa per la confutazione, puntum
contra puntum, delle tesi aristotelico tolemaiche e delle loro implicazioni
onto-teologiche.
La pars construens della
teoria nolana, a livello metafisico esposta nel De la Causa, era stata
preceduta da una corrispondente pars denstruens - cosmologica - della Cena.
Ora, con il De l'infinito, universo e mondi, il circolo
ideologico si chiude con argomentazioni sia di carattere negativo sia positivo.
Affrontiamo quindi l'analisi del concetto infinito nell'ultimo dei «dialoghi
metafisici» che ho preso in considerazione: il De l'infinito, universo e
mondi.
Già all'apertura del dialogo, viene
messo apertamente a fuoco il continuum ideologico con l'antica, vera
sapienza: quella egizia. Ma non solo. Nella Proemiale Epistola, ad
esempio, viene riportato anche il noto argomento lucreziano[206]: può la freccia oltrepassare i limiti del mondo?
Ma con l'esposizione di questo primo paradosso siamo solo alle indicazioni
programmatiche. Lucrezio vuole essere solo un richiamo all'antico dimenticato,
secondo la solita immagine che ha di mira le presunzioni accademiche dei
pedanti aristotelici e l'idea della crisi universale. In realtà il De rerum
natura serve al Nolano solo come punto di partenza per un nuovo percorso
epistemologico e cosmologico insieme. Il programma epistemologico - positivo e
negativo - passa anzitutto attraverso la distruzione del senso esterno:
«Filoteo. Non è senso che
vegga l'infinito, non è senso da cui si richieda questa conchiusione; perché
l'infinito non può essere oggetto del senso; è però chi dimanda di conoscere
questo per via di senso, è simile a colui che volesse veder con gli occhi la
sustanza e l'essenza; e chi negasse per questo la cosa, perché non è sensibile
o visibile, verebe a negar la propria sustanza ed essere. Però deve esser modo
circa il dimandar testimonio del senso; a cui non doniamo luogo in altro che in
cose sensibili, anco non senza suspizione, se non entra in giudizio gionto alla
raggione. A l'intelletto conviene giudicare e render raggione de le cose
absenti e divise per distanza di tempo ed intervallo di luoghi. Ed in questo
assai ne basta ed assai sufficiente testimonio abbiamo dal senso per quel, che
non è potente a contradirne e che oltre fa evidente e confessa la sua
imbecillità ed insufficienza per l'apparenza de la finitudine che caggiona per
il suo orizonte, in formar della quale ancora si vede quanto sia incostante.
Or, come abbiamo per esperienza, che ne inganna nella superficie di questo
globo in cui ne ritroviamo, molto maggiormente doviamo averlo suspetto quanto a
quel termine che nella stellifera concavità ne fa comprendere.
Elpino. A che dunque ne serveno gli sensi? Dite.
Filoteo. Ad eccitar la raggione solamente, ad accusare,
ad indicare e testificare in parte, non a testificare in tutto, né meno a
giudicare, né a condannare. Perché giamai, quantunque perfetti, son senza
qualche perturbazione. Onde la verità,come da un debile principio, è dagli
sensi in picciola parte, ma non è nelli sensi.
Elpino. Dove dunque?
Filoteo. Ne l'oggetto sensibile come in un specchio,
nella raggione per modo di argumentazione e discorso, nell'intelletto per modo
di principio o di conclusione, nella mente in propria e viva forma»[207].
Bruno sta spiegando che mentre per
la percezione sensibile (ed il conseguente calcolo matematico o
rappresentazione geometrica) l'infinità è inaccessibile ed irrappresentabile,
al contrario per l'intelletto essa è concetto primario e certissimo,
soprattutto alla luce di quella che ho chiamato «filosofia binaria» (espressa
sottilmente proprio all'inizio del primo dialogo metafisico, la Cena de le
Ceneri). Così come esistono due aspetti del reale così diversi fra
loro (finito e infinito), allo stesso modo l'uomo è dotato di due organi
conoscitivi: i sensi per il finito e l'intelletto per l'infinito. Ma occorre su
questo punto tentare una ulteriore riflessione. Se Bruno nega l'accesso
all'infinito tramite i sensi, come mai ha tenuto in così grande considerazione
la teoria di Copernico (che da buon astronomo non poteva certo rinunciare alla vista
dei cieli stellati, e quindi all'uso diretto dei sensi, pur nella
consapevolezza della loro relativa affidabilità): come mai ha insomma
apertamente lodato una teoria basata anzitutto sull'osservazione?
Interpretare il giudizio di Bruno su
Copernico alla luce delle tesi esposte nel De infinito significa allora
spingersi ad approfondire ancor di più il livello speculativo della teoria
infinitista nolana. Dalla lettura di alcuni dei passaggi fondamentali del testo
emerge con chiarezza un dato fondamentale: Bruno sembra voler porre una sottile
distinzione di metodo. Un conto è «prospetivare», giocare con la geometria o la
matematica, cercare spiegazioni e dimostrazioni fisicho-matematiche (di verità
precedentemente acquisite); altro è invece vedere con gli occhi della
mente, magicamente, per intuizione diretta, al di là dei sensi.
Riemerge insomma il problema della
conoscenza. Come l'uomo conosce? Nel De la Causa, l'oggetto della
conoscenza era stato definito in termini di «vestigia», «simulacro»,
«specchio». Già nel De umbris Bruno aveva del resto ampiamente chiarito,
mediante la metafora dell'ombra, i limiti invalicabili della conoscenza umana
ordinaria, quella che si effettua attraverso l'uso dei sensi: non si può andare
al di là dell'umbra. Tra finito e infinito l'umbra costituisce un
filtro indispensabile alla conoscenza e all'esistenza dell'uno e dell'altro. In
ogni caso, in quanto costante ontologica, l'umbra è un limite che non si
può oltrepassare. Ma le cose cambiano se passiamo ad analizzare la conoscenza
del mago.
Il mago, proprio perché dotato di
poteri superiori a quelli dell'uomo comune, sa andare al di là dell'ombra, in
quanto ne comprende a fondo il significato metafisico. Certo, la sua non è (e
non potrebbe essere) una visione perfetta, nitida, ma senza dubbio riesce a
penetrare il velo dell'oscurità molto più a fondo di quanto non possano i sensi
«comuni». Si noti: il mago possiede già un certo bagaglio di conoscenze, a
volte ben precise, specialmente a livello tecnico-metodologico. Al di là delle
varie tecniche magiche o mnemotecniche (a volte assai vaghe o stravaganti, a
volte invece di una originalità imbarazzante, come nel caso della mnemotecnica,
che presenta impressionanti analogie con i moderni metodi di memorizzazione
veloce e in generale sembra essere ampiamente confermata dai più recenti studi
sulla memoria), il mago può appellarsi ad una serie di verità ermetiche
capitali. Esse riguardano la struttura del mondo e della materia, il problema
della trascendenza divina, una serie precisa di dottrine soteriologiche, etc.
etc. La tradizione ermetica si innesta ancora una volta nel magico misticismo
di Bruno, con il risultato evidente di una profonda commistione tra scienza
(magico-ermetica) e verità filosofica, logica fantastica e mnemotecnica,
religione e cosmologia.
In questo quadro le possibilità
della conoscenza umana vengono valutate seguendo i valori della scala
naturae, in termini di ascensus e decensus
mistico-conoscitivo. Si noti: la struttura umbratile del mondo e quindi della
conoscenza umana garantisce anche l'insondabilità, in termini di di-mostrazione
dell'infinito. L'infinito, all'interno della magica filosofia binaria
rappresenta immediatamente un termine necessario per garantire l'esistenza del
finito. Per Bruno, chi domanda le possibilità di una di-mostrazione umana
dell'infinito, in termini razionali, chiede in realtà di di-mostrare
l'esistente, la realtà. Ovviamente, dimostrare l'esistenza del reale significa
dimostrare l'esistenza di Dio.
Copernico allora viene accettato non
nelle sue conclusioni (al centro dell'universo non sta il mondo, ma il sole),
ma nelle sue premesse: esiste una gerarchia assoluta? Una domanda di questo
tipo doveva portare inevitabilmente, secondo Bruno, alla revisione della
struttura dell'universo e alla accettazione della verità sepolta: il mondo è
infinito, perché è esplicazione infinita della potenza di Dio. Copernico
insomma sembra a Bruno essersi mosso all'interno di una embrionale filosofia
dell'infinito. Il primo passo verso la teoria infinitista è infatti la messa in
crisi delle tradizionali gerarchie. Inoltre, il rapoporto Terra-Sole, parallelo
a quello Uomo-Dio, doveva certamente sembrare a Bruno un ottimo elemento da
inserire nella sua concezione della realtà binaria, che, come spero di aver
dimostrato, è alla base della filosofia del Nolano (inserendosi perfettamente
nella teoria dell'umbra).
La filosofia dell'ermetico numero binario
conduce direttamente ad un inglobamento, che sarà ripetuto da Hegel,
dell'irrazionale all'interno del misterioso spettacolo della Natura: uno
spettacolo tutto divino e perciò razionale. Il concetto superiore di armonia
divina elimina quindi alla base ogni possibilità di esistenza dell'irrazionale
e del negativo. L'irrazionale esiste solo a livello epistemologico, e sta ad
indicare il limite posto dall'umbra: l'uomo non può - e non potrà mai -
conoscere la sostanza del divino. In un mondo in cui tutto ciò che esiste
corrisponde ad una esplicazione della infinita potenza divina, rimane posto
solo per l'incomprensibile, il non-conoscibile. Il male è in realtà un prodotto
esclusivo dell'agire umano: l'etica degli heroici furori è appunto tutta
centrata su questa convinzione.
L'infinito è per Bruno semplicemente
necessario, serve a fondare il finito: «se è raggione che sia un buono finito,
un perfetto terminato; improporzionalmente è raggione che sia un buono
infinito; perché, dove il finito bene è per convenienza e raggione, l'infinito
è per absoluta necessità»[208]. In questo senso viene eliminata in un solo colpo
tutta la problematica dialettica della correttezza formale in fase di
di-mostrazioni:
«Elpinio. come è possibile
che l'universo sia infinito?
Filoteo. Come è possibile che l'universo sia finito?
Elpinio. Volete voi che si possa dimostrar questa
infinitudine?
Filoteo. Volete voi che si possa dimostrar questa
finitudine?»[209].
Dalla dialettica delle due posizioni
opposte non sembrano dunque emergere soluzioni possibili. Sul piano delle prove,
nessun punto di svolta. L'aporia viene però di colpo superata se si rinnova un
cambiamento di prospettiva: l'unica «prova» possibile diventa quella
ontologica, quella che sembra chiarire la necessità dell'infinito (della
Totalità).
Dell'infinito, soprattutto se
considerato come assoluto (Dio) non è possiile dare alcuna dimostrazione. Il
problema è casomai quello di esemplificare, render chiaro ciò che è ombra,
precisare le possibili analogie concettuali del divino col modo di pensare
dell'umano. Ma allora il discorso, ancora una volta, cambia prospettiva:
qualsiasi parte dell'universo, presa in se stessa è finita. Se invece
consideriamo l'universo inteso come totalità, nella vicissitudine universale
dei singoli mondi, ecco che possiamo avvicinarci adeguatamente all'idea di
infinito: ricordiamoci che la conoscenza è possibile solo sotto il codice dell'umbra.
Paradossalmente, si può quindi dire che non si può pensare (comprendere)
l'infinito. Nondimeno, questo costituisce il necessario opposto del finito.
All'infinito non si giunge
razionalmente, ma per mezzo di metodi magici. Non si tratta insomma di mettere
in campo induzioni o paradossi, con conseguenti argomentazioni. Già l'overture
ironica che abbiamo sopra riportato ci rende chiara l'impostazione
epistemologica, del resto perfettamente coerente con le tesi sostenute nel De
umbris e nel De la Causa, dove Bruno aveva sostenuto che «della
divina sustanza, sì per essere infinita, sì per essere lontanissima da quelli
effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade,
non possiamo conoscer nulla se non per modo di vestigio»[210].
Ecco perché le critiche a Copernico
erano rivolte su un piano metodologico: in fondo era la gnoseologia di
Copernico che Bruno non poteva accettare. E le mancate conclusioni alle sue
stesse premesse erano appunto il segno evidente di una errata impostazione
metodologica. La teoria cosmologica deve servire solo ad illustrare una verità
già raggiunta, mediante l'incontro magico con una realtà tutta intellettuale,
tutta interiore. Copernico ha seguito quindi una strada giusta, ma l'ha
percorsa all'incontrario. Non a caso Bruno aveva sostenuto che «nell'universo
infinito medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesimamente
non hanno termine e sono infinite»[211].
Se i sensi insomma ci ingannano
nell'immediato, sono altrettanto inaffidabili rispetto alla conoscenza delle
cose lontane: «A l'intelletto conviene giudicare e render raggione de le cose
absenti e divise per distanza di tempo ed intervallo di luoghi. Ed in questo
assai ne basta ed assai sufficiente testimonio abbiamo del senso per quel, che
non è potente a contradirne e che oltre fa evidente e confessa la sua
imbecillità ed insufficienza per l'apparenza de la finitudine che caggiona per
il suo orizzonte, in formar della quale ancora si vede quanto sia incostante.
Or, come abbiamo per esperienza, che ne inganna nella superficie di questo
globo in cui ne ritroviamo, molto maggiormente doviamo averlo suspetto quanto a
quel termine che nella stellifera concavità ne fa comprendere.
Elpinio. A che dunque ne servono gli sensi? Dite.
Filoteo. Ad eccitar la raggione solamente, ad accusare,
ad indicare e testificare in parte, non a testificare in tutto, né meno a
giudicare, né a condannare. Perché giamai, quantunque perfetti, son senza
qualche perturbazione. Onde la verità, come da un debile principio, è da gli
sensi in piccola parte, ma non è nelli sensi.
Elpinio. Dove dunque?
Filoteo. Ne l'oggetto sensibile come in uno specchio,
nella raggione per modo di argumentazione e discorso, nell'intelletto per modo
di principio e conclusione, nella mente, in propria e viva forma»[212].
La metodologia conoscitiva del
Nolano si fa dunque sempre più precisa, e prepara con attenzione il terreno per
le future tesi magiche esposte compiutamente nel De magia e nel De
vinculis in genere. I sensi servono solo a eccitare la ragione: la verità
per Bruno resta nascosta «ne l'oggetto sensibile come in uno specchio».
Riemerge insomma, parallelamente alla gnoseologia, il problema dell'oggetto
infinito, ovvero il problema della forma.
Se nel De la Causa era stata
operata una vertiginosa rivalutazione della materia, a cui veniva congiunta
l'idea di forma esteriore intesa come accidente momentaneo ma universale; ora
la forma coinvolge anche la dimensione dell'infinito in se stesso. "Verità"
sembra essere a questo punto una nuova determinazione dell'infinito. Cerco di
spiegarmi: se la verità deve essere cercata nell'oggetto sensibile, come in uno
specchio, allora essa risiede nell'infinito, perché l'oggetto sensibile è,
nella sua totalità, infinito. In questo senso si pone il problema della forma
dell'infinito.
Alla domanda «qual è la forma
dell'infinito» ha già risposto in modo esauriente Biagio De Giovanni:
«l'infinito in Bruno ha una forma: è l'individuo. L'infinito di Bruno ha
un'esistenza: è la vita infinita. L'infinito esiste, non si dà come
un'ipotesi nel tremolio incerto di confini lontani. Ogni cosa, ogni oggetto,
ogni realtà ha presso di sé il proprio infinito»[213]. Personalmente, credo non si debba dimenticare
che la discussione della forma dell'infinito, in Bruno, comprende anche e
soprattutto il problema della verità. Se l'infinito prende forma -
concretamente - negli oggetti sensibili (ovvero negli individui), la verità
rischia allora di essere dispersa nel molteplice. Sembrerebbe una caduta senza
rimedio in un nihilismo assoluto. Qual è la soluzione di Bruno a questo
nuovo problema che la sua stessa tematica infinitista mette ora in primo piano?
La risposta di Bruno coinvolge
naturalmente la dimensione del tempo. Citando il De umbris, avevamo già
toccato il tema della veritas filia temporis: il tempo vede un ritorno
ciclico di inviati degli déi, «mercurii ed apollini», dei quali certamente lo
stesso Bruno doveva essere un rappresentante, e ai quali spettava l'arduo
compito di ricordare agli uomini la verità perduta, l'età dell'oro. Siamo
quindi lontani, come già notava Fulvio Papi, dalla verità storicista: «La
verità dei filosofi è figlia del tempo: non nel senso un po' ingenuo inteso
dagli storicisti, e cioé che essa abbia uno svolgimento coincidente con il
divenire temporale. Ma nel senso che prima o poi, con il tempo, essa è
destinata a mostrarsi. Il suo obnubilamento non può che essere provvisiorio»[214]. La verità è insomma un oggetto che non viene mai
dato nell'esistenza, almeno in modo completo, assoluto. Trattare il problema
della Verità all'interno dell'ottica infinitista e a-gerarchica, significa
rivoluzionare i tradizionali termini di discussione e porsi, automaticamente,
al di fuori dei canoni cattolici e riformati.
La nuova verità, che Bruno annuncia
col fervore del profeta, non è una verità soltanto intellettuale
(metafisico-cosmologica), ma soprattutto teologica: l'alito divino è presente
nell'individuo, perché l'individuo è anello ineliminabile della catena infinita
dell'essere, e l'esistenza dell'individuo si attua nella sua completezza solo
nell'arco di una vicissitudine infinita. Siamo di fronte alla più completa
forma di divinizzazione umana che l'intero Rinasciemnto abbia potuto vedere:
l'uomo, in quanto individuo, è figlio e parte della vita infinita. Non esiste
la morte, non esiste una gerarchia, non esiste una verità data una volta per
sempre. In breve: l'uomo diventa protagonista delle proprie scelte e del
proprio cammino: non c'è nessun Dio che guida con amore i figli di Adamo. In
realtà la «caduta» coincide con il passaggio dalla religione magica di Ermete
Trismegisto, dal linguaggio magico, dal sapere, al non sapere, alla pedanteria.
L'unica verità consegnata nelle mani dell'uomo è quella ermetica, e riguarda la
metodologia soteriologica e la struttura del mondo. L'universo è infinito e in esso
c'è Dio. L'uomo, in quanto parte dell'universo, respira della stessa vita di
Dio: è, appunto, un «magnum miraculum», come l'aveva definito Ermete
Trismegisto. La sua esistenza si attua nella vicissitudine universale, che
coinvolge tutti i piani dell'essere, in quanto nell'universo non esiste nulla
di immobile e nemmeno il vuoto (che in quanto tale è anche privo di movimento).
All'interno del quadro speculativo
della teoria infinitista, il concetto di vicissitudine universale
coinvolge tutti gli individui, e riunisce in questo modo la verità
dispersa. La verità dimostra in questo senso uno sviluppo parallelo al rapporto
Dio-universo: segue lo stesso processo di esplicazione dall'unità, nelle cose
particolari e di implicazione nell'unità. Gli individui particolari - in cui
pure è possibile scoprire come in uno specchio una verità - concorrono
tutti insieme alla formazione del Vero, in un tempo ciclico infinito.
Riemerge allora anche la centralità
dell'azione magica: nella dimensione dell'esistenza, solo la magia sa
ricomporre questa scissione - istantanea - tra Essere, pensiero e linguaggio.
La magia porta alla Verità, perché garantisce l'unione con l'Unum,
mediante l'ascesi per gradi. Ovviamente il termine ascesi, che
preferisco per configurare l'iniziativa del misticismo bruniano, ha in questo
ambito un'accezione opposta a quella classica. Ascesi significa qui non
distacco dal mondo, ma fusione con esso, e tramite il raggiungimento di questa
identità, unione col divino.
Il Dio che è nelle cose ha fatto un
mondo infinito, e non poteva fare altrimenti. Gradualmente, il lettore del
dialogo viene condotto nell'area del principio di pienezza, asse portante della
teoria infinitisctica a livello teo-cosmologico. Il principuim plenitudis
merita dunque una citazione completa.
Alla discussione della tesi
aristotelica dello spazio chiuso, momento centrale del De infinito, si
accompagna un uso estremamente radicale del principium plenitudis. Già
nella Proemiale epistola leggiamo: «Cossì si magnifica l'eccellenza de
Dio, si manifesta la grandezza de l'imperio suo: non si glorifica in uno, ma in
soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diececento mila, dico in
infiniti. Di sorte che non è vana questa potenza d'intelletto, che sempre vuole
e puote aggiungere spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a
numero, per quella scienza che ne discioglie da le catene di uno angustissimo,
e ne promove alla libertà d'un agustissimo imperio, che ne toglie dall'opinata
povertà ed angustia alle innumerevoli ricchezze di tanto spacio, di sì
dignissimo campo, di tanti coltissimi mondi; e non fa che circolo d'orizonte,
mentito da l'occhio in terra e finto da la fantasia nell'etere spacioso, ne
possa impriggionare il spirto sotto la custodia d'un Plutone e la mercè d'un
Giove»[215].
Nel Dialogo primo, determinando la
definitiva rottura con la tradizione aristotelica, Filoteo-Bruno aveva già
spiegato: «Se il mondo è finito ed estra il mondo è nulla, vi dimando: ove è il
mondo? ove è l'universo? Risponde Aristotele: è in se stesso. Il convesso del
primo cielo è loco universale; e quello, come primo continente, non è in altro
continente, perché il loco non è altro che superficie ed estremità di corpo
continente; onde chi non ha corpo continente, non ha loco. - Or che vuoi dir
tu, Aristotele, per questo, che "il luogo è in se stesso"?, che mi
conchiuderai per "cosa estra il mondo"? Se tu dici che non v'è nulla;
il cielo, il mondo, certo non sarà in parte alcuna [...]. Se dici (come certo
mi par che vogli dir qualche cosa, per fuggir il vacuo ed il niente) che estra
il mondo è uno ente intellettuale e divino, di sorte che Dio venga ad esser
luogo di tutte le cose, tu medesimo sarai molto impacciato per farne intendere come
una cosa in corporea, intellegibile e senza dimensione possa esser luogo di
cosa dimensionata. Che se dici quello comprendere come una forma ed al modo con
cui l'anima comprende il corpo, non rispondi alla questione dell'estra ed alla
dimanda di ciò che si trova oltre e fuor de l'universo. E se tu vuoi escusare
con dire, che dove è nulla e dove non è cosa alcuna, non è anco luogo, non è
oltre, né extra, per questo non mi contenterai; perché queste sono paroli ed
iscuse che non possono entrare in pensiero. Perché è a fatto impossibile che
con qualche senso o fantasia [...] possi farmi affirmare, con vera intenzione,
che si trove tal superficie, tal margine, tal estremità, extra la quale non sia
o corpo o vacuo: anco essendovi Dio, perché la divinità non è per empire il
vacuo, e per conseguenza non è in raggione di quella, in modo alcuno, di
terminare il corpo; perché tutto lo che se dice terminare, o è forma esteriore,
o è corpo continente. Ed in tutti i modi che lo volessi dire, sareste stimato
pregiudicatore alla dignità della natura divina e universale»[216]. Ma ecco l'esposizione più completa del principium
plenitudis[217]: «Filoteo. In somma, per venir
direttamente al proposito, mi par cosa ridicola il dire che estra il cielo sia
il nulla, e che il cielo sia in se stesso, e locato per accidente, idest
per le sue parti. Ed intendasi quel che si voglia per accidente; che non
può fuggir che non faccia de uno doi; perché sempre è altro ed altro quel che è
continente e quel che è contenuto; e talmente altro ed altro che, secondo lui
medesimo, il continente è incorporeo ed il contenuto è corpo; il continente è
immobile, il contenuto è mobile; il continente matematico, il contenuto fisico.
Or sia che si volgia di quella superficie, constantemente dimandarò: che cos'è
oltre quella? Se si risponde che è nulla, questo dirò esser vacuo, essere
inane; e tal vacuo e tal inane che non ha mondo, né termine alcuno olteriore;
terminato però citeriormente. E questo è più difficile ad imaginare, che il
pensar l'universo essere infinito ed immenso. Perché non possiamo fuggire il
vacuo, se vogliamo ponere l'universo finito. Veggiamo adesso, se conviene che sia
tal spcio in cui sia nulla. In questo spacio infinito si trova questo universo
(o sia per caso o per necessità o providenza, per ora non me ne impaccio).
Dimando se questo spacio che contiene il mondo, ha maggiore aptitudine di
contenere un mondo, che altro spacio che sia oltre.
Fracastorio. Certo mi par che non; perché dove è nulla, non è
differenza alcuna; dove non è differenza, non altra ed altra aptitudine: e
forse manco è attitudine alcuna dove non è cosa alcuna»[218].
Lo spazio del nostro mondo e quello
esterno sono quindi identici: ma allora, come ha osservato acutamente Alexander
Koyré, «se sono tali è impossibile che lo spazio "al di fuori" sia
trattato da Dio in maniera diversa da quello che è "all'interno". Siamo
così costretti ad ammettere che non solo lo spazio, ma anche l'essere nello
spazio è ovunque costituito allo stesso modo, e che, se nella nostra parte
dello spazio infinito vi è un mondo, una stella - il sole circondato dai
pianeti - allora ve ne sono in tutto l'universo»[219].
Si noti come nel ragionamento Bruno
passi ripetutamente dal piano cosmologico a quello metafisico, dalla questione
dell'universo a quella dell'essere. Questi passaggi e accostamenti gli sono
permessi proprio in virtù della vitalizzazione della materia compiuta nel De
la Causa, dove, nel III Dialogo, aveva attribuito la materia anche a Dio:
parlare dell'universo significa parlare di Dio, ma solo in quanto «esplicato».
In quanto «complicato», invece, Egli è Unum, e quindi rimane
plotinianamente al di fuori della conoscenza umana positiva (mentre resta
possibile una oculata teologia negativa). Continua dunque il discorso Elpinio:
«Elpinio. Né tampoco inepzia alcuna. E delle due più tosto
quella che questa.
Filoteo. Voi dite bene. Cossì dico io che, come il vacuo
ed inane (che si pone necessariamente con questo peripatetico dire) non ha
aptitudine alcuna a ricevere, assai meno la deve avere a ributtare il mondo. Ma
di queste due attitudini noi ne veggiamo una in atto, e l'altra non la possiamo
vedere affatto, se non con l'occhio della raggione. Come dunque in questo
spacio, equale alla grandezza del mondo (il quale dai platonici è detto materia),
è questo mondo, cossì un altro può essere in quel spacio ed in innumerabili
spacii oltre questo equali a questo.
Fracastorio. Certo, più sicuramente possiamo giudicar in
similitudine di quel che veggiamo e conoscemo, che in modo contrario di quel
che veggiamo e conoscemo. Onde, perché per il nostro vedere ed esperimentare
l'universo non si finisce, né termina a vacuo ed inane e di quello non è nuova
alcuna, raggionevolmente doviamo conchiuder cossì; perché, quando tutte l'altre
raggioni fussero equali, noi veggiamo che l'esperimento è contrario al vacuo e
non al pieno. Con dir questo, saremo sempre iscusati; ma con dir altrimente,
non facilmente fugiremo mille accusazioni ed inconvenienti. Seguitate, Filoteo.
Filoteo. Dunque, dal canto del spacio infinito,
conosciamo certo che è attitudine alla recepzione di corpo, e non sappiamo
altrimente. Tutta volta mi basterà avere che non ripugna a quella; almeno per
questa caggione, che dove è nulla, nulla oltraggia. Resta ora vedere se è cosa
conveniente che tutto il spacio sia pieno o non. E qua, se noi consideriamo tanto
in quello che può essere quanto in quello che può fare, trovaremo sempre non
sol raggionevole, ma ancora necessario, che sia. Questo acciò sia manifesto, vi
dimando se è bene che questo mondo sia.
Elpinio. Molto bene.
Filoteo. Dunque è bene che questo spacio, che è equale
alla dimension del mondo (il quale voglio chiamar vacuo, simile ed indifferente
al spacio, che tu direste esser niente oltre che la convessitudine del primo
cielo), sia talmente ripieno.
Elpinio. Cossì è.
Filoteo. Oltre, te dimando: credi tu che sicome in questo
spacio si trova questa machina, detta mondo, che la medesima arebe possuto o
potrebbe essere in altro spacio di questo inane?
Elpinio. Dirò sì, benché non veggio come nel niente e
vacuo possiamo dire differenza di altro ed altro.
Fracastorio. Io son certo che vedi, ma non ardisci di
affirmare, perché ti accorgi dove ti vuol menare.
Elpinio. Affirmatelo pur sicuramente; perché è necessario
dire ed intendere che questo mondo è in uno spacio; il quale, se il mondo non
fusse, sarebe indifferente da quello che è oltre il primo vostro mobile.
Fracastorio. Seguitate.
Filoteo. Dunque, sicome può ed ha possuto ed è
necessariamente perfetto questo spacio per la continenza di questo corpo
universale, come dici; niente meno può ed ha possuto esser perfetto tutto
l'altro spacio.
Elpinio. Il concedo; che per questo? Può essere, può
avere: dunque è dunque ha?
Filoteo. Io farò che, se vuoi ingenuamente confessare,
che tu dica che può essere e che deve essere e che è. Perchè come sarebe male
che questo spacio non fusse pieno, cioè che questo mondo non fusse; non meno,
per la indifferenza, è male che tutto il spacio non sia pieno; e per
consequenza l'universo sarà di dimensione infinita e gli mondi saranno
innumerabili.
Elpino. La causa perchè denno essere tanti, e non basta
uno?
Filoteo. Perchè, se è male che questo mondo non sia o che
questo pieno non si ritrove, è al riguardo di questo spacio o di altro spacio
equale a questo?
Elpino. Io dico che è male al riguardo di quel che è in
questo spacio, che indifferentemente si potrebbe ritrovare in altro spacio
equale a questo.
Filoteo. Questo, se ben consideri, viene tutto ad uno;
perchè la bontà di questo essere corporeo che è in questo spacio o potrebe
essere in altro equale a questo, rende raggione e riguarda a quella bontà
conveniente e perfezione che può essere in tale e tanto spacio, quanto è
questo, o altro equale a questo, e non ad quella che può essere in innumerabili
altri spacii, simili a questo. Tanto più che, se è raggione che sia un buono
finito, un perfetto terminato; improporzionalmente è raggione che sia un buono
infinito; perchè, dove il finito bene è per convenienza e raggione, l'infinito
è per absoluta necessità»[220].
Si noti la valenza analogica del ragionamento:
se per Dio era possibile creare un mondo in questo spazio (e lo è stato),
allora era altrettanto possibile crearlo in un altro spazio. Ma dato che lo
spazio è uniforme, omogeneo, non si vede perché Dio avrebbe dovuto creare un
mondo qui piuttosto che là, ovvero perché mai ne avrebbe dovuto crearne uno
solo. Ma qui il ragionamento vuole ancora «convincere». Se passiamo dal livello
dialettico a quello più puro, del ragionamento metafisico, deve senz'altro
essere abbandonata l'idea di creazione. Occorre rifletterci un attimo per
convincersene: non si tratta più di trovare le motivazioni di una creazione
infinita, ma piuttosto i modi di un infinito dispiegamento, di una infinita
esplicazione. Nel De la Causa avevamo visto che Dio e Universo coincidono:
l'idea della creazione deve quindi essere del tutto abbandonata, per
essere sotituita da quella di esplicazione. Ci troviamo così di fronte
al secondo principio fondamentale per l'affermazione dell'infinito: l'argomento
teologico della infinita potenza divina, che si attua mediante una infinita
esplicazione.
Abbiamo notato che il principio di
pienezza non è sufficiente, o meglio può essere frainteso, nel garantire
l'infinità dell'universo. Il suo complemento naturale è dunque la tesi della
infinita esplicazione divina, la cui esposizione si collega direttamente al
passo sopra citato. Prosegue dunque Filoteo-Bruno:
«Filoteo. In questo siamo
concordanti, quanto a l'infinito incorporeo. Ma che cosa fa che non sia
convenientissimo il buono, ente, corporeo infinito? O che repugna che
l'infinito, implicato nel semplicissimo ed individuo primo principio, non venga
esplicato più tosto che in questo suo simulacro infinito ed interminato,
capacissimo de innumerabili mondi, che venga esplicato in sì anguste margini,
di sorte che par vituperio il non pensare che questo corpo, che a noi par vasto
e grandissimo, al riguardo della divina presenza non sia che un punto, anzi un
nulla?
Elpino. Come la grandezza de Dio non consiste nella
dimensione corporale in modo alcuno (lascio che non li aggionge nulla il
mondo), cossì la grandezza del suo simulacro non doviamo pensare che consista
nella maggiore e minore mole di dimensioni.
Filoteo. Assai bene dite, ma non rispondete al nervo
della raggione; perchè io non richiedo il spacio infinito, e la natura non ha
spacio infinito, per la dignità della dimensione o della mole corporea, ma per
la dignità delle nature e specie corporee; perchè incomparabilmente meglio in
innumerevoli individui si presenta l'eccellenza infinita, che in quelli che
sono numerabili e finiti. Però, bisogna che di un inaccesso volto divino sia un
infinito simulacro, nel quale, come infiniti membri, poi si trovino mondi
innumerabili, quali sono gli altri. Però per la raggione de innumerabili gradi
di perfezione, che denno esplicare la eccellenza divina incorporea per modo
corporeo, danno essere innnumerabili individui, che son questi grandi animali
(de quali uno è questa terra, diva madre che ne ha parturiti ed alimenta e che
oltre non ne riprenderà), per la continenza di questi innumerabili si richiede
un spacio infinito. Nientemeno dunque è bene che siano, come possono essere,
innumerebili mondi simili a questo, come ha possuto e può essere ed è bene che
sia questo.
Elpino. Diremo che questo mondo finito, con questi
finiti astri, comprende la perfezione de tutte cose.
Filoteo. Possete dirlo, ma non già provarlo; perché il
mondo che è in questo spacio finito, comprende la perfezione di tutte quelle
cose finite che son in questo spacio; ma non già dell'infinite che possono
essere in altri spacii innumerabili»[221].
Precedentemente, l'infinità
dell'universo sembrava perfettamente stabilita, grazie all'adozione del
principio di pienezza. Ma che fare dell'antica obiezione medievale, secondo la
quale il concetto di infinito si può applicare soltanto a Dio, e a causa della
quale Nicola Cusano aveva preferito adottare per l'universo una definizione
imprecisa come quella di interminatum? Ovviamente Bruno non sta negando
qui quello che ha affermato in precedenza, e diffusamente, ovvero che -
assolutamente parlando - esiste una differenza ontologica tra Dio e Universo,
in quanto l'infinità di Dio è intensiva e perfettamente semplice, mentre quella
dell'universo è estensiva e quindi soggetta al dominio del molteplice.
«La natura [...] ha spacio infinito
[...] perché incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta
l'eccellenza infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti»[222]. Ancora una volta, il ragionamento coinvolge il
piano dell'etica: in Dio è impensabile sia l'ozio che l'invidia. Potenza e
operazione solo un solo processo:
«perché vogliamo o possiamo noi
pensare che la divina efficacia sia ociosa? perché vogliamo dire che la divina
bontà la quale si può communicare alle cose infinite e si può infinitamente
diffondere, voglia essere scarsa ed astrengersi in niente, atteso che ogni cosa
finita al riguardo de l'infinito è niente? perché volete quel centro della
divinità, che può infinitamente amplificarse, come invidioso, rimaner più tosto
sterile che farsi comunicabile, padre fecono, ornato e bello? voler più tosto
comunicarsi diminutamente e, per dir meglio, non comunicarsi, che secondo la
raggione della gloriosa potenza esser suo? perché deve esser frustrata la
capacità infinita, defraudata la possibilità di infiniti mondi che possono
essere, pregiudicata la eccellenza della diina imagine che deverebe più
risplendere in uno specchio incontratto secondo il suo modo di essere infinito,
immenso?»[223].
Tornano in primo piano le
distinzioni metafisiche del De la Causa, che qui emergono sul piano
della differente infinità di Dio e dell'universo esplicato: «Come vuoi tu che
Dio, e quanto alla potenza e quanto all'operazione e quanto all'effetto (che in
lui son la medesima cosa), sia determinato, e come terminio della
convessitudine di una sfera, più tosto che, come dir si può, terminio
interminato di cosa interminata? Terminio, dico, senza termine, per esser
differente la infinità dell'uno da l'infinità dell'altro: perché lui è tutto
l'infinito complicatamente e totalmente, ma l'universo è tutto in tutto (se pur
in modo alcuno si può dir totalità, dove non è parte né fine) explicatamente, e
nontotalmente; per il che l'uno ha raggion di trmine, l'altro ha raggion
terminato, non per differenza di finito ed infinito, ma perché l'uno è infinito
e l'altro è finiente secondo la ragione del totale e totalmente essere tutto in
tutto quello che, benché sia tutto infinito, non è però totalmente infinito:
perché questo ripugna alla infinità dimensionale»[224].
Alle insistenze di chiarimenti di
Elpinio, Filoteo-Bruno risponde: «io dico l'universo tutto infinito, peché non
ha immagine, terminio, né superficie; dico l'universo non essere totalmente
infinito, perché ciascuna parte che di quello possiamo prendere, è finita, e de
mondi innumerabili che contiene, ciascuno è finito. Io dico Dio tutto infinito,
perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo atributo è uno ed infinto; e dico
Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciscuna
sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità dell'universo,
la quale è totalmente tutto in tutto, e non in queste parti (se pur,
referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo
comprender in quello»[225]. Paradossalmente, l'infinità di Dio è superiore a
quella dell'universo proprio perché si risolve in una unità semplicissima, al
contrario dell'universo esplicato.
Non convince quindi Koyré quando
sostiene che «all'antica e famosa quaestio disputata: perché Dio non ha
creato un mondo infinito - questione cui gli scolastici medievali davano una
buona risposta, negando la possibilità stessa di una natura infinita - Bruno
risponde semplicemente, ed è il primo a farlo: Dio lo ha creato, ed anche: Dio
non poteva fare altrimenti. Infatti il Dio di Bruno non può che esplicarsi ed
esprimersi in un mondo infinito, infinitamente ricco ed infinitamente esteso»[226]. Non emerge infatti da un'affermazione come
questa l'assoluta mancanza in Bruno dell'idea di creazione ex nihilo. A
proposito si dovrà ricordare quanto sosteneva Michelangelo Ghio.
Osservando giustamente che per Bruno non si può
mai parlare di creazione in senso assoluto, ma casomai di espressione,
Ghio sostiene che «In Bruno la presenza del linguaggio e della tradizione
speculativa, delle metafore e delle immmagini del neoplatonismo cristiano
vengono usati per costruire quelle categorie dell'immanenza che per
Deleuze costituiscono gli elementi strutturali del concetto di espressione,
come rapporto di complicatio-explicatio tra Dio e il mondo. [...] Bruno
esprime un'interpretazione del rapporto tra Dio e mondo completamente
incompatibile con una concezione creativistica: non più gerarchia degli esseri,
come serie di emanazioni successive e subordinate le une alle altre, ma
compresenza di due movimenti correlativi di inerzia e di implicazione. E'
questo infatti il senso conferito da Bruno alla coppia di concetti complicatio-explicatio,
risovendoli appunto in categorie dell'immanenza. Al movimento di inerenza, come
presenza delle cose in Dio, corrisponde quello di implicazione, come presenza
di Dio nelle cose. Le cose restano inerenti a Dio, che le complica, come Dio
resta implicato nelle cose che lo esplicano. Così il rapporto di espressione
tra Dio e mondo si configura in modo nuovo rispetto alla tradizione del
platonismo cristiano: Dio è identico alla natura - complicative -, la
natura è identica a Dio -esplicative - [...]. Non solo l'eminenza della
causa e il concetto di gerarchia, familiari alla tradizione del platonismo
cristiano qui non hanno più luogo, ma fra Dio e natura non ci può essere che
uguaglianza come identità nella distinzione. E' in sostanza una posizione
monista e immanentistica, per cui non solo cade il concetto di predicazione
analogica, sostituito da una nozione sostanzialmente univoca dell'essere, ma la
stessa concezione dell'infinità dell'universo dipende dalla risoluzione in
senso nettamente immanentistico del pensiero del Cusano "deve essere
infinito, cioè illimitato, l'universo, cusinianamente, l'esplicazione
dell'unità, attualmente infinita, di Dio" (Augusto Guzzo[227])»[228].
Non esiste tra Dio e l'universo una
differnza come tra finito e infinito. L'infinito, se inteso nella totalità dei
suoi attributi, allora è Dio (totalmente infinito): se invece si considera
semplicemente l'assenza di margini o confini - e qui sembra meglio valere il
concetto di interminatum - e la mancanza di una infinità assoluta
(perché ogni mondo è finito in se stesso), allora si ha a che fare con
l'universo. Riemerge insomma il significato del principuim plenitudis:
l'onnipotenza di Dio non sarebbe pienamente tale se non producesse gli
innumerabili mondi nell'universo lasciandolo invece vuoto «per cui non
solamente verrebbe suttratta infinita perfezionedello ente, ma anco infinita
maestà attuale allo efficiente nelle cose fatte se son fatte, o dependenti se
sono eterne. Quale raggione vuole che vogliamo credere, che l'agente che può
fare un buono infinito, lo fa finito?»[229].
Nel secondo Dialogo la confutazione
delle tesi aristoteliche contro l'infinito passa per l'enunciazione e la
giusitificazione del principio ex nihilo nihil fit e dalla rinnovata
discussione delle tesi copernicane. Anzitutto Filoteo-Bruno chiarisce
che il vuoto, nell'universo infinito non esiste:
«Noi non diciamo vacuo alcuno, come
quello che sia semplicemente nulla; ma secondo quella raggione, con la quale
ciò che non è corpo resista sensibilmente, tutto suole esser chiamato, se ha
dimensione, vacuo: atteso che comunemente non apprendeno l'esser corpo, se non
con la proprietà di resistenza; onde dicono che, sicome non è carne quello che
non è vunerabile, cossì non è corpo quello che non resiste. In questo modo
diciamo esser un infinito, cioé una eterea regione immensa, nella quale sono
innumerevoli ed infiniti corpi, come la terra, la luna ed il sole; li quali da
noi son chiamati mondi composti di pieno e di vacuo: perché questo spirito,
questo aria, questo etere non solamente è circa questi corpi, ma ancora penetra
dentro tutti, e viene insito in ogni cosa»[230].
Poi viene la confutazione del De
coelo, che verrà a suo tempo ripresa nel libro II del De immenso. In
breve: Elpinio, che riporta nella discussione le tesi di Aristotele,
spiega come lo Stagirita dimostri che non esiste un corpo infinito:
«Bisogna dunque, che veggiamo, se è
possibile, che sia un corpo semplice di grandezza infinita; il che primeramente
deve esser mostrato impossibile in quel primo corpo, che si muove
circularmente; appresso, negli altri corpi; perché, essendo ogni corpo o
semplice o composto, questo, che è composto, siegue la disposizion di quello
che è semplice. Se, dunque, gli corpi semplici non sono infiniti né di numero
né di grandezza, necessariamente non potrà esser tale corpo composto.
Filoteo. Promette molto bene; perché, se lui provarà, che
il corpo il quale è chiamato continente e primo, sia continente, primo e
finito, sarà anco soverchio e vano provarlo appresso di corpi contenuti.
Elpinio. Or prova che il corpo rotondo non è infinito.
"Se il corpo rotondo è infinito, le linee, che si partono dal mezzo,
saranno infinite, e la differenza d'un semidiametro dall'altro (gli quali,
quanto più si discostano dal centro, tanto maggior distanza acquistano) sarà infinita;
perché dalla addizione delle linee secondo la longitudine è necessario che
siegua maggior distanza; e però, se le linee sono infinite, la distanza ancora
sarà infinita. Or è cosa impossibile, che il mobile possa trascorrere distanza
infinita: e nel moto circolare è bisogno, che da una linea semidiametrale del
mobile venga al luogo dell'altro ed altro semidiametro".
Filoteo. Questa raggione è buona, ma non è a proposito
contra l'intenzion de gli aversarii. Perché giammai s'è ritrovato sì rozzo e
d'ingegno sì grosso, che abbia posto il mondo infinito e magnitudine infinita,
e quella mobile. E mostra lui medesimo essersi dimenticato di quel che
riferisce nella sua Fisica: che quei che hanno posto uno ente ed uno principio
infinito, hanno posto similmente immobile; e né lui ancora, né altro per lui,
potrà nominar mai alcun filosofo o pur uomo ordinario che abbia detto
magnitudine infinita mobile. Ma costui, come sofista, prende una parte della
sua argumentazione dalla conclusione dell'avversario, supponendo il proprio
principio, che l'universo è mobile, e che è di figura sferica. Or vedete, se de
quante raggioni produce questo mendico, se ne ritrove pur una che argumente
contra l'intenzion di quei, che dicono uno infinito, inmobile, infigurato,
spaciosissimo continente de innumerabili mobili, che son gli mondi, che son
chiamati astri da altri, e da altri sfere; vedete un poco in questa ed altre
raggioni, se mena presuppositi conceduti da alcuno.
Elpinio. Certo, tutte le sei raggioni sono fondate sopra
quel presupposito, cioé che l'avversario dica, che l'universo sia infinito, e
che gli admetta, che quello infinito sia mobile: il che certo è una sciocchezza
[...]»[231].
Per Bruno quindi Aristotele ha fatto
un po' il sofista: in realtà basterebbe considerare l'universo infinito non
mobile per far cedere in un sol colpo tutte le sue raggioni e argumenti.
L'universo non si può muovere per il semplice motivo che se si muovesse avrebbe
bisogno di uno spazio per farlo: ma l'universo stesso è lo spazio, quindi non
ha un luogo in cui potersi muovere.
Diverso è il discorso dei singoli
mondi: essi sono immersi in una immensa eterea reggione, l'universo, ed
hanno quindi un luogo, uno spazio per muoversi: dirà infatti Filoteo-Bruno più
avanti che «altro è dir parti nell'infinito, altro dell'infinito» e
«nell'infinito parti finite innumerabili hanno azione e passione»[232].
L'infinito è quindi immobile, mentre
al suo «interno» è possibile il movimento dei grandi animali animati, quali
sono i mondi, le stelle, e la vita che si genera in essi: «Concedesi dunque,
non che l'infinito sia mobile ed alterabile, ma che in esso sieno infiniti
mobili ed alterabili; non che il finito patisca da infinito, secondo fisica e
naturale infinità, ma secondo quella che procede da una logica e razionale
aggregazione che tutti gravi computa in un grave, benché tutti gravi non siano
un grave. Stante dunque l'infinito e tutto innmobile, inalterabile, incorrottibile,
in quello possono essere, e vi son moti ed alterazioni innumerabili e infiniti,
perfetti e compiti»[233]. Il discorso del secondo dialogo si avvia alla
conclusione - significativamente - tutta astronomica:
«Elpinio. Mi avete molto
soddisfatto, di sorte che mi par cosa soverchia d'apportar quell'altre ragioni
salvaticine con le quali [Aristotele] vuol dimostrar che estra il cielo non sia
corpo infinito [...].
Filoteo. Io credo ed intendo che oltre ed oltre quella
margine imaginata del cielo sempre sia eterea regione, e corpi mondani, astri,
terre, soli; e tutti sensibili absolutamente secondo sé ed a quelli che vi sono
dentro o da presso, benché non sieno sensibili a noi per la lor lontanaza e
distanza»[234].
Programmaticamente, il Dialogo terzo
mette in scena le conseguenze dell'abbattimento dell'ultima sphaera mundi:
«Uno dunque è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale,
l'eterea regione per la quale il tutto discorre e si muove. Ivi innumerabili
stelle, astri, globi, soli e terre sensibilmente si veggono, ed infiniti
raggionevolmente si argumentano. L'universo immenso ed infinito è il composto
che risulta da tal spacio e tanti compresi corpi»[235].
L'omogeneità dell'universo porta dunque
a due conclusioni: anzitutto l'universo è raggionevolmente infinito
(poco importa se con i sensi si possono vedere solo un numero limitato di
stelle, perché il filosofo, come si è spiegato, deve fare affidamento sul senso
interiore e non su quello esterno); in secondo luogo, proprio in quanto
omogeneo, l'universo è infinitamente popolato di mondi abitati: «sono dunque
soli innumerabili, sono terre infinite, che simultaneamente circuiscono quei
soli; come veggiamo questi sette circuire questo sole a noi vicino»[236]. «onde possiamo stimare che de stelle
innumerabili sono altre tante lune, altre tanti globi terrestri, altre tanti
mondi simili a questo; circa gli quali par che questa terra si volte, come
quelli appaiono rivolgersi ed aggirarsi circa questa terra»[237]. Si noti la radicalità del metodo analogico: il
ragionamento è tutto composto di momenti che si fondano sul principio
dell'analogia. Come Dio è infinito, così è infinita la sua explicatio,
ossia l'universo. Così come è abitato questo mondo, così sono abitati i mondi
infiniti che popolano l'universo. Il tutto sorretto naturalmente dal principio
teologico (di assai sospetta teologia ereticale) di ragion sufficiente.
Convincente, come è stato notato[238], è la spiegazione razionale del motivo per cui il
luogo dove stiamo non possa non apparirci il centro del mondo, sia esso la
Terra, la Luna o il Sole: «non possiamo apprendere il moto se non per certa
comparazione e relazione a qualche cosa fissa: perché, tolto uno che non sappia
che l'acqua corre e che non vegga le ripe, trovandosi in mezzo l'acqui entro
una corrente nave, non arrebbe senso del moto di quella»[239]. Si tratta di un embrionale principio di
relatività del moto?
La conclusione del dialogo vede
porsi in primo piano la sistematizzazione del principio binario della realtà
(seguendo qui la coincidentia oppositorum di Cusano). La tematica dell'Unum,
se posta ambiguamente, pone infatti dei seri interrogativi:
«Fracastorio. [...] Son quenque
infiniti gl'innumerabili e principali membri de l'universo, di medesimo volto,
faccia, prerogativa, virtù ed effetto.
Burchio. Non volete che tra altri e altri vi sia
differenza alcuna?
Fracastorio. Avete più volte udito che quelli son per sé
lucidi e caldi, nella composizion di quali predomina il fuoco; gli altri
risplendeno per altrui partecipazione, che son per sé freddi ed oscuri; nella
composizion de quali l'acqua predomina. Dalla qual diversità e contrarietà
depende l'ordine, la simmetria, la complessione, la pace, la concordia, la
composizione, la vita. Di sorte che gli mondi son comspoti di contrarii [...].
Il che, credo, intese quel sapiente che disse Dio far pace ne gli contrari
sublimi, e quell'altro che intese il tutto esser consistente per lite di
concordi ed amor litiganti»[240].
La filosofia binaria
presuppone insomma un uso radicale della coincidentia oppositorum:
l'universo esiste solo in quanto è possibile l'incontro degli opposti.
Estremamente affascinante è l'immagine di questo incontro, descritta da Bruno
in termini di oridne, simmetria, pace, concordia, ovvero armonia.
L'anima mundi, dicevamo, si esplica in una azione che è
anzitutto armonica, direi artistica. Anche da questa prospettiva è dunque
possibile cogliere il divino che c'è nel mondo. I singoli atomi della vita, le
monadi, vengono regolati nei loro movimenti dall'intelletto superiore, che
conferisce a loro un percorso ed un movimento ben preciso. Nell'universo
infinito, dicevamo, il caos anassagoreo è del tutto assente.
Nel dialogo Quarto infatti, Bruno
mette in scena un abbozzo di teoria materialistico-atomistica e vitalistica
insieme, spiegando che alla base della costituzione materiale delle cose ci
sono dei corpi indissolubili, delle specie di atomi della vita (nel De
minimo parlerà apertamente di monade e atomo, l'una minimo metafisico
e l'altro fisico), che presiedono alla formazione di nuovi composti, nella scia
della vicissitudine universale: «quanto appartiene alli primi corpi
indivisibili, de quali originalmente è composto il tutto, è da credere che per
l'immenso spacio hanno certa vicissitudine, con cui altrove influiscano ed
affluiscano altronde. E questi, se pur per providenza divina, secondo l'atto,
non costituiscano nuovi corpi e dissolvano gli antichi, almeno hanno tal
facultà. Perché veramente gli corpi mondani sono dissolubili; ma può essere che
o da virtù intrinseca o estrinseca sieno eternamente persistenti medesimi, per
aver tale e tanto influsso, quale e quanto hanno efflusso gli atomi, e cossì
perserverino medesimi in numero»[241]. Ovviamente l'idea della dissoluzione dei corpi è
ripresa, quasi identica, dai trattati ermetici tradotti da Ficino.
Notevole è poi una specie di
anticipazione di quella che sarà la legge di Galielo sulla caduta dei gravi: «E'
certo e assai esperimentato nelle parti de la terra, che, da certo termine del
loro recesso e lontananza, ritornar sogliono al suo continente; a cui tanto più
s'affrettano quanto più s'avvicinano»[242].
Interessante sarebbe a questo proposito
uno studio approfondito sul rapporto tra teorie magiche e teorie
pseudo-scientifiche in Giordano Bruno: che cosa è magico e che cosa
scientifico, in senso moderno, nel pensiero del Nolano?
A molti di questi interrogativi
hanno già risposto Frances Yates e Alexander Koyré, ma da due posizioni opposte
e abbastanmza radicali. Mentre per la Yates Bruno è un rappresentante del
magismo rinascimentale, ed anche uno dei più radicali (sono queste le
conslusioni del suo Giordano Bruno e la tradizione ermetica), e va
quindi studiato esclusivamente secondo un quadro interpretativo
magico-ermetico, per Koyrè addirittura «Giordano Bruno [...] non è un filosofo
molto buono. L'unione di Lucrezio e del Cusano non produce un miscuglio molto
coerente; e benché [...] il suo esame delle obiezioni tradizionali al moto
della terra sia piuttosto buono, il migliore di cui siano state oggetto prima
di Galileo, come scienziato egli è mediocre, non capisce la matematica ed ha
una concezione dei moti celesti molto bizzarra [...]: in realtà la sua
concezione del mondo è vitalistica e magica; i suoi pianeti sono esseri animati
che si muovono liberamente ed armonicamente nello spazio»[243].
Personalmente credo che sia tempo di
mettere da parte soluzioni interpretative del tutto univoche, per tentare
invece di studiare i singoli aspetti del pensiero bruniano nelle loro
reciproche valenze di volta in volta magiche, teologiche, schiettamente logico-razionali
o addirittura, come nel caso che abbiamo visto, quasi scientifiche. Il
sincretismo del nolano non si lascia insomma definire e catturare da un solo
punto di vista.
Prima di concludere l'opera, dopo
aver messo in campo teorie pseudo-scientifiche, Bruno non può infatti far
riemergere l'elemento ermetico: le cose dette «son cose antique che rivegnono,
son veritadi occolte che si scuoprono: è un nuovo lume che, dopo lunga notte,
spunta all'orizzonte ed emisfero della nostra cognizione ed a poco a poco
s'avvicina al meridiano della nostra intelligenza»[244]. Al solito, l'immagine è quella della verità
occulta che viene di nuovo portata alla luce del sole: ritorna l'antiqua,
vera filosofia, preannunciata dall'aurora copernicana.
Riemerge quindi il tema della
verità: «Chi vuol perfettamente giudicare [...] deve saper spogliarsi della
consuetudine di credere; deve l'una e l'altra contraddittoria estimare
equalmente possibile, e dismettere a fatto quella affezione di cui è imbimbito
da natività: tanto quella che ne presenta alla conversazion generale, quanto
l'altra per cui mediante la filosofia rinascemo, morendo al volgo, tra gli
studiosi stimati sapienti dalla moltitudine ed in un tempo. Voglio dire, quando
accade controversia tra qusti ed altri stimati savii da altre moltitudini ed
altri tempi, se vogliamo rettamente giudicare, doviamo richiamare a mente quel
che dice il medesimo Aristotele, che, per aver riguardo a poche cose, talvolta
facilmente gittamo sentenze; ed oltre, che l'opinione talvolta per forza di
consuetudine sì fattamente s'impadronisce del nostro consentimento che tal cosa
ne par necessaria, ch'è impossibile; tal cosa scorgemo ed apprendemo per
impossibile, ch'è verissima e necessaria»[245]. La nova filosofia esige dunque una
radicale conversione metodologica: il mago-filosofo deve immediatamente lasciar
da parte pregiudizi e convincimenti personali, per far posto ad una nuova
etica, tutta razional-filosofica.
Al di là delle singole risposte alle
argomentazioni aristoteliche contro l'infinito (risposte che coinvolgono tutte
la dottrina dell'anima mundi), è necessario notare la sottolineatura
bruniana della dialetticità dell'esistente. Riaffiora infatti la problematica,
fondamentale, della filosofia binaria, ovvero il problema della coincidentia
oppositorum: «[...] è falsissimo, che li contrarii massime sieno discosti;
perché in tutte le cose questi vengono naturalmente congionti ed uniti; e
l'universo, tanto secondo le parti principali, quanto secondo le altri
conseguenti, non consiste se non per tal congionzione ed unione»[246].
E' falsa dunque la filosofia dei contrari che vuole (seguendo il principio di non contraddizione aristotelico) gli opposti assolutamente distanti tra loro, perché di fatto in tutte le cose essi vengono naturalmente congiunti ed uniti nel singolo esistente: «non è contra raggione la nostra filosofia, che reduce ad un principio e referisce ad un fine e fa coincidere insieme gli contrari, di sorte che è un soggetto primo dell'uno e dell'altro; dalla qual coincidenza stimiamo ch'al fine è divinamente detto e considerato che li contraii son ne gli contrarii, onde non sia difficile di pervenire a tanto che si sappia come ogni cosa è di ogni cosa»[247].
La conclusione del Dialogo è che
«Non bisogna dunque cercare, se estra il cielo sia il loco, vacuo o tempo;
perché uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo
liberamente vacuo; in cui sono innumerabili ed infiniti globi, come vi è questo
che vivemo e vegetamo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è
raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo: in esso
sono infiniti mondi simili a questo, e non differenti in geno da questo; perché
non è raggione né difetto di facultà naturale, dico tanto potenza passiva
quanto attiva, per la quale, come in questo spacio circa noi ne sono,
medesimamente non ne sieno in tutto l'altro spacio che di natura non è
differente ed altro da questo»[248].
L'infinito che viene presentato
nell'ultimo dei dialoghi metafisici pubblicati in Inghilterra è dunque,
costantemente, di tipo analogico: l'analogia sta infatti alla base del
metodo epistemologico, essendo l'ars memoriae fondata proprio sull'idea
di similitudine, di cui l'umbra è velo e medium
conoscitivo al tempo stesso.
CAPITOLO VI
«[...] nemmeno l'universo è una vera essenza, ma un'immagine della vera Essenza, la quale possiede l'essere senza alcun rapporto con le altre cose che sono in essa. Quaggiù, invece, anche il substrato è infecondo e non è capace di essere ente - anche le altre cose, infatti, non derivano da esso, poiché è un'ombra e su questa ombra scorre via ogni immagine come cosa dipinta»[249].
La presenza di schemi neoplatonici nel pensiero di Bruno è stata più volte messa in rilievo dalla critica, ma non senza qualche ambiguità. In effetti, soprattutto a livello terminologico, le analogie con la metafisica neoplatonica sembrerebbero essere evidenti: per Bruno - come per Plotino - l'Uno è causa metafisica del molteplice e assolutamente non-conoscibile nella sua essenza (le sole determinazioni che si possono dare sono appunto Uno, Causa prima, Bene assoluto, Infinito), sorgente e fine ultimo di ogni essere. Plotino parla poi di due ipostasi dell'Uno - l'Intelletto e l'Anima, mentre l'ultimo grado del processo generativo è costituito dal mondo materiale. Perciò i due gradi estremi del processo sono da una parte l'Uno (identificato per analogia con la Luce infinita), dall'altra il mondo (identificato a sua volta con le tenebre, il punto più distante dalla luce). Tra i due gradi estremi vi sono quelli intermedi che nel loro allontanamento dalla perfezione dell'Uno manifestano uno svolgimento sempre maggiore verso la molteplicità. La stessa concezione della materia appare in un primo momento analoga a quella neoplatonica: per Plotino la materia è necessaria per il porsi di un essere altro rispetto all'Unum (perché altrimenti ci sarebbe solitudine assoluta): l'idea nolana della scala naturae è inoltre simmetrica a quella continuità che per Plotino unisce il mondo mediante un continuo perfezionarsi-semplificarsi, fino all'assolutamente semplice, all'Uno. Anche la concezione del male è in effetti risolta dal Bruno nell'idea del non-essere, della privazione: il male non esiste come realtà opposta al bene, ma solo come privazione del bene assoluto. Plotino inoltre aveva pensato ad un processo di elevazione dell'anima, che per molti aspetti richiama quell'idea dell'ascensus mistico che ho tentato di mostrare come fondamentale nel quadro antropologico del Bruno. L'estasi, che rappresenta anche per il Nolano un momento di sublime elevazione dell'anima e di contemplazione dell'Uno, è per Plotino l'espressione più perfetta del desiderio di trascendere ogni orizzonte finito.
Esistono tuttavia delle differenze. Malgrado siano evidenti queste
analogie - soprattutto terminologiche - con il pensiero di Plotino, sono
convinto che il Nolano si distacchi dagli schemi neoplatonici proprio sul
terreno della concezione dell'Uno e della sua trascendenza. Per mettere in
rilievo questa differente visione è necessario analizzare anzitutto il
passaggio dall'arché al molteplice. Aldo
Magris aveva osservato: «L'acuto sguardo di Plotino penetra nel cuore di quel
problema dell'arché da cui la filosofia greca aveva avuto origine quasi
otto secoli prima. Anche per lui il principio dev'essere da un lato
assolutamente semplice, dall'altro capace di dar ragione di tutta la
molteplicità dell'universo»[250]. Leggiamo infatti nelle Enneadi: «Se c'è
qualcosa dopo il Primo, è necessario o che esso derivi direttamente da Lui, o
si riporti a Lui attraverso intermediari: c'è dunque un ordine di esseri di
secondo grado e un ordine di esseri di terzo grado; l'ordine di secondo grado
risale al Primo, il terzo risale al secondo. E' necessario infatti che il primo
sia semplice, anteriore a tutte le cose e diverso da tutto ciò che è dopo di
Lui, esistente in sé, non mescolato con gli esseri che derivano da Lui e capace
nondimeno di essere presente, in un suo modo, nelle altre cose»[251].
Il problema dell'arché è comune,
evidentemente, sia a Plotino che a Bruno; ma le rispettive soluzioni
differiscono sottilmente. Per Plotino il mondo è emanazione (nel senso
di generazione) dell'Uno: l'Uno, pur «capace di essere presente, in un
suo modo, nelle altre cose» tuttavia è assolutamente trascendente: «non [è
infatti] mescolato con gli esseri che derivano da Lui». Il molteplice del mondo
mantiene dell'Unum solo una traccia, un segno dell'arché a cui è
destinato a far ritorno. Nell'atto generativo avviene il distacco dall'archè
al molteplice: la distanza ontologica tra Generante e generato verrà mantenuta
tramite un ordine ben preciso - gerarchico - in cui vengono a trovare posto
tutti gli esseri. L'ordine degli esseri è quindi scandito da un depotenziamento
a livello ontologico: l'Uno riflette la propria perfezione negli enti solo
indirettamente, e sempre più debolmente, tramite la mediazione delle
ipostasi. Il mondo materiale risulta quindi al di fuori della vera realtà -
quella per così dire divina, dell'Unum - che si esaurisce nel
mondo ipostatico.
La concezione plotiniana dell'immagine -
che si risolve a livello metafisico in una assenza - risente di questa
impostazione: il mondo materiale è solo apparenza, privazione della vera
realtà. Il passaggio dall'archè al molteplice si verifica solo per mezzo
di un decadimento ontologico: il molteplice è dispersione di luce, privazione
di unità. L'archè non sarà mai equivalente a tutto il molteplice.
Nel caso del Nolano, invece, l'esigenza unitaria
non conduce affatto ad un depotenziamento dell'essere dall'alto al basso,
in una discesa dall'Uno verso la realtà materiale. Per Bruno infatti
l'Uno è anche concepibile come totalità: l'Uno è (tutta) la realtà materiale
(l'universo, se inteso come totalità, è Unum e coincide con Dio). L'Unum
non è mai - ontologicamente - né superiore, né trascendente, né separato dal
molteplice. Ma per mettere meglio in rilievo queste diverse prospettive è
necessario analizzare in particolare le differenti concezioni del mondo e della
materia.
Ha notato con acutezza Arrigo
Pacchi: «Alla base della dottrina bruniana della natura sta una materia - prima
- concepita come una delle due sostanze - l'altra è la forma - immediatamente
riconducibili all'Uno: ma si noti che la forma non allontana, mediandola, la
materia dall'Uno, come nel neoplatonismo, ma si colloca al medesimo suo
livello; anzi, materia e forma costituiscono due aspetti di una stessa
sostanza, posto che la materia non viene a ricevere le dimensioni come di
fuora, ma a mandarle e cacciarle dal seno, e ciò vale anche per le altre
forme della corporeità, l'aristotelica materia seconda. Ma in quanto prima, la
materia è di per sé informe e inalterabile: sorge quindi il problema del modo
in cui essa dà luogo alle forme e cioè alle variazioni qualitative corporee
della materia seconda. Bruno risponde alla questione ricorrendo alli primi
corpi indivisibili, de' quali originalmente è composto il tutto, gli atomi,
corpuscoli insensibili, come del resto è insensibile la materia prima, ma
solidi e sferici, le cui aggregazioni e disaggregazioni danno ragione di tutte
le variazioni, chimiche e qualitative, del corporeo»[252].
Leen Spruit ha invece sostenuto che
«La teoria della materia di Bruno è oggetto di cambiamenti notevoli»[253]: nel De umbris la materia sarebbe
equiparata alle tenebrae e solo successivamente, nel quadro metafisico
del De la Causa, vedrebbe una certa rivalutazione. In effetti
all'interno della struttura metafisica del De umbris la materia è molto
vicina al prope nihil plotiniano: la materia viene ancora associata
all'immagine delle tenebrare, poiché nell'ordo & connexio rerum
dell'universo la materia è effettivamente il punto più distante dalla lux
divina[254]. Ma quando Bruno parla di materia intesa come tenebrae - è bene
non dimenticarlo - sta ancora delineando la struttura della conoscenza,
l'ordine epistemologico, non quello ontologico. Nella Cena
il Nolano aveva seriamente condannato un utilizzo indomito del senso esterno:
chi fa affidamento solo sui sensi - aveva sostenuto - coglie solo l'aspetto esteriore
della realtà (cioé quello materiale, che può trarre facilmente in inganno). Per
questo nel De umbris la materia era stata accostata all'immagine delle tenebrae:
non per la sua distanza ontologica dall'Unum (come avviene invece in
Plotino), ma per la sua incapacità di evidenziare pienamente il divino, a
livello gnoseologico. L'Unum di per sé è tutt'altro che trascendente il
mondo e la materia, ma è piuttosto concepito come una forza suprema che
comprende il tutto. Ecco perché della divina essenza l'intelletto umano non può
conoscere nulla se non per modo di vestigio, di riflesso, di immagine.
La svalutazione della materia operata nel De umbris è quindi solo
apparente: prevede insomma la negazione che si possa conoscere qualcosa solo
tramite la materia (solo cioè tramite l'uso dei sensi). La materia è
quindi considerata un prope nihil solo da un punto di vista
epistemologico.
Plotino sembra invece attribuire
alla materia una valenza negativa (la materia è solo immagine, priva di
una consistenza ontologica pari a quella dell'Unum; il mondo materiale -
essendo il luogo del molteplice - è quanto di più distante ci possa essere
dalla assoluta semplicità dell'Unum). L'idea che il mondo materiale sia
immagine dell'Unum ribadisce ancora una volta il fatto che l'universo è
lontanissimo dalla sua Causa Prima, e ne costituisce un'immagine che viene in
questo modo ad essere anche il limite estremo del reale: il mondo materiale è
il punto più lontano - in fatto di distanza ontologica - dall'Unum.
L'umbra, il riflesso, viene dunque ad identificarsi con l'idea del male,
dell'assenza.
La realtà, derivando tutta da una contemplazione
dell'Uno, può essere equiparata ad uno specchio: «Tutto [...] deriva dalla
contemplazione ed è contemplazione, tanto le verità, quanto ciò che deriva dalla
loro contemplazione [...]; la generazione, che parte da una contemplazione, si
chiude in una forma e in un oggetto da contemplare. In generale tutte le cose
che producono, in quanto sono delle immagini <delle realtà prime>,
producono forme ed oggetti di contemplazione»[255]. La materia insomma è immagine, totalmente
priva di una sua autonomia ontologica. La materia sensibile, proprio in virtù
del cangiamento, è sempre possibile e mai reale: è sempre in potenza, è vuota
«attesa d'essere. [...] Come uno specchio, la materia è il nulla sul cui
fondo appare l'essere»[256].
Si chiedeva infatti Plotino: «Ma
come possiamo dire che anche la materia, che vien detta esistente e della quale
diciamo che è in potenza tutte le cose, sia un essere in atto? Se fosse così,
essa non sarebbe tutti gli esseri in potenza. E se essa non è alcuno di questi
esseri, necessariamente è un non-essere. E come sarebbe in atto, se essa non è alcun
essere? [...] Se essa dunque non è alcuno degli esseri generati in lei e se
questi sono esseri, essa sarà un non-essere. E poi, essendo immaginata informe,
non può essere una forma, né essere considerata fra gli enti superiori: anche
in questo senso essa è un non-essere»[257]. La materia è insomma solo potenza, attesa e desiderio
d'atto. Il mondo materiale si riduce quindi - paradossalmente - ad una assenza
della vera realtà. Detto questo, è inevitabile che le differenze con la nolana
filosofia emergano anche a proposito del valore e del ruolo che vengono
attribuiti all'umbra.
Mentre per Plotino l'ombra è difetto
- assenza di luce - e quindi male, Bruno sistema positivamente il concetto di umbratilità
all'interno della sua magica filosofia binaria. L'ombra, essendo prima
di tutto un indispensabile medium extraemorum, ha una doppia natura:
costituisce sia un limite metafisico e gnoseologico, sia il luogo
dell'esistenza. Per Bruno - dovrebbero essere queste le inevitabili
conclusioni della sua impostazione metafisica binaria - c'è quindi
dell'ombra anche nell'Unum. Si ricordi infatti che l'Unum godeva
di una doppia natura: era stato definito come Mens insita omnibus ma
anche come Mens super omnia. Dal punto di vista cosmologico e metafisico
l'Uno coincideva infatti con l'esplicato, con l'universo infinito (con
la Vita-materia infinita, per usare una classica espressione di Michele
Ciliberto); e dal punto di vista epistemologico l'Unum era stato
definito come assolutamente trascendente.
Più a fondo: anche dal punto di
vista metafisico l'Unum mostrava una doppia natura: poteva infatti
essere considerato come l'assolutamente semplice (estrema complicatio)
o come l'assolutamente molteplice (estrema explicatio). In
entrambi i casi manifestava però una natura umbratile: in quanto complicato
veniva infatti a costituire il minimo assoluto - al di sotto di ogni
umana possibilità conoscitiva; mentre in quanto esplicato rappresentava
la totalità - al di sopra della sfera gnoseologica. In ogni caso, visto che non
esiste nulla al di fuori dell'Unum, sia la luce che le tenebre - e
quindi l'ombra che ne costituisce il medium - dovrebbero considerarsi
parte dell'Assoluto.
Per Plotino invece l'Unum -
assolutamente trascendente - è al di fuori della realtà materiale, ed è luce
assoluta (le tenebre vengono relegate all'ambito del mondo materiale, che
gode della luce dell'Uno solo in virtù di un lontanissimo riflesso). Plotino
aveva sostenuto che «La natura del corpo, poiché partecipa della materia, è
cattiva, ma non è il primo male; la forma che essa possiede non è vera forma,
ed è priva di vita»[258]. Il non essere doveva per lui consistere nel
momento della progressiva separazione dall'Uno: «Il non-essere <per me> è
non il non-essere assoluto, ma solamente ciò che è altro dall'essere: non
intendo, però, il non-essere <altro>, come sono altri dall'essere il
movimento e la quiete che sono nell'essere, ma come l'immagine dell'essere
<è altra dall'essere> o come un non-essere ancora inferiore. Sono tali
tutte le cose sensibili e le relative affezioni e, in grado ancor più basso,
gli accidenti di quelle»[259]. Il tema dello specchio, dell'ombra, che in
Plotino assume delle connotazioni fortemente negative (lo specchio è assenza,
l'ombra è lontananza dalla luce), garantisce invece in Bruno - come ho cercato
di mostrare - non solo le infinite possibilità conoscitive umane, ma anche la
possibilità stessa dell'essere. Se l'alterità è sentita da Plotino come separazione,
allontanamento progressivo dal vero Bene, per Bruno si verifica invece una
situazione diametralemente opposta: l'alterità - che è possibile solo in
funzione dell'ombra metafisica - è garanzia dell'Essere, terreno
dell'esistenza. L'ombra - avevo sostenuto - rappresenta infatti per Bruno la
possibilità metafisica di ogni alterità.
Paradossalmente, si deve riconoscere
che queste conclusioni opposte nascono dal medesimo problema, quello della solitudine
assoluta. Sia per Plotino che per Bruno, se non ci fosse il mondo materiale
l'Unum, il primo principio, esisterebbe in una condizione di assoluta
identità con se stesso, di assoluto isolamento. Entrambi, posti di fronte a
questo problema, tentano una soluzione radicale, ma per vie opposte: per
Plotino l'Unum è assolutamente identico a se stesso e genera il mondo
restandone però separato nella sua perfezione solitaria, per Bruno invece l'Unum
si dispiega nel mondo materiale e coincide alla fine con esso.
L'umbra ha quindi per il
Nolano anche una forte accezione positiva: non solo vela l'Uno, ma serve anche
a proteggere la vista dell'uomo: « [...] non dico dunque l'ombra che allontana
dalla luce, ma che conduce alla luce, la quale, per quanto non sia verità,
tuttavia deriva dalla verità e porta alla verità; e perciò non devi credere che
in essa ci sia l'errore, ma il nascondiglio del vero. [...] Parecchi hanno
perso la naturale capacità della vista, avanzando repentinamente dalle tenebre
alla luce: fino a tal punto essi sono lontano dal raggiungere l'obiettivo
ricercato. Perciò l'ombra prepara la vista alla luce, l'ombra tempera la luce,
per mezzo dell'ombra la divinità tempera e propina le apparenze che anticipano
le cose all'occhio, avvolto da caligine, dell'anima che è affamata e assetata»[260]. L'umbra che separa il mondo materiale da
quello divino è tutt'altro che un elemento solo negativo, tutt'altro che
il riflesso di un'assenza.
Nel De umbris Bruno aveva
evidenziato la profonda relazione esistente tra l'ordine della natura e le
possibilità di ascensus mistico-conoscitivo. In questo ambito l'ars
memoriae era stata considerata appunto come uno strumento conoscitivo
efficace (l'unico, insieme alla magia e alla filosofia della natura).
L'efficacia della mnemotecnica trae la sua origine proprio dall'ordine della catena
infinita con cui sono legati tra loro gli elementi del Cosmo: ordine che è
possibile memorizzare e ripercorrere fino a toccarne - intellettualmente e
spiritualmente, ma anche materialmente, nel corso della vicissitudine infinita
- gli opposti estremi (che sono nel quadro concettuale binario, di
ispirazione cusaniana, il minimo, ovvero la monade, e il massimo,
ovvero l'infinito). In Bruno esiste una determinazione spirituale del pensiero,
anche dialettico, che è desiderio. Magia e mnemotecnica sono allora
strumenti per padroneggiare l'ordine delle cose, facilitare l'ascensus
della scala naturae e raggiungere così il congiungimento mistico con
l'Uno.
L'Uno è indubbiamente l'oggetto del
desiderio, perché l'Uno è Dio. Si ricordi a questo proposito quanto Bruno
scriverà nel De magia: «[...] i maghi hanno per assioma che in ogni
opera bisogna tener d'occhio il fatto che Dio influisce sugli dei, gli dei suoi
corpi celesti o astri, che sono divinità corporee, gli astri sui demoni, che
sono curatori e abitatori degli astri (uno dei quali è la terra), i demoni
sugli elementi, gli elementi sui composti, i composti sui sensi, i sensi
sull'animo, l'animo su tutto l'essere vivente: e questa è la discesa della
scala. Ma ecco che l'essere vivente ascende ai sensi attraverso l'animo, ai
composti attraverso i sensi, agli elementi attraverso i composti e attraverso
questi ai demoni, attraverso i demoni agli astri, attraverso questi ultimi agli
dei incorporei, o di sostanza e corporeità eterea, attraverso questi all'anima
del mondo o spirito dell'universo, e infine attraverso questo alla
contemplazione dell'unico, semplicissimo, massimo incorporeo, assoluto e
sufficiente a se stesso. Così a partire da Dio c'è la discesa all'essere
vivente attraverso il mondo, e dall'essere vivente attraverso il mondo, fino a
Dio. Questi è la sommità della scala, puro atto ed attiva potenza, luce
purissima, mentre alla base della scala vi è la materia e le tenebre, pura
potenza passiva, che può divenire tutte le cose dal basso, come quegli può fare
tutte le cose dall'alto. Fra il gradino più basso ed il più alto vi sono poi le
specie intermedie, le superiori delle quali partecipano maggiormente della luce
[...], mentre le inferiori più delle tenebre [...]»[261].
La differenza sostanziale nei
confronti della metafisica neoplatonica è data quindi dal fatto che per Bruno
Dio vivifica dall'interno ogni singola porzione di materia, mentre per
Plotino l'Uno rimane assolutamente trascendente rispetto al mondo generato (il
mondo materiale non è la vera realtà).
Si noti che Bruno preferisce seguire
anche in questo caso la metafisica magico-alchemica dell'ermetismo: per il pensiero
magico, come ha mostrato Mauss[262], il tutto è uno, non però nel senso che il
mondo materiale deriva dall'Assoluto - e ne rappresenta in qualche modo
una diminuzione di perfezione - ma nel senso che il Mondo è l'Assoluto,
e non c'è ovviamente nulla al di fuori di questo. La comunicazione
universale e l'idea di simpatia esigono in fondo questa posizione
radicale: l'Unum - il divino - non può che essere nel mondo.
Al di là delle somiglianze a livello
terminologico, anche per il caso dell'Intelletto e dell'Anima del mondo
esistono delle notevoli differenze tra la concezione di Plotino e quella del
Nolano. Plotino, quando aveva individuato un Intelletto inteso come causa
del mondo, non lo aveva affatto identificato con Dio. Alla domanda
fondamentale: perché è necessario presupporre un assolutamente primo?
Perché non ci si può fermare al dato di fatto della molteplicità? Plotino ha
risposto sostenendo che senza un principio non potrebbe spiegarsi il
fatto stesso che la molteplicità appare sempre collegata in un insieme, che
l'universo sia un cosmo e non un marasma di frammenti dispersi dal caso[263]. Proprio l'unicità e la semplicità assoluta del
primo principio rendono impossibile una sua identificazione con l'Intelletto.
Questo non avviene invece in Bruno, dove l'Intelletto è allo stesso tempo Dio,
Anima Mundi, e Unum (si tratta in questo caso di tre
determinazioni diverse per significare la stessa cosa). In Plotino invece,
l'Assoluto, o il «Primo», o l'«Uno», è al di là dell'Intelletto. Per Plotino
l'Intelletto deriva dall'Uno, l'Anima deriva a sua volta dall'Intelletto, e la
Natura deriva a sua volta dall'Anima. La natura quindi riceve le forme
intellegibili dell'intelletto solo attraverso l'Anima. Per Bruno invece,
l'Intelletto è una facoltà stessa dell'Anima, o, meglio sono entrambi dei nomi
di Dio (che è Intelletto a livello gnoseologico e Anima a livello «mundano»).
L'Intelletto stabilisce l'ordine intellegibile del reale, la scala naturae,
l'Anima vivifica la materia dall'interno e le dona un movimento e una natura
armonica, nel suo procedere attraverso una serie infinita di forme e movimenti.
La Natura, il Mondo, è a contatto diretto con l'Intelletto, quindi con Dio. Non
esistono ipostasi né mediazioni, ma solo una singola, infinita, esplicazione.
E' proprio questa singolare organizzazione che, avvicinando al massimo Natura e
Intelletto/Anima Mundi, porterà il Bruno a chiedersi se sono davvero due
i principi in immediato contatto fra loro: il principio agente, l'Intelletto, e
il principio "materia", che accoglie l'informazione dell'Intelletto;
o se invece i due principi non possono meglio identificarsi nel concetto di Natura,
intesa come materia che da sé si indirizza in forme intellegibili. Alla fine
del De la Causa infatti, Bruno parlerà di un Intelletto così intrinseco
alla Natura, da potersi considerare una sua propria attività. Causa,
Principio e Uno sono per il Nolano un essere solo in tre
concetti, non in tre ipostasi differenti (come in Plotino): siamo insomma
sempre all'interno di una concezione rigidamente monistica.
L'Essere, non nei suoi accidenti, ma
nella sua Essenza - dirà Bruno nel De Monade (ripetendo il concetto del De
la Causa, ma con una diversa sfumatura) - vivifica il Tutto dall'interno, e
l'intellegibilità del reale manifesta questa sorta di comunicazione diretta:
«L'Essenza, rivolgendosi a tutte le cose, mirando a tutte le cose, e a tutte
comunicandosi, genera la Vita, il cui eccellentissimo effetto, quasi prima
specie di essa, è appunto l'Intelligenza»[264]. Naturalmente la conoscenza di questa struttura
metafisica è frutto di un impegno tutto interiore, del senso interno, perché ai
sensi - come al solito - viene negata ogni possibilità conoscitiva (adeguata ad
un oggetto infinito): «[...] quando l'intelletto vuol comprendere l'essenzia di
una cosa, va simplificando quanto può: voglio dire, della composizione e
moltitudine se ritira, rigittando gli accidenti corrottibili, le dimensioni, i
segni, le figure a quello che sottogiace a queste cose. Cossì la lunga
scrittura e prolissa orazione non intendemo, se non per contrazione ad una semplice
intenzione. L'intelletto in questo dimostra apertamente come ne l'unità
consista la sustanza de le cose, la quale va cercando o in verità o in
similitudine. Credi che sarebbe consumatissimo e perfettissimo geometra quello
che potesse contraere ad una intenzione sola tutte le intenzioni disperse ne'
principi di Euclide; perfettissimo logico chi tutte le intenzioni contraesse ad
una. Quindi è il grado delle intelligenze: perché le inferiori non possono
intendere molte cose, se non con molte specie, similitudini e forme; le
superiori le intendeno megliormente con poche; le altissime con pochissime,
perfettamente. La prima intelligenza in una idea perfettissimamente comprende
il tutto; la divina mente e la unità assoluta, senza specie alcuna è ella medesima
che intende e lo che è inteso. Cossì, dunque, montando noi alla perfetta
cognizione, andiamo complicando la moltitudine; come, descendendosi alla
produzione delle cose, si va esplicando la unità. Il descenso è da uno ente ad
infiniti individui e specie innumerabili; lo ascenso è da questi a quello»[265].
Bruno pensava all'Uno seguendo
quindi una visione radicalmente monistica dell'universo, del Tutto,
piuttosto che ipostatizzandolo come causa assolutamente trascendente della
realtà. Per Plotino invece l'esigenza monistica ha portato a distinguere in
modo netto il Generante dal generato, e a sostenere che la verà realtà è quella
del Primo.
Nel De Immenso il Nolano aveva sostenuto
che: «Dio è infinito, nell'infinito, dovunque in tutte le cose, non al di
sopra, né fuori di esse, ma ad esse assolutamente intimo; così l'essenza non è
nulla al di là e al di fuori degli esseri, la natura non è nulla al di là delle
cose naturali, la bontà non è nulla al di là delle cose buone. L'essenza si può
distinguere dall'essere soltanto in senso logico, come la ragione da ciò di cui
è ragione. Su via, guarda dove siano la natura e Dio: qui sono le cause delle
cose, la potenza dei principi, la sorte degli elementi, i semi delle cose che
saranno generate, le forme archetipe [...]. Qui è anche la materia, potenza
passiva sussistente, esistente, presente e che quasi sempre si manifesta
nell'unità. Non esiste un artefice che presieda dall'alto e che dall'esterno
predisponga e configuri [...]. La materia fa scaturire ogni cosa dal proprio
grembo, la sua intima natura è abile artefice, arte vivente, mirabile potenza
dotata di mente, che esplica un atto relativo alla propria materia non ad
un'altra, senza indugiare [...]. Così lo spirito artefice del seme, che muove
dal profondo centro, la natura efficiente, l'artefice della materia presente,
il trascinatore, il modellatore, l'ordinatore non sono altro che l'intimo
motore. A che servono, dunque, quelle fantasiose tecniche di Platone, quegli
artifici, quegli archetipi, idee, immagini, quelle statue, quei carri della
fantasia, quelle navi ricolme di quisquiglie, tutti posti fuori del mondo
corporeo? [...] Non solo la natura è presente nelle cose, ma è in esse insita,
da nulla è lontana poiché nulla è lontano dall'essere in nessun luogo, mai, per
nulla è lontano dall'essere in nessun luogo [...]»[266]. Non esiste insomma per Bruno un mondo delle
idee trascendente il mondo corporeo, e non esiste neppure un Unum
concepito al di fuori del Mondo, nel senso di una prospettiva creazionista
(tipica per esempio della patristica cristiana). Si noti che relativizzare la
trascendenza di Dio - e limitarla al solo ambito gnoseologico - comporta anche
una revisione della morale e dei suoi fondamenti. E questa sarà appunto
l'operazione dei Dialoghi morali, a partire dallo Spaccio de la bestia
trionfante, dove, in perfetta coerenza con l'abbattimento delle gerarchie,
Bruno tenta di rifondare l'etica su basi esclusivamente naturali e razionali, a
prescindere dalla religione cristiana (che anzi viene ridotta ad una stretta
funzione pedagogica), mentre la vera religione diventa (o meglio ritorna ad
essere) quella dei maghi egiziani, l'ermetismo e la magia. Sarà proprio
l'azione magica a garantire una efficace azione trasformatrice sia del microcosmo
che del macrocosmo. In base alla filosofia dei vincoli, delle occulte
simpatie, Bruno costruirà un'etica tutta centrata sulla praxis e sul
sapere. A questo proposito si deve notare che l'immagine neoplatonica
dell'eros, inteso come struttura originaria della conoscenza, verrà innestata
nel quadro della problematica gnoseologica del De umbris e dell'oggetto
infinito del De la causa e del De l'infinito: «E' così che la
neoplatonica frattura tra amore sensibile e amore intellegibile perde il
significato morale che essa ha tradizionalmente, e viene ripensata nel quadro
del rapporto tra senso e intelletto, l'uno organo della conoscenza finita,
l'altro organo della conoscenza volta all'infinito. L'ascesi amorosa acquista
quindi il significato di un metodo del sapere, e, contemporaneamente, di
un'esperienza unica e irripetibile del filosofo illuminato»[267], osservava giustamente Fulvio Papi. Sarà infatti
questa la tematica de Gli eroici furori, in cui per la verità non viene
mai abbandonato il substratum ideologico dei vincoli magici che
innervano il Mondo, e viene indirettamente ribadita la superiorità della
conoscenza e dell'azione del filosofo-mago.
A proposito della trascendenza
dell'Uno - anche nei confronti dell'Intelletto - aveva osservato Aldo Magris:
«[...] l'Assoluto, essendo superiore all'intelletto, trascende entrambi gli aspetti
della dualità pensante-pensato: esso quindi non è né una Mente raziocinante né
qualcosa di intellettualmente conoscibile da parte della mente umana [...].
L'Uno [...] è al di là anche della vita, in quanto dà la vita»[268]. In Bruno questa trascendenza assoluta dell'Uno è
ovviamente negata proprio in virtù della sua identità con l'Anima mundi,
che, come abbiamo visto nel De la Causa, vivifica il mondo dall'interno.
La trascendenza dell'Uno, lo ribadisco, è totale solo a livello gnoseologico:
l'uomo non può conoscerne la sostanza; tra Dio e mente umana c'è e ci sarà
sempre un velo d'ombra (il che non nega ovviamente le perfettibilità della
conoscenza umana, ma richiede uno sforzo infinito). Per Plotino l'Uno,
l'Assoluto, non può essere concepito neppure come la totalità degli esseri,
perché altrimenti avrebbe un'esistenza, e invece, propriamente, non ce
l'ha[269]. In Bruno invece l'Uno costituisce anche, all'interno della filosofia
binaria, l'opposto del molteplice: nel molteplice non c'è quindi degradazione
dell'essere, ma moltiplicazione di vita, alterità rispetto all'Unum.
Il discrimen è insomma tutto
nella concezione dell'Assoluto: mentre per Plotino l'Assoluto non si identifica
con Dio, per Bruno si tratta invece di termini equivalenti, che risultano del
tutto appropriati nei rispettivi ambiti di indagine. A Dio, Plotino sembrava
aver premesso l'Uno pitagorico: la fonte sovraintellegibile, anche
dell'Intelletto. Anche Bruno in effetti mantiene l'idea della filiazione
dell'Intelletto dall'Uno, ma si tratta di un concetto per così dire contratto:
la trascendenza, come ho già detto, è fortemente limitata e ridimensionata:
«L'intelletto universale è l'intima, più reale e propria facultà e parte
potenziale de l'anima del mondo. Questo è unomedesimo che empie il tutto,
illumina l'universo ed indirizza la natura a produre le sue specie come si
conviene [...]. Questo è nomato da' Platonici fabro del mondo. Questo
fabro, dicono, procede dal mondo superiore, il quale è a fatto uno, a questo
mondo sensibile, che è diviso in molti; ove non solamente la amicizia, ma anco
la discordia, per la distanza de le parti, vi regna. Questo intelletto,
infondendo e porgendo qualche cosa del suo nella materia, mantenendosi lui
quieto ed inmobile, produce il tutto. E' detto da' Maghi fecondissimo di semi o
pur seminatore, perché lui è quello che impregna la materia di tutte le forme
[...]»[270]. L'intelletto procede insomma dall'Uno, ed infonde a sua volta l'ordine
intellegibile nella materia. Ma tra mondo e Uno non c'è mai una distanza
infinita, come in Plotino. Aveva quindi ragione Augusto Guzzo quando sosteneva
che nel De la Causa, «é l'Uno stesso concepito come Mente, l'Intelletto
divino che dice il Bruno; ed è tutto come l'unità è, in un atto
solo, l'intera molteplicità che da essa si svolge. Da tale Uno, Mente
rigorosamente una, Intelligenza unitaria primitiva, procede quello che già
Plotino chiamava Intelletto: ed è il fabbro del mondo, la causa
dell'universo, l'Intelletto non sopramondano che dall'intimo del mondo forma e
vivifica il mondo, e dall'interno fa tutte le cose»[271]. Bruno svolge insomma una delicata operazione
all'interno del quadro metafisico di ispirazione plotiniana: questa operazione
consiste in un aggiustamento dei rapporti tra Uno e Mondo, e alla fine la
trascendenza dell'Uno ne risulterà fortemente limitata. L'intelletto (lo stesso
discorso vale per l'Anima) sembra ora configurarsi non più come una ipostasi
dell'Uno, ma come un modo di essere, di esplicarsi, dell'Uno.
In Bruno l'operazione
dell'intelletto umano ricalca la struttura e le modalità d'espressione della
Natura. A proposito ho già ricordato la vera funzione della magia: permettere
l'ascensus e il descensus. Come ha opportunamente notato Heléne
Vedrine «il De magia nasce proprio da una tensione tra il fare e il
sapere»[272]: il fare è possibile solo in base al sapere, e
consiste nell'utilizzo magico dei vincoli. A proposito dell'ascensus
& descensus, Leen Spruit ha rilevato opportunamente: «Bruno descrive
la comunicazione tra i diversi gradi del reale in termini di ascensus &
descensus, concetti che determinano altresì la direzione ed il valore di
ogni conoscenza possibile»[273]. In effetti, nel De umbris leggiamo:
«Tutto ciò che è dopo l'uno è inevitabilmente molteplice e numeroso. Perciò,
tranne l'uno e primo, tutte le cose sono numero. Donde sotto l'infimo gradino
della scala della natura c'è il numero infinito o materia; invece nel sommo
gradino c'è l'infinita unità e atto puro. Pertanto, la discesa, la dispersione
e l'espansione avvengono verso la materia; l'ascesa, l'aggregazione e la
delimitazione avvengono verso l'atto»[274].
Sempre secondo Spruit «Nel concetto
di ens di Bruno è possibile individuare delle tracce della teoria
plotiniana dell'ens primum o ens unum quali indicazioni del mondo
intellegibile. Bruno integra nel suo concetto di ens & unum le prime
due ipostasi di Plotino»[275]. E, aggiungerei, ne limita fortemente la
trascendenza.
I passi che giustificano questa
interpretazione sono numerosi, e, naturalmente, presenti anche nell'altro
grande capitolo della filosofia binaria, quello che segue l'esposizione
dell'infinito e che delinea la struttura del finito, del minimo:
leggiamo infatti nel De monade che «Uno è lo spazio, una la Grandezza,
uno il Fondamento, con potenzialità infinita, esso stesso infinito. Una è la
prima Essenza, la prima bontà, una la prima Verità, per cui tutte le cose sono
Enti, Beni, Veri. Una è la Mente, dovunque tutta, che misura tutte le cose, uno
è l'Intelletto che ordina tutto, uno è l'amore che tutto concilia con tutto.
Uno è l'Alveo che concepisce tutte le cose, una l'Eternità che possiede ogni
perfezione, uno il tempo, misura di ogni movimento e quiete. Una è l'Idea di
tutte le specie e di tutti gli atti, uno il Verbo che esprime ogni emanazione,
una la necessità del Fato che definisce tutte le cose. Uno è il principio primo
da cui tutte le cose procedono. Una la causa prima di ogni effetto. Uno
l'Elemento di tutto ciò che esiste. Uno l'infinito che tutto delimita. Una è la
prima Misura di tutte le cose. Uno è l'universo infinito che tutto abbraccia.
Una è la Monade, sostanza di ogni numero, una è la Diade prima, o opposizione,
che distingue tutte le cose. Uno è il primo soggetto comune a tutti gli
opposti. Una è l'intenzione che dispone tutte le cose. Uno è il primo soggetto
comune a tutti gli opposti. Una è l'intenzione che dispone tutte le cose. Uno è
il fine a cui tutte le cose aspirano ed uno è il mezzo con cui tutte le cose lo
conseguono. Uno è il Motore che garantisce l'universale vicissitudine. Uno
l'Atto che ogni cosa compie, una è l'Anima che tutto vivifica. Uno è il nome
che ha in sé tutti i significati, una è la Ragione che medita ,ogni cosa, uno
l'Appetito che desidera ogni cosa»[276].
L'Uno che nel De la Causa era
l'Universo esplicato, l'infinito molteplice, nelle opere che trattano
del Minimo diventa sintomaticamente l'infinitamente semplice, il minimo
metafisico, il Primo, molto vicino al plotiniano Unum, inteso
come presupposto dell'esser-ci: si tratta dell'Uno che precede il
molteplice, e quindi ne fonda l'esistenza. E' a quest'Unum che si addice
propriamente una severa teologia negativa, perché, proprio in quanto semplicità
assoluta, priva di ogni qualificazione mundana (direbbe Bruno), proprio
in quanto Essere al massimo della complicatio possibile, è impossibile
da definirsi secondo il pensiero del molteplice, del differenziato, dell'altro,
dell'umano.
La degradazione dell'essere di Plotino viene
sostituita da una espressione vorticosa, in cui la molteplicità esprime tutta
lo stesso Dio, e la degradazione della luce vale solo sul piano gnoseologico.
La differenza col neoplatonismo
cristiano è presto risolta sul terreno della creazione ex nihilo: l'idea
della creazione viene dal Bruno sempre fortemente negata. Michelangelo Ghio,
dopo aver notato come il vocabolario del neoplatonismo, o della tradizione del
platonismo cristiano, sussista anche nella Summa Theologiae, ha
sostenuto giustamente: «Tale presenza del platonismo [...], lungi
dall'escludere, fonda e rafforza in S.Tommaso la concezione creazionistica
cristiana [...]». Nota inoltre - Ghio - che «[...] la critica più avvertita
ammette come cosa pacifica la irriducibilità del tomismo al mero aristotelismo,
respingendo la sua interpretazione in chiave anti-agostiniana, sottolineando
anzi la necessità appunto di una lettura tomista in chiave anche neoplatonica.
La presenza del tema neoplatonico dell'emanazione e del ritorno a Dio mediante
le opere degli uomini è presente, in modo evidente, fin dall'inizio della Summa
contra Gentiles. Il motivo dell'exitus-reditus perviene al
tomismo da Scoto Eriugena [...]. Secondo C. Giacon[277], è addirittura la presenza del concetto
neoplatonico dell'Uno, in quanto fondante l'assoluta semplicità del primo
principio, a far sì che l'esse per se subsistens di Tommaso divenga per
necessità l'unico e il perfettissimo, la causa assolutamente prima e quindi il
creatore ex nihilo di tutto il reale, secondo la più schietta e
ortodossa concezione del creazionismo cristiano, e quindi la dichiarata
negazione di ogni concezione della causa immanente. L'antico concetto di causa
emanativa, ripensato attraverso la dottrina cristiana dell'espressione, fa
ormai da supporto speculativo al dogma della creazione: l'effetto - lungi dal
restare nella causa come attuale inerenza d'un contenuto - si pone nettamente
come altro da essa. L'antica concezione della degradazione dell'essere in ipostasi
successive si trasforma in una visione gerarchica, nella quale tutti gli
esseri, dal supremo all'infimo, trovano la loro collocazione. Il cammino all'in
giù è costituito dall'espressione di Dio nel Verbo e nell'universo creato, e il
cammino all'in sú si percorre attraverso la conversione (metànoia) come
progressiva deificazione, come tensione della creatura al creatore»[278].
Il tema dell'emanazione corre
quindi il rischio di essere adottato in modo ambiguo, tant'è vero che
nell'art.1 della Q. XLV della Summa Theologiae, Tommaso chiarisce fin
dall'inizio il senso del termine neoplatonico, ormai usato per designare -
senza il minimo equivoco - il processo creativo: «designiamo con il nome di
creazione [...] l'emanazione di tutti gli enti dalla causa universale che è
Dio»[279]. E' fin troppo scontato rilevare che Bruno si colloca in una posizione
diametralmente opposta. Lo stesso Ghio continua infatti sottolineando che «come
abbiamo rilevato in S.Tommaso la presenza del linguaggio e della tradizione
speculativa del neoplatonismo cristiano, per notare come siano utilizzati in
modo radicalmente nuovo e volti a dare espressione speculativa della dottrina
del creazionismo, con tutte le sue implicazioni (eminenza della causa,
gerarchia degli esseri, predicazione analogica, concetto di espressione nella
tipica accezione cristiana, ecc.), allo stesso modo, e converso,
dobbiamo rilevare in Bruno la presenza dello stesso linguaggio, metafore e
immagini del neoplatonismo, usati però per costruire quelle categorie
dell'immanenza, che per Deleuze costituiscono gli elementi strutturali del
concetto di espressione, come rapporto di complicatio-explicatio
fra Dio e il mondo. In altri termini, la secolare ambivalenza del concetto
platonico-plotiniano di partecipazione, includente in sé le opposte nozioni di
causa emanativa e di causa immanente, è risolta da Bruno in senso
diametralmente opposto a quello di Tommaso. Con lo stesso vocabolario
neoplatonico, Bruno esprime un'interpretazione del rapporto tra Dio e mondo
affatto incompatibile con una concezione creazionistica [...]»[280]. Ghio ha naturalmente ragione: non solo Dio non
crea affatto il mondo e gli uomini traendoli dal nulla, ma non crea neppure la
materia 'passiva'. Dio non crea l'universo, perché in realtà Dio é
l'universo. Si ricordi l'operazione fondamentale del De la Causa, ovvero
l'attribuzione della materia anche a Dio (operazione compiuta nel III Dialogo):
è questo il passaggio logico e metafisico che permetterà al Bruno di superare
le difficoltà medievali legate al paradosso del Dio che non può creare un
oggetto (mondo) infinito, pur godendo di una potenza infinita.
In effetti il problema della
creazione ex nihilo viene superato parallelamente alla esposizione di
una teoria infinitista per così dire totale, che coinvolge sia Dio che
l'Universo. Essendoci coincidenza tra Dio e Mondo, non ha più senso chiedersi
se Dio può fare un Mondo infinito. In realtà, nella prospettiva del Nolano,
viene abbandonata la contrapposizione Creatore-creatura e, come già accennato,
l'idea della gerarchia. Si noti che nella prospettiva cristiana il problema
della creazione presuppone la personalità di Dio che crea qualcosa di «altro da
sé». Creatura e creato rimangono ontologicamente separati in modo netto. In
Plotino invece, rileva Magris polemizzando con chi definisce il processo di generazione
dall'Uno con il termine di emanazione[281]: «il rapporto fra il Primo e le realtà da esso
derivate non corrisponde alla scissione di un oggetto, bensì all'alterità dell'immagine
[corsivo mio]. L'Uno genera, e dunque fa essere qualcosa d'altro, di diverso.
Ma in qual modo appare «altro»? Certo non come una realtà totalmente estranea,
perché non si spiegherebbe come possa nascere da lui. Ma ciò che è generato
dall'Uno non può essere neppure un altro «Uno» (perché sarebbe assurdo) o una
parte dell'«Uno» (perché l'Uno non ha parti). Oltre all'Uno null'altro può
esserci se non la sua immagine, la quale appunto nel contempo é e
non-é l'Uno, è «altro» ed è «lo stesso» che lui. Quando ad esempio io mi
guardo allo specchio, ciò che vedo è indubbiamente me stesso. Tuttavia quanto
ho dinnanzi non è un'altra persona quale io sono (poniamo, un mio sosia), e
neanche una parte di me, frutto di un mio sdoppiamento materiale; giacché io
non sono uscito da me stesso per entrare nello specchio: sono rimasto
interamente quello che sono. Pertanto ciò che vedo è sì «me stesso», ma ad un
livello ontologico infinitamente inferiore, ed è questo che si vuol dire
precisando che nello specchio sono io sì, però «in immagine». La mia immagine
sono io, eppure al tempo stesso non sono io. Analogamente l'Uno, nel generare
«l'immagine» (eikòn, éidolon), produce qualcosa d'altro senza uscire da sé,
senza «emanare» nulla, ma al contrario, come sottolinea sistematicamente Plotino,
«rimanendo in sé stesso» [...]. La sua immagine infatti è lui, però in quanto
immagine anche non è lui, ossia è qualcosa d'«altro» dal Primo e dall'Uno: e
quindi una realtà «seconda», molteplice»[282]. Anche se notevole è l'analogia col tema biblico
della Genesi (Dio crea l'uomo a sua immagine e somiglianza), non si può
negare che il pensiero di Plotino differisce, nella sua sostanza, dalla idea
cristiana della creazione da una parte, e dall'idea del Nolano di
esplicazione, dall'altra.
In Bruno la materia non è mai né
ontologicamente inferiore all'Assoluto, né addirittura assenza, proprio
perché non esiste un distacco tra Uno e Universo, tra Assoluto e mondo. Nella
prospettiva panteistica, immanentistica ed infinitistica del Nolano, Dio
modifica soltanto se stesso, ovvero l'Universo infinito. L'universo non è mai
immagine - sbiadita - dell'Assoluto. Il riflesso non è mai ontologico, ma solo
gnoseologico. Avevamo già visto come sia la morte, sia l'idea di creazione - in
natura - sono in effetti una pura illusione determinata da un uso improprio del
senso esterno (che deve sempre essere guidato da quello, superiore,
dell'intelletto interno). L'immanenza è insomma, da questo punto di vista,
totale. La trascendenza viene salvata solo a livello epistemologico, molto meno
a livello metafisico. Dio rimane, nell'orizzonte conoscitivo possibile - in
quanto semplicissima Unità divina e infinita - assolutamente al di sopra delle
possibilità conoscitive umane. Tra Dio e l'uomo - a livello epistemologico -
c'è l'umbra, lo specchio, l'immagine, ovvero l'universo, la materia. Ma,
a differenza della concezione plotiniana, la materia è tutt'altro che
inconsistente a livello ontologico: al contrario essa è l'unico luogo
dell'esistenza (l'umbra è infatti il luogo dell'individuazione del
singolo). La particolare coloritura che assume l'utilizzo bruniano del
neoplatonismo risulta insomma nettamente antitetica a quella della teologia
cristiana: il genuino pensiero di Plotino si colloca idealmente tra le due posizioni,
creazionista ed immanente.
CAPITOLO
VII
«Mercurio. [...] Ma te
inganni, Sofia, se pensi che non ne sieno a cura cossì le cose minime, come le
principali, talmente sicome le cose grandissime e principalissime non costano
senza le minime ed abiettissime. Tutto dunque, quantunque minimo, è sotto
infinitamente grande providenza; ogni quantosivoglia vilissima minuzzaria in
ordine del tutto universo è importantissima; perché le cose grandi son composte
de le piccole, e le piccole de le piccolissime, e queste de gl'individui
minimi. [...]. L'atto della cognizione divina è la sustanza de l'essere di
tutte le cose; e però, come tutte cose o finito o infinito hanno l'essere,
tutte ancora sono conosciute ed ordinate e proviste. La cognizion divina non è
come la nostra, la quale séguite dopo le cose; ma è avanti le cose e si trova
in tutte le cose, di maniera che, se non la vi si trovasse, non sarebbono cause
prossime e secondarie»[283].
Anche sul terreno metafisico della
concezione dell'Unum e dei suoi rapporti con il mondo materiale, Bruno
mantiene quindi uno stretto legame con la tradizione magico-ermetica, pur
utilizzando il vocabolario classico del neoplatonismo. Una adesione completa
alla metafisica neoplatonica avrebbe d'altra parte comportato una insostenibile
incoerenza con le tesi esposte nei Dialoghi che abbiamo analizzato, con la
metafisica esposta nel De umbris e soprattutto con gli ultimi scritti
magico-ermetici, il cui contenuto doveva corrispondere all'esposizione di una
metodica magica per completare la crescita dell'uomo nell'universo divino e
quindi infinito. Ma veniamo ora alle considerazioni finali.
La difficoltà principale nel leggere
Giordano Bruno consiste a mio avviso nella particolare tecnica espositiva del
Nolano: quella che Michele Ciliberto ha efficacemente definito come tecnica
della variazione. Ma l'intrecciarsi di temi e motivi - spesso assai
intricato - è in fondo la conseguenza più evidente dell'adozione di quella che
ho voluto definire filosofia binaria: quella filosofia che, mediante il
metodo analogico, si propone di conoscere la realtà ripercorrendone la
struttura metafisica e studiando il modo con cui l'Uno complica gli opposti nel
Tutto.
In effetti, anche l'analisi del
concetto di infinito - che era lo scopo di questa ricerca - dovrebbe essere
svolta in quest'ottica binaria, assolutamente speciale: è proprio a
partire dalla filosofia della coincidenza dei contrari, dalla nagazione
del principio aristotelico di identità e di non-contraddizione, che è possibile
collocare l'infinito nella sua giusta dimensione metafisica.
Non per nulla Bruno aveva concluso
il De la Causa sostenendo che: «l'individuo non è differente dal
dividuo, il simplicissimo da l'infinito, il centro da la circonferenza [...].
Ecco come non è impossibile, ma necessario, che l'ottimo, massimo,
incompreensibile è tutto, è per tutto, è in tutto, perché, come semplice ed
indivisibile, può esser tutto, esser per tutto, essere in tutto. E cossì non è
stato vanamente detto che Giove empie tutte le cose, inabita tutte le parti de
l'universo, è centro de ciò che ha l'essere, uno in tutto e per cui tutto è
uno. Il quale, essendo tutte le cose e comprendendo tutto l'essere in sé, viene
a far che ogni cosa sia in ogni cosa»[284]. L'anassagoreo «tutto in tutto» sta quindi alla
base di ogni singola possibilità di divenire.
Più ci si avvicina all'infinito, più
ci si avvicina alla Totalità, all'Assoluto, all'Unum. Nell'universo,
invece, - nella nostra particolare porzione di spazio-tempo - siamo
ancora nella sfera del finito, del contingente. Nella dimensione dell'infinito
si perdono dunque tutte le determinazioni, perché ogni cosa equivale a ogni
cosa. In quella del finito, invece, ogni cosa è solo quello che può essere in
quel particolare momento (ed è quindi infinita solo a livello potenziale,
mai attuale).
«Ma mi direste - obietta il Nolano -
perché dunque le cose cangiano?»: se ciascuna delle singole unità dell'universo
ha in se stessa l'infinito, perché c'è il divenire? «Vi rispondo - continua il
Bruno - che non è mutazione che cerca altro essere, ma altro modo di essere. E
questa è la differenza tra l'universo e le cose de l'universo: perché quello
comprende tutto lo essere e tutti modi di essere; di queste ciascuna ha tutto
lo essere ma non tutti i modi di essere»[285]. Le singole unità non mutano quindi perché
mancano d'essere (hanno infatti dentro di sé l'essere infinito), ma per
acquistare un altro modo d'essere (un'altra forma esteriore). Tuttavia
«non falla chi dice uno essere lo ente, la sustanza e l'essenza; il quale, come
infinito ed interminato, tanto secondo la sustanza, quanto secondo la
durazione, quanto secondo la grandezza, quanto secondo il vigore, non ha
raggione di principio né di principiato: perché concorrendo ogni cosa in unità
ed identità, dico medesimo essere, viene ad avere raggione absoluta e non
respettiva»[286]. La molteplicità è in sostanza un dato apparente:
a livello metafisico si tratta in realtà dello stesso Unum che esplica
in una moltitudine infinita di forme. La coincidenza di Unum e Universo
toglie ogni possibilità di confusione tra la metafisica neoplatonica e nolana
filosofia, e ribadisce parallelamente la sostanziale fedeltà del Nolano
alla tradizione ermetica: Dio si esplica nel Mondo e lo vivifica dall'interno;
l'uomo è un magnum miraculum (come aveva detto Ermete Trismegisto), una
delle più complete espressioni del divino.
In questa ricerca ho tentato di
chiarire significato che il concetto di infinito viene ad assumere nei Dialoghi
metafisici di Giordano Bruno. Cercherò ora di riassumere brevemente i
risultati di questa mia indagine.
1) L'idea dell'infinito viene
accolta dal Bruno come una delle tesi fondamentali della tradizione ermetica (a
cui il Nolano rimarrà sempre sostanzialmente fedele). Per questo nel primo
capitolo ho particolarmente insistito sul pensiero magico, sul suo significato
filosofico e sulle sue conseguenze a livello metafisico e antropologico.
L'ermetismo era una dottrina religiosa - contenente in realtà molti elementi
filosofici - che i Rinascimentali attribuivano al mitico Ermete Trismegisto.
Secondo i testi ermetici l'universo è infinito e la materia è animata; la morte
è un fenomeno soltanto apparente (in realtà non si tratta che di cangiamento,
infinita mutazione delle forme esteriori che la materia stessa viene di volta
in volta ad assumere). Inoltre, da un punto di vista psicologico, il pensiero
magico e le sue diverse manifestazioni (magia naturalis, cerminialis,
stregoneria, culti di origine celtica, etc.) risultano una rielaborazione
inconscia del tema dell'assenza: il tentativo di mantenere un rapporto
diretto con l'Invisibile rappresenta appunto lo sbocco naturale della dottrina
soteriologica ermetica. Questa dialettica trova espressione anche nella visione
antropologica: l'uomo è magnum miraculum, ma può adeguarsi all'Infinito
solo attraverso l'ascesi mistica ed il culto magico.
Per tutto il corso della sua
straordinaria esperienza filosofica, il Nolano si manterrà sempre perfettamente
coerente con queste tesi, più che con qualsiasi altra scuola filosofica. Per
troppo tempo la critica ha quindi cercato di rintracciare nel suo pensiero
elementi più disparati, dal neoplatonismo all'atomismo democriteo, dal
lucrezianesimo al lullismo. Bruno era un sincretista di eccezionale livello, e
non deve quindi stupire se all'interno della sua magica filosofia binaria ha
coagulato elementi diversi, anche adattandoli con evidenti forzature (come nel
caso dell'utilizzo della cusaniana coincidentia oppositorum e del
completamento delle teorie copernicane). Ma la vera fede fu ed è sempre rimasta
quella nella magia: è questa l'unica possibile conclusione di una filosofia
dell'infinito che non poggiava su dimostrazioni o procedimenti
logico-scientifici, ma sulla dottrina della complementarietà del reale (ogni
cosa ha il suo contrario, e il finito non sfugge a questa regola).
2) I dialoghi che comunemente
vengono definiti dalla critica come metafisici sono in realtà quattro, e
comprendono anche un testo fondamentale, erroneamente considerato solo
mnemotecnico: il De umbris ideaum. In questo testo emergono con
chiarezza gli elementi fondamentali della metafiisca nolana: il concetto di umbra,
l'idea della scala naturae, l'infinita catena dell'essere, l'Unum.
In particolare, la metafisica della luce esposta nel De umbris
risultava fondamentale per la comprensione della struttura della realtà e delle
possibilità conoscitive umane. Ancora una volta, la magia veniva presentata
come unico mezzo per superare la struttura umbratile della conoscenza
umana. Era poi emerso l'utilizzo della magica numerologia ermetica,
misteiorsamente coordinata a quella pitagorica: l'ascesi mistica doveva
certamente essere favorita da un utilizzo magico-simbolico dei numeri e delle
idee.
3) Nel De la Causa erano poi
emersi gli elementi fondamentali della metafisica nolana. L'infinito,
esplicitamente equiparato alla divina unità che complica il tutto, veniva ad
assumere un ruolo centrale, ma mai escludendo l'importanza e la funzionalità
del finito. Il discorso procedeva parallelamente prendendo in esame minimo e
massimo, complicato ed esplicato. Alla identificazione di vita e
materia - sempre seguendo rigorosamente i canoni delle dottrine ermetiche -
Bruno accompagnava una discussione dell'infinito che coinvolgeva sia il piano
dell'Assoluto (l'Unum-tutto vivente) sia quello della materia mundana
(i singoli individui). Il procedimento era sempre quello analogico: Dio
è la vita, Dio è infinito, la vita è infinita: ma il mondo è l'espressione
della potenza divina, quindi la materia è animata e viva, e non può che essere
a sua volta infinita. A livello mundano l'infinito veniva a configurarsi più
precisamente in due modi: si era parlato di una produzione infinita di forme
(da parte dell'Intelletto superiore) e di una estensione infinita
dell'universo (a livello cosmologico). Emergeva così l'idea della vicissitudine
universale: un ciclico cangiamento della vita che permette l'adeguamento
all'infinito dei singoli individui mediante un infinito susseguirsi di vite
diverse.
In particolare, la distinzione tra
Dio e universo era stata giustificata proprio in base alla loro diversa
infinità: anche l'infinito presentava dunque una natura essenzialmente duplice,
binaria: da una parte l'infinito di Dio, dall'altra l'infinito
dell'universo.
L'utilizzo della cusaniana coincidentia
oppositorum trovava la sua espressione più completa prorpio nella
trattazione della unità divina: nell'universo infinito i contrari vengono
compresi in una sola unità (e si ripete quindi per il macrocosmo quello
che accade in ogni singolo microcosmo): «[...] prendi i segni e le
verificazioni per le quali conchiuder vogliamo gli contrarii concorrere in uno,
onde non fia difficile al fine inferire che le cose tutte sono uno, come ogni
numero tanto pare quanto ìmpare, tanto finito quanto infinito, se riduce
all'unità; la quale, iterata con il finito, pone il numero,e con l'infinito,
nega il numero. I segni le prenderai dalla matematica, le verificazioni da le
altre facultadi morali e speculative. Or, quanto a' segni, ditemi: che cosa è
più dissimile alla retta che il circolo? che cosa è più contrario al retto che
il curvo? Pure nel principio e minimo concordano, atteso che, come dvinamente
notò Cusano, inventor di più bei segreti di geometria, qual differenza trovarai
tu tra il minimo arco e la minima corda? Oltre, nel massimo, che differenza
trovarai tra il circolo infinito e la linea retta? [...] Ecco dunque come non solamente
il massimo ed il minimo convergono in uno essere, come altre volte abbiamo
dimostrato, ma ancora nel massimo e nel minimo vengono ad essere uno ed
indifferente gli contrari»[287]
4) La Cena de le Ceneri
esponeva - per modo di passaggio - il nucleo centrale della nolana
filosofia: la consapevolezza profonda della struttura binaria sia del
mondo che del pensiero. La discussione cosmologica della teoria copernicana
presupponeva infatti - come substraum ideologico - la teoria della binarietà
del reale: non ha senso porre dei limiti assoluti proprio perché il limite
presuppone l'esistenza del suo contrario, il non-limite, l'infinito. La
posizione critica del Nolano nei confronti della teoria copernicana traeva
spunto proprio dalla incompletezza del pensiero dell'astronomo polacco. Non era
sufficiente porre il Sole al centro - relativo - di questo universo, ma
occorreva disfarsi una volta per sempre di quel limite immaginario costituito
dall'ultima sphaera mundi. L'unico limite assoluto - ribadisce
indirettamente il Nolano - è quello che costituisce il presupposto
indispensabile per ogni esistenza possibile: l'ombra metafisica.
La discussione dell'infinito doveva
prevedere anche la svalutazione della scienza matematica (che si occupa del misurabile
e quindi del finito): matematica e geometria servono solo per rappresentare un
concetto già esistente e funzionale secondo la logica del senso interno.
La logica del senso interno è quella che aspira a saper trar il
contrario dopo aver trovato il punto d'unione[288].
Il rapporto tra cosmologia e
metafisica faceva emergere importanti conseguenze sul piano dell'etica e
dell'antropologia, legate in particolare alla perdita del centro e della
gerarchia.
5) Il De l'infinito non rappresenta,
come è stato spesso erroneamente sostenuto, la conclusione ultima della nolana
filosofia, ma ne costituisce invece un capitolo intermedio. Non si
dimentichi che il Bruno, dopo aver parlato del massimo (dell'infinito),
dedicherà alla descrizione del minimo due opere fondamentali come il De
triplici minimo et mensura e il De monade numero et figura[289].
Nel De l'infinito emergono
tutte le ovvie conseguenze della impostazione filosofica del De la Causa:
l'infinità dell'universo viene presentata come l'effetto più ragionevole di due
principi fondamentali: il famoso principium plenitudis e l'argomento
teologico della potentia infinita. A proposito ha osservato
opportunamente Nicola Badaloni: «L'argomento fondamentale su cui si basa
l'interpretazione infinitistica del copernicanesimo è stato giustamente
individuato nel concetto di potentia infinita, cioè di una piena
corrispondenza e identità tra Dio e lo spazio-materia e più oltre con tutte le
cose viventi (astri, pianeti, piante, animali, pietra), che costituiscono
l'ordinato sistema del mondo dominato dalla vicissitudine, cioè da un
movimento che si svolge entro i confini di questa unità complessiva.
Vicissitudine significa anche accettazione di una forma non ben precisata di
metempsicosi che pone Bruno al di fuori della concezione cristiana del mondo.
Per Bruno la potenza assoluta si è espressa interamente sin dall' origine nella
natura. Ciò crea i problemi teologici che risultano dal processo, giacchè non
ha più ragione d'essere una seconda rivelazione di Dio in Cristo. Quindi il
Nolano dichiara agli inquisitori di aver stimato che la divinità del verbo
assistesse a quell'humanità di Criso individualmente, e di non aver potuto
capire che in quest'ultimo fosse una unione che havesse similitudine d'anima
e di corpo, ma un'assistentia, [...] come è tra l'anima e il corpo, o
qualsivoglian' due altre cose. Teologicamente Bruno si presenta dunque
quale seguace dell'unitarismo di Ario, come risulta anche dai sarcasmi sulla
doppia natura del Cristo nello Spaccio. La questione però ha una portata
teoretica più vasta perchè dà una giustificazione filosofica dell'assoluta
unità tra divino e realtà materiale, mediata dal concetto, pur accolto da
Cusano, della teologia negativa»[290].
6) Il rapporto con il neoplatonismo
è caratterizzato da una evidente somiglianza a livello terminologico ma anche
da una netta divergenza per quanto riguarda il livello metafisico: per Plotino
l'infinità dell'Uno è superiore a quella del mondo perché rispecchia la
differenza ontologica tra Generante e generato. In Bruno invece l'Uno si
esplica nel Mondo e alla fine coincide con esso.
7) L'infinito che viene presentato
nei Dialoghi che abbiamo preso in considerazione non è affatto l'unico centro
della metafisica nolana. L'infinito è il nome di Dio quando viene considerato
come massimo esplicato, ovvero come Tutto. Ma Dio è anche il minimo:
nell'Uno infatti si verifica la coincidenza di tutti i contrari. L'applicazione
magica del principio anassagoreo tutto in tutto prevede che ogni singola
cosa possa diventare ogni cosa, all'infinito.
L'infinito è stato presentato sempre
all'interno di un quadro speculativo di tipo analogico: l'infinito ha
come suo presupposto l'esistenza di un Assoluto e di un assolutamente Minimo:
l'Uno. L'universo è infinito perché esplicazione di Dio. Dio è infinito perché
in Lui si verifica una assoluta coincidentia oppositorum: nell'Uno si
trovano tutte le determinazioni possibili che si ritrovano poi nell'Universo
esplicato. Anche per questo è possibile sostenere che il discorso sull'infinito
è sempre rimasto nei limiti teologici (l'infinito è una delle determinazioni di
Dio).
I presupposti costanti per la
discussione dell'infinito sono dunque la filosofia binaria (o degli
opposti), la dottrina dell'umbra e la magia. Il vero scopo della
filosofia consiste infatti in un utilizzo appropriato dei segreti della magia e
nella contemplazione: se infatti nel De magia il Nolano definirà
la magia come «transnaturalis seu metaphysica» e dirà che si deve
chiamare «proprio nomine [...] Jeourgia»[291], nel De la Causa aveva scritto che «Quelli
filosofi hanno ritrovata la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovata questa
unità. Medesima cosa a fatto è la Sofia, la verità, la unità»[292]. La filosofia della natura mira alla contemplazione
estatica del Tutto: diventa quindi misticismo.
La profonda coerenza che ha caratterizzato lo
sviluppo della nolana filosofia non poteva che illuminare le ultime scelte,
drammatiche, del grande Mago di Nola.
Il 23 maggio del 1592 il Mocenigo presenta agli
Inquisitori veneti una denuncia per eresia contro il suo Ospite e Maestro.
Bruno viene arrestato la sera stessa e condotto nelle carceri di S.Domenico di
Castello.
Il 18 settembre del 1596 (Bruno è già stato
trasferito a Roma) la Congregazione del S.Offizio stabilisce che una
commissione di teologi esamini le opere bruniane per individuare le
proposizioni eretiche.
Il 24 marzo del 1597 viene esortato ad abbandonare
la sua teoria relativa alla pluralità dei mondi. Viene poi interrogato sotto
tortura.
Il 17 febbraio 1600 viene denudato, legato ad un
palo e bruciato vivo in Campo dei Fiori a Roma. Le sue ceneri, sparse al vento.
Il 21 dicembre del 1599, rispondendo alle ultime accuse, aveva dichiarato che non era disposto a ritrattare perché non aveva di che pentirsi.
OPERE DI
BRUNO
Commedie
Il candelaio, 1582.
Scritti
lulliani
De compendiosa architectura et
complemento artis Lulli, 1582. Animadversiones circa lampadem lullianam, 1587. Artificium
perorandi, 1587. De lampade combinatoria lulliana, 1587. De
progressu et lampade venatoria logicorum, 1587. De
specierum scrutinio, 1588. Lampas triginta statuarum, 1591.
Scritti
mnemotecnici
Ars memoriae, 1582; Cantus Circaeus,
1582; De umbris idearum, 1582; Sigillus sigillorum, 1583; Triginta
sigillorum explicatio, 1583; De imaginum compositione, 1591.
Scritti
didattici, esposizioni, commenti e polemiche
Acrotismus camoeracensis, 1586; Centum et viginti
articuli de natura et mundo adversus peripateticos, 1586; Dialoghi duo
de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione, 1586; Figuratio
Aristotelici physici auditus, 1586; Centum et sexaginta articuli
adversos huius temporis matematicos atque philosophos, 1588; Libri physicorum
Aristotelis explanati, 1588.
Scritti
magici.
De magia; De magia mathematica; De
vinculis in genere; Medicina lulliana; Theses de magia (tutti composti tra il 1589 e il
1591).
Scritti
metafisici e di filosofia naturale.
De la Causa, principio et Uno, 1584; De l'infinito, Universo
et Mondi, 1584; La cena de le ceneri, 1584; De innumerabilibus
immenso et infigurabili, 1591; De monade numero et figura, 1591; De
triplici minimo et mensura, 1591; Summa terminorum methaphisicorum,
1591.
Scritti
morali.
Spaccio de la bestia trionfante, 1584; Cabala del cavallo
Pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino Cillenico, 1585; De gl'heroici furori,
1585.
Scritti
d'occasione
Oratio valedictoria, 1588; Oratio consolatoria,
1589.
Scritti
inediti o perduti.
Arca di Noé, 1570-71 (?) Poema,
1570-71 (?); De segni de' tempi, 1576; Sfera, 1576-81; Invettive
contro il Dela Faye, 1579; Clavis magna, 1579-81; De anima,
1579-81; De' predicamenti di Dio, 1581-82; Purgatorio de l'Inferno,
1582-1583; Arbor philosophorum, 1585; Delle sette Arti inventive,
1589-91; Delle sette Arti liberali, 1589-91; De sigillis Hermetis et
Ptolomaei, 1589-91; Libretto di congiurazioni, 1589-91; De rerum
imaginibus, 1591; De astrologia, 1591; De multiplici Mundi vita,
1591; De Naturae gestibus, 1591; De principiis Veri, 1591(?); Gli
pensier gai, 1591 (?); Il Tronco d'Acqua viva, 1591 (?).
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l'argomento è anche l'Introduzione (Pensiero, mondo e problemi di
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sciences et mythes», Bruxelles Paris 1965 pp.397 414. M. DYNNIK, L'homme, le
soleil et le cosmos dans la philosophie de Giordano Bruno, ivi, pp. 415
432. G. BUFO, Giordano Bruno et le problème de l'instauration d'une
métaphisique de la finitude, «Bulletin de l'Institut de Philosophie», XIV,
1965, pp. 28 37. A. MANN PATERSON, The Infinite Worlds of
Giordano Bruno, Springfield, Ill. , 1970. M. CIARDO, Infinità dell'universo o infinità
della storia, «Rivista di studi crociani», VII, 1970, pp. 420 436. A.
INGEGNO, In margine al «De immenso» del Bruno, «Rinascimento», XXI,
1970, pp. 89 115. F. FELLMANN, Scholastik und kosmologische Reform,
Munster 1971. A.
NOWICKI, Il policentrismo della cosmologia di Giordano Bruno come fondamento
della sua filosofia policentrica della cultura, in «Simposio bruniano»,
Nola 1975, pp. 43 52. E. FINK, Die Exposition des Weltproblems bei
Giordano Bruno, in «U. Guzzoni e altri (a cura di) Der Idealismus und seine
Gegenwart. Festschrift fur Werner Marx zum 65». Geburstag, Hamburg 1976, pp.
127 132.
Sommario
[1] Cfr. V. SPAMPANATO, Documenti della vita di Giordano Bruno, Olschki, Firenze, 1933, p. 183.
[2] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, Laterza, Bari, 1992, p. 29.
[3] C. MONTI, Introduzione a Opere latine di Giordano Bruno, UTET, Torino, 1980, p. 42.
[4] De la Causa, Principio et Uno, p. 241.
[5] N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento: Giordano Bruno fra gli 'antichi' e i 'moderni', in «L'infinito nella Scienza», a cura di Giuliano Toraldo di Francia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1987, p. 267.
[6] De la Causa, Principio et Uno, pp. 241-242.
[7] U. ECO, L'irrazionale ieri e oggi, in «Alfabeta», n. 101, p. 36. Si veda anche P. ZAMBELLI, L'ambigua natura della magia, Il Saggiatore, Mondadori, Milano, 1991, Prefazione, p. VII.
[8] La Cena delle Ceneri, pp. 19-22.
[9] De vinculis in genere, p. 208: «Vincoli veri e propri e particolarmente efficaci sono quelli che si attuano per accostamento del contrario».
[10] Ibid., Introduzione (a cura di Albano Biondi), p. IX.
[11] B. RUSSEL, Misticismo e logica, Longanesi, Milano, 1980, p. 3.
[12] De magia, pp. 6-7: «e questa è magia transnaturale o metafisica, e si chiama, propriamente, teurgia».
[13] Ibid., pp. 68-69: «In fine si deve dichiarare con fermezza e tenere saldo nella mente il principio che tutte le cose sono piene di spirito, anima, nume, dio o divinità e l'intelletto è tutto dovunque, e l'anima è tutta dovunque [...]».
[14] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, La Nuova Italia, Firenze, 1971, p. XV.
[15] R. RUCKER, La mente e l'infinito, Muzzio, Padova, 1991, p. 5.
[16] In questi ultimi tempi, l'opera della Yates, dopo aver influenzato la critica per anni, è stata rivista criticamente. Ciliberto, già nell'86, aveva sostenuto «i limiti di quel lavoro straordinario appaiono oggi evidenti. Assorbita nello stereotipo del mago ermetico, la figura di Bruno si è ridotta, contratta, semplificata» (Cfr. M. CILIBERTO, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 10). A proposito credo invece che quella dell'ermetismo sia in Bruno una questione radicale. In questi ultimi anni la critica ha più volte denunciato la creazione di un nuovo stereotipo (il mago-ermetico, che avrebbe sostituito quello del martire della libertà del pensiero e della scienza); e gli studi della Yates sarebbero i principali responsabili di questo fraintendimento. Ma in realtà escludere la matrice ermetica dall'analisi del pensiero di Bruno significa trascurare l'evidenza delle opere. Dal De Umbris Idearum, alle opere magiche finali e alla disperata ricerca di dissimulazione che Bruno provò di fronte agli inquisitori veneti e romani, il tema costante della «nolana filosofia» appare l'interesse per la magia, per la sapienza ermetica, per il progresso e la divinizzazione dell'uomo. Ma non solo. Dall'ermetismo Bruno sembra aver assimilato alcuni nodi concettuali di estrema importanza (che saranno qui di seguito discussi), come ad esempio l'idea della materia viva ed animata, dell'Unum, della catena infinita, della scala naturae, della morte apparente, etc. Si tratta di temi fondamentali per la formulazione di una «teoria infinitista» completa. In realtà sembra addirittura che l'idea di un universo infinito e animato direttamente dall'azione vivificatrice di Dio fosse già presente nella stessa tradizione ermetica, come ha brillantemente messo in rilievo la Yates. Occorre quindi, a mio parere, tener ben presente l'opera della Yates, come punto di partenza per un'analisi critica sensata, che non rigetti il vecchio per un nuovo forse troppo ipotetico e riduttivo. Un'opera quindi, quella della studiosa inglese, che se è carente e ha dei limiti dal punto di vista della creazione di stereotipi, ha comunque l'innegabile merito di aver approfondito un aspetto fondamentale del pensiero di Bruno la centralità dell'influenza ermetica.
[17] Cfr. F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari, 1992, pag. 275: «Il problema della concezione filosofica di Bruno è reso estremamente complesso dal fatto che anch'egli, alla pari di Ficino e di Pico, era un sincretista e sintetizzava nella sua posizione, basata su larghissime letture, motivi di altre filosofie e letterature concresciute nell'ambito della tradizione ermetica».
[18] C. GINZBURG, Storia notturna, Einaudi, Torino, 1989, p. 244.
[19] Carlo Ginzburg (Cfr. Storia Notturna, cit., pp. 5-36), con una nutrita serie di documenti, ha recentemente mostrato come il concetto cumulativo di stregoneria prese piede da una «paura del complotto» che si diffuse nelle comunità cristiane, nella zona delle Alpi occidentali, a partire dalla fine del '300. Le prime cronache che danno notizia dello sterminio di lebbrosi, perché accusati di spargere veleni, risale al 1321: «i lebbrosi furono bruciati in quasi tutta la Francia - racconta un cronista - perché avevano preparato dei veleni per uccidere tutta la popolazione». Molti di questi, dopo essere stati imprigionati, avevano confessato di aver partecipato a riunioni segrete. Ben presto alla figura del lebbroso venne avvicinata quella dell'ebreo. Un altro cronista, che scriveva nel 1328, riferiva: «si diceva che gli ebrei fossero complici dei lebbrosi, e per questo molti furono bruciati come lebbrosi». Alcuni riportano una versione dei fatti ancor più complessa, secondo la quale i lebbrosi erano stati convinti dagli ebrei con il denaro. In realtà a loro volta gli ebrei sarebbero stati convinti dal re di Granada. Costui, incapace di vincere i cristiani con la forza, aveva pensato di disfarsene con l'astuzia. Si era rivolto allora agli ebrei, offrendo denaro perché allestissero un piano per distruggere la cristianità. Gli ebrei avevano accettato, ma avevano dichiarato di non poter agire da soli, perché troppo sospetti meglio affidare l'esecuzione ai lebbrosi che, frequentando continuamente i cristiani, avrebbero potuto avvelenare le loro acque senza difficoltà. Ma la congiura era stata scoperta, ed i lebbrosi bruciati. In varie parti della Francia, soprattutto in Aquitania, gli ebrei erano stati mandati indistintamente al rogo. In seguito la paura del complotto si diffuse, e la reazione violenta colpì nuove figure sociali. Lo schema era sempre quello personaggi appartenenti a gruppi socialmente sospetti confessavano di esser stati corrotti con denaro da nemici esterni perché diffondessero il contagio. Solo l'identità dei personaggi era cambiata. I lebbrosi erano scomparsi dalla scena (del resto la lebbra stava ormai scomparendo); i re musulmani erano stati sostituiti da nemici non nominati, ma verosimilmente inglesi (data la guerra, poi denominata dei Cent'Anni, allora in corso); al posto degli ebrei c'erano altri gruppi marginali - i poveri e i mendicanti (solitamente vecchi). La figura della strega rientra appunto in questa categoria.
[20] Ibid., p. 280.
[21] Ibid., p. 288.
[22] Ginzburg, a proposito della credenza nella metamorfosi in animali e del viaggio nel mondo dei morti, parla esplicitamente di «identificazione profonda tra animali e morti due espressioni dell'alterità» (Cfr. op. cit. p. 245).
[23] De magia, p. 7.
[24] De la Causa, Principio et Uno, p. 94.
[25] De magia, p. 31.
[26] PLOTINO, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, Milano, 1992, p. 915.
[27] Ibid. p. 687.
[28] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, Bibliopolis, Napoli, 1988, p. 145.
[29] La tecnica dei loci è estremamente attuale, ed è anche quella più in voga in tutte le moderne tecniche di memorizzazione veloce (alcune delle quali sviluppano questa metodica in modo originale, integrandola con sistemi subliminali di vario tipo). Si tratta in verità di una tecnica molto antica. Nel De oratore Cicerone ne fa risalire l'invenzione a Simonide di Ceo. «Storicamente è nel De memoria di Aristotele che si trovano i primi fondamenti di una tecnica della memoria, poi sviluppati nell'opera citata di Cicerone e nel De institutione oratoria di Quintiliano. In questi trattati la mnemotecnica è vista come componente essenziale della tecnica dell'oratore. Per aiutarsi a ricordare, l'oratore deve avvalersi di questo espediente: escogitare a suo arbitrio dei luoghi, formarne le immagini dei fatti o dei concetti che vuole ricordare, e collocare quelle immagini nei luoghi. In questo modo la memoria naturale è corroborata e invcrementata da unamemoria artificiale costruita mediante l'impiego di luoghi e di immagini. Tale concezione ritorna nel Medioevo con Alberto Magno e in Tommaso d'Aquino che, fondendo testi aristotelici e ciceroniani, teorizzano a loro volta la possibilità di perfezionare la memoria mediante l'arte. A partire dal Trecento un'ampia trattatistica di mnemotecnica si diffonde in tutta l'Europa, animata da intenti prevalentemente tecnico-pratici: sviluppare le regole della disposizione dei luoghi e della formazione delle immagini, che aiutino a ricordare facilmente e ordinatamente quanto, con le sole forze naturali, non si riuscirebbe a rammentare. La mnemotecnica acquista invece una notevole rilevanza filosofico-speculativa durante il Cinque e Seicento nell'ambito di quella corrente di pensiero che si richiama a Raimondo Lullo e alla sua ars magna, nota come lullismo. Il problema della mnemotecnica viene qui sviluppato in stretta connessione con quello di un'arte suprema o scienza perfettissima che, includendo in sé ogni altra scienza, sia in grado di pervenire ad una conoscenza totale dell'intera realtà. In autori come Giulio Camillo, Agrippa di Nettesheim, Bernardo de Lavinheta, Giordano Bruno, Giovan Battista Della Porta, Enrico Alsted, e ancora Leibniz, la mnemotecnica assume l'aspetto di una logica memorativa che, se da una perta costituisce l'arte suprema o lo strumento universale in gradoi si esaminare coordinare e classificare gli enunciati delle varie scienze particolari, dall'altra si configura come esaustivo sistema mnemonico o universale enciclopedia dell'intero scibile» (Cfr. voce mnemotecnica, in Enciclopedia Filosofica Garzanti, 1981, p. 607).
[30] A. INGEGNO, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana del Bruno, Bibliopolis, Napoli, 1985, pp. 89-90.
[31] De immenso, p. 478.
[32] De magia, pp. 35-37.
[33] Ibid., p. 35.
[34] Ibidem
[35] A proposito del Corpus Hermeticum, e dell'influenza che questi scritti esercitarono sui filosofi rinascimentali (in particolare Bruno e Agrippa), gli studi più convincenti sono ancora quelli di F. A. Yates. Ha scritto tra le altre cose la studiosa inglese «fra i numerosi scritti attribuiti ad Ermete Trismegisto il gruppo di gran lunga più interessante è costituito da diciassette trattati (di cui il primo reca il titolo di Pimandro), più uno scritto pervenutoci solo in una versione latina di un trattato dal titolo Asclepio. E' appunto questo gruppo di scritti che viene denominato Corpus Hermeticum. La tarda antichità ha accettato tutti questi scritti come autentici. I Padri Cristiani, che vi trovarono accenni a dottrine bibliche ne furono grandemente impressionati, e, di conseguenza, convinti che risalissero all'epoca dei Patriarchi biblici, pensarono che fossero opera di una sorta di profeta pagano. Così pensò, ad esempio, Lattanzio, e così pensò in parte anche S. Agostino. Ficino consacrò solennemente questa convinzione e tradusse il Corpus Hermeticum, che divenne tosto un testo basilare del pensiero umanistico-rinascimentale, e, così, verso la fine del XV secolo, nella cattedrale di Siena Ermete venne accolto solennemente, ed effigiato sul pavimento con la scritta Hermes Mercurius Trismegistus Contemporaneus Moysi. Dio viene concepito in funzione dei concetti d'incorporeo, della trascendenza e dell'infinitudine; viene anche concepito come Monade e Uno, principio e radice di tutte le cose; infine, viene espresso anche in funzione dell'immagine della luce. Teologia negativa e positiva s'intrecciano. Il Dio supremo, inoltre, è concepito come esplicantesi in un numero infinito di potenze, e anche come forma archetipa, e come il principio del principio, che non ha fine (Cfr. F. YATES, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, cit, p. 161). Sempre a proposito dell'ermetismo, Eugenio Garin aveva sostenuto: «nel '400 la nuova immagine del l'uomo acquista consapevolezza e dimensioni caratteristiche sotto il segno di Ermete Trismegisto, e si viene modellando sulle linee già decisamente fissate nei libri ermetici [...]. La distanza fra Medioevo ed età nuova è la distanza medesima che corre fra un universo conchiuso, astorico, atemporale, immoto, senza possibilità, definito, ed un universo infinito, aperto, tutto possibilità. Nell'ordine del primo il mago è solamente la tentazione demoniaca che vuole incrinare un mondo pacificato e perfetto. [...] Fra la filosofia medievale, che è una teologia dell'ordine stabile, cristallizzata ad un certo momento dell'aristotelismo, e la magia, non poteva esserci accordo» (Cfr. E. GARIN, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari, 1954, pp. 150-169). Sempre riguardo all'influenza che il Corpus Hermeticum avrebbe esercitato su Bruno, un autore attento come Leen Spruit non sembra invece accorgersi delle profonde analogie strutturali che emergono dalla lettura parallela del De umbris e De la Causa da una parte e le opere magiche tarde dall'altra. Scrive infatti l'Autore olandese: «soltanto nello Spaccio de la bestia trionfante e nelle opere magiche tarde il Corpus Hermeticum acquista un'importanza maggiore venendo a svolgere un ruolo essenziale nell'economia della sua speculazione etico-religiosa. Nel suo pensiero metafisico sviluppato nei primi scritti, Bruno rimanda di tanto in tanto al Corpus Hermeticum, ma di solito per illustrare una tesi da lui stesso progettata, come ad esempio quella della divinità nella natura. Il citare esplicitamente un testo ermetico in quei casi non è altro che voler proiettare il proprio pensiero in un passato lontano» (Cfr. L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit., p. 25).
[36] F. YATES, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Laterza, Bari, 1988, p. 112.
[37] Ibidem.
[38] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, cit., p. XV.
[39] De la Causa, Principio et Uno, p. 87.
[40] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit. p. 208.
[41] De la Causa, Principio et Uno, p. 45.
[42] F. YATES, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, cit., p. 161.
[43] ERMETE TRISMEGISTO, Poimandres, a cura di Paolo Scarpi, Marsilo Editore, Venezia, 1987, p. 47.
[44] IL KYBALION, studio sulla filosofia ermetica dell'antico Egitto e della Grecia, a cura di Remo Fedi, Brancato, Catania, 1991, pp. 48-49.
[45] Ibid., p. 51.
[46] Importanti analogie si possono trovare nella tradizione esoterica ebraica. Nella Qabbalah troviamo una visione di Dio intesa come unità assoluta. L'anima umana può innalzarsi attraverso l'estasi fino allo stato divino. Certamente pur essendo presenti nella Qabbalah tendenze panteistiche, la concezione di base resta teistica pur riconoscendo la presenza di Dio in ogni ordine della realtà, la dottrina non trascura mai l'aspetto del Dio trascendente, e non cade mai nella concezione impersonale di Dio, caratteristica invece del panteismo genuino. E' importante comunque notare come anche nella Cabala di fatto era presente un'idea della «scala naturae», idea che permette l'ascesi per gradi.
[47] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p.17.
[48] Presso i Greci Ermete è un nume intimamente legato alla parola, è padre della parola e come tale interprete e messaggero di Zeus; per gli Stoici è la parola personificata; anche per gli gnostici Ermete è il logos. Quando nell'età ellenistica i Greci paragonarono i loro dei a quelli Dell'egitto, furono colpiti dall'analogia esistente tra Ermete e l'egiziano Thot, dio delle lettere, della misura, dei numeri (cfr. Platone, Phaedr., 274 C) per coloro che vantavano l'origine egizia della loro cultura, era Thot-Hermes egiziano il padre delle lettere. E poiché gli Egiziani chiamavano grandi, grandi i loro dei, Ermete, identificato con Thot, fu detto tris meghistos, tre volte grandissimo attributo che appartiene a lui solo. [...] Ermete fu considerato persona umana, mantenendo il suo titolo di Trismegisto e la sua funzione di rivelatore della verità e perciò mediatore fra Dio e gli uomini. (dal Dizionario dei Filosofi, Sansoni, Firenze, 1976, p. 360).
[49] M. CILIBERTO, La ruota del Tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Editori Riuniti, 1986, p.226. La citazione di Bruno è tratta da Ciliberto dallo Spaccio de la bestia trionfante in Dialoghi Italiani, nuovamente ristampati con note di Giovanni Gentile, terza edizione a cura di Giovanni Aquilecchia, Firenze, Sansoni, 1958, p. 781
[50] Spaccio de la bestia trionfante, Rizzoli, Milano, 1985, Introduzione e commento di Michele Ciliberto, pp. 268-270
[51] M. CILIBERTO, Introduzione a Spaccio de la bestia trionfante, Rizzoli, Milano, 1985, pp. 268-270.
[52] Anche in Bruno appare netto il rifiuto della «magia cerimoniale», almeno intenzionalmente.
[53] Cfr. E. GARIN, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari, 1954, pp. 150-169
[54] A proposito della magia rinascimentale, della sua ambiguità, dei rapporti tra magia naturale e stregoneria e dei rapporti tra magia ed ermetismo si veda l'ottimo lavoro: P. ZAMBELLI, L'ambigua natura della magia, Mondadori, Milano, 1991.
[55] De la Causa, Principio et Uno, p. 210.
[56] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 38-47.
[57] De la Causa, Principio et Uno, p. 212.
[58] De umbris idearum, pp. 81-83.
[59] De umbris idearum, p. 61: «Invero nell'orizzonte della luce e delle tenebre nient'altro possiamo comprendere che l'ombra. Quest'ombra si trova nell'orizzonte del bene e del male, del vero e del falso; quest'ombra è proprio ciò che può essere reso buono e cattivo, falsato e conformato a verità, e che, tendendo in qua, si dice che sia sotto l'ombra di questo (cioé del male e del falso), ma che, tendendo in là, si dice che sia sotto l'ombra di quello (cioé del bene e del vero)».
[60] Ibid., p. 75: «non dico dunque l'ombra che allontana dalla luce, ma che conduce alla luce, la quale, per quanto non sia verità, tuttavia deriva dalla verità e porta alla verità; e perciò non devi credere che in essa ci sia l'errore, ma il nascondiglio del vero».
[61] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit., p. 44.
[62] Ibid., p. 14.
[63] Ibid., p. 95. Più avanti Spruit sostiene che «Le considerazioni epistemologiche di Giordano Bruno nel De umbris idearum fanno parte di una tradizione gnoseologica ben precisa, in cui si sono intrecciati tesi ed elementi aristotelici e neoplatonici; è partendo da questa tradizione dunque che esse vanno comprese. Un quadro interpretativo di carattere magico-astrologico, quale è stato adoperato generalmente fino ad ora, ne impedisce una giusta comprensione, perché presuppone un fondamento magico-astrologico del pensiero di Bruno non giustificato da una circostanziata analisi dei testi». Quello che trovo sorprendente, in affermazioni di questo tipo, è che autori così esperti ritornino al vecchio ritornello dell'aut-aut, quasi come se una interpretazione «magico astrologica» (ermetica, per essere più precisi) impedisse di collocare Bruno all'interno della tradizione filosofica che gli è propria.. Al contrario, penso che entrambi i tipi di interpretazione, se affiancati con criterio, possono comprendere l'analisi e la spiegazione di un maggior numero di elementi, molto più di quanto non si sia fatto fino ad oggi.
[64] De Umbris Idearum, p. 35
[65] Ibidem.
[66] Ibidem.
[67] Ibid. pp. 38-39.
[68] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 228.
[69] De Umbris, p. 63.
[70] Cfr. ERMETE TRISMEGISTO, Poimandres, a cura di Paolo Scarpi, Marsilio Editore, Venezia, 1987, p. 47 «...sollevò lo sguardo ed io contemplai nel Nous la luce esplicarsi in un numero incalcolabile di potenze, luce divenuta parimenti un mondo senza limiti (kòsmon aperiòriston)».
[71] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 166.
[72] A proposito dell'influenza che Agrippa ha esercitato sul pensiero di Giordano Bruno, si deve dire che ancora oggi continua a mancare uno studio completo e convincente. Il "blocco psicologico" e la riluttanza dimostrata da gran parte della critica nel discutere la magia rinascimentale in ambito filosofico fa sentire le sue conseguenze anche in questo caso, peraltro - a mio parere - di notevolissimo interesse sia storico che scientifico.
[73] De Umbris idearum, pp. 66-67.
[74] Ibidem.
[75] De la Causa, Principio et Uno, p. 137.
[76] De Umbris idearum, pp. 71-73.
[77] Ibid., p. 73.
[78] Ibid., p. 77.
[79] Ibid., p. 93.
[80] Ibidem.
[81] Ibid., p. 95.
[82] Ibid., p. 109.
[83] Ibid., p. 111.
[84] Ibid., p. 115.
[85] Ibid., p. 117.
[86] Ibidem.
[87] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p. 17. Ciliberto si riferisce esplicitamente alle dimostrazioni della Yates in Giordano Bruno e la tradizione ermetica, che a sua volta aveva ripreso delle indicazioni di Eugenio Garin.
[88] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit. p. 220.
[89] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p. 18.
[90] De Umbris idearum, p. 71.
[91] Ibid., p. 101.
[92] Ibid., p. 35
[93] Ibid., p. 35
[94] M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., p. 256-257.
[95] De la Causa, Principio et Uno, p. 241.
[96] Ibid., p. 244.
[97] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 19.
[98] E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna, Newton Compton, 1983, p. 260.
[99] De la Causa, Principio et Uno, pp. 94-97.
[100] Ibid., p 97.
[101] Ibid., p. 112.
[102] Ibid., p. 140.
[103] Corpus Hermeticum, Paris, 1945 et 1954. Vol I, XI, p. 147-57, texte établi par A.D. Nock et traduit par A.J. Festugière, pp. 147-57; Marsilio Ficino, Opera omnia, Basiela, 1576 (due volumi con numerazione progressiva), pp. 1850-2 (Tutto il brano e le indicazioni bibliografiche sono state tratte da F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari, 1992, p. 45).
[104] Ibidem.
[105] A. INGEGNO, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana del Bruno, cit., p. 123.
[106] Cfr. Ibid., p. 124.
[107] A. DELCO', Moduli e pratiche di ermeneutica, criteri per una interpretazione del 'De la Causa' di Giordano Bruno, in «Filosofia», 1988, n. 39, pp. 113 - 30.
[108] De la Causa, Principio et Uno, p. 93.
[109] Ibid., p. 109.
[110] Ibid., p. 111.
[111] De vinculis in genere, p. 191.
[112] Corpus Hermeticum, cit., Vol II, Asclepius, p. 297.
[113] De la Causa, Principio et Uno, p. 132.
[114] Ibid., p. 137.
[115] Ibidem.
[116] Ibid., p. 158.
[117] Ibid., p. 159.
[118] Ibidem.
[119] Ibid., pp. 159-160.
[120] Ibid., p. 161.
[121] Ibid., p. 160.
[122] Ibid., p. 163.
[123] Ibid., p. 164.
[124] Ibidem
[125] Ibid., p. 165.
[126] Cfr. M. CILIBERTO, Giordano Bruno, cit., parte prima.
[127] De la Causa, Principio et Uno, p. 197.
[128] Ibid., pp. 197-198.
[129] Ibid., pp. 210.
[130] Ibidem.
[131] Ibid., p. 211.
[132] Ibidem.
[133] Ibidem.
[134] Ibid., p. 212
[135] R. RUCKER, La mente e l'infinito, cit. Il passo citato è reperibile in G. CANTOR, Gesammelte Abhandlungen, a cura di Abraham Fraenkeln e Ernest Zermelo, Springer Verlag, Berlin, 1932, p. 404. (Ristampa anastatica Olms, Hildesheim, 1966).
[136] Ibid., p. 7.
[137] Ibid., p. 6.
[138] La monade, il numero e la figura, p. 315.
[139] F. PAPI, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 56.
[140] L'immenso e gli innumerevoli, p. 422.
[141] De magia, p.5.
[142] De la Causa, Principio et Uno, p. 219.
[143] A. INGEGNO, La sommersa nave della religione. Studio sulla polemica anticristiana del Bruno, cit., pp. 83-84.
[144] De magia, p. 19
[145] De vinculis in genere, p. 197.
[146] Ibid., p. 123.
[147] Ibid., p. 193
[148] De magia, p. 13
[149] Ibid., p 25.
[150] F. PAPI, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno. La Nuova Italia, Firenze, 1968. p. 278.
[151] M. MAUSS, Teoria generale della magia, Newton Compton, Roma, 1976, pp. 73-74.
[152] M. CILIBERTO, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, p. 107.
[153] La Cena delle Ceneri, pp. 19-22.
[154] Ibid., pag. 106
[155] De umbris idearum, pp. 81-83.
[156] Le notizie riguardanti il teorema di incompletezza di Gödel sono state tratte da R. RUCKER, La mente e l'infinito, cit., pp. 186-196.
[157] La spiegazione del teorema è presentata da Rucker nei
termini seguenti (Cfr. p. 192, op. cit.)
1) Qualcuno presenta a Gödel una supposta macchina della verità
universale (chiamata qui MVU), capace naturalmente di risolvere ogni problema
[...].
2) Gödel scrive la proposizione seguente MVU non dirà mai che questa
proposizione è vera. Chiamando G questa proposizione, avremo G = MVU non
dirà mai che G è vera.
3) Ora Gödel chiede a MVU se G è vera o no.
4) Si noti se MVU dice che G è vera, allora la proposizione MVU non
dirà mai che G è vera è falsa (G è falsa). Quindi se MVU dice che G è vera,
allora G è falsa. Ma in questo caso MVU avrebbe prodotto una proposizione
falsa.
5) Stabilito che MVU non dirà mai che G è vera, risulta evidente che G è vera, e che quindi Godel era in grado di raggiungere una verità che MVU non è in grado di afferrare.
[158] La Cena delle Ceneri, p. 28.
[159] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit. p. 262.
[160] De umbris idearum, p. 35.
[161] Ha scritto la studiosa inglese «Nel Corpus Hermeticum traovai l'affermazione di Ermete Trismegisto secondo cui la terra si muove perché è viva e il rimpianto appassionato per la religione magica degli egiziani [...]. L'universo eliocentrico era un simbolo della religione magica di Bruno, di cui egli annunciava il ritorno e di cui si sentiva il profeta [...]. Bruno, che si sentiva e si proclamava filosofo-mago, si sentiva impegnato in un'opera di riforma filosofico-religiosa. Riforma religiosa che consisteva nel ritorno all'antica sapienza egizia, in una parola alla sapienza ermetica. Bruno credeva che l'antica religione 'egizia', che risale all'antico sapiente Ermete Trismegisto, fosse superiore alla religione ebraica e a quella cristiana, e che l'autentica riforma universale che i filosofi occulti, quale era egli stesso, attendevano, consistesse in un ritorno all'antica religione magica 'egizia' descritta nell'ermetico Asclepius».
[162] F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 265.
[163] Si ricordino i passi fondamentali del testo ermetico
già citato dalla Yates «L'intelletto, o Tat, deriva dalla sostanza stessa di
Dio [...]. Anche il mondo è un dio, immagine di un dio più grande. Unito a
questo, e osservante l'ordine e la volontà del Padre, esso è la totalità della
vita. Non c'è niente in esso, per tutta la durata del ritorno ciclico voluto
dal Padre, che non sia vivo. Il Padre ha voluto che il mondo viva fin quando
conservi la sua coesione dunque, il mondo è necessariamente dio. Come può
essere, allora, che in ciò che è dio, che è l'immagine del Tutto, ci siano cose
morte? Infatti la morte è corruzione, la corruzione è distruzione, ed è
impossibile che alcunché di Dio possa essere distrutto. Ma non muoiono nel mondo gli esseri viventi,
o Padre, sebbene siano parte del mondo? Taci, figlio mio, perché tu sei indotto
in errore dalla denominazione del fenomeno. Gli esseri viventi non muoiono, ma,
essendo corpi composti, si dissolvono; e questa non è morte, ma la dissoluzione
di un miscuglio. Se si dissolvono non è per andare incontro alla distruzione ma
a un rinnovamento. Che cos'è infatti l'energia della vita? Non è movimento? E
che cosa c'è nel mondo che sia immobile? Niente. Ma almeno la terra non sembra
immobile? No. Al contrario, sola fra tutti gli esseri essa è soggetta ad una
moltitudine di movimenti, ed è insieme stabile. Sarebbe assurdo supporre che
questa nutrice di tutti gli esseri sia immobile, essa che dà nascita a tutte le
cose, perché senza movimento è impossibile generare. Tutto ciò che è nel mondo,
senza eccezione, si muove, e ciò che si muove è anche vivo. Contempla dunque il
bel sistema del mondo, e vedi che è vivo, che tutta la materia è piena di vita.
Nella materia c'è dunque Dio, Padre?
E dove potrebbe essere posta la materia, se esistesse al di fuori di Dio? [...] Le energie che operano in essa sono parti di Dio. Sia che tu parli di materia, o di corpi, o di sostanza, sappi che queste sono energie di Dio, di Dio che è il Tutto. Nel Tutto non c'è niente che non sia Dio. Adora queste parole, figlio mio, e rendi ad essa culto» (Corpus Hermeticum, cit., pp. 1852-4. Il brano e le indicazioni bibliografiche sono state tratte da F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., pp. 47-48).
[164] Il Nolano aveva infatti sostenuto che «Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura» (Cfr. La Cena delle Ceneri, p. 148).
[165] Curiosamente, Manlio Ciardo ha sostenuto che «la
scoperta della verità dell'indipendenza della ragione matematica dal senso e
dal sensibile, la scoperta, cioé, dell'autonomia di tale ragione si pone alle
origini della rivoluzionaria scoperta copernicana [...]. Con Copernico,
pertanto, dalla fase di una matematica astronomica, per così dire ancora
mitica, si passava alla fase di una matematica astronomica pura e insieme
oggettiva., quella liberata, appunto, dal velo mitico e immaginativo dell'attestazione
sensibile che, ad esempio, portava la suddetta ragione ad accettare il dato
parvente della rotazione del sole intorno alla terra, considerata, perciò,
erroneamente, centro di un universo conchiuso e circoscritto» (Cfr. M. CIARDO, Infinità
dell'universo o infinità della storia, in «Rivista di studi crociani», VII,
1970, pp. 420-436, in particolare p. 420-21).
Sempre sul tema del valore che Bruno attribuisce alla scienza, Biagio de Giovanni aveva opportunamente rilevato che «L'infinito di Bruno è idea, immaginazione che nasce nella filosofia e [...] nella sintonia magico-ermetica di una mente col mondo. Essa non poteva nascere dalla ragione calcolatoria di Copernico, che ricercava misure. E Bruno lo sa e lo dice: altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura. Non son le linee e gli angoli, che fanno saldar più il fuoco, ma le vicine e distanti situazioni, lunghe e brieve dimore. L'infinito stenta ad essere presente nella dimensione della scienza, proprio perchè smisurato, proprio perchè rompe l'immagine di un universo geometrico, formato, misurabile. Se si dà infinito, l'universo rischia di diventare caos, indifferenza alla determinatezza» (Cfr. B. DE GIOVANNI, L'infinito di Bruno, in «Il centauro», 1986, n° 16, pp. 3-21, in particolare pp. 10-11).
[166] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 34.
[167] Ibid., p. 37.
[168] Ammetteva il Koyré: «io penso che sia stato Bruno il primo a presentarci il disegno o l'abbozzo di quella astronomia che divenne dominante nei due secoli successivi» (Cfr. A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 37).
[169] Si veda P. R. BLUM, Aristoteles bei Giordano Bruno. Studien zur philosophischen Rezeption, Munchen, 1980.
[170] N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento. Giordano Bruno fra gli antichi e i moderni, cit., pp. 257-271.
[171] La Cena delle Ceneri, p. 34.
[172] Ibid., p. 41.
[173] AA.VV. La coppia nei Padri, Edizioni Paoline, Milano, 1991, pag. 32.
[174] B. DE GIOVANNI, L'infinito in Bruno, in Centauro, Guida Editori, n° 16, 1986, pag. 9.
[175] La Cena delle Ceneri, p. 103.
[176] Ibid., pp. 103-104.
[177] Ibid., p. 104.
[178] P. BIANUCCI, Dopo Galileo la Chiesa riabilita Giordano Bruno, in La Stampa, Torino, Domenica 15 Novembre 1992.
[179] La Cena de le Ceneri, p. 104.
[180] Cfr. S. PAOLO «In realtà non è stato creato l'uomo per la donna, ma la donna per l'uomo» (1 Cor. 11,7-8).
[181] Del citato convegno sono usciti gli Atti Anselmo d'Aosta, figura europea. A cura di Inos Biffi e C. Marabelli, Edizioni Jaka Book, Milano, 1988, pp. 163-168.
[182] Osserva Angelo Marchesi, che «G. Colombo allude qui alle famose condanne parigine del vescovo Tempier contro certe tesi filosofico-aristoteliche anche di Tommaso» (Cfr. A. MARCHESI, Pensiero medioevale e pensiero contemporaneo, Edizioni CUSL «A. Rublev», Parma, 1992. Nota n. 89, pag. 81.
[183] L'esposizione della prova ontologica anselmiana è stata tratta da A. MARCHESI, Pensiero medievale e pensiero contemporaneo, cit., pp. 44-49. A sua volta Marchesi fa riferimento alla traduzione italiana delle Opere filosofiche di S.Anselmo, curata da S. Vanni Rovighi (Laterza, Bari, 1969, con Introduzione).
[184] N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento. Giordano Bruno fra gli antichi e i moderni, cit., p. 271. Il testo di Mersenne riportato da Badaloni è reperibile in M. MERSENNE, L'impieté des deisters et des plus subtilis découverte et refutée par raisons de Théologie et Philosophie, Seconde Partie, Paris MDCXXIV, pp. 402-403.
[185] La Cena de le Ceneri, p. 106.
[186] Ibidem.
[187] Ibidem.
[188] Ibid., pp. 109-110.
[189] De Umbris Idearum, pp. 71-73.
[190] De la Causa, Principio et Uno, pp. 94-97.
[191] Ibid., p. 97.
[192] La Cena de le Ceneri, p. 111.
[193] Ibid., p. 112.
[194] Ibid., pp. 120-121
[195] Ibid., p. 143.
[196] Ibid., p. 146.
[197] Ibid., pp. 149-150.
[198] Ibid., p. 153.
[199] Ibid., pp. 154-155.
[200] Corpus Hermeticum, cit., Vol I-XI, p. 180-1; Marsilio Ficino, Opera omnia, cit., pp. 1854. (Tutto il brano e le indicazioni bibliografiche sono state tratte da F. YATES, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, cit., p. 267).
[201]La Cena delle Ceneri, p. 148.
[202] De l'infinito, Universo e Mondi, p. 347.
[203] A. GUZZO, Giordano Bruno uomo inquieto, in «Giornale di metafisica», n. 21, 1966, p. 281.
[204] De l'infinito, p. 360.
[205] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 38.
[206] LUCREZIO, De rerum natura, Libro I, 968-983.
[207] De l'infinito, pp. 369-370.
[208] Ibid., p. 376.
[209] Ibid., p. 368.
[210] De la Causa, Principio et Uno, p. 87.
[211] Ibid., p. 212.
[212] De l'infinito, pp. 369-370.
[213] B. DE GIOVANNI, L'infinito in Bruno, cit., p. 12.
[214] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, cit., Introduzione, XVIII.
[215] De l'infinito, p. 362.
[216] Ibid. pp. 370-71.
[217] Ibid., pp. 372-376.
[218] Ibid., pp. 372-376
[219] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 44.
[220] De L'infinito, pp. 372-376.
[221] Ibid., pp. 377.
[222] Ibidem.
[223] Ibid., pp. 380-381.
[224] Ibid., pp. 381-382.
[225] Ibid., pp. 381-382.
[226] A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., p. 40.
[227] ENCICLOPEDIA FILOSOFICA, Firenze, 1967, vol. I, ad vocem.
[228] M. GHIO, Causa emanativa e causa immanente S.Tommaso e Giordano Bruno, in «Filosofia», 1979, n. 2, pp. 105-133.
[229] De L'infinito, p. 383.
[230] Ibid., p. 398.
[231] Ibid., pp. 401-402.
[232] Ibid., p. 425.
[233] Ibid., pp. 425-426.
[234] Ibid., p. 433.
[235] Ibidem.
[236] Ibid., p. 436.
[237] Ibid., p. 449
[238] Cfr. M. FRIGERIO, Invito al pensiero di Bruno. Mursia, Milano, 1991, p. 61
[239] De l'infinito, p. 447.
[240] Ibid., p. 465.
[241] Ibid., pp. 477-478.
[242] Ibid., p. 481.
[243]A. KOYRÉ, Dal mondo chiuso all'universo infinito, cit., pp. 47-48.
[244] De l'infinito, p. 498.
[245] Ibid., p. 501
[246] Ibid., p. 524.
[247] Ibid., pp. 525-526.
[248] Ibid., p. 518.
[249] PLOTINO, Enneadi, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, MIlano, 1992, p. 1073
[250] A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, Mursia, Milano, 1986, p. 94.
[251] PLOTINO, Enneadi. cit., p. 857.
[252] A. PACCHI, Materia, Enciclopedia filosofica ISEDI, Milano, 1976, p. 46.
[253] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit., p. 46, nota n. 17.
[254] La metafisica della luce che Bruno aveva esposto nel De umbris aveva come oggetto d'indagine la relazione dell'Unum col molteplice, ovvero il diffondersi della luce dall'Unità alla molteplicità dei soggetti. Come ha rilevato Leen Spruit «La luce divina che pervade la realtà, rende possibile all'uomo di risalire nella conoscenza e di ritornare alla fonte della luce, fondamento ultimo della realtà [...]. Conoscere è quindi esaminare le cose secondo exitus & reditus, il che vuol dire seguire l'ordo & connexio rerum dell'universo, un ordo che collega della realtà l'alto al basso e ne esprime l'unità» (Cfr. L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, cit. p. 45).
[255] PLOTINO, Enneadi, cit., pp. 517.
[256] A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit. p. 115 e p. 117.
[257] PLOTINO, Enneadi, cit., p. 263.
[258] Ibid., p. 153.
[259] Ibid., p. 151.
[260] De umbris idearum, pp. 75-77.
[261] De magia, p. 13.
[262] Cfr. M. MAUSS, Teoria generale della magia, cit., pp. 73-74.
[263] Cfr. A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit., pp. 94-95. Magris rimanda ai seguenti passi, tratti dalle Enneadi «Tutto deriva da un'unità e tutto, per una necessità naturale, vi ritorna, cosicché anche cose diverse e persino contrarie, qualora derivino da un'unità, sono state tratte insieme verso un ordine unico» [Plotino, Enneadi, cit., p. 387, III, 3]; e anche «[...] se le cose sono in quella quantità non a caso, il numero è anteriore ed è causa di quella precisazione. Cioè mentre il numero già esisteva, le cose che nascevano partecipavano via via della numerazione, e nello stesso tempo ciascuna di esse partecipava dell'uno per poter essere una. Eppure, ciascuna di esse è un ente perché deriva dall'Essere, poiché anche l'Essere deriva da se stesso; ed una perché deriva dall'Uno; e ciascuna cosa è una, se l'uno che è in essa è insieme molteplice, come è unità la triade in questo modo tutte le cose sono uno, non come uno che corrisponde all'unità, ma come è uno la miriade o un altro numero qualsiasi» [VI 6, 10; pag. 1185].
[264] De monade, numero et mensura, p. 331.
[265] De la Causa, p. 230.
[266] De immenso, pp. 804-806.
[267] F. PAPI, Giordano Bruno. Infinità della natura e significato della civiltà, cit. p. 113.
[268] A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit., p. 96.
[269] Ibid., p. 97.
[270] De la Causa, pp. 94-95.
[271] Ibid., p. 98, nota n. 75.
[272] H. VEDRINE, Della Porta e Bruno natura e magia, in «Giornale Critico della filosofia italiana», 1986, n.65, p. 301.
[273] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giodano Bruno, cit., p. 50.
[274] De umbris, p. 117.
[275] L. SPRUIT, Il problema della conoscenza in Giodano Bruno, cit., p. 53.
[276] De monade, numero et mensura, pp. 314-315.
[277] Si vedano, fra l'altro, Le grandi tesi del tomismo, Bologna, 1967; Interiorità metafisica, ivi, 1964.
[278] Cfr. M. GHIO, Causa emanativa e causa immanente: S.Tomaso e Giordano Bruno, cit., p. 530.
[279] Ibid., p. 533.
[280] Ibid., p. 540.
[281] Cfr. A. MAGRIS, Invito al pensiero di Plotino, cit., pp. 99-102: «Per troppo tempo questo processo è stato preentato dagli storici come la cosidetta emanazione, che solo di recente un autorevole studioso ha dimostrato trattarsi di una delle più grosse falsificazioni della storiografia filosofica (Magris cita a questo proposito H. DOERRIE, Emanation. Ein unphilosophisches Wort im spätantikes Denken, in AA. VV., Parusia. Festschrift J. Hirschberger, Francoforte s.M., 1965, pp. 119-141). Emanazione (in greco apòrroia) designa l'efflusso di un liquido (per esempio mestruale) o di una sostanza odorosa (profumo), oppure in senso traslato l'influsso che gli astrologi attribuivano ai corpi celesti, pianeti e costellazioni. Mettendo in rilievo tale termine riguardo a Plotino i vecchi interpreti volevano sottolineare in primo luogo la necessità della derivazione del molteplice dall'Uno (contrapposta alla libertà della creazione divina nel giudaismo e nel cristianesimo) e in secondo luogo una diminuzione di sé che l'Uno subirebbe, nell'emanare, paragonabile all'evaporazione del liquido oppure alla dispersione di un profumo quando se ne lasci scoperto a lungo il recipiente. Contro questa interpretazione basterebbe far notare che il termine apòrroia non si trova nel testo delle Enneadi se non di rado, e meno che mai a proposito delle generazione dal principio. In realtà esso è diametralmente opposto al pensiero di Plotino da ogni punto di vista. Più volte Plotino ribadisce con vigore un concetto che si trova del resto in Numenio: il Primo non si esaurisce generando il Secondo [...]. Il primo trascendente, infatti, non può logicamente essere quantificato in alcun modo e quindi non può perdere nulla, a differenza delle cose composte, che hanno sempre misure definite [...]. Plotino [...] proprio analizzando il processo generativo come creazione di immagini poté constatare le implicanze negative del concetto di emanazione. Secondo Plotino il processo di derivazione da principio o, come egli la chiama, la processione (pròodos) corrisponde ad una scala gerarchica e perciò comporta un certo depotenziamento: il Primo è infatti di necessità superiore al Secondo e rispettivamente ciò che è generato è inferiore a chi lo genera. Tale depotenziamento riguarda però la natura del generato e non del generante. Del tutto diverso è invece il fenomeno dell'emanazione. Un'apòrroia suppone che una parte della sostanza si distacchi da un ente per disperdersi o per formarne e alimentarne un altro; così l'uno si depaupera e l'altro si arricchisce, ma nel complesso la sostanza emanata subisce un frazionamento e perciò perde di concentrazione. Viceversa, il generare non significa togliere una parte di sé, ma piuttosto produrre la propria immagine, allo stesso modo in cui il figlio è l'immagine dei genitori e non una parte staccata del loro organismo [...]».
[282] Ibid., pp. 102-103.
[283] Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, introduzione e commento a cura di Michele Ciliberto, Rizzoli, Milano, 1985, p. 151.
[284] De la Causa, Principio et Uno, pp. 215-216.
[285] Ibid., p. 216.
[286] Ibid., p. 217.
[287] Ibid., pp. 234-235.
[288] Cfr. Ibid., p. 241.
[289] A Francoforte, nel 1591, il Nolano farà infatti pubblicare i poemi latini De triplici minimo et mensura, De monade numero et figura, con l'aggiunta del De innumerabilibus immenso et infigurabili. Nell'agosto dello stesso anno farà ritorno in Italia su invito del nobile Mocenigo.
[290] Cfr. N. BADALONI, L'infinito nel Rinascimento: Giordano Bruno fra gli antichi e i moderni, cit., pp. 258-260.
[291] De magia, pp. 6-7: «e questa è magia transnaturale o metafisica, e si chiama, propriamente, teurgia»
[292] De la Causa, Principio et Uno, p. 219.