Note e appunti sul pensiero di Aristotele

La metafisica

 

Una precisazione sui rapporti tra Aristotele e Platone

            Prima di lanciarsi in ardite speculazioni che mettano a con­fronto questi due colossi del pensiero greco, è opportuno fer­mar­si su alcuni dati di fatto. Il dato di fatto più eclatante in que­sto senso è che Aristotele fece parte per vent'anni dell'Ac­ca­demia e se ne allontanò solo dopo la morte di Platone. Questo non vuol certo dire che per tutto questo tempo lo Stagi­rita abbia con­diviso al 100% le posizioni platoniche, anzi è sen­sato sup­por­re che un'intelligenza così vivace abbia portato ben presto frut­ti autonomi, ma non possiamo nemmeno impostare il pro­blema dei rapporti tra i due filosofi solo all'insegna della "disconti­nui­tà" (cioè sulla base delle differenze).

            Le affinità tra Platone e Aristotele sono numerose e impor­tanti:

1) L'amore per la filosofia in se stessa non è affatto una affinità banale o di poco conto; non dimentichiamo che la "cultura del momento" era quella sofistica e la linea vincente nel campo della Paideia era quella di Isocrate, chi cercava il sapere per il sapere doveva apparire un poco fuori di senno, come il Socrate delle "Nuvole".

2) La filosofia dell'essere (realismo epistemologico) è la coraggiosa risposta al dilemma di Parmenide: entrambi i pensatori la sostengono (seppure in termini diversi) contro lo scetticismo dei sofisti.

3) E' la filosofia che "rende migliori gli uomini" ed è su di essa che si fonda la Paideia (contro la concezione Isocratea).

4) Alcuni interessi per matematica, geometria e medicina, anche se furono sviluppati con accenti diversi e diversamente inseriti nel resto del corpo dottrinale.

In sintesi, considerando la rilevanza di tali affinità, ci sembra di poter sottoscrivere l'affermazione di Diogene Laerzio per cui: "Aristotele fu il più genuino discepolo di Platone". Infatti genuino discepolo di una grande maestro non è colui che ne ripete stancamente le dottrine, ma colui che riesce a portarne a compimento lo spirito, anche andando oltre la lettera delle sue affermazioni.

            Le differenze tra i due pensatori sono comunque significa­tive:

1) Rifiuto della dottrina delle idee separate, che costituiva uno dei capisaldi del pensiero platonico e che Aristotele abbandonò in nome della concezione delle forme immanenti nelle cose.

2) Dal "filosofare" platonico alla "filosofia" aristotelica. Per Platone la filosofia era un'attività di ricerca continua, di ascesi, per il suo illustre discepolo consiste nella conoscenza delle cause della realtà; cause che non vanno ricercate in un mondo iperuranio, ma nelle cose stesse.

3) Interesse per tutte le scienze empiriche (e non solo per la matematica): le singole scienze non hanno per Aristotele una funzione meramente propedeutica o simbolica, ma hanno una dignità ed una verità intrinseche. Naturalmente non dobbiamo esagerare le conseguenze di questa pur significativa differenza: qui si vuol dire semplicemente che troviamo in Aristotele interessi assenti in Platone, come accade l'inverso per altri tipi di interessi (quelli poetico-religiosi); non si vuole affatto affermare che tutto il pensiero di Platone e tutto il pensiero di Aristotele vadano interpretati (come fecero gli Umanisti) alla luce di questa differenza facendo del primo esclusivamente un mistico e del secondo un puro empirista[1].

4) Sistematizzazione del sapere e sua divisione in "branche"; è una logica conseguenza del rilievo dato ai fenomeni empirici in quanto tali: Platone tendeva a risolvere l'intera esperienza intellettuale in un'unica mobilissima "spirale", Aristotele fissa quei quadri del sapere filosofico che saranno le vie maestre su cui correrà tutta la problematica successiva: Logica, Fisica, Psicologia, Metafisica, Etica, Politica, Estetica.

            In sintesi possiamo dire che da un lato i rapporti tra Platone e Aristotele sono molto stretti, così come è cospicuo il debito intellettuale del secondo rispetto al primo, dall'altro lato Aristotele rivela fin da giovane una propria cifra spirituale: non è il discepolo che ripete stancamente le dottrine del maestro, ma lo ripensa e lo fa rivivere innestandolo nel tronco della propria personale attività speculativa.

La Metafisica di Aristotele

La metafisica e le scienze teoretiche

            Il fatto che l'attività intellettuale sia la vetta e il cul­mine dell'attività umana è già saldamente acquisito grazie al guadagno della speculazione di Socrate e Platone. Esso può dunque a buon motivo essere il punto di partenza della speculazione ari­stotelica, che distingue le grandi branche delle scienze:

            a) scienze teoretiche, che ricercano il sapere per se stesso  sono: metafisica, fisica (che include

                                                             anche la psicologia), matematica;

            b) scienze pratiche, che ricercano il sapere per raggiungere attraverso di esso la perfezione                                                              morale;

            c) scienze poietiche o produttive, che ricercano il sapere in vista del fare, cioè per produrre                                                             determinati oggetti.

            Un altro chiarimento preliminare riguarda il fatto che ini­zieremo la trattazione di Aristotele a partire dalla Metafisica, che è indubbiamente la scienza più difficile ed elevata, e non dalla logica o dalla fisica, che sarebbero più adatte ad un ap­proccio propedeutico (anche la classificazione delle opere fatta da Livio Andronico inizia con le opere di logica, procede con quelle di fisica, per arrivare poi alla metafisica). Va detto che la distinzione delle varie "branche" della filosofia è una carat­teristica propria dell'età ellenistica, che riprende effettiva­men­te categorie aristoteliche ma si fonda su un'idea radicalmente diversa dell'attività filosofica: per i filosofi di età elleni­stica (come vedremo) la filosofia è un sistema ben conchiuso, composto di tre parti distinte (logica, fisica ed etica) e mi­ran­te ad un fine ben preciso (risolvere il problema della feli­cità dell'uomo); per Aristotele, come per Platone e tutti i filo­sofi precedenti, la filosofia è ricerca delle cause ultime (del­l'Ar­ché), ha un compito sostanzialmente speculativo, è libera da in­teressi pratici e, semmai, incontra "per strada" i criteri in ba­se a cui distinguere diverse branche del sapere. La più si­gnifi­ca­tiva risposta al quesito sulle cause ultime viene data (per Aristotele come per Platone) in ambito metafisico e sarà alla lu­ce delle scoperte metafisiche che dovremo intendere tutte le al­tre parti del pensiero aristotelico.

Linee essenziali della metafisica aristotelica

            La metafisica di Aristotele riunisce in una potente sintesi tutte le linee di forza del pensiero da Talete a Platone, essa infatti costituisce il problema filosofico per eccellenza ed è ciò a cui (consapevolmente o meno) tendevano gli sforzi dei filo­sofi precedenti. Aristotele, che non usa propriamente il termine metafisica[2] ma piuttosto filosofia prima[3], ne dà quattro defini­zioni:

            -1- la metafisica indaga le cause prime e i principi supremi

            -2- la metafisica indaga l'essere in quanto essere

            -3- la metafisica indaga la sostanza

            -4- la metafisica indaga Dio e la sostanza soprasensibile.

Per sommi capi vediamo come a queste quattro definizioni aristo­teliche corrispondano i nodi problematici fondamentali dei filo­sofi delle generazioni precedenti:

-1- la prima accezione di metafisica porta a compimento le istanze di tutti i filosofi che hanno cercato l'"Arché", cioè il principio o causa prima, uno o molteplice, materiale o ideale, che fosse.

-2- il problema dell'essere è tematizzato in modo esplicito a partire da Parmenide, ma è sotteso in ogni speculazione filoso­fica: la "fysis" è per i fisici il vero essere, come per Platone lo è il mondo delle idee.

-3- una volta superato il monismo che culmina nella posizione e­leatica e appurato che esistono molti esseri e molti tipi di es­sere, bisogna appurare quale o quali siano i più fondamentali, cio­è quale sia l'"ousìa" della realtà; Parmenide stesso aveva chiaramente sottolineato la distinzione tra la via della pura ve­rità e le vie dell'opinione e dell'errore.

-4- tutti i naturalisti indicarono come Dio o divino il principio da loro trovato e la stessa cosa, a più alto livello, fece Pla­to­ne identificando il divino con le Idee; anche in Aristotele la dimensione soprasensibile o "divina" è quella che, oltre a rendere ragione della realtà sensibile, costituisce il momento essenziale e definitorio dello sforzo metafisico:

"Se, d'altra parte, esiste qualcosa di eterno e di im­mo­bile e di separabile dalla materia, è evidente che la conoscenza di ciò è pertinenza di uuna scienza teore­ti­ca, ma non certo della fisica [giacché questa si ocu­pa solo di alcuni enti mobili], nè della matematica, ma di un'altra scienza che ha la precedenza su entrambe. In­fatti la fisica si occupa di enti che esistono sepa­ra­tamente ma non sono immobili, e dal canto suo la ma­te­ma­tica si occupa di enti che sono, sì, immobili, ma che forse non esistono separatamente e sono presenti in una materia, invece la "scienza prima" si occupa di cose che esistono separatamente e che sono immobili. E se tutte le cause sono necessariamente eterne, a mag­gior ragione lo sono quelle di cui si occupa questa scienza, giacché esse sono cause di quelle cose divine che si ma­nifestano ai sensi nostri. Quindi ci saranno tre spe­cie di filosofie teoretiche, cioè la matematica, la fi­sica e la teologia, essendo abbastanza chiaro che se la divinità è presente in qualche luogo, essa è pre­sente in una natura siffatta, ed è indispensabile che la scien­za più veneranda si occupi del genere più vene­ran­do. Epperò, se le scienze contemplative sono prefe­ri­bi­li alle altre, questa è preferibile alle altre scienze contemplative. [...] se, pertanto, non si am­mette l'e­si­stenza di alcun'altra sostanza al di fuori di quelle che sono naturalmente composte, la fisica, allora, do­vrebbe essere la scienza prima; ma se esiste una certa sostanza immobile, la scienza che si occupa di questa de­ve avere la precedenza e deve essere filo­sofia prima, e la sua universalità risiede appunto nel fatto che es­sa è prima; e sarà compito di questa scien­za contem­pla­re l'essere-in-quanto-essere, cioè l'essenza e le pro­prietà che l'essere possiede in-­quanto-essere."[4]

            Si viene così a delineare anche la famosa dottrina dei tre gradi di astrazione, che caratterizza la divisione aristotelica delle scienze teoretiche in:

            1) fisiche (astrazione dalla materia individuale)

            2) matematiche (quantità astratta)

            3) teologia o metafisica (astrazione da ogni materialità).

            Un'altra importante caratteristica della metafisica conside­rata in se stessa come scienza è la sua assoluta libertà: essa non è asservita ad altri scopi, è ricer­ca­ta per se stessa e vale per se stessa e, perciò, è la scienza più alta e "sovrana". Dice Aristotele:

"E' chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale inda­gine senza mirare ad alcun bisogno che ad essa sia e­straneo, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sè e non per un altro, così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa sol­tan­to esiste di per sè. [...] Tutte le altre [scien­ze], pertanto, saranno più necessarie per gli uomini, ma su­periore a questa nessuna."[5]

 

            In prima battuta esamineremo i contenuti principali della me­tafisica di Aristotele secondo l'ordine delle quattro defini­zioni da cui abbiamo preso le mosse, in modo da chiarire prelimi­narmente il piano concettuale dell'opera, per poi addentrarci nelle singole argomentazioni.

            -1- Nella ricerca delle cause ultime della realtà ci si im­batte in quattro tipi di cause:

            - la causa  materiale,

            - la causa formale,

            - la causa efficiente,

            - la causa finale.

L'essere e il divenire delle cose richiedono innanzitutto questi tipi di cause, che sono le cause prossime, per poi procedere ol­tre le stesse fino ad arrivare ai moti dei cieli ed al Motore Im­mobile.

            -2- Interrogandosi sull'essere in quanto tale si scopre che esso non può essere inteso, come lo intendeva Parmenide, quasi che si trattasse di una realtà e di un concetto univoci, ma "es­sere si dice in molti sensi" cioè è un concetto analogico. Pla­to­ne altresì aveva già intuito la molteplicità intrinseca all'es­se­re (formato dall'Uno e dalla Diade), ma lo aveva collo­cato nel mon­do delle idee, come un genere trascendente.

            -3- Tale pluralità intrinseca all'idea di essere si strati­fica secondo le sue due dimensioni fondamentali: la sostanza e gli accidenti. La suddetta distinzione permette di spiegare (dal punto di vista della causalità materiale e formale) quel divenire che per l'essere univoco di Parmenide risultava inintelligibile. Alla distinzione tra sostanza e accidenti fa seguito anche quella di potenza e atto, che consente di cogliere la funzione positiva del non-essere (inteso come privazione) per spiegare il divenire e risolvere in modo definitivo il dilemma di Parmenide.

            -4- Il culmine della speculazione metafisica è costituito dalle sostanze soprasensibili, punto d'arrivo della "seconda na­vigazione" platonica. Il passo successivo del pensiero aristote­lico è quello di dimostrare l'esistenza delle sostanze soprasen­sibili, come vedremo più oltre. Tali sostanze sono principi del moto di ciò che è corruttibile, ma non sono esse stesse (prese in senso generico) il Principio Primo:  deve dunque esistere un mo­tore Primo, assolutamente immobile, atto puro, origine e causa di ogni movimento.

La struttura dell'ente, le quattro cause, sostanza e forma

Le quattro cause

            Il concetto di causa in Aristotele va inteso nel senso di elemento fondante o strutturale, ovvero ciò che bisogna ammettere per spiegare l'essere e il divenire di qualcosa. Possiamo così dunque schematizzare l'analisi aristotelica delle cause di ciò che esiste:

 

dal punto di vista STATICO, ciò che spiega e fonda l'essere è:

la causa formale

ovvero la forma[6] o essenza delle cose, ciò che profondamente la struttura in un certo modo piuttosto che in un altro

la causa materiale

ovvero "ciò di cui" è fatta una cosa che, tra l'altro, consente la distinzione fisica di cose aventi la stessa forma (due monete identiche non sarebbero numericamente distinte se non fossero state coniate in due diverse porzioni di metallo)

dal punto di vista DINAMICO, ciò che rende possibile il mutamento è:

la causa efficiente o "motrice"

è "ciò da cui" il movimento proviene (il padre dal figlio, il calcio dal piede...);

la causa finale

essa costituisce il fine o scopo[7] delle azioni, ovvero "ciò in vista di cui" ogni cosa è o diviene, il che è ciò che Aristotele chiama il suo bene.

Essere si dice in molti sensi

            La seconda delle definizioni della metafisica, si è visto, riguarda l'"essere in quanto essere", formula che esplicitamente richiama temi propri della speculazione parmenidea. Gli eleati avevano creduto che l'essere doveva venire inteso come assoluta­mente identico, ossia secondo un unico significato[8], il che com­portava anche la sua unicità e l'assorbimento di tutta la realtà in questo Essere-Uno, che risultava così assolutamente immobile. Aristotele individua perfettamente la radice dell'errore degli Eleati, affermando di contro che l'essere si dice in molti sensi, secondo un significato che non è univoco ma che potremmo dire analogico e tale molteplicità significativa dell'ente non è derivata, ma è originaria:

"Il termine "essere" è usato in molte accezioni, ma si riferisce in ogni caso ad una cosa sola e ad un'unica natura e non per omonimia; ma, come tutto ciò che è sa­no si riferisce in ogni caso alla salute - sia in quan­to la conserva sia in quanto la procura sia in quanto la manifesta sia in quanto è in grado di rice­verla - e come tutto ciò che è medico si rapporta alla medicina (giacché una cosa si dice medica perché pos­siede l'arte della medicina, e un'altra perché è natu­ralmente adatta ad essa e un'altra ancora perché è ope­ra della stessa medicina - anzi possiamo assumere anche altri termini usati in modo simile a quelli precedenti), così anche il termine "essere" viene usato in molte accezioni, ma ciascuna di queste si riferisce pur sempre ad un unico principio."[9]

            Il fatto che nell'essere sia inclusa una molteplicità origi­naria non vuol dire che esso non abbia nessun tipo di unità (sen­nò sarebbe un concetto puramente equivoco), si tratta di vedere di che tipo di unità si tratti: non è una unità di specie o di genere (l'ente non è un genere), ma si tratta di una unità di riferimento ossia di diversi significati che traggono unità dal riferirsi principalmente ad un'unica realtà (es. "sano") e tale realtà è la sostanza, come afferma Aristotele nel seguito del brano citato poc'anzi:

"Alcune cose, infatti, si chiamano "esseri" perché sono sostanze, altre perché sono determinazioni affettive della sostanza, altre perché aprono la via verso la so­stanza o ne indicano la distruzione o la privazione o le qualità, o perché sono produttrici o generatrici di una sostanza ovvero dei termini relativi alla sostanza, o anche perché sono negazioni di qualcuno di questi ter­­mini o della sostanza; ed è questo il motivo per cui noi diciamo che anche il non-essere è in-quanto-non­-es­sere. E come, dunque, di tutte le cose sane esiste un'u­­nica scienza, parimenti avviene questo anche per le altre cose. Difatti è riservato ad un'unica scienza lo studio non solo di quei termini che esprimono una no­zio­ne comune, ma anche di quei termini che sono rela­ti­vi ad una sola natura, giacché anche questi ultimi, in un certo senso, esprimono una nozione comune. Quindi è chiaro che spetta ad un'unica scienza anche lo studio degli esseri-in-quanto-esseri. In ogni caso, poi, la scienza ha come suo oggetto peculiare ciò che è primo, ossia ciò da cui le altre cose dipendono e mediante cui esse ricevono le loro denominazioni. Pertanto, se que­sta prima cosa si identifica con la sostanza, allora il filosofo dovrà avere in suo dominio i princìpi e le cau­se, appunto, delle sostanze."[10]

La sostanza è, in altri termini, il centro unificatore dei signi­ficati dell'essere: quell'unità che i precedenti filosofi avevano postulato a livello fisico (Parmenide) o metafisico (Platone) vie­ne da Aristotele ritrovata al livello della conoscenza; vi so­no realtà diverse, vi sono tanti modi di essere, ma tutti di­cono riferimento ad uno, cioè alla sostanza. Queste precisazioni, come ben sottolinea il Reale, servono a farci correttamente intendere la famosa formula essere in quanto essere, che indica l'oggetto proprio della Metafisica:

"Questa formula non può significare un astratto uni­forme e univoco ens generalissimum, come molti credono. Vedemmo, infatti, che l'essere non solo non è una spe­cie ma neppure un genere, e che esprime un concetto transgenerico e transpecifico. Dunque, la formula "es­sere in quanto essere" non potrà che esprimere la mol­teplicità stessa dei significati dell'essere e la rela­zione che formalmente li lega e che fa sì, appunto, che ciascuno sia essere. Allora l'"essere in quanto essere" significherà la sostanza e tutto ciò che in molteplici modi si riferisce alla sostanza. In ogni caso, resta fuori discussione che, per Aristotele, la formula "es­sere in quanto essere" perde ogni significato fuori del contesto del discorso sulla molteplicità di significati dell'essere: chi ad essa attribuisce il senso di essere generalissimo o di puro essere, al di qual o al di so­pra delle molteplici determinazioni dell'essere, resta vittima dell'arcaico modo di ragionare degli Eleati e tradisce completamente il significato della riforma aristotelica."[11]

 

I significati dell'essere

            Chiarito il rispettivo "status" dei diversi significati del­l'essere, possiamo schematicamente enumerarli:

            a) l'essere per se, che si riferisce in primo luogo alla so­stanza e, di riflesso, a tutte le categorie[12];

            b) l'essere accidentale, che è il mero fortuito, un essere che dipende da un altro essere pur senza essere legato ad esso da alcun vincolo essenziale, più vicino al non essere che all'essere (es. un negro musicista: il fatto che è negro ha una causa, il fatto che è musicista ha una causa, ma il concorrere dei due fat­ti in un soggetto determinato non ha, propriamente parlando, una causa), si tratta di ciò che può non esserci, di ciò che non è né sempre né per lo più;

            c) l'essere come vero, che è l'essere logico o di ragione;

            d) l'essere come potenza e atto, che a sua volta si strati­fica a due livelli: la potenza e l'atto rispetto alla forma (es. la ghianda è in potenza una quercia), la potenza e l'atto ri­spetto all'operazione (es. il puro possesso e l'esercizio della scienza).

            Si tratta di quattro gruppi di significati dell'essere, cia­scuno dei quali si può riferire a tutti gli altri, sicché l'es­se­re non viene inteso in modo univoco nemmeno all'interno di cia­scun singolo gruppo di significati (es. l'essere per se - di­stin­to come tale dall'essere accidentale - può essere vero o fal­so, in potenza o in atto; dunque nemmeno l'essere per se si dice in un solo modo, ma può dirsi in molti sensi).

La questione della sostanza

            Prima di Aristotele il problema della sostanza[13] era stato impostato e risolto, sostanzialmente, in tre modi:

            a) i filosofi della fysis avevano identificato nella materia sensibile l'unica sostanza;

            b) Platone additava gli enti soprasensibili come unica vera sostanza;

            c) la mentalità comune sembrava individuarla negli enti con­creti.

            Aristotele riaffronta ex novo questo spinoso problema, cer­cando di riformularlo in termini più precisi e, per far questo, deve rispondere ad una prima domanda che cos'è la sostanza in generale? E' la materia? E' la forma? E' il composto di materia e forma? Per rispondere alla domanda bisognerà prendere le mosse da un punto di partenza sufficientemente saldo, vale a dire da uno comunemente ammesso; e pertanto lo Stagirita parte dalle sostanze sensibili:

"Si è, comunque d'accordo nel ritenere che alcune cose sensibili sono sostanze, e perciò la nostra indagine de­ve fermarsi anzitutto su di esse. E' proficuo, in­fat­ti, procedere gradatamente verso ciò che è più cono­sci­bile per natura. Infatti in questa maniera tutti rie­sco­no ad acquistar conoscenza, passando cioè alle cose che sono più conoscibili attraverso quelle che sono me­no conoscibili per natura; [...] è nostro com­pito par­ti­re da ciò che è maggiormente conoscibile a ciascuno di noi individualmente per rendere conoscibile a cia­scuno di noi quello che è conoscibile per natura."[14]

Ciò detto Aristotele constata che ciascuno dei suoi predecessori aveva colto una parte della verità, giacché per ousìa possono in­tendersi, a diverso titolo, sia la forma, sia la materia, sia il sinolo di materia e forma:

"Da queste cosiderazioni risulta con evidenza qual è la sostanza sensibile e quali sono i modi della sua esi­stenza: infatti, sotto un profilo essa è come materia, sotto un altro è come forma e, in un terzo senso, essa è il composto di queste due cose."[15]

Cerchiamo innanzitutto di enunciare le tre diverse accezioni:

            -a- Innanzitutto abbiamo la sostanza come forma (morphè), che non deve essere intesa come la pura e semplice figura este­riore (che è un accidente della quantità), ma come l'intima na­tura delle cose (es. per l'uomo o l'animale è l'anima); è ciò a cui ci riferiamo quando definiamo una cosa, ciò che fa sì che una cosa sia quella che è (e non un'altra).

            -b- In secondo luogo consideriamo la sostanza come materia, che è ciò che garantisce la concreta realizzazione degli esseri materiali (se uno scultore non avesse il bronzo stenterebbe a produrre una statua) e, a questo titolo, risulta fondamentale per la costituzione di certe cose e pertanto - entro questi limiti - potrà dirsi sostanza delle cose materiali.

            -c- Infine si deve chiarire il concetto di sostanza come si­nolo di materia e forma: tutte le sostanze materiali sono so­stan­ze primariamente e precisamente in questo senso, cioè in quanto sinoli concreti di materia e forma.

            Alla luce di quanto affermato si intende perché Aristotele enumeri i seguenti caratteri definitori della sostanza:

            1) ciò che non inerisce ad altro e non si predica di altro,

            2) ciò che può sussistere per sè o separatamente dal resto,

            3) ciò che è in un certo modo determinato (= non astratto),

            4) ciò che è intrinsecamente unitario, non un puro aggregato

            5) ciò che è atto o è in atto.

            Vediamo ora se e in che misura le tre diverse accezioni di sostanza posseggano questi caratteri definitori: la materia (-b-) possiede il primo dei caratteri definitori (non inerisce ad altro e non si predica di altro, ma ad essa inerisce tutto il resto), essa però non possiede nessuno degli altri caratteri definitori della sostanza (può sussistere solo con la forma, non è qualcosa di determinato, non ha nemmeno unità propria nè tanto meno è atto ma è potenza); la forma (-a-) possiede in un certo modo tutti i caratteri suddetti, perchè non deve il suo essere ad altro, può separarsi[16] dalla materia, è qualcosa di determinato (anzi, pro­priamente parlando è l'elemento determinante), è principio del­l'u­nità di ciò che informa ed è atto per eccellenza (forma e atto sono sinonimi); il sinolo (-c-) di materia e forma è a sua volta sostanza secondo tutte le caratteristiche suddette, come appare in modo chiaro e manifesto.

            Sostanza per eccellenza è la forma, sia nell'essere concreto (in quanto principio determinante, causa e ragion d'essere, ossia Arché della cosa singola), sia nell'orizzonte dell'essere cosmico in quanto, come vedremo, sono le realtà soprasensibili (forme pu­re) il principio e fondamento di quelle sensibili (composte di ma­teria e forma). Tale affermazione pare contraddire l'evidenza da cui eravamo partiti, per cui sembrava che sostanza per eccel­lenza dovesse essere considerata la sostanza concreta sensibile, ma non è così, infatti altro è il punto di partenza dell'indagine (che è quello più vicino a noi) altro è il punto d'arrivo della medesima (che è quello più fondamentale in se), come nota acuta­mente il Reale:

"[...] se il sinolo esaurisse il concetto di sostanza in quanto tale, nulla che non fosse sinolo sarebbe so­stanza, e, in tal modo, Dio e in genere l'immateriale e il soprasensibile non sarebbero sostanza! La forma può dirsi, invece, sostanza per eccellenza: Dio e le intel­ligenze motrici delle sfere celesti sono pure forme immateriali, mentre le cose sensibili sono forme infor­manti la materia. La forma è essenziale agli uni e agli altri enti, sia pure in diversa maniera."[17]

I principi del divenire: atto e potenza, il Motore Immobile

Atto e potenza

            La potenza indica "capacità" di ricevere o assumere una qualche forma o un atto: la materia esprime la forma più pura di potenzialità: il bronzo è potenza della statua perché è effettiva capacità di ricevere la forma della statua.

            L'atto, che Aristotele chiama entelechia, indica la realiz­zazione di una capacità, dice perfezione attuantesi o attuata. Esso ha una assoluta priorità e superiorità rispetto alla potenza che infatti non si può nemmeno conoscere come tale, se non ripor­tandola all'atto di cui è potenza; inoltre l'atto è condizione, regola e fine della potenzialità:

"... l'atto è anteriore sia secondo la nozione sia se­condo la sostanza; secondo il tempo, invece, l'atto è anteriore sotto un certo profilo, ma sotto un altro no. Che esso sia anteriore secondo la nozione è cosa ovvia (infatti ciò che è potenziale nella sua acccezione fon­damentale, in tanto è potenziale in quanto è suscetti­bile di attuazione,...); secondo il tempo, invece, l'at­to è anteriore alla potenza nel senso che è ante­rio­re quell'attuale che è identico al potenziale per specie, ma non quello che è identico per numero. [...] Ma l'atto è anteriore alla potenza anche relativamente alla sostanza, in primo luogo perché le cose che sono posteriori secondo la generazione sono anteriori se­con­do la forma e la sostanza (come, ad esempio, l'a­dulto è anteriore al fanciullo e l'uomo è anteriore al seme, perché l'uno ha già la forma e l'altro no), e in se­con­do luogo perché tutto ciò che è generato pro­cede verso il proprio principio, ossia verso il fine (giacché la causa finale è principio, e in vista del fine si va at­tuando il divenire), e l'atto è un fine, e in grazia di questo fine viene assunta la potenza. In­fatti gli ani­ma­li vedono non allo scopo di avere la vista, ma hanno la vista allo scopo di vedere, e allo stesso modo gli uomini posseggono l'arte della costru­zione allo scopo di costruire e la capacità contempla­tiva al fine di con­templare, [...]. Inoltre la materia esiste in po­ten­za, soltanto perché possa pervenire alla forma; e sta nella forma soltanto quando è in atto. [...] Epperò è evidente che la sostanza e la forma sono atto. E così, in base a questo ragionamento, risulta con chiarezza che, relativamente alla sostanza, l'atto è anteriore al­la potenza e, come dicevamo, un atto pre­suppone sem­pre, in ordine al tempo, un altro atto, fin­ché non si pervenga all'atto del primo, eterno motore."[18]

            Il composto di materia e forma è perciò stesso composto di potenza e atto, sarà atto se lo si considera nella sua entele­chia, sarà potenza per quanto attiene alla sua materialità: tutte le cose che hanno materia avranno anche, in quanto tali, maggiore o minore potenzialità, se invece ci sono esseri immateriali (cioè forme pure) questi saranno atti puri, privi di potenzialità.

            Dal punto di vista metafisico la dottrina della potenza e dell'atto consente ad Aristotele di risolvere le aporie eleatiche concernenti il divenire e il movimento: essi rientrano nel­l'o­riz­zonte dell'essere, perché non sono un passaggio dal non-­essere in senso assoluto all'essere in senso pieno, ma semplice­mente dal­l'es­sere-in-potenza all'essere-in-atto, ossia da essere a essere. La stessa dottrina consente anche allo Stagirita di risolvere l'a­poria platonica dell'unità di materia e forma. Inol­tre essa gio­ca un ruolo importantissimo nella dimostrazione dell'esistenza di Dio e in tutte le altre scienze.

 

Dio e le sostanze soprasensibili

            A questo punto ci si può porre il problema fondamentale del­la "seconda navigazione" platonica: esistono sostanze soprasensi­bili? Aristotele individua nella pluriforme realtà dell'essere (che "si dice in molti sensi") tre generi di sostanze gerarchica­mente ordinate:

            a) le sostanze sensibili generabili e corruttibili,

            b) le sostanze sensibili incorruttibili,

            c) le sostanze eterne, che trascendono il sensibile.

Tale partizione gerarchica delle sostanze esistenti è guadagnata alla luce dei concetti di potenza e atto: le sostanze generabili e corruttibili (a) sono costituite di una materia la cui poten­zialità non può essere esaurita da una sola forma, perché tale materia ammette tutti i contrari; le sostanze corporee ma incor­ruttibili (b), come ad esempio i corpi celesti, sono costituiti di una materia strutturalmente incorruttibile (l'etere o quinta[19] essenza) che è passibile solo di movimento locale ed esclude tut­ti i contrari; le sostanze incorporee (c) sono forme pure, prive di ogni potenzialità.

            Il punto d'arrivo della speculazione metafisica è costituito dalle sostanze soprasensibili, termine della "seconda naviga­zio­ne" platonica. Il passo successivo del pensiero aristotelico è quello di DIMOSTRARE L'ESISTENZA DELLE SOSTANZE SOPRASENSIBILI, nel modo che schematicamente illustriamo:

Þ     le sostanze sono realtà prime e tutti gli altri modi di essere dipendono dalla sostanza,

Þ     se tutte le sostanze fossero corruttibili non esisterebbe nulla di incorruttibile,

Þ     ma, al contrario, esistono cose incorruttibili (come il tempo[20] e il movimento; si pensi agli astri),

Þ     dunque esistono anche sostanze incorruttibili.

             

Tali sostanze sono principi del moto di ciò che è corruttibile, ma non sono esse stesse (prese in senso generico) il Principio Primo:

Þ     se ciò che è causa del moto[21] di qualcos'altro è anch'esso mobile avrà bisogno a sua volta di qualcosa che sia causa del proprio moto,

Þ     i principi incorruttibili di cui sopra sono causa dei moti dei corpi, ma sono a loro volta mossi,

Þ     non si può procedere all'infinito,

Þ     deve dunque esistere un motore Primo, assolutamente immobile, atto puro, origine e causa di ogni movimento.

            Il motore immobile dovrà dunque muovere ogni cosa senza es­sere esso stesso in movimento, ma come è possibile ciò? Aristo­te­le risponde che la causalità propria di Dio non è la causalità ef­ficiente (che suppone un mutamento anche nell'agente, almeno per Aristotele), ma è propriamente la causalità finale: Dio muove attraendo ogni cosa a se e il mondo, anche se influenzato da que­sta attrazione divina, non ha avuto inizio e non vi fu mai un mo­mento in cui il caos precedesse il cosmo (altrimenti verrebbe con­traddetto quanto si disse sulla priorità dell'atto rispetto alla potenza) e Dio dall'eternità attrae a se il mondo, che dal­l'eternità è dunque un cosmo ordinato.

 

Natura del divino e i suoi rapporti con il mondo

            Tale motore è dunque "immobile" nel senso che non può mutare in se stesso, ma non nel senso che è un'entità amorfa e inerte: egli è Vita, anzi è la forma più nobile e perfetta di vita che Aristotele potesse concepire, ossia la vita del puro pensiero, dell'attività contemplativa:

"E' questo, dunque, il principio da cui dipendono il cielo e la natura. Ed esso è una vita simile a quella che, per breve tempo, è per noi la migliore. Esso è, invero, eternamente in questo stato (cosa impossibile per noi!), poiché il suo atto è anche piacere (e per questo motivo il ridestarsi, il provare una sensazione, il pensare sono atti molto piacevoli, e in grazia di questi atti anche speranze e ricordi arrecano piacere). E il pensiero nella sua essenza ha per oggetto ciò che, nella propria essenza, è ottimo, e quanto più esso è autenticamente se stesso, tanto più ha come suo oggetto ciò che è ottimo nel modo più autentico. L'intelletto pensa se stesso per partecipazione dell'intellegibile, giacché esso stesso diventa intellegibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che in­telletto e intellegibile vengono a identificarsi. E', infatti, l'intelletto il ricettacolo dell'intellegi­bi­le, ossia dell'essenza, e l'intelletto, nel momento in cui ha il possesso del suo oggetto, è in atto, e di con­seguenza l'atto, piuttosto che la po­tenza, è ciò che di divino l'intelletto sembra posse­dere, e l'atto della contemplazione è cosa piacevole e buo­na al massimo gra­do. Se pertanto Dio è sempre in quello stato di beati­tudine in cui noi veniamo a tro­varci solo talvolta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore, essa è oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio è, appunto, in tale stato! Ed è sua pro­prietà la vita, perché l'atto dell'intelletto è vita, ed ottima ed eterna. Noi affermiamo, allora, che Dio è un essere vivente, sicché a Dio appartengono vita e du­rata continua ed eterna: tutto questo, appunto, è Dio!"[22]

Gerarchicamente sottoposte a questo Primo Motore Immobile sono tutte le altre sostanze soprasensibili, quali le 55 intelligenze che muovono i cieli, che sono così Dei inferiori, dipendenti dal primo non quanto all'essere, ma quanto al loro operare.



[1] Il Reale sottolinea e sintetizza con chiarezza questo punto:

"Platone, oltre che filosofo, è anche un mistico (e un poeta); Aristotele, invece, oltre che filosofo è anche uno scienziato. Tuttavia questo plus di segno opposto che differenzia marcatamente i due uomini, li differen­zia appunto nei loro interessi umani extrafilosofici, per così dire, e non già nel nucleo speculativo del loro pensiero" (G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano, vol. II, p. 399).

Le ultime parole citate vogliono evidentemente alludere ai frutti della "seconda navigazione", che costituiscono la cifra specula­tiva del pensiero di entrambi questi colossi della filosofia an­tica, tanto che, con la perdita di tali frutti, avremo un muta­mento qualitativo di proporzioni notevolissime in tutta la cultura antica.

[2] Il termine è stato coniato dai Peripatetici o forse addirittura da Andronico di Rodi (I sec. a. C.) in occasione dell'edizione delle opere aristoteliche. In tale circostanza starebbe a indi­ca­re i libri posti (nell'edizione) dopo quelli di fisica e la cul­tura Occidentale ha accolto tale indicazione come più signifi­ca­ti­va e pregnante per indicare ciò che va oltre la fisica, ossia quella disciplina che si occupa di quelle realtà che stanno oltre e al di sopra delle realtà fisiche.

[3] In opposizione alla filosofia seconda, che sarebbe la fisica.

[4] Metafisica, libro VI (E), 1026a, ed. BUL pp. 175-176.

[5] Metafisica, A2, 982b-983a, ed. BUL, pp. 9-10.

[6] Si tratta, ad esempio, dell'anima per gli animali, di precisi rapporti formali per le figure geometriche (es. circonferenza = il luogo dei punti equidistanti da un punto detto centro), ecc...

[7] Il concetto di fine o scopo in termini metafisici non va inteso in un senso antropomorfico, quasi che Aristotele immagini una sor­ta di "attività cosciente" in ogni realtà esistente: si tratta di una determinazione di tipo puramente strutturale per cui è si­gnificativo distinguere (in un processo di divenire) i momenti in­termedi dal momento terminale e, quanto al momento terminale, se è tale di diritto oppure meramente di fatto. Possiamo spie­gar­ci con un esempio che non è di Aristotele ma, a nostro avviso, ne esprime fedelmente lo spirito:

Þ      I momento: nasce una larva, un bruco, che inizialmente vive come tale;

Þ      II momento: il bruco entra in una fase di metamorfosi;

Þ      III momento: il bruco è diventato una farfalla.

Si noti che lo "status" di farfalla è evidentemente non solo la fine ma anche il fine di tutto il processo descritto, è ciò a cui la natura stessa del bruco tende. Chi ce lo dice? Nessuno! E' sem­plicemente l'evidenza dei fatti che ci presenta un movimento chia­ramente orientato ad un certo punto d'approdo e tale "orien­ta­­mento" è qualcosa di reale (tanto è vero che tutti i bru­chi, se non intervengono problemi esterni, diventano farfalle e quando que­sto non accade diremo che il processo non è giunto a termine, non ha raggiunto il suo fine) e ci dice qualcosa di estremamente significativo sulla natura e il senso di quella me­tamorfosi, an­che se a nessuno viene in mente di pensare che il bruco tenda "co­scientemente" a diventare una farfalla.

[8] In termini scolastici potremmo dire "univocamente". Si tenga presente che la speculazione eleatica va collocata nell'orizzonte della filosofia della fysis, il cui problema consisteva nell'i­den­tificazione del principio unico (Arché), che fosse ad un tempo causa materiale, efficiente e formale di tutto ciò che è o di­vie­ne: una volta identificato tale principio con l'essere la sua u­ni­cità veniva di conseguenza, non era nemmeno in questione.

[9] Metafisica, libro IV (G), 1003a-1003b, ed. BUL pag. 86.

[10] ibid. 1003b.

[11] Reale, op. cit., vol II, pp. 414-415. Cfr. anche J. Owens, The Doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Toronto 1963.

[12] Vale la pena di precisare che le categorie aristoteliche indi­cano qualcosa di molto più solido dell'essere puramente acciden­tale, ma costituiscono (insieme e in dipendenza dall'essere della sostanza) la vera e propria trama strutturale dell'essere reale. Possiamo brevemente elencarle:

                                -1- Sostanza (ousìa)

                                -2- Qualità (poiòn)

                                -3- Quantità (posòn)

                                -4- Relazione (pròs ti)

                                -5- Azione (poieìn)

                                -6- Passione (pàschein)

                                -7- Dove o luogo (poù)

                                -8- Quando o tempo (potè)

                                -9- Avere (èchein)

                                -10- Giacere (keìsthai).

[13] Al di là della particolare connotazione che il termine assume in Aristotele, lo intendiamo qui preliminarmente nel senso gene­rico di: "ciò che esiste per sè", ciò che esiste veramente, ciò in forza di cui ciò che esiste esiste.

[14] Metafisica, libro VII (Z), 1029a-1029b, ed. BUL pag.188.

[15] ibid., libro VIII (H), 1043a, ed. BUL pag. 238.

[16] Questo può capitare in due sensi: in primo luogo in quanto è la forma che dà essere alla materia e non viceversa (quindi ne è separabile almeno concettualmente); in secondo luogo (concreta­mente) in quelle sostanze che si esauriscono totalmente nella forma e assolutamente sono prive di materia.

[17] Reale, op. cit., vol. II, pag. 432.

[18] Aristotele, Metafisica, libro IX, 1049b-1050b; ed. BUL pp. 266-269.

[19] Le altre quattro essenze materiali sono, evidentemente, quelle dei quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco.

[20] La dimostrazione dell'incorruttibilità di tempo e movimento è forse una delle parti più deboli della costruzione metafisica di Aristotele, specialmente se si pensa che è su di essa che si basa la dimostrazione dell'esistenza del soprasensibile; tale dimo­stra­zione è riassunta dal Reale in un testo che vale la pena di riportare:

"Il tempo non si è generato né si corromperà: infatti, anteriormente alla generazione del tempo, avrebbe dovuto esserci un "prima", e posteriormente alla distruzione del tempo avrebbe dovuto esserci un "poi". Ora, "prima" e "poi" altro non sono che tempo.. In altri termini: per le ragioni viste, c'è sempre tempo prima o dopo qualsiasi supposto inizio o termine del tempo; dunque, il tempo è eterno. Lo stesso ragionamento vale anche per il movimento, perché, secondo Aristotele, il tempo non è altro che una determinazione del movimento; dunque, non c'è tempo senza movimento, e, quindi, l'eternità del primo postula l'eternità anche del secondo." (op. cit., vol. II, pag. 440).

[21]  Il termine "moto" va inteso non come spostamento locale, ma come passaggio dalla potenza all'atto (nel senso di mutamento, divenire).

[22] Metafisica, libro XII, 1072b, ed. BUL pp. 357-358.