LA FILOSOFIA
Il primo
fiorire della riflessione filosofica si ebbe nel VI sec. a.C. nelle colonie
greche dell'Asia Minore, verosimilmente anche per il contatto stimolante con le
esperienze religiose e le osservazioni astronomiche dell'Oriente. Alle antiche
cosmogonie mitiche si sostituì gradualmente la concezione di una materia
animata, principio di tutte le cose, le quali derivano dal suo vario
atteggiarsi e trasformarsi e in essa tornano a immergersi al termine del
proprio ciclo vitale. Tale principio fu individuato nell'acqua (Talete), nell'aria (Anassimene),
nel fuoco (Eraclito) e nell'infinito, inteso come l'originaria sostanza
indeterminata (Anassimandro). Questi pensatori
affrontarono anche il problema del modo in cui gli individui particolari emergono
dalla sostanza originaria e tornano poi a dissolversi nel tutto. La legge
fondamentale di questo processo è vista da Eraclito nel movimento risultante
dalla tensione dei contrari (“tutto scorre”, “la guerra è madre di tutte le
cose”), mentre gli eleati (Parmenide,
Zenone di Elea) insistono sul carattere illusorio della molteplicità e del
movimento, approfondendo il concetto dell'Essere unico, sempre identico a se
stesso, non avente né principio né fine. I temi dibattuti in questi esordi
della filosofia occidentale sono gli stessi presenti nella sua preistoria, e
cioè nelle precedenti teogonie e cosmogonie mitiche: la ferrea immutabilità del
destino, l'onnipresenza di una legge di necessità e di giustizia, la ciclicità
degli eventi, il finale ritorno nell'unità originaria. La nuova mentalità
“scientifica” non va vista come la risultante di un radicale salto qualitativo
rispetto all'antica, giacché al contrario vecchio e nuovo, mito e costruzione
razionale sono strettamente uniti e non sempre chiaramente distinguibili. Solo
nel secolo seguente la filosofia di Democrito propone
l'immagine di un cosmo completamente demitizzato: gli atomi, tutti uguali per
qualità e differenti solo per figura, forma e posizione, si muovono di moto
originario nello spazio vuoto, si urtano, si aggregano e si disgregano,
costruendo e disfacendo in una vicenda incessante i vari composti. Questo
modello di un universo tutto spiegabile solo attraverso il moto dei corpi nello
spazio (meccanicismo), rimasto in ombra in una cultura filosofica presto
dominata dai grandi sistemi idealistici, era tuttavia destinato a una
straordinaria fortuna, per la forza suggestiva delle sue radicali
semplificazioni.
All'altra
estremità del mondo greco, in Sicilia e nell'Italia meridionale, i pitagorici
introdussero nella nostra civiltà il principio della funzione eminente della
scienza del numero nell'interpretazione della realtà. Una tradizione molto
antica attribuisce a Pitagora il primo uso del termine “filosofia”, con il
quale egli intese indicare la condizione di chi ricerca il sapere e non quella
di chi lo possiede, poiché “nessuno è sapiente all'infuori del Dio”. La scuola
pitagorica ebbe il carattere di una setta mistico- religiosa, nella quale si
entrava solo attraverso un rito di iniziazione. Gli aderenti erano tenuti a
mantenere il segreto sulle dottrine rivelate dal maestro. Secondo Pitagora
tutte le cose hanno un numero e senza il numero nulla può essere conosciuto. Va
però subito aggiunto che il numero pitagorico è in primo luogo un'entità magico-simbolica (il tre è perfetto perché contiene il
principio, il mezzo e la fine, il sette è il numero di Atena e della verginità,
ecc.), assai più corposa dell'astrazione matematica. Ma al di là dell'alone
magico entro cui il numero è racchiuso e del quale è rimasta traccia in tante
superstizioni popolari stanno i risultati delle ricerche
matematico-scientifiche della scuola.
Nel corso del secolo compreso tra la fine vittoriosa delle guerre persiane (449-448 a.C.) e la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) il centro della riflessione filosofica si spostò nella Grecia propriamente detta, e particolarmente in Atene. In questo periodo vissero Socrate, Platone e Aristotele, tre pensatori che arricchirono in misura incomparabile la tradizione filosofica della nostra civiltà. L'intensificarsi dei rapporti fra le varie città greche e soprattutto il contatto con culture lontane e diverse avevano indebolito il rispetto per i princìpi etico-religiosi ereditati dal passato. Un tale ampliamento di orizzonte trovò la sua espressione intellettuale nella spregiudicatezza e nell'irriverenza dei cosiddetti sofisti: uno dei maggiori fra essi, Protagora (485-411 a.C.), affermava che tutte le leggi sono una convenzione umana e che “l'uomo è misura di tutte le cose”, delle verità teoretiche come dei valori morali. Questo relativismo metteva in primo luogo in crisi la santità delle tradizioni e la saldezza delle istituzioni, sicché non pare ingiustificato l'uso dell'espressione “illuminismo greco”, con la quale alcuni storici designano l'attività dei sofisti, che viene con ciò implicitamente paragonata a quella degli intellettuali europei del XVIII sec. L'affermarsi della democrazia in Atene, d'altro canto, rese sempre più importante, ai fini del successo nell'agone politico, l'arte del persuadere i propri concittadini nelle assemblee: i sofisti furono appunto ammirati maestri di retorica, che insegnavano dietro pagamento ai giovani ambiziosi e ricchi della nuova società ateniese le tecniche del parlare e del convincere.
L'alternativa
valida alla dissacrazione operata dai sofisti non stava certo in una
restaurazione forzosa della religione e dei valori dei padri. La via difficile
che scelse Socrate gli costò l'inimicizia dei conservatori e dei democratici,
e, alla fine, la vita stessa. Ma quale fu in realtà la posizione di colui che è
stato chiamato con qualche ragione “il fondatore della scienza morale”? Egli
metteva in luce l'insufficienza del vuoto tecnicismo retorico dei sofisti e
voleva che ciascuno procedesse all'esame delle regole di condotta acriticamente
accettate, per verificare se esse resistessero al controllo della riflessione.
Di qui i lunghi e minuziosi interrogatori a cui sottoponeva i suoi
interlocutori, costringendoli a uscire dall'inerzia e dalla passività e a diventare
coscienze vigili e inquiete, preoccupate di individuare nel profondo il senso e
la motivazione dei propri atti. Un tale risultato non veniva perseguito con
prediche moralistiche e col richiamo a norme appoggiate a una qualunque
autorità indiscutibile: attraverso il dialogo socratico l'interlocutore giudica
se stesso, scopre le contraddizioni e le incoerenze delle proprie superficiali
giustificazioni e si persuade della necessità della scienza, vale a dire di un
sapere autentico, che funga da “pilota dell'anima”. Prima sconcertato dal
disgregarsi di tutte le proprie presunte certezze sotto l'azione implacabile
del rigore socratico, consapevole ormai della propria ignoranza,
l'interlocutore ben disposto finisce tuttavia per acquisire il bene più prezioso:
l'esigenza di proseguire la ricerca fino a raggiungere il persuaso accordo con
se stesso. E poiché questo risultato è possibile, anche se richiede impegno e
fatica, si deve concludere che nell'ordine morale non tutto è arbitrio e
convenzione. L'uomo che “conosce se stesso” scopre che esistono valori
assoluti: nel possesso di essi consiste il vero sapere, dall'obbedienza a essi
nascono la virtù e la felicità.
Disgustato da una
breve esperienza del potere durante il governo dei Trenta, Platone assisté
impotente a quella serie di vendette politiche che culminarono con l'uccisione
del suo amato maestro, avvenuta quando egli aveva ventotto
anni. Divenne così dominante in lui il problema della città giusta, guidata da
uomini saggi, nella quale simili delitti diventassero impossibili. La
meditazione di questo tema fondamentale lo condusse alla costruzione di una
nuova filosofia, esposta con mirabile vivezza nei suoi Dialoghi. Il dato
sensibile è mutevole e inafferrabile, mentre la scienza presuppone una realtà
stabile, sempre identica a se stessa, che non può dunque essere quella colta
dai sensi. Oggetto della scienza è l'idea, organo della conoscenza di questa è
la ragione. Le figure geometriche che il matematico contempla nel suo pensiero
non sono quelle, approssimative e imperfette, che egli disegna sulla sabbia: la
filosofia ci insegna a elevarci alla visione di quei modelli ideali, di cui gli
oggetti sensibili sono copie inadeguate. Il dualismo di sensibile e di
intelligibile implica per Platone una nuova e globale concezione della realtà e
dell'uomo nella quale vengono assorbite e inverate
antiche concezioni mitico-religiose: il mondo
intelligibile è il luogo naturale dell'anima, la quale, caduta sulla Terra ed
entrata nella prigione del corpo, deve liberarsi attraverso un processo di
purificazione; l'ascesa conoscitiva dal sensibile all'intelligibile è anche
passaggio dall'impurità alla purezza, dal vizio alla virtù, dal male al bene.
C'è così uno stretto legame fra l'ascetismo etico e l'attività conoscitiva, e
del resto anche dall'esperienza dell'amore fisico si viene liberando l'Eros
autentico, che è nella sua essenza aspirazione al possesso degli intelligibili
e da ultimo dell'idea suprema, il Bene, causa e principio di tutte le altre. La
conquista del mondo ideale è la premessa necessaria (e per tale via il pensiero
di Platone ritorna alle sue origini) alla costruzione dello Stato giusto,
diviso in classi secondo una struttura che rispecchia fedelmente le tre anime
dell'uomo e capace di comporre il dissidio fra virtù e felicità, che travaglia
il mondo.
Incline
all'osservazione della realtà naturale e storica più che all'astrazione
matematica e al vagheggiamento della città perfetta, Aristotele portò nella
ricerca filosofica il dono singolare di uno spirito sistematico unito a una
viva sensibilità per il concreto. La vasta enciclopedia costituita dalle sue
opere, frutto dei corsi da lui tenuti per tredici anni al Liceo (335-322),
comprende come parte preliminare una logica, che nel linguaggio moderno si
chiamerebbe “logica delle classi”. Aristotele è stato uno dei più grandi sistematori di questa disciplina, con la sua dottrina dei princìpi logici e con l'analisi minuziosa dei modi in cui
può articolarsi il ragionamento deduttivo, da lui ricondotto allo schema
fondamentale del sillogismo Nella metafisica, scienza dell'essere “in quanto
tale”, viene individuata la struttura del reale nell'unità di materia e di
forma, elementi costitutivi di ogni individuo possibile. Nella fisica Aristotele
vede il movimento degli esseri dominato da un ordine finalistico,
che si esplica in una scala di attuazioni sempre più perfette, fino
all'assoluta pienezza di Dio. L'universo fisico, che ha al suo centro la Terra,
comprende il mondo sublunare e quello sopralunare, costituito da un “quinto
elemento” incorruttibile, che è la materia del cielo, corpo divino ruotante
eternamente con le sue sfere intorno a Dio: è questo il modello fisico-astronomico che nella nostra civiltà ha dominato
quasi senza contrasto fino a Copernico e a Galileo.
Nella fisica è compresa la biologia, e, poiché il principio della vita è
l'anima, il trattato dedicato a quest'ultima è come una prefazione allo studio
delle varie specie viventi e della generazione e corruzione degli individui che
le compongono. Segue lo studio dell'uomo, e cioè in primo luogo l'etica, che
non è una vuota precettistica, ma una ricerca obiettiva dei comportamenti
umani, e poi la politica, in cui la classificazione delle varie forme possibili
di ordinamento dello Stato deriva dallo studio attento di numerose costituzioni
diligentemente raccolte. Il corpo degli scritti di Aristotele si chiude con la
poetica, in cui l'opera d'arte è presentata come una forma particolare di
imitazione della realtà. Aristotele è una delle più grandi figure della storia
della filosofia, uno di quegli ingegni straordinari che dominano e organizzano
con la loro capacità di sintesi tutto il sapere di un'epoca.
Nel secolo
seguente, dopo la morte di Alessandro Magno, Atene, benché politicamente
decaduta, restò la capitale della filosofia. Ma i nuovi pensatori non furono
più arditi riformatori politici, impegnati appassionatamente nella vita della
città. Alla filosofia essi domandavano ormai solo il conforto della saggezza, e
la concepivano come un “farmaco dell'anima”, capace di liberare quest'ultima
dalle sue malattie: questo spirito è comune a tutti i filosofi della nuova età,
greci di lingua, ma spesso di origine lontana, fenicia, siriaca
o babilonese. Tale impostazione del senso dell'indagine filosofica ebbe
conseguenze vastissime: le parole “stoico”, “epicureo”, “scettico” sono passate
nella lingua corrente e designano, ormai senza riferimento alcuno alla loro
origine storica e con implicazioni immediatamente chiare per tutti, determinati
modi di atteggiarsi di fronte alla vita. La stessa parola “filosofo”, nella sua
accezione più popolare, contiene un'allusione precisa al distacco, alla
sopportazione e al disimpegno, che sono tratti comuni della saggezza propagandata
dallo stoicismo, dall'epicureismo e dallo scetticismo. Le scuole ispirate a
tali movimenti erano certo meno esclusive dell'Accademia di Platone o del Liceo
di Aristotele, poiché non pretendevano di educare solo un'aristocrazia
intellettuale, e si disseminarono perciò rapidamente in tutta l'area del mondo
greco prima, e poi di quello romano. Stoicismo, epicureismo e scetticismo
costituivano agli inizi della nostra era vere e proprie comunità filosofiche,
alle cui dottrine gli aderenti chiedevano in definitiva solo la prescrizione di
regole pratiche di condotta, capaci di assicurare una felicità stabile e
duratura, non coinvolta nelle vicende della fortuna, della salute e
dell'assetto politico degli Stati. Per lo stoicismo, fondato da Zenone di Cizio, l'essenza dell'uomo è la ragione, che lo connette
alla totalità del reale. Il mondo è infatti un essere divino, un grande corpo
animato dal soffio vitale dell'anima, che è sostanza ignea immanente in tutte
le cose. Il ritmo della vita del mondo procede secondo l'alternanza costante di
un processo evolutivo e di un successivo ritorno all'unità originaria del fuoco
eterno e ogni nuovo ciclo ripete esattamente i momenti di quello precedente
(eterno ritorno). Il fuoco è chiamato Ragione, Fato, Provvidenza, tutte
denominazioni che vogliono suggerire l'idea di un ordine razionale
predeterminato, di una legge immodificabile preposta alla vita del mondo. In un
universo così concepito la saggezza sta nel consentire al tutto, nel “volere la
volontà del mondo”, nel “seguire la natura”. Con tale disposizione interiore,
che non è rassegnazione passiva, ma consenso attivo e persuaso, conquistato a
prezzo di un duro impegno intellettuale e pratico, l'uomo consegue la
liberazione dalle passioni (apatia) e diviene membro di quella città
universale, di cui il Dio supremo è il capo e gli uomini e gli dei sono
cittadini.
Movendo da
premesse del tutto diverse, gli epicurei dettero una soluzione analoga del
problema, anch'essa incentrata sulla conquista di un controllo razionale del
disordine delle passioni. La felicità consiste per l'uomo nel piacere, ma in un
piacere “stabile”, cioè senza variazioni e turbamenti, e perciò identificabile
senz'altro con l'assenza di dolore. La maggior parte delle preoccupazioni che
turbano l'uomo è frutto di false rappresentazioni: così noi temiamo l'al di là,
presunto luogo di pene future, popoliamo l'universo di entità divine e
demoniache che esigono da noi sacrifici, temiamo le meteore e le eclissi come
annunci di imminenti sventure. Ora tutte queste superstizioni, che avvelenano
la vita umana, nascono da un'erronea concezione del mondo fisico. L'unica
spiegazione razionale di esso è quella atomistica, per la quale tutti gli
esistenti, anime umane comprese, sono aggregati casuali e provvisori di atomi,
destinati a dissolversi per dar luogo a nuove formazioni. Se vita è
l'aggregarsi degli atomi e morte la loro disgregazione, finché noi saremo non
ci sarà la morte, e quando questa verrà non saremo più noi: il timore della
morte si riferisce a una esperienza impossibile. Parimenti infondati sono il
timore dell'al di là e quello degli dei, i quali ultimi sono anch'essi
aggregati provvisori di atomi, del tutto indifferenti alle nostre vicende. A
questo punto ciò che si frappone ancora fra l'uomo e la felicità sono i
desideri che non possono essere soddisfatti e le sofferenze delle malattie. La
prudenza ci aiuta a liberarci dai primi, insegnandoci che la felicità è assenza
di pena e che la pena si elimina sopprimendo il desiderio; quanto alle seconde,
si può sempre compensare il dolore presente col ricordo delle gioie passate.
Anche per gli
scettici, che rifiutano qualunque scelta e sospendono programmaticamente
il giudizio, la saggezza consiste nell'imperturbabilità (atarassia) epicurea,
integrata dalla rinuncia perfino all'uso della parola (afasia), in un mondo
popolato da vani fantasmi. Collocato in un universo a lui estraneo, ma non
ostile fino al punto da rendere impossibile la salvezza del singolo, l'uomo si
redime conquistando la libertà interiore e coltivando la saggezza come faticosa
arte del disimpegno dalla realtà e dalla storia.
Negli ultimi
secoli dell'Impero romano il motivo religioso si innestò sempre più
profondamente nella ricerca filosofica. La
salvezza terrestre offerta dallo stoicismo e dall'epicureismo non bastava più.
Una nuova, angosciosa insicurezza
esigeva orizzonti meno chiusi. La liberazione e la redenzione del singolo erano
ancora lo scopo supremo, ma contro le forze occulte che circondavano l'uomo
bisognava trovare mezzi e aiuti più
efficaci, e li si cercava nelle pratiche rituali, nell'iniziazione ai
misteri, nella magia, in ogni dottrina
che promettesse di condurre i mortali “alle fresche acque dell'eterna vita”.
Il tentativo di ordinare in strutture razionali questi irrequieti fermenti
prende il nome di sincretismo filosofico- religioso; come esempio tipico di
esso può essere indicata l'opera di Plotino
(203-270), il cui neoplatonismo costituisce il vero e proprio canto del cigno
del pensiero greco.
Il vivente rapporto
del finito con l'infinito, la distanza incommensurabile fra Dio e le cose e al
tempo stesso l'eterno discendere delle cose da Dio e l'eterno loro risalire a
Lui: questa vibrazione amorosa dell'universo è il motivo dominante della
speculazione di Plotino. Il principio di tutte le cose è Dio, l'Uno ineffabile. Il molteplice rimanda all'unità, da cui è
derivato per un processo di separazione e di degradazione, che raggiunge il suo
limite e tocca i confini del nulla nel mondo delle cose sensibili, dove la luce
dell'Uno si confonde con le tenebre della materia. L'uomo, chiuso nella sua
prigione corporea, è come un esule a cui è aperta la via del ritorno:
percorrendo la strada già indicata da Platone, egli si innalza per gradi al di
là del molteplice, ritorna all'Uno, Bene supremo, e si ricongiunge con lui
nell'estasi finale. La filosofia dell'emanazione, secondo la quale dall'Uno
deriva l'Intelligenza universale, da questa l'Anima del mondo, matrice a sua
volta delle anime individuali è, almeno nella struttura schematica, col suo
doppio movimento della discesa e della risalita, il modello di molte
costruzioni metafisiche, da Spinoza a Hegel, a Bergson.
La religione
cristiana includeva una nuova concezione del destino dell'uomo, fondata sulla Rivelazione
e perciò in linea di principio indipendente dalla filosofia. Tuttavia
l'incontro tra filosofia e cristianesimo era inevitabile ed ebbe luogo in due
momenti successivi. Dapprima i padri della Chiesa, la maggior parte dei quali
aveva una ricca cultura profana, utilizzarono gli strumenti concettuali forniti
dalla filosofia sia per la difesa (apologia) del cristianesimo dagli attacchi
degli intellettuali pagani, sia per assicurare l'interpretazione corretta del
messaggio cristiano e respingere quelle ritenute aberranti (eresie). Nel corso
di questi conflitti prese corpo l'esigenza, che poteva anch'essa essere
soddisfatta solo con l'ausilio della grande tradizione filosofica greca, di
collocare i princìpi ispiratori della nuova religione
e le sue verità fondamentali (dogmi) in un corpo dottrinale unitario e
organico. Più tardi, quando a partire dall'XI sec. si affermò la cosiddetta
scolastica, l'aspirazione a una sistemazione definitiva e armonica trovò in
molte circostanze favorevoli e nell'emergere di alcune grandi personalità le
condizioni necessarie per realizzarsi. Un avvenimento di importanza capitale a
questo fine fu l'introduzione in Occidente della filosofia di Aristotele,
pervenuta al mondo cristiano per il tramite dei commenti dei grandi interpreti
arabi. Cessò così per un certo periodo il predominio del platonismo
agostiniano, durato fino agli inizi del XII sec., e si affermò quello
dell'aristotelismo, che raggiunse il suo vertice nella poderosa sintesi filosofico-teologica di san Tommaso d'Aquino
(1224-1274). La scolastica, a prescindere dai suoi risultati sistematici, pure
di grande rilievo, lasciò alla cultura occidentale la positiva eredità del
gusto per il rigore formale e per la precisione logica, gusto talvolta
degenerato nella sottigliezza capziosa. Nella prima metà del XIV sec.
l'affermarsi del razionalismo formalistico, dell'empirismo e del fideismo
segnarono il tramonto della scolastica. Con Guglielmo di Occam
in particolare († 1350), che sosteneva la singolarità di ogni esistente e l'irrealtà
degli universali, il pensiero medievale rinuncia in linea di principio alla
costruzione di quei grandi edifici dottrinari che per la loro maestosa e
macchinosa complessità sono stati giustamente paragonati alle cattedrali
gotiche.
La nuova civiltà filosofico-letteraria dell'Umanesimo e del Rinascimento
riflette e condiziona al tempo stesso un mondo in via di profonda
trasformazione: la borghesia cittadina si affermava ormai dovunque come forza
sociale prevalente, i viaggi e le scoperte rivoluzionavano l'orizzonte
geografico, l'invenzione della stampa mutava radicalmente i tempi e i modi
della diffusione delle idee, l'unità cristiana era spezzata dall'affermarsi
della Riforma. Nel quadro storico caratterizzato da tali linee il Rinascimento
si annuncia con alcuni temi fondamentali che possono essere così schematizzati:
ritorno alla cultura classica, con una più vasta conoscenza dei Latini e con la
riscoperta dei Greci; accentuata consapevolezza del valore dell'attività
dell'uomo, che operando costruisce se stesso e il suo mondo; interesse per le
strutture particolari della natura e tendenza a spiegarle con cause puramente
naturali. La polemica antiscolastica fu condotta in nome della riscoperta del
genuino pensiero classico, della ricostruzione del “vero” Aristotele e del
“vero” Platone. A Firenze fu fondata l'Accademia platonica, in seno alla quale
Marsilio Ficino (1433-1499) approfondì il tema della
continuità fra platonismo e cristianesimo; Padova divenne il centro del nuovo
aristotelismo, dominato dalla personalità geniale del Pomponazzi
(1462-1525), mentre in quegli stessi anni Leonardo da Vinci e Machiavelli venivano dando le prime risposte concrete alle
domande sull'uomo e sulla natura formulate nello spirito del nuovo secolo.
Leonardo (1452-1519), pur non elaborando una teoria sistematica, vide con
chiarezza che solo attraverso l'esperienza la mente può penetrare nelle riposte
“ragioni” delle cose, mentre Machiavelli (1469-1527)
concepì la storia umana come un fatto naturale dominato da leggi immutabili,
che devono esser note a chiunque voglia impostare un'azione politica efficace.
Nel XVI sec. il naturalismo antiaristotelico di Bernardino Telesio
(1509-1588), di Giordano Bruno (1548-1600) e di Tommaso Campanella (1568-1639),
movendo dall'esigenza di conoscere la natura “secondo i suoi propri princìpi”, tentò di riproporre, anche per influenza della
nuova astronomia, interpretazioni geniali e unitarie dell'universo, alla
maniera dei presocratici e con molte concessioni alle
scienze e alle tecniche occulte, come l'astrologia e la magia. Ma non era
questa la via della nuova scienza, destinata a così luminoso avvenire. Fu nella
pratica stessa della ricerca fisica e astronomica che Galileo Galilei (1564-1642) raggiunse e consolidò alcuni risultati
fondamentali anche per la storia della filosofia, come il concetto della
separazione della fisica dalla metafisica, quello della funzione
dell'esperimento nella ricerca, quello della descrivibilità della natura nei
termini matematici della grandezza, della figura e della “moltitudine”. Si fece
strada la convinzione che gli insuccessi e i ritardi nella storia della scienza
e della filosofia fossero da imputare principalmente all'uso di metodi errati.
La critica delle idee correnti può eccezionalmente estenuarsi, come accade in Montaigne (1533-1592), nell'idealizzazione
dell'intellettuale problematico, appartato e scettico che realizza
nell'auscultazione di se stesso una sorta di inimitabile pienezza edonistica.
Ma l'anima del secolo è più sensibile all'opposto motivo della fede nel
progresso e dell'attesa di un avvenire luminoso, nel quale la potenza liberata
dell'uomo si sarebbe esplicata vittoriosamente. Francesco Bacone
propose un novum organum,
una nuova metodologia della ricerca da sostituire all'organon
aristotelico, nel convincimento che la scienza della natura avrebbe reso l'uomo
padrone delle forze della natura e modificato radicalmente le sue condizioni di
esistenza.
La filosofia baconiana presenta da un lato una nuova metodologia scientifica,
fondata sulla larga raccolta delle osservazioni e sulla verifica attenta e
scrupolosa dei rapporti tra i fenomeni, e dall'altro alcuni modelli di
organizzazione sociale della ricerca, anticipazioni geniali e fantasiose di un
avvenire ancora molto lontano. È oggi opinione quasi unanime degli studiosi che
l'importanza e la grandezza di Bacone siano da
cogliere, molto più che nei risultati concreti da lui raggiunti nella
determinazione del nuovo metodo, nella forza suggestiva del suo entusiasmo
profetico. In realtà come metodologo Bacone, nonostante le sue affermazioni polemiche, è ancora
troppo invischiato nel sistema concettuale della scolastica e non riesce a
superare la nozione arcaica della scienza della natura come scienza delle
“qualità” delle cose, quando già Galileo ha iniziato così brillantemente il
processo di matematizzazione della fisica. E tuttavia
il suo interesse ostentato per le tecniche artigiane, il suo senso della
connessione immediata fra scoperta e applicazione, il suo frequente proiettarsi
nel futuro esprimono in qualche modo la fede della nuova società nella forza
rivoluzionaria della scienza che sta sorgendo e nella sua capacità di fare del
mondo una più ospitale casa dell'uomo.
Anche Cartesio,
come Bacone e Galileo, ebbe una grande fede nella
scienza e anche lui credette che mediante essa l'uomo
avrebbe trasformato il mondo e riorganizzato la propria vita. Ma il progresso
scientifico e tecnico e lo stesso orientamento della condotta morale
presupponevano l'adozione di canoni rigorosi, che sottraessero i princìpi accolti a ogni possibile dubbio. Anche per lui
dunque la fondazione del metodo è un preliminare necessario alla costruzione
dell'edificio del sapere. Nel Discorso sul metodo (1637) vengono individuati,
prendendo come modello il ragionamento matematico, i criteri a cui deve
informarsi la ricerca di proposizioni certe, alla cui evidenza anche lo spirito
più programmaticamente diffidente debba arrendersi
senza perplessità. I sensi ci ingannano, tutta la realtà può essere l'ombra di
un sogno, le stesse verità più incontrovertibili della matematica potrebbero
mascherare errori imposti da un demone maligno e mistificatore. Ma proprio dal
dubbio metodico portato alle sue conseguenze estreme scaturisce la luce di una
certezza assoluta, quella appunto dell'esistenza del mio io, che pensa, dubita
ed è magari ingannato (penso, dunque sono). Poggiando sul punto fermo della
certezza del “me pensante”, attraverso l'indagine dei contenuti del pensiero
(idee), Cartesio dimostra l'esistenza di Dio, la cui perfezione è a sua volta
garanzia della veridicità delle idee “chiare e distinte”. Il criterio della
chiarezza e della distinzione consente anche la costruzione di una fisica, al
cui fondamento è l'idea dell'estensione: alla fisica aristotelica poggiante
sulle idee confuse delle qualità sensibili Cartesio sostituisce l'idea
“assolutamente chiara” del meccanicismo universale, secondo la quale i corpi
sono porzioni di spazio e ogni fenomeno fisico una modificazione spaziale,
integralmente traducibile in termini di geometria e di meccanica. Gli animali
stessi non sono che automi, nei quali pezzi mirabilmente calibrati e articolati
nelle debite proporzioni danno la fallace impressione di una vita che si
solleva alle soglie della spiritualità. Ma il meccanismo vitale è
autosufficiente e non esige per essere spiegato il ricorso a ipotetiche
“anime”. Anima è solo la sostanza pensante, il luogo dell'autocoscienza, da cui
ha preso le mosse la riflessione metafisica. Il suo dubitare e cercare, la sua
possibilità di resistere al confuso e all'incerto evitando volontariamente
l'errore sono altrettante prove della sua libertà. Questa tuttavia, poiché
l'anima è unita al corpo, può essere condizionata e ostacolata dalle passioni,
che trascinano la volontà verso i beni apparenti: il compito dell'indagine
morale, così come Cartesio l'ha delineato nell'ultima sua opera, Le passioni
dell'anima (1649), consiste nell'analisi del meccanismo delle passioni, in modo
che la conoscenza di esso consenta di dominare l'irrazionalità degli impulsi e
di utilizzarli anzi come ausiliari della Iibertà del
volere. L'atteggiamento antiautoritario, la ripresa in termini moderni del
motivo agostiniano dell'interiorità del vero, la spregiudicatezza critica,
temperata peraltro da un dichiarato conformismo pratico, sono i motivi più
fecondi e più ricchi di avvenire dell'eredità di Cartesio. Efficacia più
immediata ebbe il suo razionalismo geometrico, che i numerosi cartesiani della
seconda metà del Seicento cercarono di applicare anche allo studio della
poesia, della politica, della morale e della religione.
Per tutta la
seconda metà del XVII sec. il razionalismo cartesiano esercitò un predominio
quasi incontrastato nella cultura filosofica laica dell'Europa occidentale. Pascal (1623- 1662) ebbe una formazione rigorosamente
cartesiana, anche se la sua travagliata vita interiore lo portò ben presto a
contrapporre l'esprit de finesse e le “ragioni del cuore” all'aridità dello
spirito geometrico. Un pensatore eminente come Spinoza
(1632-1677), nella cui vita spirituale confluirono componenti molto varie e
complesse, derivò dall'atmosfera della cultura cartesiana alcuni suoi problemi
fondamentali, come quello della sostanza, oltre all'aspirazione a costruire
un'etica “geometricamente dimostrata”. Il dualismo cartesiano fra “sostanza
pensante” e “sostanza estesa” fornì la trama metafisica alle meditazioni di Malebranche (1638-1715) e degli occasionalisti,
che, movendo dalla cartesiana assoluta eterogeneità fra corporeo e spirituale e
dalla conseguente impossibilità di una loro azione reciproca, ridussero la
relazione anima-corpo a una corrispondenza occasionale, dovuta a un accordo
predisposto o promosso di volta in volta da Dio. Leibniz
(1648-1716) concepì un universo composto da una pluralità di spiriti e percorso
da una tensione dinamica e finalistica, certo non
riscontrabile nel meccanicismo di Cartesio: tuttavia il Dio di Leibniz è un Dio matematico, che calcolando sceglie e crea
“il migliore dei mondi possibili”. Il programma leibniziano
dell'elaborazione di un sistema di simboli (“caratteristica universale”) e
delle relative regole sintattiche (“arte combinatoria”), mediante cui fosse
possibile l'univoca formulazione e l'universale comunicazione del sapere,
riprende l'idea cartesiana di una lingua scientifica universale. La fede in una
sostanziale identità del genere umano ha certo origini molto lontane, ma
Cartesio dette a quel convincimento il carattere di un assioma filosofico
evidente, asserendo proprio nelle prime righe del Discorso sul metodo che la
ragione “è per natura uguale in tutti gli uomini”. E infine l'atteggiamento
critico, l'esigenza di verificare i fondamenti e i limiti della nostra funzione
conoscitiva, il carattere pregiudiziale dell'indagine metodologica sono motivi fatti
propri anche da quei filosofi che, come Locke
(1632-1704), assunsero su questioni particolari posizioni addirittura
antitetiche a quelle di Cartesio. La polemica di Locke
contro le idee innate, legata a una situazione particolare della cultura filosofica
inglese, e la connessa asserzione dell'origine empirica di tutte le conoscenze,
non devono far dimenticare il fatto che Cartesio, molto più che un avversario
dell'indirizzo empiristico, ne fu un maestro e un ispiratore. Quando nel XVIII
sec. l'“anglomania” divenne un'inclinazione
caratteristica dei nuovi intellettuali francesi, d'Alembert
poteva scrivere con ragione: “L'Inghilterra ci deve quella filosofia che noi
ora riceviamo da lei”. Hobbes (1588- 1679), il
filosofo inglese che tentò un'interpretazione materialistica di tutta la realtà
e teorizzò l'onnipotenza di quel mostro (Leviathan) che è lo Stato, conobbe
Cartesio e discusse con lui nel corso dei suoi viaggi sul continente. In Italia
il Vico (1668-1744) conquistò la propria originalità filosofica attraverso la
polemica contro il cartesianismo ormai trionfante
anche in un ambiente culturale periferico e chiuso, come era la Napoli dei suoi
tempi. Al criterio cartesiano dell'evidenza Vico contrappose quello fondato
sulla “conversione del vero col fatto”, per cui l'uomo può davvero conoscere
solo quella realtà che egli è capace di produrre, e quindi essenzialmente la
storia, gettando così le basi di una nuova scienza dell'uomo e di una nuova
concezione della storiografia. Con la sua Scienza nuova, che contiene
intuizioni profonde sulla natura della poesia e anticipazioni geniali dei
grandi temi dello storicismo romantico, il solitario e incompreso maestro
napoletano indicò una direzione realmente nuova alla filosofia dopo Cartesio.
Il XVIII sec. fu
per eccellenza l'epoca dei “filosofi”, se si prende la parola nell'accezione
riduttiva, allora divenuta usuale, di intellettuale impegnato nella lotta
contro i pregiudizi e nella diffusione fra i propri simili dei “lumi” della
ragione. I presupposti dottrinari e gli indirizzi pratici che caratterizzarono
il vasto movimento culturale dell'Illuminismo possono essere così sintetizzati:
fiducia nei poteri della ragione, strumento capace di risolvere tutti i
problemi dell'uomo; polemica contro il passato, “preistoria” del genere umano
cui deve succedere la vera storia, caratterizzata dalla razionalizzazione delle
istituzioni politiche e sociali e dall'abbandono dei pesanti fardelli imposti
dalla tradizione; fede religiosa razionale o “naturale” (deismo), che accetta
dalle varie confessioni storiche solo l'idea di una Ragione divina, che
soprintenda provvidenzialmente alle vicende del mondo; ricerca di una filosofia
che spieghi la conoscenza e la morale senza arbitrari presupposti metafisici;
interesse prevalente per la diffusione della cultura in genere e delle
conquiste della scienza in particolare, al fine di sconfiggere gli avversari
più irriducibili del progresso dell'umanità, individuati nell'intolleranza e
nell'oscurantismo.
Questo complesso
di disposizioni e di idee assunse accenti e toni particolari nelle singole
culture nazionali. In Inghilterra già Locke aveva
insegnato l'uso spregiudicato della riflessione critica, da lui applicata non
solo alla trattazione della gnoseologia, ma anche al problema religioso, che
egli risolse in senso deistico, e a quello dei limiti
del potere regio, che per lui, maestro del nascente liberalismo, diventa
esorbitante e illegittimo quando conculca i “diritti naturali” degli individui.
Dalle sottili analisi dello Shaftesbury (1671-1713)
nacque la morale del sentimento, secondo la quale alla base delle scelte etiche
non c'è un sistema di norme emanate dalla divina volontà e in generale l'etica
non esige necessariamente una religione a suo fondamento: esiste al contrario
in ogni uomo un sentimento morale autonomo e disinteressato. Berkeley (1685-1753) fu uno spirito profondamente
religioso, che combattendo con grande acume il materialismo e il “libertinismo” intellettuale dei nuovi filosofi, figli di un
secolo da lui giudicato corrotto, giunse a una posizione di paradossale
idealismo soggettivo: l'esistenza delle cose si risolve nel loro essere
percepite da una mente (esse est percipi). Su questa
radicale soluzione del problema del rapporto fra l'essere e il conoscere si innestò
la ricerca di Hume (1711- 1776), il più geniale
pensatore dell'Illuminismo inglese, che nel suo capolavoro, il Trattato della
natura umana (1738), privò il nesso causale di ogni dignità metafisica,
degradandolo ad associazione soggettiva di idee, fondata sull'abitudine e sulla
credenza, e pervenne, attraverso la dimostrazione dell'impossibilità per l'uomo
di oltrepassare in qualsiasi direzione l'esperienza, a uno scetticismo al tempo
stesso duttile e rigoroso, caratterizzato dall'accettazione delle tendenze
insopprimibili della natura umana e dalla tolleranza. Fra i continuatori e i
critici di Hume vanno ricordati A. Smith (1723-1790), autore del primo trattato scientifico di
economia politica, e il Reid (1710-1796), iniziatore
della cosiddetta “filosofia del senso comune”.
In Francia
l'Illuminismo si tenne il più possibile aderente ai problemi della società e
del costume, assunse spesso un tono marcatamente battagliero e venne così
elaborando il supporto ideologico della “grande rivoluzione”. Voltaire
(1694-1778) fu lo scrittore più ammirato del secolo, coscienza vivente di una
società in rapido sviluppo, campione della tolleranza religiosa, difensore
della libertà di critica, nemico di ogni dogmatica e chiusa sistemazione di
idee. Montesquieu (1689-1755) studiò il processo di
formazione storica delle leggi e teorizzò uno Stato fondato sulla divisione dei
poteri, tenendo d'occhio come modello la monarchia rappresentativa ormai
affermatasi in Inghilterra. In Francia, inoltre, nacque, per opera principalmente
di Diderot (1713-1784) e di d'Alembert
(1717-1783), la grande Enciclopedia, uno strumento approntato attraverso mille
difficoltà e resistenze per soddisfare l'esigenza tipicamente illuministica
della diffusione della cultura, intesa non solo come sistema di idee
filosofiche generali, ma anche come complesso di nozioni aggiornate nel campo
della letteratura, dell'arte e soprattutto della scienza e della tecnica. La
dottrina psicologica e gnoseologica di Locke fu
ripresa da Condillac, che nel suo Trattato delle
sensazioni (1754) volle dimostrare che tutto il complesso dei contenuti e delle
facoltà psichiche deriva dalla trasformazione delle sensazioni (sensismo). A
posizioni di materialismo assoluto, eccezionali e giudicate estremistiche anche
negli ambienti più avanzati dell'Illuminismo, pervennero il La Mettrie (1709-1751), che scrisse L'uomo macchina (1748), e
il barone d'Holbach (1723-1789), autore di un vasto
Sistema della natura (1770), redatto con la collaborazione del Diderot e del matematico Lagrange.
Vera originalità speculativa, nell'imponente schiera di scrittori e di filosofi
che può vantare l'Illuminismo francese, va tuttavia attribuita solo a Rousseau (1712-1778), il quale peraltro per molti aspetti è
già fuori dagli schemi intellettuali dell'epoca: alla ragione e alla società
civile, considerate come forze corruttrici, egli contrappose la purezza
dell'istinto e della natura incontaminata (Emilio, 1762) e, contemporaneamente,
ritenne necessaria una trasformazione della società, che ridesse in altre forme
all'uomo, ora divenuto schiavo, la libertà goduta nello “stato di natura”
(Contratto sociale, 1762). In Italia il diffondersi della cultura
illuministica, dopo il silenzio filosofico dell'età della Controriforma, segnò
anche il faticoso e travagliato reinserimento della penisola nella vita
spirituale dell'Europa. A parte il Vico, che fu certo influenzato dal nuovo
corso del pensiero europeo, ma sviluppò la sua ricerca in modo del tutto
autonomo e personale, fiorirono a Napoli numerosi storici, giuristi ed
economisti, che derivarono dalla filosofia del secolo, oltre a vari stimoli
particolari, una nuova consapevolezza dell'impegno civile dello scrittore.
Altro centro vitale della cultura illuministica in Italia fu Milano: alla
cerchia dei filosofi milanesi appartenne il Beccaria
(1738-1794), autore dell'unica opera dell'Illuminismo italiano che ebbe vera
rinomanza europea, il libro Dei delitti e delle pene (1764), tipica
manifestazione dell'umanitarismo settecentesco e critica acuta delle incongruenze
dei sistemi giudiziari e penali in uso nel tempo. In Germania l'Illuminismo si
manifestò sia nel razionalismo accademico di Wolff
(1679-1754), sia nell'attività dei cosiddetti filosofi “popolari”, meglio
inseriti nello spirito del secolo con i loro interessi mondani e la loro
vocazione umanistica. Il maggiore di essi fu il Lessing
(1729-1781), che sentì la verità come conquista perennemente rinnovantesi e concepì la storia del mondo come progressiva
educazione del genere umano. Il compito di una revisione critica dei poteri
dell'uomo, necessaria per stabilire i fondamenti del nuovo sapere scientifico e
per determinare il senso della nuova civiltà, fu infine intrapreso in Germania
da Kant, il filosofo più grande dell'età moderna.
Kant (1724-1804) con la sua “rivoluzione
copernicana” fondò sull'universalità delle forme a priori dell'io il valore
obiettivo della scienza, della morale e dell'esperienza estetica. La svolta
operata dalla filosofia “critica” con la sostituzione dell'idealismo
“trascendentale” alle gnoseologie empiristiche e alle metafisiche dogmatiche
rinnovò così profondamente la filosofia che quasi tutto il pensiero europeo tra
gli ultimi decenni del Settecento e la metà dell'Ottocento si manifestò come
revisione, elaborazione e sviluppo del kantismo.
L'identificazione della filosofia con la metafisica dell'io, o dello spirito, o
dell'idea, è il tratto comune dei rappresentanti dell'idealismo classico
tedesco, Fichte, Schelling
e, maggiore di tutti, Hegel. Fichte
(1762-1814) eliminò il cosiddetto caput mortuum della
cosa in sé kantiana e trasformò così la filosofia critica in una metafisica
dell'io assoluto. Tuttavia questo io universale è una realtà che non è, ma si
fa; e si fa, come è detto più chiaramente nella prima redazione della Dottrina
della scienza (1794), contrapponendo a se stesso il non- io, il mondo, come
ostacolo predisposto per l'attuazione della sua libertà. A questa riduzione del
mondo a strumento dell'infinito compito morale dell'io Schelling
(1775-1854) contrappose una visione vitalistico-romantica
della natura. L'assoluto non è l'io, ma l'identità di io e non-io, di spirito e
natura, dove la natura è intesa come “preistoria dello spirito” e lo spirito
come “natura invisibile”: questa unità indifferenziata non può essere colta che
da un'intuizione di tipo metalogico, e l'arte diventa
così l'organo della conoscenza filosofica. Hegel
infine (1770-1831) risolse l'antitesi idea-natura non in una identità
immediata, ma in un sapere logico-concettuale, e concepì l'unità del reale non
come data ab initio, ma
come realizzantesi attraverso un processo dialettico:
tutto ciò che è reale è razionale, Dio si identifica con il movimento
dell'idea, e la filosofia è la stessa storia del mondo depurata della sua
contingenza. A Kant si rifecero, seppure con
tutt'altro spirito, anche Schopenhauer (1788-1860) ed
Herbart (1776-1841), che ripresero la distinzione tra
“fenomeno” e “noumeno”, fondamentale nella filosofia critica. Il primo costruì
su tali premesse una metafisica pessimistica, che vede a fondamento del mondo
una volontà cieca e irrazionale, il secondo le sviluppò nella direzione di un
realismo scolastico, fecondo però di applicazioni nel campo della psicologia e
della pedagogia. I grandi pensatori della filosofia classica tedesca influirono
profondamente, con la loro concezione del diritto e dello Stato, anche sulla
formazione delle ideologie politiche dei secc. XIX e XX. Mentre Kant aveva limitato la funzione dello Stato alla tutela del
diritto, garanzia di quel bene supremo che è la libertà dei singoli, Fichte gli attribuì anche il compito di provvedere a che
tutti vivessero del proprio lavoro, giungendo a teorizzare, con la sua
concezione dello “Stato commerciale chiuso”, una sorta di autarchico socialismo
nazionale. Hegel infine vide nello Stato la forma più
alta della razionalità nel mondo oggettivo: esso è per lui lo “spirito
vivente”, il “Dio reale”, nel cui seno gli individui formano un tutto organico
di valore universale.
L'eredità di Hegel fu conservata e sviluppata da due scuole filosofiche,
note come “destra” e “sinistra” hegeliana. L'uso della terminologia
parlamentare allude all'orientamento conformistico e conservatore della prima,
particolarmente nelle questioni politico- religiose, e alla spregiudicatezza e
originalità tipiche della seconda. Nell'ambito di quest'ultima, sia pure
parzialmente, si formò Marx (1818-1883), che rovesciò la dialettica hegeliana,
movendo dal convincimento che non è la coscienza dell'uomo a determinare il suo
essere, ma che viceversa è l'“essere sociale” a determinare la coscienza. Al
conflitto delle idee si sostituisce così la lotta delle classi come forza
motrice della storia: la filosofia cessa di essere contemplazione
disinteressata della realtà, assume il compito di trasformare il mondo e si
identifica con lo spirito rivoluzionario. L'analisi scientifica delle
contraddizioni della società capitalistica, con la connessa dimostrazione del
necessario avvento del comunismo, distingue, secondo Marx, la sua dottrina
dalle costruzioni in larga misura arbitrarie dei socialisti “utopisti”.
Il criticismo e
l'idealismo classico tedesco fecondarono positivamente anche altre culture
filosofiche, in particolare quella francese e quella italiana. Nella prima ne
risultò una impostazione meno effusiva e più critica dei temi dello
spiritualismo tradizionale, mentre in Italia il superamento dell'influenza
sensistica fino ad allora prevalente condusse, dopo il tentativo del Galluppi (1770-1846) di approfondire e sviluppare alcuni
concetti del Reid, alle sistemazioni del Rosmini (1797-1855) e del Gioberti
(1801- 1852). Si formò in tal modo una filosofia in un certo senso “nazionale”,
caratterizzata dalla ricerca di una linea di equilibrio fra antico e nuovo, fra
ortodossia religiosa e apertura critica, fra rispetto della trascendenza ed
esigenze immanentistiche. Il Rosmini,
fondando la sintesi conoscitiva sull'essere ideale, ritenne di aver evitato il
soggettivismo, da lui ritenuto l'errore capitale di tutta la filosofia moderna,
mentre il Gioberti, dopo aver rivendicato con uguale
vigore il primato dell'ontologia sulla psicologia, vagheggiò una rinascita
italiana inserita nel rinnovamento di tutta la cattolicità.
Tuttavia
l'affermarsi del positivismo verso la metà del secolo segnò una fase di
momentaneo oscuramento di tutti gli altri indirizzi speculativi. Accanto al
motivo illuministicoromantico di una palingenesi
della società, provocata dal progresso trionfale della scienza, il positivismo
recava in sé l'esigenza di introdurre il metodo positivo anche nelle cosiddette
scienze dell'uomo. Così in Francia il Comte
(1798-1857) presentò nel Corso di filosofia positiva (1830-1842) una sua
interpretazione scientifica della storia, centrata sulla legge fondamentale che
regola lo sviluppo dell'umanità: tutte le conoscenze e tutte le istituzioni
passano per tre stati successivi, il primo teologico o fittizio, il secondo
metafisico o astratto, il terzo positivo o scientifico. In Inghilterra il
positivismo affrontò sul piano dell'etica individuale il tema del rinnovamento
della società, e l'utilitarismo del Bentham
(1748-1832) ebbe la funzione di raccordo fra il moralismo settecentesco e la
nuova età. J. Stuart Mill
(1806-1873) aderì all'utilitarismo, pur rifiutando l'“aritmetica morale” benthamiana, e lasciò nel suo Sistema di logica (1843)
un'analisi lucida e acuta del metodo induttivo. La tesi del biologo Darwin
(1809-1882) sull'evoluzione delle specie viventi, con i connessi concetti della
“lotta per la vita” e della “selezione naturale”, ebbe una straordinaria
rilevanza filosofica e finì per costituire una delle idee chiave delle varie
sistemazioni positivistiche, come quella monumentale
dello Spencer (1820-1903), imperniata sul concetto della spinta evolutiva che
anima tutta la realtà, dai corpi celesti alla società umana. In Germania il
positivismo si manifestò nelle sintesi materialistiche, spesso rozze e
arbitrarie, di scienziati che “civettavano” con la filosofia, come il Büchner (1824-1899) e lo Haeckel
(1834-1919), affrontando il compito dell'interpretazione unitaria dei risultati
raggiunti dalle varie scienze assegnato comunemente alla filosofia nella
sistemazione positivistica del sapere. In Italia
infine, dopo la vigorosa polemica antimetafisica e antispiritualistica del Cattaneo (1801-1869), il positivismo toccò la sua punta più
alta nell'evoluzionismo dell'Ardigò (1828-1920), che
innestò le nuove idee nella tradizione del nostro naturalismo rinascimentale.
Negli ultimi decenni del XIX sec. si
delineò la crisi del positivismo, la quale fu in primo luogo il risultato di
una revisione interna dei fondamenti del sapere scientifico e della conseguente
sfiducia nella capacità della scienza di fornire un'interpretazione unitaria e
totale della realtà. La filosofia tornò a presentarsi come la conoscenza
autentica e la testimonianza privilegiata di una dimensione del mondo
inaccessibile alla scienza. Sul presupposto che l'interiorità della coscienza
attesti la preminenza sui fatti naturali di una realtà assoluta di ordine
spirituale rinacque lo spiritualismo, che fu fiorente in Francia, dove vantava
oltre tutto illustri precedenti e una tradizione pressoché ininterrotta. Dalla
scoperta della libertà e della “contingenza” della natura giunse a posizioni
spiritualistiche il Boutroux (1845-1921); Blondel (1861-1949) sviluppò in una sorta di nuova
apologetica le implicazioni religiose dell'azione, movimento dello spirito
verso Dio; Bergson (1859-1941) esercitò un influsso
vastissimo col suo antintellettualismo, la sua critica
dell'illusione meccanicistica e il suo intuizionismo. Il motivo della
derivazione della scienza dalla radice dell'interesse pratico e vitale, con la
conseguente negazione dell'autonomia del momento teoretico, è alla base del
pragmatismo, che conobbe peculiare fortuna nella cultura anglosassone, in
particolare con W. James
(1842-1910) e con il Dewey (1859-1952), uno dei più grandi pensatori dell'età
moderna e perciò non facilmente riconducibile entro i limiti di una scuola, del
quale hanno avuto rilevanza del tutto particolare le ricerche di logica e di
pedagogia. Nella nuova atmosfera culturale si riprese coscienza, dopo le
incomprensioni e le superficiali liquidazioni di parte positivistica,
della vitalità non esaurita della filosofia classica tedesca, in particolare
del pensiero di Kant e di Hegel.
Si ebbero così un neokantismo e un neohegelismo, il primo fiorito soprattutto in Germania e in
Francia, il secondo in Inghilterra e in Italia. Al neohegelismo
appartengono i due maggiori filosofi del Novecento italiano, Croce (1866-1952)
e Gentile (1875- 1944): peraltro, se la radicale riduzione della realtà ad atto
del pensiero (attualismo) operata dal secondo può essere intesa come una
revisione e uno sviluppo interno dell'idealismo classico tedesco, la filosofia crociana, profondamente permeata del senso
dell'individualità e della distinzione, risente di ispirazioni culturali più
varie e più mediate.
LA FILOSOFIA
CONTEMPORANEA
Quasi tutte le
correnti e le personalità sommariamente ricordate qui sopra occupano con la
loro presenza i primi decenni del XX sec. e giungono in alcuni casi fino alle
soglie dei nostri giorni. Tuttavia altri sono gli orientamenti che agiscono da
protagonisti sulla scena agitata della filosofia contemporanea. Il metodo fenomenologico proposto da Husserl
(1859-1938), in forza del quale la filosofia diventa una scienza contemplativa
e descrittiva delle strutture permanenti della realtà, sembra essere, col suo
disimpegno programmatico e con la sua avversione per le sintesi partigiane e semplificatrici,
uno dei comuni denominatori del pensiero contemporaneo. Col suo ausilio sono
già state condotte le tormentate analisi dell'esistenzialismo, la filosofia
fiorita fra le due guerre mondiali come testimonianza di una nuova
consapevolezza della precarietà dell'uomo e dell'insignificanza della storia. Kierkegaard (1813-1855), il filosofo danese avversario del
razionalismo hegeliano in nome del singolo e della sua irriducibile “angoscia”
esistenziale, e Nietzsche (1844-1900), il teorico
dell'accettazione eroica della vita, che è dolore, lotta e crudeltà, sono gli
antecedenti storici esplicitamente richiamati dai due maggiori rappresentanti
dell'esistenzialismo tedesco, Heidegger e Jaspers. Nel secondo dopoguerra Sartre
ha ripreso con vigore originale alcuni dei loro temi fondamentali, tentandone
anche un'integrazione col marxismo, mentre la cultura francese aveva fino ad
allora coltivato, con Marcel, Le Senne, Lavelle, una filosofia dell'esistenza di intonazione
spiritualistica e teologizzante, più sensibile alla tradizione del colloquio
intimo pascaliano che al rigore dell'analisi fenomenologica. una versione “positiva”
dell'esistenzialismo, nel senso che essa non include lo scacco e il fallimento
come momenti necessari dell'esistenza, è quella svolta in Francia da Merleau Ponty e in Italia da Abbagnano. Accanto alla fenomenologia e all'esistenzialismo
la terza linea dominante individuabile nella filosofia contemporanea è
rappresentata dal neopositivismo o positivismo logico, nel quale confluiscono i
risultati della “critica della scienza” iniziata da Mach (1838-1916) e da Poincaré (1854-1912), dello sviluppo critico interno della
matematica e della fisica, dell'elaborazione della nuova logica simbolica. Il
positivismo logico, penetrato profondamente dall'Europa nella cultura
americana, si caratterizza, nella grande varietà e mutevolezza di atteggiamenti
dei suoi seguaci, fra i quali il più geniale è stato Wittgenstein
(1889-1951), per una tesi radicale: la riduzione della filosofia ad analisi del
linguaggio della scienza e a “terapia” del linguaggio comune, con il fine
specifico di dimostrare l'origine verbalistica e la
sostanziale inconsistenza dei problemi tradizionali della filosofia. Alla
“svolta linguistica” così determinatasi si ricollega l’ermeneutica, cioè la
disciplina filosofica che ha il compito di spiegare le possibilità del
comprendere e di interpretare l’uomo e il suo mondo soprattutto attraverso il
linguaggio; suoi esponenti principali sono: il tedesco Hans
Georg Gadamer secondo il
quale “il mondo si costituisce nel linguaggio”, il francese Paul
Ricoeur e l’italiano Luigi Pareyson.
Anche la filosofia
analitica si riallaccia al dibattito sulla linguistica: la spiegazione
filosofica del pensiero si può raggiungere solo attraverso la spiegazione
filosofica del linguaggio.
Una critica al
neopositivismo proviene invece da Karl Popper (1902-1994), secondo il quale solo gli enunciati
verificati dall’esperienza risultano sensati, ma comunque provvisori. La
scienza deve procedere per congetture e confutazioni, imparando dai propri
errori. Thomas Kuhn (1922),
storico della scienza statunitense, distingue periodi di scienza normale, nei
quali i modelli scientifici non sono messi in discussione, dai periodi di
frattura rivoluzionaria nei quali i paradigmi dominanti cambiano e sono quindi
modificati i metodi della pratica scientifica. Questa teoria basata su fattori
socio-psicologici e spesso irrazionali, è contestata da Imre
Lakatos (1922-1974), il quale sostiene che il
progresso scientifico si attua mediante seri programmi di ricerca; Paul Feyerabend difende invece
l’irrazionalità della scienza e propugna l’anarchismo metodologico.
Un’altra corrente
del pensiero filosofico contemporaneo è lo strutturalismo, sorto in Francia per
opera di Ferdinand de Saussure
(1857- 1913); esso assume nei confronti dei fatti sociali una prospettiva
assolutamente oggettiva, e si propone di studiarli rappresentandoli attraverso
modelli per scoprire quali relazioni sistemiche e costanti – strutturali –
intercorrono fra i fenomeni sociologici. Il dibattito sullo strutturalismo è
proseguito fino ai nostri giorni, suoi principali esponenti sono: lo
psicoanalista francese Jacques Lacan
(1901-1981), l’antropologo Claude Lévi-Strauss
(1908), Michel Foucault
(1926-1984), Louis Althusser
(1918-1990) e Jacques Derrida
(1930) che si pone nel post-strutturalismo, in altre parole oltre il concetto
di struttura.
I recenti
avvenimenti storici e gli sviluppi della democrazia contemporanea concorrono
alla nascita delle cosiddette teorie etiche rappresentate dal filosofo e
sociologo tedesco Jurgen Habermas
(1929), che denuncia la fittizia partecipazione dei cittadini nella vita
politica nei sistemi tardocapitalistici, e dal
filosofo statunitense John Rawls (1921).
L’epoca di fine
millennio è infine definite da Jean- Fraçois Lyotard (1924) come
postmoderna. La crisi delle grandi ideologie comporta la revisione di criteri
di giudizio globalizzanti.
Negli ultimi anni,
la nascita di singole discipline scientifiche come ad esempio la psicologia
sperimentale, la cosmologia e le neuroscienze, ha
sottratto alla filosofia campi di ricerca che un tempo le erano propri e che
ora sono sviluppati in ambiti diversi. D’altro canto la filosofia, proprio per
la sua capacità di dialogo con altre discipline, appare in ogni modo il punto
di partenza e di snodo tra saperi diversi. Interessante ad esempio, il rapporto
con le nuove tecnologie comunicative e informatiche. La multimedialità
e le realtà virtuali, che sviluppano nuovi linguaggi in parte ancora
sconosciuti e le cui possibilità future sono imprevedibili, costituiscono la
sfida futura più densa di significati cui la filosofia di fine millennio va
incontro.
VALORE DELLA
FILOSOFIA
La filosofia non è
legata a nessuna tecnica e non mira a nessun fine pratico determinato: per
questo suo carattere essa appare oggi a molti come una sopravvivenza
anacronistica, in un'epoca in cui lo sviluppo applicativo delle conoscenze è
perseguito non solo nel campo delle scienze fisiche, ma anche in quello delle
scienze dell'uomo. Se mai accada oggi, all'uomo inchiodato al proprio lavoro e
tutto integrato nella società, di conservare un qualche interesse per i
problemi cosiddetti universali, egli si rimette per la soluzione di essi o alla
tradizione, o alla scelta casuale. Pure, se una tale tendenza dovesse (e
potesse) universalizzarsi, l'umanità, con tutti i suoi prodigiosi progressi
scientifici e tecnici, rischierebbe di tornare a quello stadio delle società
primitive nel quale la tecnica, completamente dimentica del suo significato e
divenuta ripetizione rituale, condanna l'uomo a una inerte stagnazione. Per
questo la filosofia è più che mai necessaria, purché naturalmente se ne intenda
in modo corretto la funzione. Essa viene identificata talvolta con lo spirito
sistematico, e appare allora giustamente come un'impresa futile, dal momento
che la storia ci attesta il crollo immancabile dei vari sistemi, uno dopo
l'altro. La filosofia autentica non risiede in queste costruzioni più o meno
fragili, ma per così dire nel movimento che ha condotto a esse. Il fatto stesso
che lo sviluppo delle scienze particolari abbia ormai sottratto alla filosofia
ogni oggettivo territorio di indagine aiuta a riscoprire la sua essenza genuina
e le ragioni della sua insopprimibilità. Come è
irragionevole chiedere oggi alla filosofia risposte che solo la psicologia e la
sociologia possono dare in forma documentata e attendibile, lo è almeno
altrettanto aspettarsi dalle scienze una qualunque indicazione valida sul senso
del nostro essere al mondo. Si concluda pure che un senso non c'è e che simili
problemi mal posti non hanno soluzioni possibili: resta il fatto che la
filosofia è la condizione dell'essere coinvolto in un tale processo
problematico. Ciò che permane indistruttibile, dietro l'inevitabile precarietà
delle varie risposte, è la tensione di una coscienza che domanda e ricerca. La
filosofia, ha detto Bergson, ci guarisce per sempre
dalla tentazione di cercare nel “quaderno del maestro” la risposta a ciò che
hanno di più intimamente problematico l'esistenza del mondo e la nostra.