M.Baigent - R.Leigh
H.Lincoln
IL SANTO GRAAL
Una .catena di misteri lunga
duemila anni
OSCAR SAGGI MONDADORI
ri^
Michael Baigent Richard
Leigh Henry Lincoln
II santo Graal
Traduzione di Roberta
Rambelli
Arnoldo Mondadori Editore
© 1982 by Michael Baigent, Richard Leigh and Henry Lincoln
Jonathan Cape Ltd, 30 Bredford
Square, London WCI
© 1982 Arnoldo Mondadori
Editore S.p.A., Milano
Titolo originale dell'opera:
The Holy Blood and thè Holy Grail
I edizione Ingrandimenti giugno 1982 I edizione Oscar Arcana
agosto 1984
ISBN 88-04-38609-6
Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore
S.p.A. Stabilimento di Verona Stampato In Italia - Printed in Italy
Ristampe:
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1999
La prima edizione Oscar saggi è stata pubblicata in concomitanza
con la nona ristampa di questo volume
Il Santo Graal
Introduzione
Nel 1969, mentre mi stavo recando nelle Cévennes per trascorrervi
le vacanze estive, acquistai per puro caso un tascabile. Le trésor maudit di
Gerard de Sède era un giallo: un gradevole prodotto d'evasione che mescolava
dati storici, autentici elementi di mistero e molte congetture. Probabilmente
il libro sarebbe finito nel dimenticatoio, dopo le vacanze, come tutte le
letture di quel genere, se nelle sue pagine non mi fossi imbattuto in una
strana e clamorosa omissione.
Il « tesoro maledetto » del titolo era stato ritrovato, a quanto
pareva, poco dopo il 1890, da un parroco di paese, grazie alla decifrazione di
certi documenti enigmatici riesumati nella sua chiesa. Sebbene nel libro
fossero riprodotti i presunti testi di due di questi documenti, i « messaggi
segreti » che si diceva vi fossero inclusi non erano riprodotti nel libro.
Sembrava sottinteso che i messaggi decifrati fossero già andati perduti.
Tuttavia, come ebbi modo di constatare, uno studio superficiale dei documenti
riprodotti nel libro rivela almeno un messaggio celato. Sicuramente, l'autore
lo aveva scoperto. Mentre lavorava al suo libro, doveva aver dedicato ai
documenti qualcosa di più di un'attenzione fuggevole. Quindi, doveva aver
trovato quel che avevo trovato io. E per giunta il messaggio era esattamente
quel tipo di allettante frammento di « prova » adattissimo a incentivare le
vendite di un tascabile « popolare ». Perché de Sède non l'aveva pubblicato?
Nei mesi che seguirono, la stranezza della vicenda e la possibilità
di effettuare altre scoperte richiamarono più volte il mio interesse. La
storia aveva il fascino di un cruciverba straordinariamente
complicato - e in più m'incuriosiva lo strano silenzio di de Sède.
Via via che intravedevo nuovi significati tentatori sepolti nel testo dei
documenti, mi auguravo di poter dedicare all'enigma di Rennes-le-Chàteau
qualcosa di più dei pochi momenti liberi sottratti alla mia attività di autore
televisivo. Perciò, verso la fine dell'autunno 1970, presentai la vicenda come
tema per una proposta di documentario a Paul Johnstone, che era allora il
produttore del programma storico e archeologico della BBC, « Chronicle ».
Paul intuì le possibilità di quella realizzazione, e io fui
inviato in Francia per parlare con de Sède e sondare le prospettive per un
breve documentario. Nella settimana di Natale del 1970 m'incontrai con de Sède
a Parigi. Durante quel primo colloquio, gli sottoposi l'interrogativo che mi
assillava da più di un anno: « Perché non ha pubblicato il messaggio celato
nelle pergamene? ». La risposta di de Sède mi sbalordì: « Quale messaggio?».
Mi sembrava inconcepibile che non si fosse accorto di quel
messaggio elementare. Perché cercava di eludere la mia domanda?
All'improvviso, mi passò dalla mente l'impulso di rivelare esattamente quello
che avevo scoperto. Per diversi minuti continuammo una schermaglia verbale
caratterizzata da reticenze. Era evidente che entrambi conoscevamo il
messaggio. Io ripetei la domanda: « Perché non l'ha pubblicato? ». Questa volta
la risposta di de Sède fu calcolata: « Perché pensavamo che qualcuno come lei
avrebbe preferito scoprirlo da sé ».
Quella risposta, enigmatica quanto i misteriosi documenti del
parroco, era il primo chiaro indizio che il mistero di Rennes-le-Chàteau era
destinato a rivelarsi ben più di una semplice vicenda di tesori perduti.
Insieme al mio regista, Andrew Maxwell-Hyslop, incominciai a
preparare un documentario per la serie « Chronicle » nella primavera del 1971.
Secondo le previsioni doveva essere breve, una ventina di minuti, per inserirlo
in un « rotocalco » televisivo. Ma mentre stavamo lavorando, de Sède incominciò
a fornirci altre informazioni frammentarie. Per primo arrivò il testo integrale
di un importante messaggio in codice, che parlava dei pittori Poussin e
Teniers. Era affascinante. La cifra era incredibilmente complessa. Ci venne
comunicato che era stata decifrata da esperti dell'Ufficio cifra dell'esercito
francese, per mezzo dei computer. Ma,
studiando quel codice così complicato, mi convinsi che quella
spiegazione era a dir poco sospetta. Consultai alcuni specialisti di cifrari
del Servizio segreto britannico. Furono d'accordo con me: « La cifra non presenta
un problema valido per un computer ». Il codice era indecifrabile. Quindi
qualcuno, chissà dove, ne possedeva la chiave.
Poi de Sède scagliò la seconda bomba. Era stata scoperta una tomba
simile a quella raffigurata nel celebre quadro di Poussin, Les bergers
d'Arcadie (I pastori d'Arcadia). De Sède promise di inviare altri
^particolari, « non appena li avesse avuti ». Pochi giorni dopo arrivarono le
fotografie, e apparve evidente che il nostro breve servizio televisivo su un
piccolo « mistero » locale aveva incominciato ad assumere dimensioni inattese.
Paul decise di lasciar perdere il progetto, e ci commissionò invece un documentario
di lunghezza regolare. Così, avremmo avuto più tempo per le ricerche, e la
maggiore durata del filmato ci avrebbe permesso di approfondire la vicenda. La
trasmissione fu rimandata alla primavera dell'anno successivo.
The Lost Treasure of Jerusalem? (Il tesoro perduto di Gerusalemme?)
andò in onda nel febbraio 1972, e provocò un notevole scalpore. Mi ero reso
conto di aver trovato un tema appassionante, non soltanto per me ma anche per
un grandissimo numero di telespettatori. Un'ulteriore ricerca non sarebbe stata
un capriccio personale. Prima o poi, il documentario avrebbe dovuto avere un
seguito. Nel 1974 avevo raccolto una quantità di materiale nuovo; e Paul
incaricò Roy Davies di produrre il mio secondo documentario per « Chronicle »,
The Prìest, thè Pointer and thè Devii (II prete, il pittore e il
diavolo). Ancora una volta, la reazione del pubblico dimostrò che la vicenda
aveva colpito la fantasia popolare. Ma ormai era diventata così complessa,
così ramificata, che io mi rendevo conto che la ricerca approfondita esorbitava
dalle possibilità di una persona sola. Le piste da seguire erano troppe. Più
seguivo una linea d'indagine, e più mi accorgevo dell'enorme massa di materiale
che ero costretto a trascurare. In quel momento critico, il Caso, che con
tanta disinvoltura mi aveva buttato sulle ginocchia quella storia, fece in modo
che il lavoro non finisse insabbiato.
Nel 1975, in un corso estivo dove entrambi tenevamo lezioni su
vari aspetti della letteratura, ebbi la fortuna di conoscere
Richard Leigh. Richard è un romanziere e novellista, specializzato in
letteratura comparata, e ha una profonda conoscenza della storia, della
filosofìa, della psicologia e dell'esoterismo. Per diversi anni era stato
docente universitario negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna.
Tra una lezione e l'altra, passavamo ore e ore a discutere di
argomenti che interessavano entrambi. Io accennai ai Cavalieri Templari, che
avevano assunto un ruolo importante sullo sfondo del mistero di
Rennes-le-Chàteau. Con mia grande gioia, scoprii che quell'enigmatico ordine di
monaci-guerrieri medievali aveva già suscitato l'interesse più profondo di
Richard, il quale aveva svolto ricerche considerevoli sulla loro storia. Come
per magia, i lunghi mesi di lavoro che vedevo prospettarsi davanti a me diventarono
superflui. Richard era in grado di rispondere a quasi tutti i miei
interrogativi, ed era affascinato non meno di me da alcune delle evidenti
anomalie che io avevo scoperto. E soprattutto, anche lui si rendeva conto del
significato della ricerca da me intrapresa. Si offrì di aiutarmi per quanto
riguardava i Templari. E coinvolse Michael Baigent, un laureato in psicologia
che recentemente aveva abbandonato una fortunata carriera nel campo del
giornalismo fotografico per effettuare ricerche sui Templari, in vista di un
progetto cinematografico che aveva in mente.
Se avessi deciso di cercarli, non avrei potuto trovare due collaboratori
più qualificati e congeniali. Dopo anni di fatiche solitàrie, lo slancio
apportato dal loro intervento fu esaltante. Il primo risultato concreto della
nostra collaborazione fu il terzo documentario della serie « Chronicle » su
Rennes-le-Chàteau, The Shadow ofthe Templars (L'ombra dei Templari),
prodotto da Roy Davies nel 1979.
Il lavoro che svolgemmo per realizzare il documentario ci portò
finalmente di fronte alle fondamenta del mistero di Rennes-le-Chàteau. Ma il
documentario si limitava ad accennare ciò che stavamo incominciando a scoprire.
Sotto la superficie c'era qualcosa assai più sorprendente, significativo e
clamoroso di quanto avremmo ritenuto possibile quando avevamo incominciato a
lavorare sul « piccolo, affascinante mistero » relativo a ciò che un prete
francese poteva aver trovato in un paesino di montagna.
io
Nel 1972 avevo concluso il primo documentario con queste parole: «
Qualcosa di straordinario attende di essere scoperto... e sarà scoperto in un
futuro non troppo lontano ».
Questo libro spiega che cos'è questo « qualcosa » - e mostra
quanto sia stata straordinaria la scoperta.
H.L. 17 gennaio 1981
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Carta 1 Le principali
località dell'indagine in Francia.
Parte prima
II mistero
I II
villaggio del mistero
All'inizio della nostra ricerca non sapevamo esattamente che cosa
stavamo cercando - anzi, non sapevamo neppure che cosa avevamo sotto gli
occhi. Non avevamo teorie e non facevamo ipotesi: non eravamo partiti con lo
scopo di provare qualcosa. Al contrario, stavamo semplicemente cercando di
trovare la spiegazione di un piccolo, bizzarro enigma della fine del secolo
XIX. Le conclusioni che finimmo per raggiungere non erano prestabilite. Ci
arrivammo passo a passo, come se le prove che andavamo accumulando avessero un
loro spirito d'iniziativa e ci guidassero.
Eravamo convinti, in principio, di trovarci alle prese con un
mistero locale - senza dubbio avvincente, ma di portata sostanzialmente limitata,
circoscritta a un paesino della Francia meridionale. All'inizio pensavamo che
il mistero, sebbene coinvolgesse molti affascinanti fattori storici, avesse un
interesse soprattutto accademico. Credevamo che la nostra indagine potesse
contribuire a illuminare certi aspetti della storia dell'Occidente; ma non
prevedevamo certo che imponesse di riscriverli completamente. E meno ancora
potevamo prevedere che quanto avremmo scoperto avrebbe avuto un autentico
interesse contemporaneo, addirittura un interesse esplosivo.
La nostra cerca — poiché fu veramente una « cerca » — ebbe inizio
con una vicenda più o meno semplice e lineare. A prima vista, non era troppo
diversa da tante altre « storie di tesori » e da tanti « misteri insoluti » che
abbondano nelle cronache e nel folklore di quasi tutte le zone rurali. Una
versione era stata pubblicata in Francia, dove aveva suscitato un
considerevole interesse
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ma - a quanto ne sapevamo noi a quel tempo - non aveva avuto
conseguenze sensazionali. Come apprendemmo in seguito, tale versione conteneva
diversi errori. Per il momento, comunque, dobbiamo riferire la vicenda così
come fu pubblicata durante gli anni Sessanta, e come venimmo a conoscerla
all'inizio.1
Rennes-le-Chàteau e
Bérenger Saunière
II 1° giugno 1885 nel minuscolo villaggio di Rennes-le-Chàteau
arrivò il nuovo parroco. Il curato si chiamava Bérenger Saunière.2 Era
un uomo robusto, bello, energico e, sembra, molto intelligente; aveva
trentatrè anni. In seminario, era parso destinato a una carriera ecclesiastica
promettente: senza dubbio, almeno a qualcosa di più importante della cura
delle anime di un paesino sperduto nei Pirenei orientali. Tuttavia, a un certo
momento Saunière cadde in disgrazia agli occhi dei superiori. Non si sa con
certezza che cosa avesse fatto - ammettendo che avesse fatto qualcosa - ma le
sue prospettive di avanzamento vennero stroncate. Forse fu per sbarazzarsi di
lui che i superiori lo mandarono nella parrocchia di Rennes-le-Chàteau.
A quei tempi, Rennes-le-Chàteau contava soltanto duecento
abitanti. Era un piccolo villaggio appollaiato in vetta a una collina scoscesa,
a una quarantina di chilometri da Carcassonne. Per un altro, quel luogo sarebbe
stato forse un esilio: la relegazione a vita in uno sperduto angolo di
provincia, lontano dagli agi della civiltà del tempo e da ogni stimolo per una
mente viva e indagatrice. Senza dubbio, fu un brutto colpo per l'ambizione di
Saunière. Tuttavia, qualche compensazione c'era. Saunière era di quella zona,
perché era nato e cresciuto a pochi chilometri da lì, nel paesetto di
Montazels. Quindi, nonostante i suoi difetti, Rennes-le-Chàteau doveva essere
un po' come casa sua, e doveva offrirgli la familiarità dei suoi ricordi
d'infanzia.
Tra il 1885 e il 1891 il reddito medio di Saunière, in franchi
francesi, equivaleva a sei sterline l'anno: tutt'altro che cospicuo, era
tuttavia quello che ci si poteva aspettare per un curato di campagna nella
Francia del tardo secolo XIX. Sembra che, unitamente alle offerte dei
parrocchiani, questa somma fosse sufficiente - per sopravvivere, se non per
concedersi dei lussi. In quei sei
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anni, a quanto pare, Saunière visse un'esistenza abbastanza piacevole
e tranquilla. Andava a caccia e a pesca tra le montagne e in fiumicelli della
sua infanzia. Era un lettore accanito: si perfezionò nello studio del latino,
imparò il greco, cominciò a studiare l'ebraico. Come governante, aveva assunto
una contadina diciottenne, Marie Denarnaud, che sarebbe diventata la compagna e
la confidente di tutta la sua vita. Spesso faceva visita a un amico, l'abate
Henri Boudet, curato del vicino villaggio di Rennes-les-Bains. E sotto la guida
di Boudet cominciò a occuparsi della storia turbolenta di quella regione: una
storia le cui testimonianze erano sempre presenti intorno a lui.
Pochi chilometri a sud-est di Rennes-le-Chàteau, ad esempio, sorge
un'altra vetta, chiamata Bézu e sovrastata dalle rovine di una fortezza
medievale che aveva ospitato una comunità dei Cavalieri Templari. Su una terza
cima, a meno di due chilometri da Rennes-le-Chàteau, si trovano le rovine del
castello di Blanche-fort, dimora avita di Bertrand de Blanchefort, quarto Gran
maestro dei Templari, che aveva presieduto il famoso Ordine intorno alla metà
del XII secolo. Rennes-le-Chàteau e i suoi dintorni erano situati sull'antico
percorso dei pellegrini, che portava dall'Europa settentrionale a Santiago di
Compostela in Spagna. E l'intera regione era satura di leggende suggestive,
dagli echi di un passato vivo, drammatico e spesso sanguinoso.
Da diverso tempo, Saunière aveva progettato di restaurare la
chiesa di Rennes-le-Chàteau. Consacrato alla Maddalena nel 1059, l'edificio
fatiscente sorgeva sulle fondamenta di una struttura visigota ancora più
antica, risalente al VI secolo. Alla fine del secolo XIX, cosa tutt'altro che
sorprendente, era in uno stato di sfacelo quasi irrimediabile.
Nel 1891, incoraggiato dall'amico Boudet, Saunière iniziò un
modesto restauro, prendendo a prestito una piccola somma dai fondi comunali.
Durante i lavori, rimosse la mensa dell'altare che poggiava su due antichi
pilastri visigoti. Uno dei pilastri era cavo. All'interno, il curato rinvenne
quattro pergamene, conservate entro cilindri di legno sigillati. Due delle
pergamene, a quanto si dice, contenevano genealogie: una portava la data del
1244, l'altra quella del 1644. Gli altri due documenti erano stati stilati
intorno al 1870 da un predecessore di Saunière, l'abate Antoine Bigou,
17
curato di Rennes-le-Chàteau. Bigou era stato cappellano dei
Blanchefort, i quali, alla vigilia della Rivoluzione francese, figuravano
ancora tra i principali proprietari terrieri della zona.
Le due pergamene che risalivano al tempo di Bigou sembravano pii
testi latini, brani del Nuovo Testamento. Almeno in apparenza. Ma su una delle
pergamene le parole sono scritte incoerentemente tutte di seguito, senza spazi
intermedi, e vi sono inserite numerose lettere del tutto superflue. E sulla
seconda pergamena le righe sono troncate indiscriminatamente, in modo
irregolare, qualche volta addirittura a metà di una parola, mentre certe
lettere appaiono vistosamente rialzate rispetto alle altre. In realtà, queste
pergamene formano una sequenza di cifre o di codici molto ingegnosi. Alcuni
sono incredibilmente complessi e imprevedibili: sfidano persino i computer, e
sono insolubili se non si possiede la chiave indispensabile. La decifrazione
che segue è apparsa in varie opere francesi dedicate a Rennes-le-Chàteau e in
due dei nostri documentari realizzati per la BBC.
BERGERE
PAS DE TENTATION QUE POUSSIN TENIERS GARDENT LA CLEF PAX DCLXXXI PAR LA CROIX
ET CE CHEVAL DE DIEU J'ACHE-VE CE DAEMON DE GARDIEN A MIDI POMMES BLEUES.
(PASTORA, NESSUNA
TENTAZIONE. CHE POUSSIN, TENIERS, DETENGONO LA CHIAVE: PACE 681. PER LA CROCE
E QUESTO CAVALLO DI DIO, IO COMPIO - O ANNIENTO - QUESTO DEMONE DI GUARDIANO
A MEZZOGIORNO. MELE AZZURRE.)
Ma se alcune delle cifre sono sconcertanti per la loro complessità,
altre sono evidentemente, addirittura clamorosamente ovvie. Nella seconda
pergamena, ad esempio, le lettere rialzate, prese in sequenza, formano un
messaggio coerente:
A
D AGOBERTIIROI ET A SION EST CE TRESOR ET IL EST LA MORT.
(A RE DAGOBERTO II E A SION
APPARTIENE QUESTO TESORO ED EGLI È LÀ MORTO.)
Sebbene questo particolare messaggio dovesse risultare comprensibile
a Saunière, è molto dubbio che egli potesse aver decifrato i codici più
complicati. Tuttavia, il curato si rese conto di essersi imbattuto in qualcosa
d'importante e, con il consenso del sindaco del villaggio, portò i documenti
scoperti al suo superiore, il vescovo di Carcassonne. Non si sa che cosa ne
capisse il vescovo;
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tuttavia Saunière venne immediatamente inviato a Parigi- a spese
del vescovo stesso - con l'ordine di presentare le pergamene a certe importanti
autorità ecclesiastiche. Il più illustre era l'abate Bieil, direttore generale
del Seminario di Saint Sulpice; inoltre, c'era il nipote di Bieil, Émile
Hoffet. A quel tempo Hoffet studiava per diventare sacerdote. Sebbene avesse
passato da poco i vent'anni, s'era già fatto un'imponente fama di erudito,
soprattutto nel campo della linguistica, della crittografia e della paleografia.
Nonostante la vocazione pastorale, si sapeva che aveva propensioni per il
pensiero esoterico, e manteneva rapporti cordiali con i vari gruppi occultisti,
le varie sette e società segrete che allora proliferavano nella capitale
francese. Era in contatto con un circolo culturale illustre, che includeva
letterati come Stéphane Mallar-mé e Maurice Maeterlinck e il compositore Claude
Debussy. Conosceva anche Emma Calve, che al tempo dell'arrivo di Saunière, era
appena ritornata da una trionfale tournée a Londra e Windsor. Emma Calve era la
Maria Callas dei suoi tempi, ma era anche una somma sacerdotessa della
subcultura esoterica parigina, e aveva legami sentimentali con diversi
occultisti influenti.
Dopo essersi presentato a Bieil e Hoffet, Saunière trascorse tre
settimane a Parigi. Non si sa che cosa accadesse durante i suoi colloqui con
gli ecclesiastici. Si sa comunque che il parroco di campagna fu subito accolto
a braccia aperte nel raffinato circolo di Hoffet. Si è addirittura affermato
che diventò l'amante di Emma Calve. I pettegolezzi contemporanei parlavano di
una relazione tra i due, e un conoscente della cantante dichiarò che lei era «
ossessionata » dal curato. In ogni caso, è certo che tra i due si stabilì
un'amicizia intima e duratura. Negli anni successivi, la Calve si recò spesso a
far visita a Saunière nei pressi di Rennes-le-Chàteau, dove, ancora in tempi
recenti, si potevano vedere romantici cuori con le loro iniziali incisi sulle
rocce della montagna.
Durante il soggiorno a Parigi, Saunière passò anche diverso tempo
al Louvre. Forse questo si collega al fatto che, prima di partire, si procurò
le riproduzioni di tre quadri. Sembra che uno fosse un ritratto, eseguito da un
autore non identificato, di papa Celestino V, che regnò per un breve periodo
verso la fine del secolo XIII. Un altro era un'opera di David Teniers, anche se
non è chiaro di quale dei due pittori dallo stesso nome si trattasse, il
19
padre o il figlio.3 Il terzo era forse il famosissimo
quadro diNicolas Poussin, Les bergers d'Arcadie.
Ritornato a Rennes-le-Chateau, Saunière proseguì i restauri della
chiesa. Durante i lavori, esumò una lapide bizzarramente scolpita che risaliva
al VII o alI'VIII secolo e che forse copriva una cripta, una camera sepolcrale
nella quale, si dice, furono trovati alcuni scheletri. Inoltre, Saunière si
dedicò ad attività assai più singolari. Ad esempio, nel camposanto c'era il
sepolcro di Marie, marchesa d'Hautpoul de Blanchefort. La lapide e la pietra
tombale erano state disegnate e installate dall'abate Antoine Bigou, che era
stato il parroco di Rennes-le-Chàteau un secolo prima e che a quanto pareva
aveva composto due delle misteriose pergamene. L'iscrizione della lapide - che
includeva numerosi errori voluti nella spaziatura e nell'ortografia - era un
perfetto anagramma del messaggio celato nelle pergamene che alludevano a
Poussin e Teniers. Se si ridispongono le lettere, queste formano l'enigmatica
affermazione, riportata più sopra, che allude a Dagoberto e a Sion (v.p. 18); e
gli errori sembrano inseriti di proposito per servire da guida.
Non sapendo che le iscrizioni sulla tomba della marchesa erano già
state copiate, Saunière le cancellò. E questa profanazione non fu la sua unica
stranezza. Accompagnato dalla fedele governante, cominciò a fare lunghe
camminate nella campagna circostante, raccogliendo pietre apparentemente prive
di valore e d'interesse. Inoltre, iniziò un voluminoso scambio di lettere con corrispondenti
sconosciuti che risiedevano un po' dovunque, in Francia, in Germania, Svizzera,
Italia, Austria e Spagna. Cominciò a raccogliere una quantità di francobolli
del tutto privi di valore. E intavolò misteriose transazioni con varie banche.
Una di queste mandò addirittura un rappresentante da Parigi a
Rennes-le-Chàteau, al solo scopo di occuparsi degli affari di Saunière.
Solo per la posta, Saunière stava già spendendo somme cospicue,
che non avrebbe certo potuto permettersi con il suo reddito annuo di un tempo.
Poi, nel 1896, cominciò a spendere a piene mani: quando morì, nel 1917, il
totale delle spese da lui sostenute equivaleva a diversi milioni di sterline.
Una parte di questa ricchezza inspiegata venne usata per lodevoli
opere pubbliche: una strada moderna che portava al villaggio,
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ad esempio, e impianti per l'acqua corrente. Altre spese erano più
sensazionali. Furono costruite una torre, Torre Magdala, affacciata sullo
strapiombo della montagna, e una ricca casa di campagna, Villa Bethania, dove
Saunière non abitò mai. La chiesa venne non soltanto restaurata, ma decorata a
nuovo in modo decisamente bizzarro. Sull'architrave del porticato, sopra
l'ingresso, venne posta un'iscrizione latina:
TERRIBILIS EST LOCUS ISTE
(QUESTO LUOGO È TERRIBILE).
Appena al di qua dell'entrata fu eretta una statua orrenda,
raffigurante il demonio Asmodeo, custode dei tesori nascosti e, secondo
l'antica leggenda giudaica, costruttore del Tempio di Salomone. Sulle pareti
della chiesa vennero collocate tavole sgargianti che raffiguravano la Via
Crucis; e ognuna era caratterizzata da qualche strana incoerenza, qualche
aggiunta inspiegabile, qualche deviazione flagrante o sottile rispetto alla
versione tradizionale delle Scritture. Per esempio, nell'VIII Stazione, c'è un
bambino avvolto in una stoffa scozzese. Nella XIV Stazione, dove si vede il
corpo di Gesù portato nella tomba, lo sfondo è un buio cielo notturno, dominato
dalla luna piena. Si direbbe che Saunière cercasse di indicare qualcosa. Ma che
cosa? Che la sepoltura di Gesù era avvenuta dopo il cader della notte, molte
ore più tardi di quel che ci dice la Bibbia? Oppure che il corpo viene portato
fuori dal sepolcro anziché nel suo interno?
Mentre era impegnato in questi bizzarri lavori di rifacimento,
Saunière continuava a spendere in maniera stravagante. Faceva collezione di
porcellane rare, di stoffe preziose, di marmi antichi. Creò un aranceto e un
giardino zoologico. Mise insieme una biblioteca magnifica. Poco prima di
morire, aveva annunciato l'intenzione di costruire una specie di massiccia
torre di Babele piena di libri, dalla quale progettava di predicare. Tuttavia
non trascurava i suoi parrocchiani. Offriva loro banchetti sontuosi e altre
forme di munificenza, mantenendo il tenore di vita di un potentato medievale,
signore di un inespugnabile dominio montano. Nel suo rifugio remoto e
pressoché inaccessibile riceveva molti ospiti illustri tra cui, ovviamente, non
mancava Emma Calve. Un
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altro ospite era il segretario di Stato francese per la Cultura.
Ma forse il più augusto e di riguardo tra i visitatori dell'ignoto prete di
campagna fu l'arciduca Giovanni d'Asburgo, cugino dell'imperatore d'Austria
Francesco Giuseppe. In seguito, i documenti ban-cari rivelarono che Saunière e
l'arciduca avevano aperto due conti consecutivamente lo stesso giorno, e che il
secondo aveva fatto a favore del primo un versamento molto sostanzioso.
All'inizio, le autorità ecclesiastiche finsero di non vedere.
Quando morì il superiore di Saunière, il vescovo di Carcassonne, il suo
successore tentò di chiedere conto al parroco del suo comportamento. Saunière
reagì con una sfida sorprendente e impudente. Rifiutò di spiegare l'origine
della sua ricchezza. Rifiutò di accettare il trasferimento imposto dal
vescovo. Poiché non aveva elementi più concreti a suo carico, il prelato lo
accusò di simonia, e un tribunale ecclesiastico locale lo sospese. Saunière si
appellò al Vaticano, che lo scagionò e lo reintegrò.
Il 17 gennaio 1917 Saunière, che aveva allora sessantacinque anni,
ebbe un improvviso attacco cardiaco. La data del 17 gennaio è forse sospetta.
La stessa data appare sulla lapide della marchesa d'Hautpoul de Blanchefort, la
lapide che Saunière aveva cancellato. E il 17 gennaio è inoltre la festa di
san Sulplizio che, come avremmo scoperto, ricorreva spesso nella nostra storia.
Era stato nel seminario di Saint Sulpice che Saunière aveva consegnato le
pergamene all'abate Bieil e a Émile Hoffet. Ma ciò che rende particolarmente
sospetto l'attacco che colpì Saunière il 17 gennaio è il fatto che appena
cinque giorni prima, il 12 gennaio, secondo le dichiarazioni dei suoi
parrocchiani sembrava godere di una salute invidiabile per un uomo della sua
età. Tuttavia proprio il 12 gennaio, secondo una ricevuta in nostro possesso, Marie
Denar-naud aveva ordinato una bara per il suo padrone.
Quando Saunière era sul letto di morte, da una parrocchia vicina
fu chiamato un prete per ricevere la sua confessione e somministrargli
l'estrema unzione. Il prete arrivò e si chiuse nella camera del malato. A
quanto affermarono i testimoni oculari, poco dopo usci, visibilmente sconvolto.
Secondo le parole di uno dei testimoni « non sorrise mai più »; secondo un
altro, precipitò in uno stato di depressione acuta che si protrasse per
parecchi mesi. Indipendentemente dal fatto che queste testimonianze siano
22
LIMOUX*
Scala
chilometrica 5
oALET-LES-BAINS
« tomba di Poussin »
ARQUES
ESPERAZA /ZCOUIZA
rennes-l°e-chAteau Wnnes-les-bains
qUILLAN
Carta 2 Rennes-le-Chàteau e
i suoi dintorni.
o no esagerate, è certo che il prete, probabilmente in seguito
alla confessione di Saunière, rifiutò di somministrargli l'estrema unzione.
Il 22 gennaio Saunière morì senza i conforti religiosi. L'indomani
mattina il suo corpo fu sistemato sopra una poltrona, sulla terrazza della
Torre Magdala, abbigliato di una ricca veste ornata di nappe rosse. Uno ad uno,
certi personaggi non identificati sfilarono davanti a lui, e molti di loro
staccarono per ricordo le nappe della veste. Questa cerimonia non ha mai
trovato una spiegazione. Gli attuali abitanti di Rennes-le-Chàteau la ritengono
sconcertante non meno degli estranei.
La lettura del testamento di Saunière era attesa con grande ansia.
Ma con grande sorpresa e amarezza di tutti, il testamento affermava che il
parroco era morto squattrinato. Probabilmente, il curato, prima di morire,
aveva trasferito tutte le sue ricchezze a nome di Marie Denarnaud, che per
trentadue anni aveva vissuto con lui, condividendo i suoi segreti. O forse
addirittura gran parte delle ricchezze era sempre stata intestata a Marie.
Dopo la morte del suo padrone, Marie continuò a vivere agiatamente
a Villa Bethania, fino al 1946. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, il nuovo
governo francese emise moneta nuova. Per scoprire gli evasori fiscali, i
collaborazionisti e i profittatori, i cittadini francesi, quando si
presentavano a cambiare i vecchi franchi con i nuovi, erano obbligati a fornire
spiegazioni sui loro redditi. Di fronte a una simile prospettiva, Marie scelse la
povertà. Ci fu chi la vide bruciare, nel giardino della villa, enormi mucchi di
banconote.
Durante i sette anni che seguirono, Marie visse austeramente con
il ricavato della vendita di Villa Bethania. Promise al compratore, un certo
Monsieur Noel Corbu, che prima di morire gli avrebbe confidato un « segreto »,
e che questo segreto lo avrebbe reso non soltanto ricco, ma anche « potente ».
Tuttavia, il 29 gennaio 1953 Marie, come era accaduto al suo padrone, ebbe un
attacco improvviso e inaspettato che la lasciò prostrata e incapace di parlare.
Con grande dispiacere di Monsieur Corbu, morì poco dopo, portando con sé il suo
segreto.
24
I possibili tesori
Questa, a grandi linee, era la storia pubblicata in Francia negli
anni Sessanta. E fu in questa forma che ne siamo venuti a conoscenza,
all'inizio. E noi, come altri ricercatori, abbiamo cominciato a occuparci
degli interrogativi sollevati da questa versione.
Il primo interrogativo è piuttosto ovvio. Quale era la fonte della
ricchezza di Saunière? Da dove poteva essere arrivato all'improvviso tutto
quel denaro? La spiegazione era, in ultima analisi, banale? Oppure c'era sotto
qualcosa di più sensazionale? Quest'ultima possibilità circondava il mistero
di un alone affascinante, e noi non abbiamo resistito alla tentazione di
trasformarci in investigatori.
Per cominciare, abbiamo preso in considerazione le spiegazioni
proposte da altri ricercatori. Secondo molti di loro, Saunière aveva trovato un
tesoro. Era un'ipotesi abbastanza plausibile, perché la storia del villaggio e
dei dintorni fa pensare a molti possibili nascondigli d'oro e di gioielli.
In tempi preistorici, ad esempio, il territorio intorno a
Rennes-le-Chàteau era considerato sacro dalle tribù celtiche che vi abitavano;
e il villaggio, un tempo chiamato Rhédae, prendeva il nome da una di quelle
tribù. Al tempo dei Romani, la zona era un municipio popoloso e prospero,
importante per le sue miniere e le sorgenti termali terapeutiche. Anche i
Romani consideravano sacro quel luogo. Gli archeologi vi hanno trovato tracce
di'nume-rosi templi pagani.
Durante il VI secolo, il piccolo villaggio di montagna era una
città di circa 30.000 abitanti. Sembra che, per un certo periodo, fosse la
capitale settentrionale del dominio dei Visigoti, il popolo teutonico che si
era spinto verso ovest, partendo dall'Europa centrale, aveva saccheggiato Roma
e rovesciato l'Impero e aveva creato un suo regno a cavallo dei Pirenei.
Per altri cinquecento anni, la città fu sede di un'importante
contea, la Comté de Razès. Poi, all'inizio del secolo XIII, un esercito di
cavalieri venne dal nord e piombò sulla Linguadoca per estirpare l'eresia dei
Catari o Albigesi e per appropriarsi del ricco bottino. Durante le atrocità
della cosiddetta Crociata contro gli Albigesi, Rennes-le-Chàteau fu conquistata
e passò di mano in
25
mano come feudo. Centoventicinque anni più tardi, intorno al 1360,
la popolazione locale fu decimata dalla peste; e poco dopo Rennes-le-Chàteu fu
distrutta da banditi catalani.4
A molte di queste vicissitudini storiche s'intrecciano voci di
fantastici tesori. Gli eretici Catari, ad esempio, avevano fama di possedere
qualcosa che aveva un valore favoloso e sacro e che, secondo numerose leggende,
era il Santo Graal. Tali leggende indussero Richard Wagner a compiere un pellegrinaggio
a Rennes-le-Chàteau prima di comporre la sua ultima opera, Parsi-fal; e
durante l'occupazione del 1940-45 i militari tedeschi, sulle orme di Wagner,
avrebbero effettuato numerosi scavi infruttuosi nei dintorni. C'era inoltre il
tesoro scomparso dei Cavalieri Templari, il cui Gran maestro, Bertrand de
Blanchefort, aveva ordinato misteriosi scavi nei pressi. Secondo le cronache,
tali scavi si erano svolti nella clandestinità ed erano stati effettuati da un
contingente di minatori tedeschi fatti arrivare sul luogo appositamente. Se un
tesoro dei Templari era veramente nascosto nei dintorni di Rennes-le-Chàteau,
si poteva spiegare l'allusione a « Sion » nelle pergamene scoperte da Saunière.
C'erano altri tesori possibili. Tra il V e l'VIII secolo, quasi
tutta l'attuale Francia era sotto il dominio della dinastia merovingia, cui
apparteneva anche il re Dagoberto II. Ai tempi di Dagoberto, Rennes-le-Chàteau
era una roccaforte dei Visigoti, e lo stesso Dagoberto aveva sposato una
principessa visigota. È possibile che la città fosse una specie di tesoreria
reale; ed esistono documenti che parlano di immense ricchezze ammassate da
Dagoberto nelle sue conquiste militari e nascoste nei dintorni di
Rennes-le-Chàteau. Se Saunière aveva scoperto uno di questi nascondigli, la
cosa avrebbe spiegato l'allusione a Dagoberto contenuta nelle pergamene.
I Catari. I Templari. Dagoberto II. E c'era un altro tesoro
possibile: l'enorme bottino accumulato dai Visigoti nella loro tempestosa
avanzata attraverso l'Europa. Poteva includere anche qualcosa di più di un
bottino convenzionale, forse oggetti d'importanza immensa, simbolica e
letteraria, per la tradizione religiosa occidentale. In breve, poteva includere
il leggendario tesoro del Tempio di Gerusalemme; e questo; ancora più dei
Cavalieri Templari, avrebbe spiegato i riferimenti a « Sion ».
26
Nel 66 d.C. la Palestina insorse contro la dominazione romana.
Quattro anni dopo, nel 70 d.C, Gerusalemme fu rasa al suolo dalle legioni
dell'imperatore, comandate da suo figlio Tito. Il Tempio fu saccheggiato, e il
contenuto del Santo dei Santi venne portato a Roma. Come si può vedere nei
bassorilievi dell'arco trionfale di Tito, il tesoro includeva l'immenso
candeliere d'oro a sette braccia, sacro alla religione ebraica, e forse anche
l'Arca dell'Alleanza.
Tre secoli e mezzo più tardi, nel 410 d.C., Roma fu saccheggiata a
sua volta dagli invasori Visigoti guidati da Alarico il Grande, che portarono
via, in pratica, tutte le ricchezze della Città Eterna. Come narra lo storico
Procopio, Alarico s'impadronì dei « tesori di Salomone, re degli Ebrei,
mirabili a vedersi perché quasi tutti adorni di smeraldi, che anticamente erano
stati presi a Gerusalemme dai Romani ».5
Perciò, è del tutto possibile che un tesoro sia stato all'origine
dell'impiegata ricchezza di Saunière. Può darsi che il prete avesse scoperto
uno di questi tesori, o forse un tesoro unico, che aveva cambiato ripetutamente
mano nel corso dei secoli, passando forse dal Tempio di Gerusalemme ai Romani,
da questi ai Visigoti, e quindi ai Catari o ai Cavalieri Templari. Se era così,
questo spiegherebbe perché il tesoro in questione « apparteneva » tanto a
Dagoberto II quanto a Sion.
Fin qui, sembrava in sostanza la storia di un tesoro. E la storia
di un tesoro, anche se riguarda il tesoro del Tempio di Gerusalemme, alla fin
fine ha un interesse e un significato limitati. Di tesori ne vengono scoperti
continuamente; spesso sono ritrovamenti senzazionali, drammatici e misteriosi,
e molti gettano una luce interessante sul passato. Poche di queste scoperte,
tuttavia, esercitano un'influenza diretta, politica o non politica, sul
presente - a meno che, naturalmente, il tesoro in questione includa un segreto,
un segreto esplosivo.
Noi non escludevamo la possibilità che Saunière avesse scoperto
un tesoro. Ma nel contempo ci sembrava chiaro che avesse scoperto anche un
segreto: un segreto storico d'importanza enorme per i suoi tempi e forse anche
per i nostri. Il denaro, l'oro, o i gioielli, in se stessi, non potevano
spiegare certi aspetti della sua avventura. Ad esempio, non giustificavano
l'introduzione nel cir-
27
colo di Hoffet, la frequentazione di Debussy e il legame con Emma
Calve. Non spiegavano l'immenso interesse della Chiesa, l'impunità con cui
Saunière aveva sfidato il suo vescovo e il successivo intervento assolutorio
del Vaticano, che sembrava dimostrare una vivissima sollecitudine. Non
chiarivano perché un prete aveva rifiutato di somministrare gli ultimi conforti
religiosi a un moribondo, né perché un arciduca Asburgo si fosse recato in un
remoto villaggio dei Pirenei, particolarmente in certi frangenti, nel 1916,
quando il suo paese era in guerra con la Francia. E il denaro, l'oro e i
gioielli non bastavano a spiegare il fortissimo alone di mistero che circondava
l'intera vicenda, dai complessi codici cifrati al fatto che Marie Denarnaud
avesse bruciato le banconote avute in eredità. E la stessa Marie aveva
promesso di rivelare un « segreto » che conferiva non soltanto ricchezza, ma
anche « potere ».
In base a tutte queste considerazioni, ci convincemmo sempre più
che la vicenda di Saunière riguardava ben altro che le ricchezze materiali, e
che includeva un segreto, quasi sicuramente oggetto di controversie. In altre
parole, avevamo l'impressione che il mistero non fosse circoscritto a un remoto
paesetto di provincia e a un prete del secolo XIX. Qualunque cosa fosse,
sembrava irradiarsi da Rennes-le-Chàteau in tutto il mondo, causando
inquietudini - e forse anche potenziali sconvolgimenti. Era possibile che la ricchezza
di Saunière derivasse non già da oggetti di un valore finanziario intrinseco,
bensì dalla conoscenza di qualcosa di straordinario? E se era così, quella
conoscenza poteva essere sfruttata economicamente? Poteva essere stata usata,
ad esempio, per ricattare qualcuno? La ricchezza di Saunière poteva essere il
prezzo del suo silenzio?
Sapevano che aveva ricevuto denaro da Giovanni d'Asburgo. Tuttavia
il « segreto » del parroco, quale che fosse, sembrava avere un carattere più
religioso che politico. Inoltre, i suoi rapporti con l'arciduca austriaco,
secondo tutte le testimonianze, erano particolarmente cordiali. D'altra parte,
c'era un'istituzione che, a partire da un certo periodo, sembrava avere paura
di Saunière, e lo trattava con i guanti - il Vaticano. Possibile che Saunière
ricattasse il Vaticano? Un simile ricatto sarebbe stata un'azione presuntuosa e
pericolosissima da parte di un singolo individuo, per quante precauzioni
potesse prendere. Ma... e se Saunière, nella
28
sua iniziativa ,-fosse stato aiutato e appoggiato da altri, che
per la loro posizione eminente erano inattaccabili per la Chiesa, come il
segretario di Stato francese per la Cultura o gli Asburgo? E se l'arciduca
Giovanni fosse stato solo un intermediario, se il denaro da lui consegnato a
Saunière fosse uscito in realtà dai forzieri di Roma?6
L'intrigo
Nel febbraio 1972 andò in onda The Lost Treasure ofJerusalem?, il
primo dei nostri tre documentari su Saunière e il mistero di Rennes-le-Chàteau.
Il documentario non faceva affermazioni discutibili: raccontava semplicemente
la « vicenda base » così come è stata riferita nelle pagine precedenti. Non
conteneva ipotesi di un « segreto esplosivo » né di ricatti ad alto livello. E
ancora, vale la pena di ricordare che il commento non nominava neppure Émile
Hoffet, il giovane studioso di Parigi al quale Saunière aveva affidato le sue
pergamene.
Ricevemmo una valanga di lettere, e questo forse non è sorprendente.
Alcune presentavano ipotesi suggestive. Altre erano semplicemente di elogio.
Altre ancora erano bizzarre. Tra tutte ce n'era una, che il suo autore ci
chiedeva di non pubblicare, e che sembrava meritare un'attenzione speciale. Era
di un ecclesiastico anglicano in pensione, e appariva strana, provocatoria e
assurda. Il nostro corrispondente scriveva in toni di autorevole, categorica
certezza. Esponeva le sue affermazioni con fare definitivo, senza fronzoli, del
tutto indifferente al fatto che gli credessimo o no. Il « tesoro », dichiarava
seccamente, non era d'oro o di pietre preziose. Al contrario, consisteva nella
« prova incontrovertibile » che la Crocifissione era un inganno e che Gesù era
ancora vivo nel 45 d.C.
L'affermazione appariva clamorosamente assurda. Anche per l'ateo
più incallito, che cosa mai poteva costituire la « prova incontrovertibile »
che Gesù era sopravvissuto alla Crocifissione? Non riuscivamo a immaginare
niente che non potesse venire confutato o ripudiato, che rappresentasse non
soltanto una « prova », ma addirittura una « prova » veramente « incontrovertibile
». Nel contempo, però, la stessa assurdità dell'affermazione esigeva
29
approfondimenti e chiarimenti. L'autore della lettera aveva accluso
il suo indirizzo. Alla prima occasione andammo a trovarlo e cercammo di
intervistarlo.
Di persona, si mostrò molto più reticente di quanto fosse stato
nella sua lettera; sembrava addirittura pentito di averci scritto. Rifiutò di
spiegare la sua allusione alla « prova incontrovertibile », e ci diede una
sola informazione nuova. La « prova », disse, o almeno la sua esistenza, gli
era stata rivelata da un altro ecclesiastico anglicano, il canonico Alfred
Leslie Lilley.
Lilley, deceduto nel 1940, aveva pubblicato parecchi libri e non
era uno sconosciuto. Per gran parte della sua vita aveva mantenuto contatti
con il Movimento modernista cattolico, incentrato principalmente a Saint
Sulpice, a Parigi. In gioventù, Lilley aveva lavorato a Parigi, e aveva
conosciuto Émile Hoffet. Il cerchio si chiudeva. Dato il nèsso esistente fra
Lilley e Hoffet, le affermazioni del nostro corrispondente, per quanto
assurde, non potevavo venire accantonate sommariamente.
Altri indizi di un segreto colossale cominciarono ad affiorare
quando intraprendemmo ricerche sulla vita di Nicolas Poussin, il grande pittore
del XVI secolo, il cui nome ricorreva nella vicenda di Saunière. Nel 1656
Poussin, che a quel tempo viveva a Roma, aveva ricevuto la visita dell'abate
Louis Fouquet, fratello di Nicolas Fouquet, sovrintendente delle Finanze di
Luigi XIVdiFrancia. Da Roma, l'abate inviò una lettera al fratello, raccontando
il suo incontro con Poussin. Una parte della lettera merita di essere citata.
Egli ed io discutemmo certe cose, che con comodo potrò spiegarvi
in dettaglio - cose che vi daranno, tramite Monsieur Poussin, vantaggi quali
persino i re stenterebbero grandemente a ottenere da lui e che, secondo la sua
opinione, forse nessun altro riscoprirà mai più nei secoli futuri. E ciò che
più conta, sono cose tanto difficili da scoprire che null'altro ora esistente
su questa terra può essere più avventurato o pari ad esse.7
Gli storici e i biografi di Poussin o di Fouquet non sono mai
riusciti a spiegare in modo convincente questa lettera, che chiaramente allude
a un mistero d'enorme importanza. Poco tempo dopo averla ricevuta, Nicolas
Fouquet fu arrestato e incarcerato per il resto della sua vita. Secondo certe
testimonianze, gli venne assolutamente impedito di comunicare con chiunque; e
alcuni
30
storici lo identificano con l'Uomo dalla Maschera di Ferro. Nel
frattempo, tutta la sua corrispondenza fu confiscata da Luigi XIV, che
l'esaminò personalmente. Negli anni che seguirono, il re fece di tutto per
procurarsi l'originale del quadro di Poussin, Les bergers d'Arcadie. Quando
finalmente ci riuscì, lo chiuse nel suo appartamento privato, a Versailles.
A parte il valore artistico, il quadro sembra piuttosto innocuo.
In primo piano tre pastori e una pastora sono radunati intorno a una grande
tomba antica, e contemplano l'iscrizione incisa sulla pietra corrosa: « ET IN
ARCADIA EGO ». Sullo sfondo torreggia un tormentato paesaggio montuoso, del
genere spesso dipinto da Poussin. Secondo Anthony Blunt e altri esperti della
pittura di Poussin, il paesaggio è del tutto mitico, creato dalla fantasia
dell'autore. Poco dopo il 1970, però, fu scoperta una tomba identica a quella
raffigurata nel quadro, identica per la posizione, le dimensioni, le
proporzioni, la forma, la vegetazione che la circonda; c'è persino lo spuntone
circolare di roccia sul quale uno dei pastori di Poussin appoggia il piede. La
tomba si trova alla periferia di un villaggio, Arques, a una decina di
chilometri da Rennes-le-Chàteau, a cinque dal castello di Blanchefort. Se ci
si mette davanti al sepolcro, il paesaggio è virtualmente indistinguibile da
quello raffigurato nel quadro. E ci si accorge che una delle vette sullo sfondo
del dipinto è Rennes-le-Chàteau.
Non vi sono indicazioni che permettano di scoprire l'età della
tomba. Naturalmente, è possibile che sia stata eretta di recente-ma i suoi
costruttori come riuscirono a trovare uno sfondo che corrisponde con tanta
precisione a quello del quadro? In effetti, sembra che esistesse già ai tempi
di Poussin, e Les bergers d'Arcadie appare come una raffigurazione
fedele di quel luogo. Secondo i contadini dei dintorni, la tomba era sempre stata
lì, a quanto ricordavano i loro padri e i loro nonni. Sembra inoltre che sia
menzionata specificatamente in un mémoire datato 1709.8
Secondo gli archivi del villaggio d'Arques, il terreno su cui
sorge la tomba apparteneva, fino alla sua morte avvenuta negli anni Cinquanta,
a un americano, un certo Louis Lawrence di Boston, Massachusetts. Negli anni
Venti, Lawrence aprì il sepolcro e lo trovò vuoto. Più tardi, vi furono sepolte
sua moglie e sua suocera.
Mentre stavamo preparando il nostro primo documentario su
31
Rennes-Ie-Chàteau per la BBC, passammo una mattina a riprendere
la tomba. Poi andammo a pranzo e ritornammo tre ore dopo. Durante la nostra
assenza, qualcuno aveva tentato, in modo rudimentale e violento, di penetrare
nel sepolcro.
Se mai c'era stata veramente un'iscrizione sulla tomba, le
in-temperje l'hanno cancellata da molto tempo. In quanto a quella che appare
nel quadro di Poussin, sembrerebbe convenzionalmente elegiaca: la Morte
annuncia la sua lugubre presenza anche in Arcadia, l'idillico paradiso
pastorale della mitologia classica. Tuttavia l'iscrizione è strana, perché
manca il verbo. Tradotta letteralmente significa:
E IN ARCADIA IO...
Perché il verbo manca? Forse per una ragione filosofica? Per
eliminare ogni tempo grammaticale, ogni indicazione di passato, presente e
futuro, e quindi per sottolineare qualcosa di eterno? O forse per una ragione
più pratica?
I codici contenuti nelle pergamene ritrovate da Saunière si
basavano sugli anagrammi, sulla trasposizione e il riordinamento delle lettere.
Era possibile anagrammare « ET IN ARCADIA EGO »? Poteva darsi che il verbo
fosse stato omesso perché l'iscrizione doveva consistere soltanto di certe
lettere particolari? Uno dei nostri telespettatori ci scrisse suggerendo che
poteva essere veramente così; e per giunta aveva ordinato le lettere formando
una frase latina coerente. Il risultato era:
I TEGO ARCANA DEI (VATTENE!
IO CELO I SEGRETI DI DIO)
Quell'ingegnoso esercizio intellettuale ci sembrò affascinante. A
quel tempo non ci rendemmo conto che il monito risultante dall'anagramma era
straordinariamente appropriato.
Note
/ dati bibliografici
completi, quando non sono citati in queste note, si trovano nella Bibliografìa.
1 Gerard
de Sède, L'Or de Rennes. Robert Charroux, Trésors du Monde, Paris
1962, pp. 247 sgg.
32
-
Annuaire Ecclésiastique, p. 282.
1 De
Sède, L'Or de Rennes, p. 28. Il quadro raffigurerebbe «
Saint Antoine l'Hermite ». Lo stesso de Sède, parlando con noi, disse che
raffigurava « la tentazione di sant'Antonio » ma nessuno sapeva quale. Le
nostre successive ricerche indicarono che in realtà era « sant'Antonio e san
Gemiamo nel deserto ».
*
Fédié, La Comté de Iiazès, pp. 3 sgg. Il
numero di 30.000 abitanti è dato da de Sède in L'Or de Rennes, p. 17. De
Sède non cita la fonte della notizia.
5 Procopio, Storia delle guerre, libro
V, xii.
6 Abbiamo fatto controllare
per due volte i documenti, pertinenti, negli archivi vaticani, e tutte e due le
volte i nostri ricercatori ci hanno riferito che non esiste nessun riferimento
a Saunière. Non c'è neppure traccia della sua esistenza, una lacuna molto
curiosa in una documentazione di solito tanto meticolosa. Questo fa pensare che
tutte le informazioni relative al parroco siano state eliminate di proposito.
7 Lépinois, « Lettres de Louis Fouquet », pp.
268 sgg. La lettera era conservata negli archivi della famiglia
Cossé-Brissac, che ha sempre avuto una posizione eminente nella Massoneria fin
dal XVIII secolo.
8 Delaude, Cerale d'Ulysse, p. 3.
L'autore afferma che la tomba è menzionata in un mémoire dell'abate
Delmas risalente al XVII secolo. Senza dubbio si tratta del mémoire di
Delmas datato 1709. Il manoscritto fu depositato presso YAcadémie céltique e
poi spari per diverso tempo. All'inizio del nostro secolo ricomparve, e fu
parzialmente pubblicato in Courrent, Notice historique, pp. 9-17. Questo
estratto, tuttavia, non parla della tomba. Si può soltanto supporre che la
notizia sia contenuta nelle parti non pubblicate; ma il manoscritto di Delmas
si trova oggi a Limoux ed è di proprietà privata. Non ci è stato permesso
consultarlo.
33
II
I Catari e la grande eresia
Incominciammo la nostra indagine da un argomento, con il quale
avevamo già una certa familiarità: l'eresia dei Catari o Albigesi e la crociata
che provocò nel XIII secolo. Sapevamo già che i Catari figuravano nel mistero
di Saunière e di Rennes-le-Chàteau. Innanzitutto, erano stati numerosi nel
villaggio e nei suoi dintorni gli eretici medievali che avevano sofferto
parecchio durante la Crociata contro gli Albigesi. In effetti, la storia della
regione è intrisa del sangue dei Catari, e il ricordo di quel sangue persiste
ancora oggi, insieme a un profondo rancore. Molti contadini di quell'area,
oggi che non esistono più gli inquisitori pronti a balzare loro addosso, confessano
apertamente le loro simpatie per i Catari. C'è addirittura una chiesa catara, e
un cosiddetto « papa cataro » visse nel villaggio di Arques fino alla sua
morte, avvenuta nel 1979.
Sapevamo che Saunière si era dedicato allo studio della storia e
delle tradizioni popolari della sua terra natale, e quindi non è possibile che
non fosse a conoscenza del pensiero e delle tradizioni dei Catari. Non poteva
ignorare che Rennes-le-Chàteau era stata una città importante nel XII e nel
XIII secolo, una specie di roccaforte catara.
Inoltre, Saunière doveva aver conosciuto bene le numerose leggende
legate ai Catari. Doveva sapere che erano collegati al favoloso Santo Graal. E
se Richard Wagner, nella sua ricerca sul Graal, si era recato a
Rennes-le-Chàteau, Saunière non poteva ignorarlo.
Nel 1890, inoltre, un certo Jules Doinel diventò bibliotecario a
Carcassonne e fondò una chiesa neo-catara.1
34
Doinel scrisse parecchio sul pensiero dei Catari, e nel 1896
diventò un membro importante di un'organizzazione culturale locale, la Società
delle arti e delle scienze di Carcassonne. Nel 1898 fu eletto segretario. Alla
società erano iscritti parecchi conoscenti di Saunière, incluso il suo miglior
amico, l'abate Henri Boudet. E del circolo personale di Doinel faceva parte Emma
Calve. Quindi è molto probabile che Doinel e Saunière si conoscessero.
C'è poi un'altra ragione, più interessante, per collegare i Catari
al mistero di Rennes-le-Chàteau. In una delle pergamene ritrovate da Saunière,
il testo è costellato di lettere minuscole - otto, per la precisione -
volutamente diverse da tutte le altre. Tre di queste lettere sono situate nella
parte alta del foglio, cinque nella parte inferiore. È sufficiente leggere in
sequenza queste otto lettere per formare due parole: « rex MUNDI ». È un termine inequivocabile cataro,
immediatamente riconoscibile per chiunque conosca il pensiero dei Catari.
Tenuto conto di questi fattori, sembrava logico incominciare dai Catari le
nostre indagini. Perciò iniziammo a effettuare ricerche sulle loro credenze e
le loro tradizioni, la loro storia e il loro ambiente. La nostra indagine
rivelò nuove dimensioni misteriose e generò molti interrogativi inquietanti.
La Crociata contro gli Albigesi
Nel 1209 un esercito di circa 30.000 uomini tra fanti e cavalieri,
provenienti dall'Europa settentrionale, piombò come un ciclone sulla
Linguadoca, la regione nord-orientale dei Pirenei, nel sud della Francia
odierna. Durante la guerra che seguì l'intero territorio fu devastato, le
messi distrutte, le città e i villaggi furono rasi al suolo e intere
popolazioni vennero passate per le armi. Lo sterminio fu perpetrato su una
scala così immane e terribile da poter essere considerato come il primo caso di
« genocidio » nella storia dell'Europa moderna. Nella sola città di Béziers, ad
esempio, furono massacrate almeno 15.000 persone tra uomini, donne e bambini:
molti furono addirittura uccisi nella chiesa dove si erano rifugiati. Quando un
ufficiale chiese al legato pontificio come avrebbe potuto distinguere gli eretici
dai ven credenti, la risposta fu: « Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i Suoi ».
Questa frase,
35
A JK y/JRE7\\
. MINE.R
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J-IMOUX
Carta 3 La Linguadoca dei
Catari.
sebbene venga citata molto spesso, potrebbe essere apocrifa. Tuttavia
esprime benissimo lo zelo fanatico e la ferocia sanguinaria con cui venivano
perpetrate queste atrocità. Lo stesso legato pontificio, scrivendo a Innocenzo
III, annunciò orgogliosamente che non c'era stato riguardo « né per l'età né
per il sesso né per la condizione sociale ».
Dopo Béziers, l'esercito invasore dilagò in tutta la Linguadoca.
Cadde Perpignano, cadde Narbona, cadde Carcassonne, cadde Tolosa. E i vincitori
passarono oltre, lasciandosi dietro una scia di sangue, di morte e di
carneficina.
La guerra, che si protrasse per circa quarant'anni, oggi è conosciuta
come la Crociata contro gli Albigesi. Fu una crociata nel vero senso della
parola. Era stata bandita dal papa. I partecipanti portavano una croce sulla
tunica, come i crociati in Palestina. E le ricompense erano quelle promesse ai
crociati in Terrasanta: re-
36
missione di tutti i peccati, dispensa dalle penitenze, un posto
assicurato in Paradiso, più tutto il bottino che ognuno riusciva ad arraffare.
Inoltre, in questa Crociata, i guerrieri non erano costretti ad attraversare
il mare. E secondo la legge feudale, nessuno era tenuto a combattere più di
quaranta giorni, presumendo, naturalmente, che non fosse troppo interessato a
far bottino.
Quando la Crociata si concluse, la Linguadoca era stata completamente
trasformata; era ripiombata nella barbarie che caratterizzava il resto
dell'Europa. Perché? Perché tanti orrori, tanta brutalità, tante devastazioni?
All'inizio del XIII secolo, la zona oggi conosciuta come Linguadoca
non faceva parte ufficialmente della Francia. Era un principato indipendente,
e la lingua, la cultura e le istituzioni politiche, più che con quelle del
nord, avevano affinità con quelle della Spagna, con i regni di Leon, Aragona e
Castiglia. Il principato era governato da alcune famiglie nobili, e tra queste
spiccavano i conti di Tolosa e il potente casato dei Trencavel. Entro i confini
del principato fioriva una cultura che a quei tempi era la più avanzata e
raffinata dell'intera cristianità, con l'unica eccezione dell'Impero bizantino.
La Linguadoca aveva molte cose in comune con Bisanzio.
L'e-rudizione, ad esempio, era tenuta in grande onore, diversamente da quanto
avveniva nell'Europa settentrionale. Fiorivano la filosofia e altre attività
intellettuali; la poesia e l'amor cortese godevano di grande fervore; il
greco, l'arabo e l'ebraico venivano studiati con entusiasmo; e a Lunel e
Narbona prosperavano scuole votate allo studio della Cabala, l'antica
tradizione filosofico-esoterica del giudaismo. Anche i nobili erano colti e
spesso si dedicavano alla letteratura, in un periodo in cui gli aristocratici
del Nord, in maggioranza, non sapevano neppure scrivere il loro nome.
Sempre come Bisanzio, la Linguadoca praticava una civilissima
tolleranza religiosa, in contrasto con il fanatismo che caratterizzava altre
parti dell'Europa. Il pensiero islamico e giudaico, ad esempio, penetrava
tramite i centri commerciali marittimi come Marsiglia, oppure perveniva dalla
Spagna attraverso i Pirenei. Nel contempo, la Chiesa di Roma non godeva di una
grande stima; i religiosi romani, soprattutto a causa della loro ben nota
corruzione, erano riusciti ad alienarsi la popolazione della Linguadoca.
37
C'erano addirittura chiese nelle quali non veniva celebrata messa
da trent'anni. Molti preti si disinteressavano dei parrocchiani per dedicarsi
ad attività commerciali o amministrare grandi proprietà terriere . Un
arcivescovo di Narbona non si degnò mai di visitare la sua diocesi.
Nonostante la corruzione della Chiesa, la Linguadoca aveva
raggiunto un vertice culturale quale non si sarebbe più visto in Europa fino al
Rinascimento. Tuttavia, come a Bisanzio, erano presenti i fattori di
rilassatezza, di decadenza e di tragica debolezza che lasciarono la regione
impreparata al feroce attacco scatenato successivamente. Da diverso tempo la
nobiltà nord-europea e la Chiesa romana erano ben consapevoli della sua
vulnerabilità e aspiravano ad approfittarne. Da molti anni l'aristocrazia
settentrionale invidiava la ricchezza e i lussi della Linguadoca. E la Chiesa
era interessata per ragioni sue. Innanzitutto, la sua autorità nell'intera
regione era molto debole. E mentre in Linguadoca fioriva la cultura, fioriva
anche qualcosa d'altro: la più grande eresia della cristianità medievale.
Secondo le autorità ecclesiastiche, la Linguadoca era « contagiata
» dall'eresia albigese, « l'immonda lebbra del Sud ». E sebbene i seguaci di
questa eresia fossero fondamentalmente nonviolenti, rappresentavano una grave minaccia
per l'autorità di Roma, anzi la più grave che Roma avrebbe conosciuto fino a
quando, tre secoli più tardi, gli insegnamenti di Martin Luterò avrebbero dato
l'avvio alla Riforma. Nel 1200 c'era l'incontestabile possibilità che questa
eresia spodestasse il cattolicesimo romano quale forma dominante del
cristianesimo in tutta la Linguadoca. Inoltre, fattore ancora preoccupante
agli occhi della Chiesa, l'eresia si stava già diffondendo in altre regioni
dell'Europa, soprattutto nei centri urbani della Germania, delle Fiandre e
dello Champagne.
Gli eretici venivano chiamati con nomi diversi. Nel 1165 erano
stati condannati da un concilio svoltosi ad Albi, una città della Linguadoca.
Per questa ragione, o forse perché Albi continuò a essere uno dei loro centri,
spesso gli eretici venivano chiamati Albigesi. In altre occasioni erano
chiamati Catari; in Italia li chiamavano Patarini. Non di rado, poi, venivano
bollati o stigmatizzati con le denominazioni di eresie assai più antiche:
ariani, marcioniti e manichei.
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« Albigesi » e « Catari » erano sostanzialmente nomi generici. In
altre parole, non indicavano una chiesa unica, come quella di Roma, con un corpus
dottrinale e teologico codificato e definitivo. Gli eretici in questione
comprendevano una moltitudine di sette diverse, parecchie guidate da un capo
indipendente, dal quale prendevano nome i seguaci. E sebbene sia possibile che
queste sette avessero in comune certi principi, differivano radicalmente nei
dettagli. Inoltre, gran parte delle informazioni pervenute fino a noi sul conto
degli eretici deriva da fonti ecclesiastiche come l'Inquisizione. Crearsi un
quadro in base a tali fonti è come tentare, poniamo, di farsi un'idea della
Resistenza francese basandosi sui rapporti delle SS e della Gestapo. Quindi è
virtualmente impossibile presentare un'esposizione coerente e definitiva di
quello che era in realtà il « pensiero cataro ».
In generale, i Catari accettavano la dottrina della reincarnazione
e il riconoscimento del principio femminile nella religione. Anzi, i
predicatori e i maestri delle congregazioni catare, chiamati parfaits («
perfetti »), erano di entrambi i sessi. Nel contempo, i Catari ripudiavano la
Chiesa cattolica e negavano la validità di tutte le gerarchie ecclesiastiche o
di intercessori ufficiali ordinati tra l'uomo e Dio. Alla base di questa presa
di posizione stava un importantissimo principio cataro: il ripudio della « fede
», almeno nel senso in cui l'intendeva la Chiesa. Alla « fede » accettata di
seconda mano, i Catari sostituivano la conoscenza diretta e personale,
un'esperienza religiosa o mistica acquisita di prima mano. Questa esperienza
era stata chiamata « gnosi », dal termine greco che significa « conoscenza » ;
e per i Catari aveva la precedenza su ogni credo e ogni dogma. Data
l'importanza attribuita al contatto diretto e personale con Dio, i preti, i
vescovi e le altre autorità ecclesiastiche diventavano superflui.
I Catari erano anche dualisti. Tutto il pensiero cristiano, ovviamente,
in ultima analisi può essere considerato dualistico, poiché pone l'accento su
un conflitto tra due princìpi opposti: bene e male, spirito e carne, superiore
e inferiore. Ma i Catari spingevano questa dicotomia molto più lontano di
quanto fosse disposto ad accettare il cattolicesimo ortodosso. Per i Catari,
gli uomini erano le spade con cui combattevano gli spiriti, e nessuno vedeva le
mani che le impugnavano. Per loro, era in corso un'eterna guerra in
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tutto il Creato fra due princìpi inconciliabili: luce e tenebra,
spirito e materia, bene e male. Il cattolicesimo postula un Dio supremo, il cui
avversario, il Diavolo, gli è inferiore. I Catari, invece, proclamavano
l'esistenza non già di un unico Dio, bensì di due, che avevano uno status abbastanza
simile. Uno di questi dei - il « buono » - era interamente disincarnato, un
essere o un principio di puro spirito, non macchiato dalla contaminazione della
materia. Era il dio d'amore. Ma l'amore era considerato del tutto incompatibile
con il potere, e la creazione materiale era una manifestazione del potere.
Quindi, per i Catari, la creazione materiale - il mondo - era intrinsecamente
malefica. Era intrinsecamente malefica tutta la materia. Insomma, l'universo
era l'opera di un « dio usurpatore », il dio del male... o, come lo chiamavano
i Catari, « Rex Mundi », il Re del Mondo.
Il cattolicesimo si basa su quello che si potrebbe chiamare un «
dualismo etico ». Il male, sebbene in ultima analisi promani forse dal Diavolo,
si manifesta principalmente tramite l'uomo e le sue azioni. Al contrario, i
Catari propugnavano una forma di « dualismo cosmologico », un dualismo che
pervadeva l'intera realtà. Per loro, questa era un premessa fondamentale, alla
quale reagivano tuttavia in maniera diversa da una setta all'altra. Secondo
alcuni Catari, il fine della vita dell'uomo sulla terra era trascendere la
materia, rinunciare perpetuamente a tutto ciò che era connesso al principio del
potere, e conseguire quindi con il principio dell'amore. Secondo altri, il
fine dell'uomo era riscattare e redimere la materia, spiritualizzarla e
trasmutarla. È importante osservare l'assenza di dogmi, dottrine e ideologie di
carattere fisso. Come in gran parte delle deviazioni rispetto all'ortodossia
conclamata, c'erano soltanto certi atteggiamenti di carattere generale
definiti a grandi linee mentre i doveri morali che accompagnavano tali
atteggiamenti erano soggetti all'interpretazione individuale.
Agli occhi della Chiesa di Roma i Catari si macchiavano di gravi
eresie considerando intrinsecamente malefica la creazione materiale, per la
quale era morto Gesù, e sottintendendo che Dio, il cui « verbo » aveva creato
il mondo « in principio », era un usurpato-re. La loro eresia più nefanda,
tuttavia, era l'atteggiamento assunto nei confronti dello stesso Gesù. Poiché
la materia era intrinse-
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camente malefica, i< Catari negavano che Gesù potesse
essere partecipe della materia, e si fosse incarnato continuando a restare
Figlio di Dio. Alcuni Catari, perciò, lo ritenevano del tutto incorporeo, un «
fantasma », un puro spirito che, naturalmente, non poteva venire crocifisso.
Sembra che la maggioranza dei Catari lo considerasse un profeta non diverso
dagli altri: un mortale che, in nome del principio dell'amore, era spirato
sulla croce. Insomma, non c'era nulla di mistico, nulla di sovrannaturale e di
divino nella Crocifissione - anche ammettendo che avesse importanza; cosa,
questa, di cui sembra che molti Catari dubitassero.
Comunque, tutti i Catari ripudiavano con veemenza il significato
della Crocifissione e della croce, forse perché ritenevano che queste dottrine
avessero poca rilevanza, o forse perché Roma le esaltava con tanto fervore, o
perché il carattere brutale della morte di un profeta non appariva loro degno
di venerazione. E la croce - almeno nella sua associazione con il Calvario e la
Crocifissione - era considerata un emblema del Rex Mundi, signore del mondo
materiale, antitesi del vero principio di redenzione. Gesù, se era stato
mortale, era stato un profeta di amor, il
principio dell'amore. E AMOR, quando viene pervertito o mutato in potere,
diventava ROMA: Roma, la cui Chiesa opulenta e sfarzosa appariva agli occhi
dei Catari l'incarnazione concreta e la'manifestazione terrena della sovranità
del Rex Mundi. Di conseguenza, i Catari non solo rifiutavano di adorare la
croce, ma negavano la validità di sacramenti come il battesimo e la comunione.
Nonostante queste posizioni teologiche sottili, complesse,
astratte, magari inconsistenti per una mentalità moderna, in maggioranza i
Catari non erano eccessivamente fanatici, per quanto riguardava il loro credo.
Oggi è di moda, fra gli intellettuali, considerare i Catari come una
congregazione di saggi, di mistici illuminati o di iniziati alla sapienza
arcana, tutti a conoscenza di qualche grande segreto cosmico. In pratica,
tuttavia, i Catari erano in maggioranza uomini e donne più o meno « comuni »,
che trovavano nel loro credo un rifugio contro l'assillante ortodossia del
cattolicesimo, un'evasione dalle interminabili decime, penitenze,
sottomissioni, rigori e imposizioni della Chiesa di Roma.
Per quanto fosse astnisa la loro teologia, i Catari erano estremamente
pratici e realistici. Condannavano la procreazione, ad
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esempio, perché la propagazione della carne era un servizio reso
non già al principio dell'amore, bensì al Rex Mundi; ma non erano tanto ingenui
da propugnare l'abolizione della sessualità. È vero che esisteva un «
sacramento » tipicamente cataro, o un suo equivalente, chiamato Consolamentum,
che imponeva l'obbligo di castità. Tuttavia, se si escludono i parfaits,
che di solito erano uomini e donne senza famiglia, il Consolamentum veniva
somministrato soltanto sul letto di morte; e non è troppo difficile mantenersi
casti quando si è moribondi. Per quanto riguardava i fedeli in generale, la sessualità
era tollerata, se non esplicitamente approvata. Come si può condannare la
procreazione quando si ammette la sessualità? Vari indizi fanno pensare che i
Catari praticassero il controllo delle nascite e l'aborto.2 Quando
in seguito Roma accusò gli eretici di « pratiche sessuali contro natura »,
questo venne interpretato come un riferimento alla sodomia. Tuttavia i Catari,
almeno secondo i documenti pervenuti fino a noi, erano estremamente rigorosi
nel vietare l'omosessualità. È possibile che le « pratiche sessuali contro
natura » fossero in realtà i vari metodi di controllo delle nascite e di
aborto. Sappiamo bene qual è oggi la posizione di Roma nei confronti di questi
problemi. Non è diffìcile immaginare l'energia e lo zelo vendicativo con cui questa
posizione veniva imposta durante il Medioevo.
In generale, sembra che i Catari vivessero una vita di estrema
devozione e semplicità. Poiché deploravano le chiese, di solito svolgevano i
riti e le funzioni religiosi all'aperto, o in qualunque edificio disponibile:
un granaio, una casa, un palazzo comunale. Inoltre, praticavano quella che oggi
noi chiamiamo meditazione. Erano rigorosamente vegetariani, sebbene fosse
consentito mangiare pesce. E quando viaggiavano per le campagne, i parfaits
andavano sempre in coppia, accreditando così le accuse di sodomia sparse
dai loro nemici.
L'assedio di Montségur
Era questo, dunque, il credo che si era diffuso nella Linguadoca e
nelle province confinanti, al punto di minacciare il cattolicesimo. Per
parecchie e comprensibili ragioni, molti nobili furono attratti da questo
credo. Alcuni ne apprezzavano il carattere tollerante.
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Altri erano motivati dall'anticlericalismo. Alcuni erano delusi e
amareggiati dalla corruzione della Chiesa. Certuni trovavano insopportabile il
sistema delle decime, che faceva affluire le rendite delle loro tenute nei
forzieri della lontana Roma. Perciò molti nobili, in tarda età, diventano parfaits.
Anzi, si calcola che il 30 per cento di tutti i parfaits provenisse
dalla nobiltà della Lin-guadoca.
Nel 1145, mezzo secolo prima della Crociata contro gli Albigesi,
lo stesso San Bernardo si era recato in Linguadoca per predicare contro gli
eretici. Ma quando arrivò, inorridì non tanto a causa degli eretici quanto per
la corruzione della sua Chiesa. Invece, gli eretici gli fecero una notevole
impressione. « Nessun sermone è più cristiano dei loro » dichiarò. « E la loro
morale è pura ».3
Nel 1200,' è superfluo precisarlo, Roma era decisamente allarmata
per la situazione. E sapeva benissimo che i baroni dell'Europa settentrionale
guardavano con invidia le ricche terre e le città del sud. Quell'invidia poteva
venire sfruttata agevolmente; e i signori del nord avrebbero costituito le
truppe d'assalto della Chiesa. Occorreva soltanto una provocazione, un pretesto
per scatenare l'opinione pubblica.
Il pretesto non tardò ad arrivare. Il 14 gennaio 1208 uno dei
legati pontinci'in Linguadoca, Pierre de Castelnau, fu assassinato. Sembra che
l'omicidio fosse stato commesso da ribelli anticlericali che non avevano nessun
legame con i Catari. Roma, che aveva trovato il pretesto desiderato, non esitò
invece ad accusare gli aborriti eretici. Subito papa Innocenzo III bandì una
Crociata. Sebbene vi fossero state persecuzioni intermittenti contro gli eretici
durante tutto il secolo precedente, questa volta la Chiesa mobilitò tutte le
sue forze. L'eresia doveva essere estirpata per sempre.
Si radunò un vero esercito, al comando dell'abate di Citeaux. Le
operazioni militari vennero affidate soprattutto a Simone di Montfort, padre
dell'uomo che in seguito avrebbe avuto un ruolo decisivo nella storia inglese.
Guidati da Simone, i crociati del papa partirono, decisi a distruggere la più
eletta cultura europea del Medioevo. In questa santa impresa si avvalsero dell'aiuto
di un nuovo e prezioso alleato, un fanatico spagnolo che si chiamava Domenico
Guzmàn. Spronato da un odio feroce contro l'eresia, nel 1216 Guzmàn fondò
l'Ordine dei domenicani. E nel 1233 i
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domenicani crearono un'istituzione infame: la Santa Inquisizione.
I Catari non sarebbero stati le sue uniche vittime. Prima della Crociata contro
gli Albigesi molti nobili della Linguadoca - soprattutto le influenti casate
di Trecavel e di Tolosa - avevano mostrato molta benevolenza verso la numerosa
popolazione ebrea della zona. La protezione e gli appoggi furono ritirati per
ordine della Chiesa.
Nel 1218 Simone di Montfort fu ucciso mentre assediava Tolosa.
Tuttavia le devastazioni in Linguadoca continuarono, con brevi tregue, per
altri venticinque anni. Nel 1243, tuttavia, tutta la resistenza organizzata era
finita. Col 1243 tutte le principali città e roceaforti catare erano state
espugnate dagli invasori venuti dal Nord, eccettuate poche fortezze remote e
isolate. La più importante era la maestosa cittadella montana di Montségur,
librata come un'arca celeste sopra le valli circostanti.
Per dieci mesi, Montségur fu assediata dagli invasori; respinse
vari assalti e resistette con grande tenacia. Alla fine, nel marzo del 1244, la
fortezza capitolò e il catarismo, almeno apparentemente, smise di esistere
nella Francia meridionale. Ma le idee non possono mai venire annientate in
modo definitivo. Nel suo best-seller, Montaillou, ad esempio, Emmanuel
Le Roy Ladurie, attingendo ai documenti dell'epoca, narra le attività svolte
dai Catari superstiti circa mezzo secolo dopo la caduta di Montségur. Piccole
enclavi di eretici continuarono a sopravvivere tra le montagne; i Catari
vivevano nelle grotte, seguivano fedelmente il loro credo e combattevano
un'accanita guerriglia contro i loro persecutori. In molte zone della
Linguadoca- inclusi i dintorni di Rennes-le-Chàteau - la fede catara, sembra,
perdurò ancora a lungo. E parecchi autori hanno fatto risalire diverse eresie
europee dei tempi successivi a derivazioni del pensiero cataro: ad esempio i
Valdesi, gli Hussiti, gli Adamiti o Fratelli del Libero Spirito, gli
Anabattisti e gli strani Camisards, molti dei quali si rifugiarono a Londra
all'inizio del secolo XVIII.
Il tesoro dei Catari
Durante la Crociata contro gli Albigesi e in tempi successivi,
intorno ai Catari crebbe una leggenda che persiste ancora oggi. In
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parte, ciò può essere attribuito alla temperie romantica che
circonda ogni causa tragicamente perduta - ad esempio quella del Bon-nie
Prince Charlie, sfortunato pretendente al trono d'Inghilterra-di una luce
magica, di un'intensa nostalgia. Ma nel contempo, come potemmo scoprire,
c'erano alcuni misteri molto concreti associati ai Catari. Anche se le leggende
potevano essere esagerate, restavano parecchi enigmi.
Uno di questi riguarda l'origine dei Catari; e sebbene all'inizio
ci sembrasse una questione accademica, in seguito risultò di un'importanza
considerevole. Molti storici, in tempi recenti, hanno sostenuto che i Catari
derivavano dai Bogomil, una setta attiva in Bulgaria nel X e nell'XI secolo, i
cui missionari erano emigrati verso occidente. Non c'è dubbio che gli eretici
della Linguadoca comprendessero anche numerosi Bogomil. Anzi, un noto predicatore
Bogomil ebbe una posizione di rilievo negli affari politici e religiosi di quel
tempo. Tuttavia, le nostre ricerche rivelarono chiari indizi che i Catari non
derivavano dai Bogomil. Al contrario, sembravano rappresentare la fioritura di
un movimento già da secoli radicato nel suolo francese. Sembravano discendere
quasi direttamente da eresie insediate in Francia già all'avvento dell'era
cristiana.4
Vi sono altri misteri, molto più inquietanti, associati ai Catari.
Jean de Joinville, ad esempio, che da vecchio scrisse dei suoi rapporti con il
re Luigi IX durante il XIII secolo, afferma: « II re [Luigi IX] mi narrò una
volta come molti uomini degli Albigesi si erano presentati al conte di
Montfort... e l'avevano invitato a seguirli e ad andare a vedere il corpo di
Nostro Signore, che era divenuto carne e sangue nelle mani del loro prete ».5
Secondo questo aneddoto, Montfort fu sconcertato dall'invito. Dichiarò
burberamente che il suo seguito poteva andare, se voleva; ma lui avrebbe
continuato a credere secondo i dettami della « Santa Chiesa ». L'episodio non
ha spiegazione. Lo stesso Joinville lo riferisce quasi di sfuggita. Ma come
dobbiamo interpretare quell'invito enigmatico? Che cosa facevano i Catari? Di
quale rito si trattava? Escludendo la messa, che del resto i Catari
ripudiavano, che cosa poteva far sì che « il corpo di Nostro Signore »
diventasse « carne e sangue »? A qualunque rito si riferisse questa affermazione
è comunque inquietante, se la si prende alla lettera.
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Un altro mistero circonda il leggendario « tesoro » dei Catari. Si
sa che i Catari erano ricchissimi. Il loro credo vietava di portare le armi e,
anche se molti non rispettavano la proibizione, resta il fatto che si servivano
di un gran numero di mercenari, assoldati con spese ingenti. Nel contempo,
erano evidenti e spiegabilissime le fonti delle ricchezze dei Catari, ad
esempio la devozione di molti potenti proprietari terrieri. Tuttavia, anche
durante la Crociata contro gli Albigesi, nacquero voci di un fantastico,
mistico tesoro dei Catari che trascendeva le ricchezze materiali. Qualunque
cosa fosse, si diceva che il tesoro fosse custodito a Montségur. Ma quando
Montségur cadde, non vi fu trovato niente di eccezionale. Nonostante ciò, vi
sono alcuni episodi estremamente singolari, legati all'assedio e alla
capitolazione della fortezza.
Durante l'assedio, gli assalitori erano più di 10.000. Con questo
esercito tentarono di circondare tutta la montagna, per precludere ogni
possibilità di entrare e di uscire dalla roccaforte e per prendere per fame i
difensori. Ma nonostante la loro consistenza numerica, non avevano uomini a
sufficienza per rendere del tutto impenetrabile l'accerchiamento. Inoltre,
molti soldati erano del luogo e simpatizzavano per i Catari. E molti erano
semplicemente infidi. Di conseguenza, non era troppo difficile passare
inosservati attraverso le linee degli assedianti. C'erano molti varchi dai
quali gli uomini potevano uscire e rientrare, e la fortezza veniva rifornita di
viveri con questo metodo.
I Catari approfittarono di quei varchi. In gennaio, circa tre mesi
prima della caduta della fortezza, dueparfaits fuggirono. Secondo
testimonianze attendibili, portarono via una parte consistente delle ricchezze
materiali degli assediati: un carico d'oro, d'argento e di monete che
trasportarono dapprima in una grotta fortificata tra le montagne e
successivamente in un castello. Poi il tesoro sparì, e nessuno ne seppe più
nulla.
II 1° marzo Montségur
capitolò. Ormai i suoi difensori erano ridotti a meno di 400: 150-180 erano parfaits,
e gli altri erano cavalieri, scudieri, armigeri e i loro familiari. Gli
assedianti offrirono loro condizioni sorprendentemente generose. Agli armigeri
sarebbero stati perdonati tutti i loro « crimini » ; avrebbero potuto andarsene
indisturbati con armi, bagagli e con tutti i compensi, denaro incluso, che
avessero ricevuto da quelli che li avevano
assoldati. Anche ai parfaits veniva accordato un
trattamento inaspettatamente magnanimo. Purché abiurassero la loro fede eretica
e confessassero all'Inquisizione i loro « peccati », sarebbero stati liberati e
sottoposti a lievi penitenze.
I difensori chiesero una tregua di due settimane, con la totale
interruzione delle ostilità, per prendere in considerazione le condizioni.
Dimostrando ancora una volta una generosità inconsueta, gli assedianti
acconsentirono. In cambio, i difensori offrirono volontariamente un certo
numero di ostaggi. Fu concordato che, se qualcuno avesse cercato di uscire
dalla fortezza, gli ostaggi sarebbero stati giustiziati.
I parfaits erano veramente tanto legati alla loro fede da preferire il
martirio alla conversione? Oppure c'era qualcosa che non potevano o non
osavano confessare all'Inquisizione? Comunque stessero le cose, nessuno dei parfaits,
a quanto si sa, accettò le condizioni offerte dagli assedianti. Scelsero
tutti il martirio. Anzi, almeno altri venti difensori della fortezza, sei
donne e una quindicina di combattenti, chiesero e ricevettero il Consolamentum
e divennero anch'essi parfaits, votandosi così alla morte certa.
II 15 marzo venne a scadere
la tregua. All'alba del giorno seguente, più di duecento parfaits furono
trascinati giù per il pendio della montagna. Nessuno di loro abiurò. Non c'era
tempo per erigere un rogo per ognuno; perciò furono rinchiusi entro una grande
palizzata piena di legna ai piedi del monte, e bruciati in massa. I superstiti
della guarnigione, confinati nel castello, furono costretti ad assistere.
Vennero avvertiti che, se qualcuno di loro avesse cercato di fuggire, sarebbero
stati uccisi tutti, inclusi gli ostaggi.
Nonostante il rischio, però, la guarnigione era riuscita a nascondere
quattro parfaits. E la notte del 16 marzo questi quattro uomini,
accompagnati da una guida, fuggirono, ancora una volta con la piena connivenza
della guarnigione. Scesero lungo la scoscesa parete occidentale della
montagna, servendosi di corde, e calandosi per tratti a strapiombo alti più di
cento metri.6
Che cosa stavano facendo quei quattro? Che scopo aveva quella fuga
ardimentosa che comportava un simile rischio per la guarnigione e gli ostaggi?
L'indomani avrebbero potuto uscire liberamente dalla fortezza per riprendere
un'esistenza normale. Eppu-
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re, per una ragione sconosciuta, intrapresero una pericolosa fuga
notturna che poteva costare la vita a loro e ai loro compagni.
Secondo la tradizione, i quattro portavano il leggendario tesoro
dei Catari. Ma il tesoro dei Catari era stato portato via di nascosto da
Montségur tre mesi prima. E del resto, quale tesoro, quanto oro, argento,
denaro, potevano portare sulle spalle tre o quattro uomini che si calavano con
le corde giù per uno strapiombo? Se i quattro fuggiaschi portavano veramente
qualcosa, è evidente che non si trattava di ricchezze materiali.
Che cosa potevano portare? Forse oggetti culturali della loro
fede, libri, manoscritti, insegnamenti segreti, reliquie, oggetti di
significato religioso; forse qualcosa che, per una qualunque ragione, non
potevano lasciar cadere in mani nemiche. Questo potrebbe spiegare perché venne
organizzata la fuga, una fuga tanto rischiosa per tutti. Ma se si trattava di
una cosa tanto preziosa che doveva venir sottratta alle mani del nemico, a
qualunque costo, perché non era stata portata via in precedenza? Perché non era
stata evacuata di nascosto con il tesoro materiale, tre mesi prima? Perché era
stata tenuta nella fortezza fino all'ultimo, pericolosissimo momento?
La data esatta della tregua ci permise di dedurre una possibile
risposta a questi interrogativi. La tregua era stata chiesta dai difensori, che
per ottenerla avevano offerto volontariamente di consegnare gli ostaggi. Per
una qualche ragione, sembra che i difensori la ritenessero necessaria - anche
se servì soltanto a procrastinare di due settimane l'inevitabile.
Forse, abbiamo concluso, quella tregua era stata indispensabile
per guadagnare tempo: non in senso generale, ma per arrivare a quella data
specifica. Coincideva con l'equinozio di primavera, ed è possibile che
l'equinozio avesse per i Catari un'importanza rituale. E coincideva anche con
la Pasqua. Ma i Catari, che contestavano il valore della Crocifissione, non
attribuivano alla Pasqua un'importanza particolare. Si sa tuttavia che fu
celebrata una festività il 14 marzo, alla vigilia dello scadere della tregua.7
Sembra che non vi siano dubbi: la tregua fu chiesta per poter celebrare quella
festività. E sembra altrettanto certo che la festività non poteva venire
celebrata in una data a caso. È evidente che doveva assolutamente essere il 14
marzo. Non si sa con esattezza quale
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celebrazione fosse, ma è sicuro che impressionò i mercenari,
alcuni dei quali, sfidando la morte inevitabile, si convertirono alla fede
catara. Questo fatto poteva fornire una chiave, almeno parziale, per dedurre
che cosa venne portato fuori di nascosto da Montségur due notti dopo? È
possibile che avesse indotto almeno venti difensori a divenire parfaits all'ultimo
momento? È possibile che giustificasse la successiva collusione dei membri
della guarnigione, a rischio della loro vita? Se la risposta a tutti questi
interrogativi è sì, questo spiegherebbe perché ciò che venne portato via la
notte del 16 non era stato asportato prima: in gennaio, ad esempio, quando era
stato messo in salvo il tesoro materiale. Era necessario per la celebrazione. E
doveva essere sottratto alle mani dei nemici.
II mistero dei Catari
Mentre riflettevamo su queste conclusioni, il nostro pensiero
ritornava continuamente alle leggende che collegano i Catari al Santo Graal.8
A quel tempo, eravamo convinti che il Graal non fosse altro che un mito. Non
eravamo certamente disposti ad affermare che fosse esistito realmente. E anche
se era esistito, non potevamo immaginare che una coppa o un vaso,
indipendentemente dal fatto che avesse contenuto o meno il sangue di Gesù,
fosse tanto prezioso per i Catari, dato che per loro Gesù aveva un'importanza
relativa. Tuttavia, quelle leggende continuavano ad assillarci e a
sconcertarci.
Sembra che esista in effetti un legame, per quanto sfuggente, tra
i Catari e il culto del Graal nella forma in cui si era evoluto nel XII e nel
XIII secolo. Molti studiosi hanno sostenuto che i romanzi del Graal - ad
esempio quelli di Chrétien de Troyes e di Wolfram von Eschenbach - sono
un'interpolazione del pensiero cataro, celato sotto un simbolismo complesso,
nel cuore del cristianesimo ortodosso. È possibile che questa affermazione sia
esagerata, ma contiene una parte di verità. Durante la Crociata controigli_AlbP
gesi, gli ecclesiastici si scagliarono contro i romarjzr'clel Graal,
proclamandoli dannosissimi se non addirittura erètici. E in alcuni di questi
romanzi vi sono passi che non soltanto'non sono ortodossi, ma sono anche fuori
dubbio dualisti; in altre parole, catari.
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E c'è di più. In uno dei suoi romanzi del Graal, Wolfram von
Eschenbach afferma che il castello del Graal era situato nei Pire-nei: un'affermazione
che in futuro Richard Wagner, comunque, avrebbe preso alla lettera. Secondo
Wolfram, il nome del castello del Graal era Munsalvaesche - evidentemente una
versione germanizzata di Montsalvat, un termine cataro. E in uno dei poemi di
Wolfram il signore del castello del Graal è chiamato Perilla. Particolare
piuttosto interessante, il signore di Montségur era Raimon de Pereille, e il
suo nome appare come Perilla, nella forma latina, in vari documenti dell'epoca.9
Se queste coincidenze sorprendenti continuavano a perseguitarci,
concludemmo, dovevano aver colpito anche Saunière, il quale, dopotutto,
conosceva molto bene le leggende e le tradizioni popolari della zona. E come
tutti coloro che erano nati in quella regione, Saunière doveva sapere benissimo
che nelle vicinanze si trovava Montségur, la cui sorte tragica e commovente
viene ricordata ancora oggi dagli abitanti di quel territorio. Ma per Saunière
la vicinanza della fortezza poteva aver avuto anche certi significati pratici.
Qualcosa era stato portato fuori da Montségur, clandestinamente,
subito dopo Io scadere della tregua. Secondo la tradizione, i quattro uomini
fuggiti dalla cittadella condannata portavano con loro il tesoro dei Catari. Ma
l'oro e il denaro erano stati portati via tre mesi prima. Era possibile che il
« tesoro » cataro, come il « tesoro » scoperto da Saunière, consistesse
soprattutto in un segreto? Era possibile che il segreto fosse legato, chissà
come, a ciò che era conosciuto come il Santo Graal? Ci sembrava inconcepibile
che i romanzi del Graal potessero essere interpretati alla lettera.
In ogni caso, ciò che era stato portato fuori da Montségur dovette
essere trasportato altrove. Secondo la tradizione, finì nelle grotte
fortificate di Ornolac, nell'Ariège, dove poco tempo dopo fu sterminato un
gruppo di Catari. Ma a Ornolac non è mai stato trovato nulla, eccettuati gli
scheletri. D'altra parte, Rennes-le-Chàteau dista soltanto mezza giornata a
cavallo da Montségur. Ciò che fu portato via da Montségur poteva essere stato trasportato
a Rennes-le-Chàteau, o più probabilmente in una delle grotte che costellano le
montagne circostanti. E se il « segreto » di
50
Montségur era quello scoperto secoli dopo da Saunière, ovviamente
questo spiegherebbe parecchie cose.
Nel caso dei Catari, come in quello di Saunière, la parola «
tesoro » sembra nascondere dell'altro: una conoscenza o un'informazione di
qualche cosa. Data la tenace fedeltà dei Catari al loro credo e la loro
ostilità militante nei confronti di Roma, ci chiedevamo se quell'informazione
(ammesso che esistesse realmente) era legata in qualche modo al cristianesimo,
alle dottrine e alla teologia del cristianesimo, forse alla sua storia e alle
sue origini. Insomma, era possibile che i Catari (o almeno alcuni di loro)
sapessero qualcosa: un qualcosa che contribuì ad attizzare il frenetico fervore
con cui Roma decise di sterminarli? L'ecclesiastico anglicano che ci aveva
scritto aveva accennato a una « prova incontrovertibile ». Era possibile che i
Catari fossero a conoscenza di quella « prova »?
A quel tempo, potevamo soltanto abbandonarci a ipotesi oziose. E
in generale le notizie sui Catari erano così scarse da precludere anche una
semplice ipotesi di lavoro, D'altra parte, le nostre ricerche sui Catari erano
sconfinate più volte in un altro argomento, ancora più enigmatico e misterioso
e circondato da leggende suggestive: i Cavalieri Templari.
Perciò incominciammo a indagare sui Templari. E fu a questo punto
che le nostre ricerche incominciarono a portare documentazioni concrete, e il
mistero assunse proporzioni assai più grandi di quanto avessimo immaginato.
Note
1 Nel 1888, mentre lavorava nella Biblioteca
Municipale di Orleans, Doinel trovò un manoscritto datato 1022 e opera di uno
gnostico che più tardi, quello stesso anno, fu mandato al rogo. La lettura del
manoscritto convertì Doinel allo gnosticismo. Cfr. Lauth, « Tableau de l'au dela », pp. 212 sgg.
2 I manichei avevano usato per lungo tempo vari
metodi di conjróflo delle nascite, e venivano accusati di giustificare
l'aborto. Quasi sicuramente queste pratiche erano incluse anche
nell'insegnamento cataro. Noonan dimostra che la condanna della contraccezione,
da parte della Chiesa, venne riconfermata al tempo della condanna dell'eresia
catara. Cfr. Noonan, Contraception, p. 281, Chadwick, Pri-scillian, p.
37.
51
3 De Rougement, Lave in thè Western
World, p. 78.
4 Nell'anno 800 d.C. i manichei venivano ancora
condannati in Occidente. Nel 991 Gerbert d'Aurillac, divenuto più tardi papa
con il nome di Silvestro II, espresse convinzioni manichee. Cfr. Runciman, The
Medieval Manichee, p. 117; Niel, Lei Cathars de Montségur, pp. 26
sgg.
5 Jean de Joinville, Vita di san Luigi (p.
174 dell'edizione inglese).
6 Niel, Les Cathais de Montségur, pp.
291 sgg.
7 I manichei avevano una festività chiamata Berna,
che veniva celebrata in marzo. Niel ipotizza che fosse appunto la festività
celebrata a Montségur il 14 marzo, e aggiunge che nel 1244 l'equinozio di
primavera cadeva appunto in quella data: Niel, Les Cathars de Montségur, pp.
276 sgg.
Sembra che i manichei si
servissero di uno speciale libro di disegni che esprimeva gli insegnamenti di
Mani, forse simbolicamente. Conteneva delle immagini che mostravano il dualismo
tra i Figli della Luce e i Figli delle Tenebre. Questo libro veniva usato nella
festività chiamata Berna. Forse un libro contenente simboli di questo
tipo faceva parte del tesoro dei Catari. Cfr. Ort, Mani, pp. 168 sgg.,
180 e 253 sgg.
8 Un esame di questo tipo di ipotesi si trova
in Waite, Holy Grati, pp. 524 sgg.
9 Nelli, Dictionnaire des hérésies, pp.
216 sgg. Lo scrittore che si è occupato maggiormente di questi tipi di
connessione è Otto Rahn, autore di Crosaide cantre le Graìl e La cour
de Lucifer. Otto Rahn sostenne che il castello del Graal, il Munsalvaesche
di Wolfram von Eschenbach, è Montségur. I libri di Rahn furono pubblicati
per la prima volta in tedesco negli anni Trenta. Rahn entiò nelle SS e
raggiunse il grado di colonnello. Le sue ricerche sui Catari e il Graal furono
incoraggiate da Alfred Rosenberg, il teorico ufficiale del razzismo, portavoce
del partito nazista e amico di Hitler. Rahn scomparve nel 1939; fu detto che si
era suicidato in vetta al monte Kufstein. Tuttavia un ricercatore francese ha
scoperto parecchi documenti relativi a Rahn, l'ultimo dei quali porta la data
del 1945. Cfr. Bernadac, Le mystère Otto Rahn. Se i
documenti si riferiscono veramente allo scrittore, c'è da domandarsi quali
fossero i veri scopi di misteriosi scavi eseguiti dai tedeschi a Montségur e in
altre località legate ai Catari, durante la Seconda guerra mondiale.
52
Ili
I monaci guerrieri
La ricerca sui Cavalieri Templari fu un'impresa tremenda. La
quantità del materiale esistente sull'argomento era scoraggiarne; e all'inizio
non sapevamo quanta parte di tale materiale fosse attendibile. Se i Catari
avevano dato origine a innumerevoli leggende spurie e romantiche, le
mistificazioni che circondavano i Templari erano ancora più numerose e
sconcertanti.
Su un certo piano, sapevamo abbastanza sul loro conto: erano stati
monaci-guerrieri, ardenti e fanatici, mistici cavalieri dal mantello bianco
ornato dalla croix pattée rossa, e avevano avuto un ruolo importante
nelle Crociate. In un certo senso, erano gli archetipi dei crociati, gli arditi
della Terrasanta, che avevano combattuto ed erano morti eroicamente a migliaia
in nome di Cristo. Tuttavia molti studiosi, ancora oggi, li consideravano un'istituzione
molto più misteriosa, un ordine essenzialmente segreto, votato a intrighi
oscuri, macchinazioni clandestine, tenebrose cospirazioni. E restava un fatto
sconcertante e inspiegabile. Dopo due secoli di esistenza, questi biancovestiti
campioni di Cristo furono accusati di rinnegare e ripudiare lo stesso Cristo,
di calpestare la croce e di sputarvi sopra.
Nel romanzo di Walter Scott, Ivanhoe, i Templari sono
preserie tati come arroganti e altezzosi, despoti avidi e ipocriti^herSbusano
spudoratamente del loro potere, astuti intriganti che manovrano le sorti degli
uomini e dei regni. Altri scrittori del XIX secolo li descrivono come
abominevoli satanisti, adoratori del diavolo che praticano ogni sorta di riti
osceni, esecrabili ed eretici. Gli storici più recenti tendono a considerarli
vittime sfortunate, pedine sa-
53
criticate dalle manovre politiche della Chiesa e dello Stato. Vi
sono poi altri autori, soprattutto quelli che seguono la tradizione della
massoneria, che considerano i Templari come adepti mistici e iniziati, custodi
di una sapienza arcana che trascende lo stesso cristianesimo.
Indipendentemente dai pregiudizi degli scrittori, nessuno contesta
lo zelo eroico dei Templari o il contributo dato alla storia. E nessuno dubita
che il loro ordine sia una delle istituzioni più affascinanti ed enigmatiche
negli annali della cultura occidentale. Nessuna storia delle Crociate - o più
in generale dell'Europa del XII e del XIII secolo - trascura di menzionare i
Templari. Al culmine della loro esistenza furono l'organizzazione più influente
e potente dell'intera cristianità, con l'unica possibile eccezione del papato.
Tuttavia permangono certi interrogativi inquietanti. Chi erano e
che cos'erano i Cavalieri Templari? Erano semplicemente ciò che sembravano,
oppure erano qualcosa di diverso? Erano soltanto soldati circonfusi in seguito
d'un alone di leggenda e di mistificazione? E se questo è vero, perché? Oppure
erano legati a un autentico mistero? I miti fioriti successivamente potevano
avere un fondamento?
Per prima cosa, abbiamo esaminato le versioni generalmente
accettate sul conto dei Templari, quelle offerte da storici seri e rispettati.
Queste versioni, però, sollevavano virtualmente su ogni punto un numero di
interrogativi ancora più grande di quelli che trovavano risposta. Non soltanto
crollavano a un attento esame, ma facevano pensare a una specie di « copertura
». Non riuscivamo a scacciare il sospetto che fosse stato volutamente nascosto
qualcosa e fosse stata confezionata una « copertura », che gli storici dei
tempi successivi si erano accontentati di ripetere.
I Cavalieri Templari: la
versione ortodossa
A quanto si sa generalmente, le prime notizie attendibili sui Templari
sono quelle date da uno storico franco, Guillaume de Tyre, che scrisse tra il
1175 e il 1185. Era la fase culminante delle Crociate, quando gli eserciti
dell'Occidente avevano già conquistato la Terrasanta fondando il regno di
Gerusalemme o, come
54
veniva chiamato dagli stessi Templari, Outremer, «
Oltremare ». Ma quando Guillaume de Tyre incominciò a scrivere, la Palestina
era in mano agli occidentali da settant'anni, e i Templari esistevano da più
di mezzo secolo. Perciò Guillaume narrava eventi anteriori alla sua nascita,
eventi ai quali non aveva assistito personalmente, e che aveva appreso di
seconda o terza mano. Di seconda o terza mano e, per giunta, in base a
un'autorità incerta. Infatti, tra il 1127 e il 1144 non c'erano cronisti
occidentali in Outremer. e quindi non esisteva una documentazione
scritta relativa a quegli anni importantissimi.
Insomma, non sappiamo molto delle fonti di Guillaume, e può darsi
che alcune delle sue affermazioni siano discutibili. Può darsi che attingesse
ai racconti popolari, a una tradizione orale non troppo attendibile. Oppure,
può darsi che avesse consultato gli stessi Templari e riferisse ciò che gli
avevano raccontato loro stessi. Se è così, è chiaro che Guillaume riferisce
soltanto quello che gli stessi Templari volevano che dicesse.
Certo, Guillaume ci fornisce varie notizie fondamentali; ed è su
queste notizie che si basano tutte le storie successive dei Templari, tutte le
spiegazioni della loro fondazione, tutti i resoconti delle loro attività. Ma se
si tiene conto del tono vago e sommario della cronaca di Guillaume, del tempo
in cui scriveva e della penuria di fonti documentate, la base per costruire un
quadro definitivo viene a essere molto precaria. Le cronache di Guillaume sono
indiscutibilmente utili. Ma è un errore - e molti storici lo hanno commesso -
considerarle inoppugnabili ed esatte. Persino le date di Guillaume, come fa
osservare Sir Steven Runciman, « sono confuse e talvolta dimostrabilmente
errate ». '
Secondo Guillaume de Tyre, l'Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo
e del Tempio di Salomone fu fondato nel 1118. Il fondatore sarebbe stato un
certo Hugues de Payen, un nobile vassallo del conte di Champagne.2
Un giorno Hugues si presentò spontaneamente, insieme a otto compagni, al
palazzo di Baldovino I, re di Gerusalemme, il cui fratello maggiore, Goffredo
di Buglione, aveva conquistato la Città Santa diciannove anni prima. A quanto
sembra, Baldovino li accolse con grande cordialità, come fece anche il
patriarca di Gerusalemme, primate religioso del nuovo regno ed emissario
speciale del pontefice.
55
Lo scopo dichiarato dai Templari, continua Guillaume de Tyre, era
«. per quanto lo permettevano le loro forze, mantenere sicure le vie e le
strade... particolarmente per proteggere i pellegrini a.1 Questa
finalità era così encomiabile che il re mise a disposizione dei cavalieri
un'intera ala del suo palazzo. E nonostante il voto di povertà, i cavalieri si
installarono in quell'alloggio lussuoso. Secondo la tradizione, l'alloggio
sorgeva sulle fondamenta dell'antico Tempio di Salomone: e fu da questo che il
neonato Ordine prese il nome.
Per nove anni, ci narra Guillaume de Tyre, i nove cavalieri non
ammisero nuovi candidati nel loro Ordine. Ufficialmente vivevano ancora in
povertà, al punto che i sigilli autentici mostrano due cavalieri in groppa a un
solo cavallo per simboleggiare non solo lo spirito di fratellanza, ma anche una
penuria di mezzi che impediva loro di avere una cavalcatura per ciascuno.
Questo sigillo viene spesso considerato come il più famoso e tipico dei
Templari, risalente ai primi tempi dell'Ordine. Tuttavia, risale invece a un
secolo dopo, quando i Templari non erano certo poveri - se mai lo erano stati.
Secondo Guillaume de Tyre, che scrisse mezzo secolo dopo, i
Templari furono fondati nel 1118 e si insediarono nel palazzo reale per
uscirne, presumibilmente, allo scopo di proteggere i pellegrini sulle strade
della Terrasanta. C'era tuttavia, a quell'epoca, uno storico ufficiale, alle
dipendenze del re. Si chiamava Fulk de Chartres, e scriveva non già
cinquant'anni dopo la presunta fondazione dell'Ordine, ma proprio negli anni
in questione. Abbastanza stranamente, Fulk de Chartres non parla mai di Hugues
de Payen, dei suoi compagni o di cose sia pur lontanamente collegate ai
Cavalieri Templari. C'è dunque uno strano silenzio che circonda le attività
dei Templari nei primi tempi dell'esistenza dell'Ordine.
Di certo, non esiste nessuna documentazione - neppure più tarda -
che dimostri che facessero qualcosa per proteggere i pellegrini. D'altra parte,
non si può fare a meno di chiedersi come mai quei pochi uomini potessero
sperare di svolgere un compito tanto colossale. Nove cavalieri per proteggere i
pellegrini su tutte le strade della Terrasanta? Soltanto nove? Per tutti i
pellegrini? Se quello era il loro compito, sarebbe stato logico che
accogliessero a
braccia aperte nuove reclute. Invece, secondo Guillaume deTyre,
per nove anni non ammisero nell'Ordine nuovi candidati.
Tuttavia, nel breve volgere di un decennio la fama dei Templari
sembra essersi diffusa in Europa. Le autorità ecclesiastiche parlavano di loro
in termini entusiastici ed esaltavano il loro spirito cristiano. Nel 1128, o
poco più tardi, un trattato che elogiava le loro virtù e i loro meriti fu
scritto addirittura da san Bernardo, abate di Clairvaux e principale portavoce
della cristianità di quel tempo. Il trattato di Bernardo, In lode della
Nuova Cavallerìa, proclama che i Templari sono l'epitome e l'apoteosi dei
valori cristiani.
Nove anni dopo la fondazione dell'Ordine, quasi tutti i nove
cavalieri tornarono in Europa, dove ebbero accoglienze trionfali orchestrate
soprattutto da san Bernardo. Nel gennaio 1128 si riunì a Troyes, dov'era la
corte del conte di Champagne, il signore di Hugues de Payen, un concilio del
quale ancora una volta Bernardo fu l'ispiratore. In questa occasione, fu
ufficialmente riconosciuto l'Ordine militare-religioso dei Templari. Hugues de
Payen fu insignito del titolo di Gran maestro. Lui e i suoi subordinati
sarebbero stati monaci-guerrieri, soldati-mistici, e avrebbero unito la
disciplina austera del chiostro a uno zelo marziale fanatico: una « milizia di
Cristo », come venivano chiamati a quel tempo. Fu sempre san Bernardo che
contribuì a redigere, con una prefazione entusiastica, la regola cui avrebbero
obbedito i cavalieri, una regola ispirata a quella dell'Ordine dei monaci
cistercensi, del quale lo stesso Bernardo era l'influenza dominante.
I Templari facevano voto di povertà, castità e obbedienza. Erano
obbligati a tagliarsi i capelli, ma non potevano tagliarsi la barba, e questo
li distingueva, in un'epoca in cui quasi tutti gli uomini si radevano. Il
vitto, l'abbigliamento e i vari aspetti della vita quotidiana erano
meticolosamente e rigorosamente regolati secondo i princìpi monastici e
militari. Tutti i membri dell'Ordine erano tenuti a portare abiti, sopravvesti
e mantelli bianchi; e questo portò ben presto al tipico mantello bianco per cui
i Templari andavano famosi. « Non è concesso a nessuno portare vesti bianche o
mantelli bianchi, eccettuati i... Cavalieri di Cristo. »4 Così
stabiliva la regola dell'Ordine, che si diffondeva sul significato simbolico
di questo abbigliamento: « A tutti i cavalieri professi,
57
nell'inverno e nell'estate, noi assegnamo, se è possibile
procurarli, indumenti bianchi, affinchè coloro che hanno rinnegato un'est
stenza tenebrosa sappiano di doversi raccomandare al loro creatore con una
vita pura e candida. »5
Oltre a questi dettagli, la regola istituiva a grandi linee una
gerarchia e un apparato amministrativo. E il comportamento sul campo di
battaglia era rigorosamente stabilito. Per esempio, se venivano catturati, i
Templari non erano autorizzati a chiedere né misericordia né a riscattarsi.
Erano tenuti a combattere fino alla morte. E non potevano neppure ripiegare, a
meno che i nemici fossero tre volte più numerosi di loro.
Nel 11396 fu emanata una Bolla pontificia da Innocenzo
III, già monaco cistercense a Clairvaux e protetto di san Bernardo . Secondo
la Bolla, i Templari non dovevano obbedienza a nessun potere secolare
o'ecclesiastico, eccettuato lo stesso papa. In altre parole, vennero resi
completamente indipendenti da tutti i re, i principi e i prelati e da ogni
interferenza da parte delle autorità religiose e politiche. In pratica erano
diventati un impero internazionale autonomo.
Durante i due decenni successivi al Concilio di Troyes, l'Ordine
ebbe un'espansione notevolissima e straordinariamente rapida. Quando Hugues de Payen
si recò in Inghilterra verso la fine del 1128, fu ricevuto con « grande
devozione » dal re Enrico I. In tutta l'Europa, i figli cadetti delle famiglie
nobili accorrevano nelle file dell'Ordine, e da ogni parte del mondo cristiano
di allora giungevano cospicue donazioni in denaro, beni e terre. Hugues de
Payen aveva dato l'esempio donando all'Ordine tutte le sue proprietà, e tutte
le nuove reclute erano tenute e fare altrettanto. Quando veniva ammesso
nell'Ordine, un uomo doveva cedergli tutto ciò che possedeva.
Se si tiene presente questa politica, non è sorprendente che le
ricchezze dei Templari si moltiplicassero. Già dodici mesi dopo il Concilio di
Troyes, l'Ordine possedeva ricche proprietà terriere in Francia, Inghilterra,
Scozia, Fiandre, Spagna e Portogallo. Dopo un altro decennio, ne aveva
acquisite anche in Italia, Austria, Germania, Ungheria, in Terrasanta e in
varie località orientali. Sebbene i Cavalieri fossero vincolati individualmente
dal voto di povertà, questo non impediva all'Ordine di accumulare ricchezze
58
TORTO®* sA.RTA\
• DAMASCO
._____JIROji BEAUFORT
• MONTREAL
Carta 4 Castelli e città
principali della Terrasanta intorno alla metà del XII secolo.
senza precedenti. Tutti i doni erano bene accetti. Ma l'Ordine
aveva il divieto di cedere qualunque cosa; non poteva farlo neppure per pagare
il riscatto dei suoi capi. Il Tempio riceveva doni in abbondanza ma, per
principio, non dava mai nulla. Quando nel 1130 Hugues de Payen ritornò in
Palestina con una scorta di circa trecento cavalieri - un numero considerevole,
per quei tempi- si lasciò alle spalle, affidate alla custodia di altri
confratelli, immense proprietà terriere sparse in tutta Europa.
Nel 1146 i Templari adottarono la famosa croce patente rossa, la croix
pattée. Con questo emblema sui mantelli, i cavalieri accompagnarono alla
Seconda Crociata re Luigi VII di Francia. In quell'occasione si conquistarono
una fama di zelo marziale e di temerarietà quasi folle, ma anche di eccezionale
arroganza. Nel complesso, comunque, erano magnificamente disciplinati: il corpo
combattente più disciplinato che esistesse al mondo in quel tempo. Lo stesso re
di Francia scrisse che era stato merito esclusivo dei Templari se la Seconda
Crociata, mal concepita e peggio guidata, non era degenerata in una totale
disfatta.
Nei cento anni che seguirono, i Templari divennero una potenza
internazionale influentissima. Erano continuamente impegnati in rapporti
diplomatici d'alto livello fra i nobili e i monarchi di tutto il mondo
occidentale e della Terrasanta. In Inghilterra, ad esempio, il Maestro del
Tempio era invitato regolarmente al Parlamento reale ed era considerato il capo
di tutti gli ordini religiosi, con diritto di precedenza su tutti i priori e
gli abati del regno. I Templari mantennero stretti legami tanto con Enrico II
quanto con l'arcivescovo Tommaso Becket, e si adoperarono per riconciliarli.
In tempi successivi altri sovrani inglesi, incluso Giovanni Senzaterra,
alloggiarono spesso nel presidio* londinese del Tempio; e il Maestro
dell'Ordine fu a fianco del re quando questi firmò la Magna Carta.7
L'attività politica dell'Ordine non era limitata alla cristianità.
*È stato tradotto con
presidio il termine inglese preceptory che a sua volta deriva dal latino
praeceptoria. Precettoria in italiano esiste ma è m disuso. Dato il
carattere prevalentemente militare dell'Ordine dei Templari e poiché le
costruzioni che li ospitavano erano dei castelli, il termine presidio ci è
sembrato il più opportuno per denominare la sede territoriale della loro
comunità. [N.d.R.]
60
Furono stretti legami anche con il mondo musulmano - quel mondo
tanto spesso contrapposto sui campi di battaglia - e i Templari godevano da
parte dei potentati saraceni di un rispetto molto più grande di quello
accordato a qualunque altro europeo. C'erano persino collegamenti segreti con
gli Hashishim o Assassini la famosa setta di adepti militanti e spesso fanatici
che costituiva l'equivalente islamico dell'Ordine dei Templari. Gli Assassini
pagavano tributi ai Templari, e si diceva che fossero al loro servizio.
Più o meno a tutti i livelli politici i Templari svolgevano
ufficialmente funzioni di arbitrato nelle dispute, e persino i re si sottomettevano
alla loro autorità. Nel 1252 Enrico III d'Inghilterra osò sfidarli, minacciando
di confiscare alcune loro proprietà. « Voi Templari... avete tante proprietà e
tante concessioni che i vostri enormi possedimenti vi inducono a delirare
d'orgoglio e d'alterigia. Ciò che fu stoltamente donato deve perciò essere
saggiamente revocato; e ciò che fu concesso sconsideratamente deve essere
consideratamente ritolto. » II Maestro dell'Ordine rispose: « Che dici, o re?
Non sia mai che la tua bocca pronunci parole tanto spiacevoli e stolte. Finché
userai giustizia, tu regnerai. Ma se la violerai, cesserai d'esser re ».8
È molto difficile far comprendere a una mentalità moderna l'enorme audacia di
questa risposta. Implicitamente, il Maestro rivendica a se stesso e al suo
Ordine un potere che neppure il papato osava reclamare apertamente: il patere
di creare e di deporre i monarchi.
Nel contempo, gli interessi dei Templari si estendevano ben al di
là delle guerre, della diplomazia e dell'intrigo politico. In pratica, furono
loro a ideare e a consolidare l'istituzione bancaria. Prestando somme enormi ai
sovrani squattrinati, diventarono i banchieri di tutti i regnanti dell'Europa e
persino di alcuni potentati musulmani. Con la loro rete di presidi sparsi in
Europa e nel Medio Oriente, organizzarono anche, a tassi d'interesse modesti,
il trasferimento sicuro ed efficiente del denaro per conto dei mercanti, una
classe che finì per dipendere sempre più da loro. Il denaro depositato in una
città, ad esempio, poteva essere/ richiesto e ritirato in un'altra, per mezzo
di lettere cambiarie redatte in codici complicati. I Templari divennero così i
più importanti cambiavalute dell'epoca, e il presidio di Parigi diventò il
centro della finanza europea.9 È addirittura probabile che
l'assegno, ci^me noi
61
lo conosciamo e lo usiamo al giorno d'oggi, sia stato inventato
dall'Ordine.
I Templari non si occupavano soltanto di denaro: diffondevano
anche il pensiero. Grazie ai continui contatti, caratterizzati da una mentalità
aperta, con la cultura islamica e con quella giudaica, l'Ordine assunse per
così dire un ruolo di « stanza di compensazione » per nuove idee, nuove
dimensioni della conoscenza e nuove scienze. I Templari avevano un vero e
proprio monopolio della tecnologia più avanzata del loro tempo: quanto di
meglio veniva prodotto dagli armaioli, artigiani del cuoio, i muratori, gli
architetti e gli ingegneri militari. Contribuirono allo sviluppo dei rilevamenti
topografici, della cartografia, delle costruzioni stradali e della navigazione.
Possedevano porti, cantieri e una flotta commerciale e militare che fu tra le
prime ad adottare la bussola. Inoltre, poiché erano combattenti, la necessità
di curare le ferite e le malattie li rese esperti nell'uso delle medicine.
L'Ordine possedeva ospedali propri, propri medici e chirurghi i quali,
tra'l'altro, usavano estratti di muffe che precorrevano gli antibiotici.
Inoltre, avevano una concezione piuttosto moderna dell'igiene e della pulizia.
E con una mentalità non meno in anticipo sui tempi, consideravano l'epilessia
non già una possessione demoniaca ma una malattia controllabile.10
Ispirato da tanti successi, in Europa l'Ordine del Tempio divenne
sempre più ricco, potente e fiero dei propri successi. Non è sorprendente,
forse, che diventasse anche sempre più arrogante, brutale e corrotto. « Bere
come un Templare » era una frase molto comune a quel tempo. E certe fonti
affermano che l'Ordine non mancava mai di reclutare cavalieri scomunicati.
Ma, mentre in Europa i Templari acquisivano prosperità e
notorietà, in Terrasanta la situazione era gravemente peggiorata. Nel 1185 morì
Baldovino IV, re di Gerusalemme. Durante il dissidio dinastico che seguì,
Gerard de Ridefort, Gran maestro del Tempio, tradì un giuramento fatto al
sovrano morto, e trascinò così la comunità europea della Palestina sull'orlo di
una guerra civile. E non fu la sola azione discutibile di Ridefort. Il suo
comportamento altezzoso nei confronti dei Saraceni causò la rottura della
lunga tregua e provocò un nuovo ciclo di ostilità. Poi, nel luglio del 1187,
Ridefort guidò i suoi cavalieri e il resto dell'eserci-
62
to cristiano in una battaglia avventata e disastrosa a Hattin. Le
forze cristiane furono in pratica annientate; e due mesi dopo la stessa
Gerusalemme, conquistata circa un secolo prima, tornò in mano ai Saraceni.
Durante il secolo successivo, la situazione divenne sempre più
disperata. Nel 1291 ormai era caduto tutto ì'Outremer, e la Terra-santa
era quasi completamente sotto il dominio musulmano. Restava soltanto Acri, ma
anche quest'ultima fortezza venne perduta nel maggio del 1291. I Templari si
comportarono eroicamente nella difesa della città ormai condannata. Lo stesso
Gran maestro, benché ferito gravemente, continuò a battersi fino alla morte.
Poiché a bordo delle galee dell'Ordine lo spazio era limitato, furono evacuati
le donne e i bambini, e tutti i cavalieri, inclusi i feriti, decisero di
rimanere. Quando cadde l'ultimo bastione di Acri, cadde con drammaticità
apocalittica: le mura crollarono seppellendo assedianti e difensori.
I Templari stabilirono a Cipro il loro nuovo quartier generale; ma
con la perdita della Terrasanta, si trovavano privi della loro raison
d'ètre. Poiché non c'erano più terre infedeli da conquistare, l'Ordine
cominciò a rivolgere l'attenzione sull'Europa, nella speranza di trovare una
giustificazione per continuare la propria esistenza.
Un secolo prima, i Templari avevano presieduto alla fondazione di
un .altro ordine cavalieresco a carattere militare-religioso, i Cavalieri
Teutonici. Questi ultimi furono attivi nel Medio Oriente in numero piuttosto limitato;
ma verso la metà del secolo XIII rivolsero l'attenzione verso le frontiere
nord-orientali della cristianità. Là si crearono un principato indipendente, VOrdenstaat
o Ordensland, che abbracciava quasi tutto il Baltico orientale. In
questo principato, che si estendeva dalla Prussia al golfo di Finlandia e al
territorio russo, 1 Cavalieri Teutonici godevano di una sovranità incontestata,
lontano da ogni controllo secolare ed ecclesiastico.
Fin dalla nascita dell'Ordenstaat, 1 Templari avevano sempre
invidiato l'indipendenza e l'immunità dell'ordine confratello. Dopo la caduta
della Terrasanta, incominciarono a pensare idi crearsi uno Stato tutto loro,
per potervi esercitare un'autorità incontrastata e un'autonomia simile a
quella dei Cavalieri Teutonici. A
\ 63
differenza di questi ultimi, però, i Templari non provavano il
minimo interesse per le terre selvagge e desolate dell'Europa orientale. Ormai
erano troppo abituati ai lussi e all'opulenza. E quindi sognavano di fondare il
loro Stato in un territorio più accessibile e congeniale: la Linguadoca."
A partire dai primi anni della sua esistenza, l'Ordine dei Templari
aveva mantenuto rapporti piuttosto buoni con i Catari, specialmente nella
Linguadoca. Molti ricchi proprietari terrieri, catari o simpatizzanti dei
Catari, avevano donato all'Ordine cospicui possedimenti. Secondo ciò che ha
scritto recentemente uno studioso, almeno uno dei co-fondatori del Tempio era
un Cataro. La cosa appare piuttosto improbabile, ma è indiscutibile che Ber-trand
de Blanchefort, quarto Gran maestro dell'Ordine, veniva da una famiglia catara.
Quarant'anni dopo la morte di Bertrand, i suoi discendenti combatterono a
fianco di altri nobili catari contro gli invasori nordici guidati da Simone di
Montfort.12
Durante la Crociata contro gli Albigesi, i Templari si mantennero
ufficialmente neutrali e si limitarono ad assumere il ruolo di testimoni. Nel
contempo, però, sembra che il Gran maestro in carica chiarisse la posizione
dell'Ordine quando affermò che c'era una sola, vera Crociata: la Crociata
contro i Saraceni. Inoltre un attento esame dei documenti dell'epoca rivela che
i Templari provvidero a ospitare molti profughi Catari.13 Qualche
volta, sembra, presero addirittura le armi per difendere questi profughi. E un
esame dei registri dell'Ordine all'inizio della Crociata contro gli Albigesi
rivela una forte affluenza di Catari nelle file dei Templari, dove neppure i
crociati di Simone di Montfort osarono sfidarli. In effetti, i registri dei
Templari di quel periodo mostrano che una percentuale notevole degli alti
dignitari dell'Ordine proveniva dalle famiglie catare.14 In
Linguadoca, le alte cariche erano ricoperte da Catari più spesso che da
Cattolici. E soprattutto, i nobili Catari che entravano nell'Ordine non venivano
mandati in giro per il mondo con la stessa frequenza dei loro confratelli
cattolici. Al contrario, risulta che rimanessero in maggioranza nella Linguadoca,
creando per l'Ordine, in quella regione, una base stabile e duratura.
Grazie ai loro contatti con la cultura islamica e con quella
giudaica, i Templari avevano già assimilato molte idee estranee al
64
cristianesimo romano. I maestri Templari, ad esempio, avevano
spesso segretari arabi, e molti cavalieri che avevano imparato la lingua araba
in prigionia la parlavano correntemente. Si mantenevano anche stretti rapporti
con comunità ebraiche, soprattutto in campo finanziario e culturale. In questo
modo, i Templari assorbivano molte idee che di norma Roma non tollerava. In
seguito all'afflusso delle numerose reclute catare, ora i cavalieri erano
esposti all'influenza del dualismo gnostico, sempre ammettendo che prima non
l'avessero mai conosciuto.
Nel 1306 Filippo IV di Francia, detto Filippo il Bello, smaniava
dal desiderio di sbarazzarsi dei Templari insediati sul suo territorio. Erano
arroganti e indomabili. Erano efficienti e perfettamente addestrati, e
formavano un esercito di professionisti assai più forte e meglio organizzato di
quello che lui stesso poteva sperare di radunare. Erano saldamente piazzati in
tutta la Francia, e ormai anche la loro sottomissione al papa era puramente
nominale. Filippo non aveva la minima autorità sull'Ordine, al quale doveva
parecchio denaro. Non aveva dimenticato l'umiliazione subita quando, per
sottrarsi a una folla di parigini ribelli, era stato costretto a cercare
rifugio nel presidio dei Templari. Aspirava a mettere le mani sulle immense
ricchezze dei Templari, che aveva avuto modo di vedere durante il soggiorno
presso di loro. E quando aveva chiesto di entrare nell'Ordine come postulante,
aveva subito l'affronto di venire altezzosamente respinto. Tutti questi
fattori, unitamente alla prospettiva allarmante di trovarsi uno Stato templare
indipendente proprio sull'uscio di casa, bastarono a spronarlo all'azione.
L'eresia poteva essere un comodo pretesto.
Per prima cosa, Filippo doveva assicurarsi la collaborazione del
papa, al quale i Templari dovevano obbedienza, almeno in teoria. Tra il 1303 e
il 1305, il re di Francia e i suoi ministri riuscirono a sequestrare e a far
morire un papa (Bonifacio Vili) e molto probabilmente a ucciderne un altro con
il veleno (Benedetto XI). Poi, nel 1305, Filippo ottenne l'elezione al soglio
pontificio del suo candidato, l'arcivescovo di Bordeaux, che prese il nome di
Clemente V. Questi doveva troppo al re per potersi opporre alle sue richieste.
E le richieste includevano la soppressione dell'Ordine dei Templari.
\
65
Filippo pianificò abilmente le sue mosse. Fu compilato un elenco
di capi d'accusa, forniti in parte dalle spie che il re aveva infiltrato
nell'Ordine, in parte dalle confessioni volontarie di un sedicente Templare
rinnegato. Armato di queste imputazioni, Filippo potè finalmente agire; e
quando sferrò il colpo, fu inaspettato, fulmineo, efficiente ed esiziale. Con
un'operazione di sicurezza degna delle SS o della Gestapo, il re fece
recapitare ordini segreti sigillati ai suoi siniscalchi, in tutto il paese. Gli
ordini dovevano venire aperti simultaneamente e subito eseguiti. All'alba di
venerdì 13 ottobre 1307, tutti i Templari in Francia dovevano venire catturati
e posti in stato d'arresto dagli uomini del re, i loro presìdi dovevano essere
messi sotto sequestro, i loro beni confiscati. Ma anche se, a quanto pare,
l'operazione a sorpresa riuscì secondo le intenzioni del re, gli sfuggì ciò che
più gli stava a cuore: l'immensa ricchezza dell'Ordine. Non fu mai trovata, e
la sorte del favoloso « tesoro dei Templari » rimane ancora oggi un mistero.
In effetti, è molto dubbio che l'attacco a sorpresa sferrato da Filippo
contro l'Ordine fosse davvero inaspettato come credeva lui stesso o come
credettero più tardi gli storici. Anzi, secondo molti indizi, sembrerebbe che i
Templari avessero ricevuto una specie di preavviso. Poco prima che gli arresti
venissero effettuati, ad esempio, il Gran maestro Jacques de Molay si fece
consegnare molti dei libri e dei registri dell'Ordine, e ordinò di bruciarli.
Un cavaliere che si ritirò dall'Ordine in quel periodo si sentì dire dal
tesoriere che la sua decisione era molto « saggia », dato che la catastrofe era
imminente. A tutti i presìdi francesi fu inviata una comunicazione ufficiale,
che ordinava di non rivelare nessuna informazione sui riti e le tradizioni
dell'Ordine.
In ogni caso, sia che i Tamplari fossero stati preavvertiti o che
avessero intuito quel che si andava preparando, furono prese indiscutibilmente
certe precauzioni.15 Innanzitutto, i cavalieri che furono catturati
si arresero passivamente, come se avessero ricevuto istruzioni precise. Non è
documentato un solo caso di resistenza opposta dai membri dell'Ordine ai
siniscalchi del re. In secondo luogo, esistono prove convincenti della fuga
organizzata di un gruppo di cavalieri: virtualmente tutti coloro che avevano
legami con il tesoriere del Tempio. Perciò forse non è sorprendente che il
tesoro del Tempio fosse scomparso, come erano scompar-
66
si quasi tutti i documenti. Alcune voci insistenti ma non confermate
affermano che il tesoro sarebbe stato asportato nottetempo dal presidio di
Parigi, poco prima degli arresti. Secondo tali voci, fu trasportato con i carri
fino alla costa, presumibilmente alla base navale dell'Ordine a La Rochelle, e
quindi caricato su diciotto galee delle quali non si seppe mai più nulla. Non
si sa se questo sia vero o no; sembra tuttavia che la flotta dei Templari
sfuggisse alle grinfie del re, dato che nessun documento parla della cattura di
una o più navi. Anzi, si direbbe che queste navi sparissero completamente,
insieme al carico che potevano avere a bordo.16
In Francia, i Templari arrestati furono processati; molti vennero
sottoposti a torture. Furono estorte strane confessioni e formulate accuse
ancora più strane. Nel paese incominciarono a circolare dicerie agghiaccianti.
Si raccontava che i Templari adorassero un diavolo chiamato Baphomet. Nelle
cerimonie segrete si sarebbero prosternati davanti a una testa barbuta d'uomo,
che parlava e conferiva loro poteri occulti. I testimoni non autorizzati che
avevano assistito a quelle cerimonie erano scomparsi. E c'erano altre accuse
ancora più vaghe: i Templari avevano praticato l'infanticidio, avevano
insegnato alle donne come abortire; all'iniziazione dei postulanti venivano
scambiati baci osceni; erano dediti all'omosessualità. Ma tra tutte le accuse
rivolte a questi miliziani di Cristo, che per lui avevano combattuto e
sacrificato la vita, ce n'è una che spicca per la sua contraddittorietà e per
la sua apparente assurdità. I Templari erano accusati di rinnegare ritualmente
Cristo, di ripudiare la croce, di calpestarla e di sputarvi sopra.
In Francia, se non altrove, il fato dei Templari tratti in arresto
era segnato. Filippo li perseguitò con spietata ferocia. Molti furono bruciati
vivi, molti altri torturati e condannati al carcere. Nel contempo, il re
continuava a insistere presso il papa, chiedendogli misure sempre più rigorose
contro l'Ordine. Dopo aver resistito per qualche tempo, nel 1312 il papa
cedette, e sciolse ufficialmente i Cavalieri Templari, senza che fosse mai
stato pronunciato un verdetto definitivo di colpevolezza. Ma nel regno di
Filippo i processi, le inchieste e le indagini continuarono per altri due anni.
Finalmente, nel marzo 1314, Jacques de Molay, il Gran maestro) Geoffroi de
Charnay, Precettore della Normandia, furono brucia^ ti a fuoco lento. Con la
loro esecuzione, i Templari sembrarono
67
scomparire dalla scena della storia. Tuttavia, l'Ordine non cessò
di esistere. Anzi, sarebbe stato sorprendente se questo fosse accaduto, dato
il grande numero dei cavalieri che erano rimasti all'estero o che erano stati
assolti.
Filippo aveva cercato di influenzare gli altri sovrani, nella speranza
di far sì che in tutta la cristianità non rimanesse un solo Templare. Anzi, lo
zelo dimostrato dal re in questa occasione è quasi sospetto. Si può capire che
aspirasse a liberare i suoi domìni dalla presenza dell'Ordine; ma perché teneva
tanto a sterminare anche i Templari insediati altrove? Filippo non era
certamente un modello di virtù; ed è difficile immaginare che un monarca responsabile
della morte di due papi fosse molto turbato da eventuali violazioni della fede.
Filippo aveva semplicemente paura di essere vittima di una vendetta se l'Ordine
fosse rimasto indenne fuori dalla Francia? Oppure c'era qualche altra ragione?
Comunque, il suo tentativo di eliminare i Templari anche all'estero
non riuscì come sperava. Il genero di Filippo, Edoardo II d'Inghilterra, ad
esempio, all'inizio si levò in difesa dell'Ordine. Alla fine, sottoposto a
pressioni da parte del papa e del suocero, accolse le loro richieste, ma solo
in parte e senza molto impegno. Pur avendo quasi tutti i Templari in
Inghilterra il tempo di fuggire, parecchi furono arrestati. Tuttavia, quasi
tutti subirono lievi condanne; spesso si trattava di pochi anni di penitenza
in abbazie e monasteri, dove vivevano piuttosto comodamente. Le loro terre
furono assegnate ai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni; ma personalmente non
subirono le feroci persecuzioni che avevano colpito i loro confratelli in
Francia.
Altrove, l'eliminazione dei Templari incontrò difficoltà ancora
più grandi. La Scozia, ad esempio, a quei tempi era in guerra con gli Inglesi,
e la situazione caotica lasciava poche possibilità di mettere in pratica certi
adempimenti legali. Perciò le Bolle papali che scioglievano l'Ordine non furono
mai rese pubbliche in Scozia, e di conseguenza in Scozia l'Ordine non fu mai
sciolto. Molti Templari inglesi e, sembra, anche francesi trovarono rifugio in
Scozia, e si sa che un loro contingente combattè a fianco di Robert Bruce nella
battaglia di Bannockburn nel 1314. Secondo una leggenda - suffragata da diverse
prove - l'Ordine sopravvisse in Scozia ancora per quattro secoli. Con gli
scontri del 1688-91,
68
Giacomo II d'Inghilterra fu deposto da Guglielmo d'Orange. In
Scozia, i sostenitori del sovrano Stuart insorsero e, nella battaglia di
Killiekranke, combattuta nel 1689, John Claverhouse, visconte di Dundee, morì
sul campo. Quando fu ritrovato il suo cadavere, si scoprì che portava la Gran
croce dell'Ordine del Tempio: un'insegna che non era recente, anzi risaliva a
prima del 1307.17
Nella Lorena, che a quei tempi faceva parte della Germania e non
della Francia, i Templari ebbero l'appoggio del duca. Alcuni furono processati
ma assolti. Moltissimi, sembra, obbedirono al loro precettore, che ordinò loro
di tagliarsi la barba, indossare abiti secolari e mimetizzarsi tra la
popolazione.
Nella Germania vera e propria, i Templari sfidarono apertamente i
loro giudici, minacciando di prendere le armi. Intimiditi, i giudici li
proclamarono innocenti; e quando l'Ordine fu sciolto ufficialmente, molti
Templari tedeschi entrarono negli Ospitalieri di San Giovanni o nei Cavalieri
Teutonici. Anche in Spagna i Templari resistettero ai persecutori e trovarono
rifugio in altri ordini.
In Portogallo, l'Ordine fu scagionato da un'inchiesta e si limitò
a modificare il proprio nome, assumendo quello di Cavalieri di Cristo. Sotto
questa nuova etichetta, continuò a esistere fino al XVI secolo, dedicandosi ad
attività marinare. Vasco da Gama era un Cavaliere di Cristo, e il principe Enrico
il Navigatore era Gran maestro dell'Ordine. Le navi dei Cavalieri di Cristo
portavano il simbolo tradizionale della croce patente rossa. E sotto la stessa
insegna le tre caravelle di Cristoforo Colombo attraversarono l'Atlantico e
raggiunsero il Nuovo Mondo. In quanto a Colombo, aveva sposato la figlia di un
ex Cavaliere di Cristo e aveva avuto modo di consultare le carte e i diari del
suocero.
Quindi, in molti modi diversi, i Templari sopravvissero all'attacco
sferrato il 13 ottobre 1307. E nel 1522 i Cavalieri Teutonici, progenie
prussiana dei Templari, ritornarono alla stato laicale, ripudiarono la
sottomissione a Roma e si schierarono a sostegno di un eretico ribelle che si
chiamava Martin Luterò. Due secoli/dopo lo scioglimento del loro Ordine, i
Templari, sia pure indirettamente, si vendicarono così della Chiesa che li
aveva traditi.
I Cavalieri Templari: i
misteri
In forma molto succinta, questa è la storia dei Cavalieri Templari
così come l'hanno accettata e presentata moltissimi storici, e come la
incontrammo nella nostra ricerca. Tuttavia, ben presto scoprimmo che la storia
dell'Ordine aveva un'altra dimensione, assai più sfuggente, provocatoria ed
enigmatica. Già durante la loro esistenza, i cavalieri erano stati alonati da
una particolare mistica. Alcuni sostenevano che erano incantatori e maghi,
adepti dell'occultismo e alchimisti. Molti loro contemporanei li evitavano,
ritenendoli in combutta con le potenze delle tenebre. Già nel 1208, all'inizio
della Crociata contro gli Albigesi, il papa Innocenzo III aveva ammonito i
Templari per il loro comportamento poco cristiano, e aveva alluso
esplicitamente alla necromanzia. D'altra parte, c'erano alcuni che li
esaltavano con immenso entusiasmo. Verso la fine del XII secolo Wolfram von
Eschenbach, il più grande dei Minnesanger o romanciers medievali, si
recò apposta in Outremer, per vedere l'Ordine in azione. E quando, tra
il 1195 e il 1220, Wolfram compose il suo romanzo epico, Parzifal, attribuì
ai Templari una posizione elevatissima. Nel poema di Wolfram sono appunto
Templari i cavalieri che custodiscono il Santo Graal, il castello del Graal e
la famiglia del Graal.18
Dopo la liquidazione dell'Ordine del Tempio, la mistica che Io
circondava continuò a persistere. L'ultimo atto documentato della sua storia
era stato il supplizio dell'ultimo Gran maestro, Jacques de Molay, nel marzo
1314. Mentre il fumo del fuoco lento lo soffocava, si dice che Jacques de Molay
prorompesse in una maledizione. Secondo la tradizione, chiamò i suoi
persecutori, papa Clemente e re Filippo, a presentarsi insieme a lui davanti al
tribunale di Dio entro un anno, per rendere conto del loro operato. Meno di un
mese dopo, papa Clemente morì, sembra per un improvviso attacco di dissenteria.
Entro la fine dell'anno, morì anche Filippo, per cause che sono rimaste oscure.
Naturalmente, non è affatto necessario cercare spiegazioni sovrannaturali, I
Templari erano molto esperti nell'uso dei veleni. E senza dubbio c'era in
circolazione abbastanza gente, fra cavalieri profughi in incognito,
simpatizzanti dell'Ordine e parenti dei perseguitati, in grado di vendicarsi.
Tuttavia, l'apparente compimento della pro-
70
fezia del Gran maestro rinfocolò la credenza che l'Ordine avesse
poteri occulti. E la maledizione non finì lì. Secondo la leggenda, era
destinata a gettare un'ombra tenebrosa sulla stirpe reale francese fino al più
remoto futuro. E così, gli echi del presunto potere mistico dei Templari si
perpetuarono nei secoli.
Nel XVIII secolo,'c'erano numerose confraternite segrete e
semisegrete che esaltavano i Templari come precursori e iniziati mistici. Molti
massoni di quell'epoca consideravano i Cavalieri del Tempio come loro
predecessori. Certi « riti » massonici vantavano una discendenza diretta
dall'Ordine, nonché la custodia autorizzata dei suoi segreti più arcani.
Alcune di queste rivendicazioni erano chiaramente assurde. Altre, basate ad
esempio sulla possibile sopravvivenza dell'Ordine in Scozia, potrebbero avere
un loro nucleo di validità, anche se le manifestazioni esteriori sono spurie.
Nel 1789 le leggende che circondavano i Templari avevano raggiunto
proporzioni decisamente mitiche, e la loro realtà storica era offuscata da un
alone romanzesco. Erano considerati adepti occulti, alchimisti illuminati,
maghi e saggi, maestri muratori e grandi iniziati: veri e propri superuomini
dotati di un imponente arsenale di conoscenze e di poteri arcani. Erano
considerati inoltre come eroi e martiri, precursori dello spirito
anticlericale prevalente in quel periodo; e molti massoni francesi che
cospiravano contro Luigi XVI erano convinti di tradurre in atto la maledizione
scagliata dal morente Jacques de Molay contro la casa reale di Francia. Qundo
la testa del re cadde sotto la lama della ghigliottina, uno sconosciuto balzò
sul palco. Immerse la mano nel sangue del re, lo spruzzò sulla folla
circostante e gridò: « Jacques de Molay, sei vendicato! ».
Dopo la Rivoluzione francese, l'alone che circonda i Templari non
è svanito. Oggi esistono almeno tre organizzazioni che si autoproclamano
Templari, e affermano di poter vantare una discendenza che risale al 1314 e
possedere documenti la cui autenticità non è mai stata accertata. Certe logge
massoniche hanno adottato il grado di « Templare », nonché riti e appellativi
che si presume discendano dall'Ordine originale. Verso la fine del secolo XIX,
venne fondato in Germania e in Austria un sinistro « Ordine dei Nuovi Templari
», che aveva come emblema la svastica. Per-
71
sonaggi come H.P. Blavatsky, la fondatrice della teosofia, e Ru-dolf
Steiner, il fondatore dell'antroposofia, parlavano di una esoterica «
tradizione di sapienza » che attraverso i Rosacroce risaliva fino ai Catari e
ai Templari, i quali erano a loro volta depositari di segreti ancora più
antichi. Oggi, negli Stati Uniti, tanti giovani vengono ammessi nella De Molay
Society, senza che i loro mentori abbiano la più lontana idea della
provenienza di questo nome. In Gran Bretagna e in molti paesi dell'Occidente,
vi sono certi club segreti che si fregiano del nome di « Templari » e contano
nelle loro file eminenti personalità. Dal regno dei cieli che aspirava a
conquistare con la spada, Hugues de Payen deve guardare con una certa scettica
perplessità i cavalieri odierni, calvi, occhialuti e panciuti, che si
considerano suoi proseliti. Tuttavia, deve essere anche impressionato dalla
durata e dalla vitalità della sua eredità spirituale.
In Francia questa eredità è particolarmente forte. Anzi, i Templari
costituiscono in Francia una vera e propria industria, come Glastonbury, le
misteriose linee ley e il mostro di Loch Ness in Gran Bretagna. Nelle
librerie di Parigi abbondano i volumi dedicati all'Ordine: alcuni validi,
altri intrisi di entusiastica follia. Nell'ultimo quarto di secolo sono state
avanzate moltissime rivendicazioni stravaganti sul conto dei Templari, e può
darsi che alcune non siano del tutto infondate. Certi autori hanno attribuito
loro la costruzione di gran parte delle cattedrali gotiche, o almeno lo slancio
e l'ispirazione che portarono a quella splendida fioritura della genialità
architettonica. Altri hanno affermato che l'Ordine aveva stabilito rapporti
commerciali con le Americhe fin dal 1296 e doveva gran parte della sua
ricchezza all'importazione dell'argento messicano. Si è asserito spesso che i Templari
erano a conoscenza di un segreto riguardante le origini del cristianesimo. È
stato detto che erano gnostici, che erano eretici, che erano apostati passati
all'islamismo. È stato affermato che cercavano di realizzare un'unità creativa
fra le razze e le religioni, una sistematica politica di fusione tra il
pensiero islamico, cristiano e giudaico. E molte volte è stato ripetuto, come
aveva detto Wolfram von Eschenbach quasi otto secoli fa, che i Templari erano i
guardiani del Santo Graal, qualunque cosa fosse il Santo Graal.
Spesso si tratta di affermazioni ridicole. Tuttavia vi sono indi-
72
C
scutibilmente molti misteri legati ai Templari e, come noi avemmo
modo di convincerci, anche certi segreti. Era chiaro che alcuni di questi
segreti rientravano nella categoria oggi chiamata esoterica. Ad esempio, le
sculture simboliche nei presìdi dei Templari indicano che alcuni esponenti
della gerarchia dell'Ordine conoscevano molto bene discipline come
l'astrologia, l'alchimia, la geometria sacra e la numerologia, oltre
naturalmente all'astronomia che, nel XII e nel XIII secolo, era inseparabile
dall'astrologia e altrettanto « esoterica ».
Ma non erano le affermazioni stravaganti e le reliquie esoteri-che
a lasciarci sconcertati e ad affascinarci. Al contrario, eravamo incantati da
qualcosa di molto più terreno e prosaico: la quantità di contraddizioni, di
improbabilità, di incoerenze e di « cortine fumogene » incontrate nella storia
comunemente accettata. Poteva darsi benissimo che i Templari possedessero
segreti esoterici. Ma in loro c'era qualcosa che veniva egualmente tenuto
nascosto, qualcosa che aveva radici nelle correnti religiose e politiche della
loro epoca. Abbiamo intrapreso la nostra indagine soprattutto su questo piano.
Abbiamo incominciato con la fine della vicenda: la caduta dell'Ordine
e le accuse di cui era stato bersagliato. Sono stati scritti molti libri che
esplorano e vagliano la possibile veridicità di tali accuse; e in base
all'evidenza anche noi, come quasi tutti i ricercatori, abbiamo concluso che
sembravano avere un certo fondamento. Sottoposti a interrogatori da parte
dell'Inquisizione, ad esempio, molti cavalieri avevano parlato di qualcosa
chiamato « Bap-homet » : troppi, e in troppi luoghi diversi perché Baphomet potesse
essere l'invenzione di un solo individuo o anche di un solo presidio. Allo
stesso tempo, non c'è nulla che indichi chi o che cosa fosse Baphomet, che cosa
rappresentasse e perché dovesse avere un particolare significato. A quanto
pare, Baphomet era tenuto in grande reverenza, una reverenza forse equivalente
all'idolatria. In alcuni casi, il nome è associato a sculture demoniache, tipo gar-goyle,
che si trovavano in diversi presìdi. In altre occasioni, Baphomet risulta
associato all'apparizione di una testa barbuta. Nonostante le affermazioni di
certi storici del passato, sembra chiaro che Baphomet non fosse una corruzione
del nome di Maometto. D'altra parte, poteva essere una corruzione dell'arabo abufiha-
73
met, che i Mori di Spagna pronunciavano bufihimat. Questo nome
significa « Padre della Conoscenza » o « Padre della Sapienza » ; e « padre »,
in arabo, ha anche il significato di « fonte » e « stirpe ».'" Se era
veramente questa l'origine di Baphomet, presumibilmente il nome indicava un
principio sovrannaturale o divino. Ma che cosa poteva differenziare Baphomet da
qualunque altro principio divino o sovrannaturale? La cosa non è chiara. Se Baphomet
era semplicemente Dio o Allah, perché i Templari gli avevano cambiato nome? E
se Baphomet non era né Dio né Allah, chi o che cos'era?
In ogni caso, abbiamo trovato prove inconfutabili dell'accusa di
celebrare riti segreti che riguardavano una testa. Anzi, l'esistenza di quella
testa era uno dei temi dominanti che ricorrevano nei verbali dell'Inquisizione.
Tuttavia, come per quel che concerne Baphomet, il significato della testa
permane oscuro. Può darsi che avesse a che vedere con l'alchimia. Nel processo
alchemico c'era una fase chiamata Caput Mortuum o « Testa di morto » :
la nigredo o l'« annerimento » che si diceva avvenisse prima della
precipitazione della Pietra Filosofale. Secondo altri resoconti, però, la
testa era quella di Hugues de Payen, fondatore e primo Gran maestro
dell'Ordine; ed è indicativo il fatto che lo scudo di Hugues portasse tre
teste nere in campo d'oro. -
La testa potrebbe essere inoltre collegata alla famosa Sindone di
Torino, che a quanto sembra rimase in possesso dei Templari fra il 1204 e il
1307 e che, ripiegata, sarebbe apparsa semplicemente come una testa. In
effetti, nel presidio dei Templari aTemplecom-be, nel Somerset (Inghilterra) fu
scoperta la riproduzione di una testa che presenta una rassomiglianza impressionante
con il volto impresso sulla Sindone di Torino. Nel contempo, però, ipotesi
recenti hanno collegato la testa a quella mozza di Giovanni Battista; e certi
autori hanno insinuato che i Templari erano stati « contagiati » dall'eresia
giovannita o mandea, che denunciava Gesù come « falso profeta » e riconosceva
in Giovanni il vero Messia. Durante le loro attività nel Medio Oriente i
Templari avevano senza dubbio stabilito contatti con le sette giovannite, e la
possibilità che nell'Ordine si fossero insinuate tendenze giovannite non è da
escludere. Tuttavia non si può affermare che tali
74
tendenze predominassero in
tutto l'Ordine né che fossero accettate ufficialmente.
Durante gli interrogatori
che seguirono gli arresti del 1307, si parlò di una testa in altre due
occasioni. Secondo i verbali dell'Inquisizione, tra gli oggetti confiscati nel
presidio di Parigi era stato trovato un reliquario a forma di testa di donna.
La parte superiore era mobile, fissata a cardini, e conteneva strane reliquie.
Ecco come viene descritta:
Una grande testa d'argento
dorato, bellissima e lavorata a immagine di donna. Nell'interno vi erano due
ossa del cranio, avvolte in un piccolo drappo di lino bianco, e quindi in un
drappo rosso. Vi era fissata una targhetta recante la legenda caput LViiim. Le ossa all'interno erano
di una donna piuttosto piccola.20
Una reliquia bizzarra,
soprattutto per un'istituzione rigorosamente monastica e militare come quella
dei Templari. Tuttavia un cavaliere interrogato, posto di fronte a questa testa
femminile, dichiarò che non aveva alcuna relazione con la testa maschile
barbuta usata nei riti dell'Ordine. Caput Lvmm - Testa 58m -rimane un enigma
sconcertante. Vale tuttavia la pena di ricordare che la « m », potrebbe non
essere affatto una « m » bensìfTJ, il simbolo astrologico della Vergine.21 ,,
,
Una testa compare di nuovo
in un altro episodio misterioso, tradizionalmente collegato ai Templari. È il
caso di riportare una delle numerose varianti:
Una nobilissima dama di
Maraclea era amata da un Templare, un Signore re di Sidone; ma ella morì
giovane, e la notte in cui fu sepolta, il perverso amante penetrò nella tomba,
esumò il cadavere e lo violò. Allora uscì dal nulla una voce che gli comandò di
ritornare dopo nove mesi perché avrebbe trovato un figlio. Il cavaliere obbedì
all'ingiunzione e al momento stabilito aprì di nuovo la tomba e trovò una testa
sulle ossa delle gambe dello scheletro (teschio e ossa incrociate). La stessa
voce gli comandò: « Custodiscila con ogni cura, poiché sarà dispensatrice di
ogni bene ». Perciò egli la portò con sé. La testa divenne il suo genio
protettore, ed egli potè sconfiggere i suoi nemici semplicemente mostrandola. A
tempo debito, la testa entrò in possesso dell'Ordine.22
Questo macabro episodio si
può far risalire fino a un certo Walter Map, che scrisse verso la fine del XII
secolo. Tuttavia né Map né un altro autore, che riferisce la stessa storia
quasi un secolo dopo, specificano che lo stupratore necrofilo era un Tem-
75
piare.23 Ma nel 1307 la leggenda era ormai associata
all'Ordine. È menzionata più volte nei verbali dell'Inquisizione e almeno due
cavalieri interrogati confessarono di esserne a conoscenza. Nelle versioni
successive, come quella citata più sopra, lo stupratore è identificato come
Templare, e tale rimane nelle versioni tramandate dalla massoneria, che adottò
il cranio e le ossa incrociate e spesso li usò come simboli sulle pietre
tombali.
In parte, la leggenda potrebbe quasi sembrare una parodia
grottesca dell'Immacolata Concezione. In parte sembra un confuso resoconto
simbolico di un rito d'iniziazione, un rito che comportava figurativamente la
morte e la resurrezione. Un cronista riferisce il nome della donna, Yse, che
sembra chiaramente derivato da Iside. E senza dubbio, la leggenda evoca echi
dei misteri associati a Iside, nonché di quelli di Tammuz e di Adone, la cui
testa fu gettata in mare, e quello di Orfeo, la cui testa fu scagliata nel
fiume della Via Lattea. Le proprietà magiche della testa, inoltre, ricordano
quella di Bran il Beato della mitologia celtica e del Mabinogion. E il
mistico paiolo di Bran è stato identificato da numerosi scrittori come il
precursore pagano del Santo Graal.
Qualunque fosse il significato che si può ascrivere al « culto
della testa », è evidente che l'Inquisizione lo riteneva importante. In un
elenco di accuse redatto il 12 agosto 1308 è scritto:
Item, che in ogni provincia essi avevano idoli, cioè teste... ,
,
Item, che essi adoravano tali idoli...
Item, che essi affermavano che la testa poteva salvarli.
Item, che essa poteva produrre ricchezze...
Item, che faceva fiorire gli alberi.
Item, che faceva germogliare la terra.
Item, che essi cingevano o toccavano ogni testa dei predetti idoli con
funicelle, quindi le portavano indosso sulla camicia o sulla
carne.24
La funicella menzionata nell'ultimo capo d'imputazione ricorda i
Catari che, sembra', portavano anch'essi un sacro cordiglio. Ma il particolare
più sorprendente dell'elenco è l'attribuzione alla testa della capacità di
produrre ricchezze, far fiorire gli alberi e rendere fertile la terra. Queste
proprietà coincidono in modo singolare con quelle attribuite dai romanzi al
Santo Graal.
Tra tutte le accuse mosse contro i Templari, le più gravi erano
quelle di blasfemia e di eresia: le accuse di rinnegare e calpestare la croce e di sputarvi
sopra. Non è chiaro che cosa volesse significare esattamente questo presunto
rito: che cosa ripudiavano, esattamente, i Templari? Rinnegavano Cristo?
Oppure rinnegavano soltanto la Crocifissione? E qualunqup cosa ripudiassero,
che cosa esaltavano, invece? Nessuno ha mai dato una risposta soddisfacente a
questi interrogativi, ma sembra chiaro che avvenisse veramente un ripudio, e
che questo fosse uno dei princìpi fondamentali dell'Ordine. Un cavaliere, ad
esempio, testimoniò che, alla sua iniziazione nell'Ordine, gli era stato detto:
« Tu credi erroneamente, perché egli [Cristo] è in verità un falso profeta.
Credi soltanto in Dio nel cielo, e non in lui ».25 Un altro Templare
dichiarò che gli era stato detto: « Non credere che l'uomo Gesù, crocifisso dai
Giudei in Outrerner, sia Dio e possa salvarti ».26 Un terzo
cavaliere sostenne che era stato comandai ' di non credere in Cristo, falso
profeta, ma soltanto in un « Dio superiore ». Quindi gli era stato mostrato un
crocifisso, con queste parole: « Non riporre grande fede in questo, perché è
troppo giovane ».27
Queste testimonianze sono abbastanza frequenti e coerenti per
rendere credibile l'accusa. Ma erano anche relativamente blande; e se
l'Inquisizione voleva fabbricare le prove, avrebbe potuto inventare qualcosa di
molto più drammatico e incriminante. Sembra quindi che non vi siano dubbi: la
posizione dei Templari nei confronti di Gesù non corrispondeva a quella
dell'ortodossia cattolica, tuttavia non si sa con certezza quale fosse la
posizione dell'Ordine. In ogni caso, vi sono indizi che il rito attribuito ai
Templari - calpestare la croce e sputarvi sopra - era già nell'aria almeno
mezzo secolo prima del 1307. Il contesto è confuso, ma è menzionato a proposito
della Sesta Crociata, che ebbe luogo nel 1249.28
I Cavalieri Templari:
l'aspetto nascosto
Se la fine dei Templari era carica di enigmi sconcertanti, la
fondazione e la storia dei primi tempi dell'Ordine ci sembrava ancora più
misteriosa. Eravamo già assillati da un gran numero di contraddizioni e di
inverosimiglianze. Nove cavalieri « poveri », apparivano all'improvviso e, fra
tutti gli altri crociati che brulicavano in Terrasanta, ricevevano prontamente
alloggio nel palazzo reale!
77
Nove cavalieri « poveri », senza fare accedere nuove reclute nelle
loro file, presumevano di difendere, da soli, le strade della Palestina. E non
c'erano scritti che riferissero se avevano fatto qualcosa, neppure nell'opera
di Fulk de Chartres, cronista ufficiale del re, che avrebbe dovuto conoscere la
loro esistenza! Com'era possibile che la loro attività, il loro insediamento
nel palazzo reale, ad esempio, fossero sfuggiti all'attenzione di Fulk? Sembra
incredibile: ma il cronista non dice nulla. Nessuno dice nulla, anzi, fino a
Guillaume de Tyre, mezzo secolo dopo. Cosa si poteva dedurre a proposito del
servizio che veniva loro attribuito? Che forse svolgevano attività più
clandestine, delle quali non era informato neppure il cronista ufficiale? O
che lo stesso cronista era stato costretto a tacere? Quest'ultima sembrava la
spiegazione più plausibile. Infatti, ai cavalieri si unirono ben presto due
nobili molto illustri, la cui presenza non poteva certo passare inosservata.
Secondo Guillaume de Tyre, l'Ordine del Tempio fu fondato nel
1118; all'inizio contava nove cavalieri e per nove anni non accettò nuove
reclute. Tuttavia è documentato in modo incontrovertibile che il conte
d'Angiò, padre di Goffredo Plantageneto, entrò nell'Ordine nel 1120, solo due
anni dopo la presunta fondazione. E nel 1124 vi entrò il conte di Champagne,
uno dei più ricchi potentati d'Europa. Se Guillaume de Tyre ha ragione, non
avrebbero dovuto esserci nuovi membri dell'Ordine fino al 1127; ma già nel
1126 i Templari avevano accolto nelle loro file altri quattro uomini.29
Guillaume sbaglia, quindi, quando afferma che per nove anni non furono ammessi
nuovi cavalieri? O forse in questo ha ragione, e sbaglia nell'indicare la data
della fondazione dell'Ordine? Se il conte d'Angiò divenne Templare nel 1120 e
se l'Ordine non ammise nuovi membri per nove anni dopo la fondazione, allora
non era stato fondato nel 1118 ma, al più tardi, nel 1111 o nel 1112.
In effetti, questa conclusione è suffragata da una prova molto
convincente. Nel 1114 il conte di Champagne si preparava a un viaggio in
Terrasanta. Poco prima di partire, ricevette una lettera del vescovo di
Chartres. A un certo punto, il vescovo scriveva: « Abbiamo appreso che... prima
di partire per Gerusalemme avete fatto voto di entrare nella "milice du
Christ", che desiderate arruolarvi
in questo esercito evangelico ».30 « La
milice du
BRECCIA DEL 1099
NOSTRA
SIGNORA DI SION
(Cenacolo
e Tomba di Davide)
Area occupata dai Templari
Carta 5 Gerusalemme: il
Tempio e l'area del Monte Slon alla meta del XII secolo.
Christ » era il nome con il quale vennero conosciuti in origine i
Templari, il nome usato da san Bernardo per indicarli. Nel contesto della
lettera del vescovo, l'appellativo non può assolutamente riferirsi a un'altra
istituzione. Non può significare, ad esempio, che il conte di Champagne aveva
semplicemente deciso di farsi crociato, perché il vescovo passa poi a parlare
del voto di castità che la decisione comportava. E difficilmente un voto del
genere poteva venire richiesto a un « comune » crociato. Dalla lettera del
vescovo di Chartres, quindi, risulta chiaro che i Templari esistevano - o
almeno la fondazione dell'Ordine era stata decisa - già nel 1114, quattro anni
prima della data accettata generalmente; e che già nel 1114 il conte di
Champagne intendeva entrarvi, come fece effettivamente un decennio più tardi.
Uno storico che prese in considerazione la lettera ne trasse la conclusione
piuttosto bizzarra che il vescovo non poteva affatto voler dire quel che
diceva.31 Non poteva riferirsi ai Templari, sostiene lo storico in
questione, perché l'Ordine fu fondato solo quattro anni dopo,,nel 1118. O forse
il vescovo non conosceva l'anno del Signore in cui scriveva? Ma il vescovo morì
nel 1115. Com'era possibile che, nel 1114, si riferisse « erroneamente » a
qualcosa che non esisteva ancora? Il problema ha una sola soluzione possibile,
del resto molto ovvia: non è il vescovo che sbaglia, bensì Guillaume de Tyre, e
con lui tutti gli storici successivi che si ostinano a considerarlo irreprensibilmente
autorevole.
Di per sé, una data anteriore per la fondazione dell'Ordine del
Tempio non doveva essere inevitabilmente considerata sospetta. Ma esistono
altre circostanze e coincidenze singolari che indubbiamente lo sono. Almeno
tre dei nove cavalieri fondatori, incluso Hugues de Payen, provenivano a quanto
sembra da regioni adiacenti, avevano avuto legami familiari, si conoscevano in
precedenza ed erano stati vassalli dello stesso signore. E questo signore era
il conte di Champagne, al quale il vescovo di Chartres inviò la lettera nel
1114 e che divenne Templare nel 1124, giurando obbe-dienza al proprio vassallo!
Nel 1115 il conte di Champagne donò il terreno sul quale san Bernardo, protettore
dei Templari, costruì la celebre abbazia di Clairvaux; e uno dei nove cavalieri
fondatori, Andre de Montbard, era zio di san Bernardo.
Inoltre, a Troyes, alla corte del conte di Champagne, fin dal
80
1070 era fiorita un'influente scuola di studi cabalistici ed
esoterici.12 Al Concilio di Troyes, nel 1128, i Templari furono
ufficialmente riconosciuti. Durante i due secoli successivi Troyes continuò a
essere un centro strategico dell'Ordine; e ancora oggi c'è un bosco, vicino
alla città, chiamato Forèt du Temple. E fu a Troyes, corte del conte di
Champagne, che nacque uno dei primi romanzi del Graal, forse il primo in
assoluto, quello composto da Chrétien de Troyes.
In questa marea di dati, potevamo finalmente scorgere una tenue
rete di collegamenti: uno schema che sembrava motivato da qualcosa di più di
una semplice coincidenza. Se un tale schema esisteva veramente, senza dubbio
avrebbe confermato il nostro sospetto che i Templari si dedicassero ad attività
clandestine. Tuttavia, potevamo soltanto fare ipotesi sul carattere di queste
attività. Una base per la nostra ipotesi era l'ubicazione specifica del
domicilio dei cavalieri: l'ala del palazzo reale, il Monte del Tempio, che era
stata loro concessa inspiegabilmente. Nel 70 d.C. il Tempio che sorgeva in quel
luogo era stato saccheggiato dalle legioni romane comandate da Tito. II tesoro
era stato portato a Roma, e in seguito era stato nuovamente predato e forse
trasportato nei Pirenei. Ma... e se nel Tempio ci fosse stato anche qualcosa
d'altro, qualcosa ancora più importante del tesoro prelevato dai Romani? È
certamente possibile che i sacerdoti del Tempio, di fronte all'avanzata degli
invasori, avessero abbandonato il bottino che quelli si aspettavano di trovare.
E se c'era qualcosa d'altro, poteva darsi che fosse nascosto nei pressi. Sotto
il Tempio, per esempio.
Fra i Rotoli del Mar Morto a Qumràn, ce n'è uno conosciuto come il
« Rotolo del Rame ». Decifrato alla Manchester Universi-ty nel 1955-56, fa
riferimenti espliciti a grandi quantità di lingotti, vasellame sacro, altro
materiale imprecisato e a un « tesoro » non meglio identificato. E cita
ventiquattro tesori diversi sotto il Tempio.33
Intorno alla metà del XII secolo un pellegrino recatosi in
Terra-santa, un certo Johann von Wurzburg, descrisse una visita alle cosiddette
« Stalle di Salomone ». Le scuderie, situate direttamente sotto il Tempio,
sono tuttora visibili. Erano abbastanza ampie, riferiva Johann, per ospitare
duemila cavalli; ed era lì che i
si
Templari tenevano le loro cavalcature. Secondo ciò che afferma
almeno un altro storico, i Templari usavano già quelle scuderie per i loro
animali nel 1124, quanto secondo la testimonianza di Guil-laume de Tyre
dovevano essere soltanto nove. Sembra quindi verosimile che l'Ordine appena nato
incominciasse subito a effettuare scavi sotto il Tempio.
Certi scavi potrebbero indicare che i cavalieri stavano effettivamente
cercando qualcosa. Si potrebbe addirittura supporre che fossero stati inviati
apposta in Terrasanta, con il compito di trovare questo « qualcosa ». Se la
supposizione è valida, spiegherebbe diverse anomalie: ad esempio, il loro
insediamento nel palazzo reale e il silenzio del cronista. Ma se erano stati
inviati in Palestina, chi li aveva mandati?
Nel 1104 il conte di Champagne si era incontrato con certi nobili
di alto rango; almeno uno di loro era appena ritornato da Gerusalemme.34
Tra i partecipanti alla riunione c'erano i rappresentanti di alcune famiglie -
Brienne, Joinville e Chaumont - che, come abbiamo scoperto in seguito,
figuravano significativamente nella nostra storia. Era presente anche il
signore feudale di Andre de Montbard, quell'Andre che fu uno dei fondatori del
Tempio e zio di san Bernardo.
Poco dopo questo incontro, il conte di Champagne partì per la
Terrasanta, dove rimase quattro anni; e ritornò nel 1108.35 Nel 1114
fece un secondo viaggio in Palestina, con l'intenzione di arruolarsi nella «
milice du Christ »; poi cambiò idea e tornò in Europa dopo un anno. Appena
rientrato, donò un appezzamento di terreno all'Ordine Cistercense, il cui
portavoce era san Bernardo. Su quel terreno san Bernardo costruì l'abbazia di
Clairvaux, dove si stabilì e si adoperò per consolidare il suo Ordine.
Prima del 1112 i Cistercensi erano paurosamente vicini alla
bancarotta. Poi, sotto la guida di san Bernardo, la loro sorte cambiò in modo
sbalorditivo. In pochi anni furono fondate sei nuove abbazie. Nel 1153 erano
più di trecento; e di queste, sessantanove erano state fondate personalmente
da Bernardo. Questo straordinario sviluppo è parallelo a quello dell'Ordine del
Tempio, che negli stessi anni si stava espandendo di pari passo. E come
abbiamo già detto, uno dei co-fondatori dell'Ordine del Tempio era lo zio di
san Bernardo, Andre de Montbard.
82
Proviamo a riconsiderare questa complicata sequenza di avvenimenti.
Nel 1104 il conte di Champagne partì per la Terrasanta dopo essersi incontrato
con certi nobili, uno dei quali aveva legami con Andre de Montbard. Nel 1112 il
nipote di Andre de Montbard, san Bernardo, entrò nell'Ordine Cistercense. Nel
1114 il conte di Champagne partì per un secondo viaggio in Palestina, con
l'intenzione di entrare nell'Ordine del Tempio, che era stato fondato da un suo
vassallo e da altri cavalieri, incluso Andre de Montbard, e che, come attesta
la lettera del vescovo di Chartres, esisteva già o almeno era in fase di
formazione. Nel 1115 il conte di Champagne ritornò in Europa, dopo essere
rimasto lontano meno di un anno, e donò il terreno per costruire l'abbazia di
Clairvaux, il cui abate era il nipote di Andre de Montbard. Negli anni
successivi i Cistercensi e i Templari - cioè l'ordine di san Bernardo e quello
di Andre de Montbard - diventarono immensamente ricchi e conobbero una fase di
straordinaria espansione.
Quando abbiamo preso in esame questa sequenza di avvenimenti, ci
convincemmo sempre di più che c'era uno schema, un disegno, alla base di questa
rete tanto intricata. Di certo, non appariva frutto del caso o di una serie di
coincidenze. Al contrario, avevamo l'impressione di trovarci di fronte alle
vestigia di un disegno complesso e ambizioso, i cui dettagli completi erano svaniti
dalla storia. Per ricostruire questi dettagli, elaborammo un'ipotesi di
lavoro: uno « scenario », per così dire, che permettesse di inquadrare i fatti
noti.
Abbiamo supposto che in Terrasanta, per caso o di proposito, fosse
stato scoperto qualcosa, qualcosa d'importanza enorme che aveva suscitato
l'interesse di alcuni dei più influenti nobili d'Europa. Abbiamo supposto,
inoltre, che questa scoperta comportasse, direttamente o indirettamente, una
cospicua ricchezza potenziale, e forse anche qualcosa d'altro, qualcosa che
doveva essere tenuto segreto e che poteva venire rivelato solo a un numero
limitato di personaggi d'alto rango. Infine abbiamo supposto che questa scoperta
fosse stata riferita e discussa nella riunione del 1114.
Subito dopo, il conte di Champagne partì per la Terrasanta, forse
per accertare di persona quanto aveva appreso, forse per mettere in pratica una
certa linea di azione: ad esempio, la fondazione di quello che in seguito
divenne l'Ordine del Tempio. Nel
83
1114, se non addirittura prima, furono fondati i Templari, e il
conte di Champagne ebbe un ruolo importantissimo in questo evento: forse ne fu
l'ispiratore e il finanziatore. Nel 1115, il denaro stava già riaffluendo in
Europa e nei forzieri dei Cistercensi che, sotto la guida di san Bernardo e da
una nuova posizione di forza, assicuravano appoggi e credibilità al nuovo
Ordine del Tempio.
Sotto il magistero di Bernardo, i Cistercensi acquisirono in
Europa un grande ascendente spirituale. Sotto la guida di Hugues de Payen e di
Andre de Montbard, i Templari acquisirono in Terrasanta un ascendente militare
e amministrativo che si diffuse rapidamente anche in Europa. Dietro lo sviluppo
dei due ordini torreggiava la presenza di zio e nipote, e la ricchezza,
l'influenza e la protezione del conte di Champagne. Questi tre personaggi
costituiscono un legame d'importanza vitale. Sono come segnali che affiorano
alla superficie della storia, e indicano la configurazione indistinta di un
complesso disegno segreto.
Se esistette un disegno del genere, naturalmente non lo si può
ascrivere soltanto a questi tre uomini. Al contrario, dovette richiedere la
collaborazione di altri personaggi e una vasta, meticolosa organizzazione.
Forse la parola chiave è proprio organizzazione; perché, se la nostra ipotesi
era esatta, avrebbe richiesto l'esistenza di un vero e proprio ordine: un terzo
ordine segreto dietro a quelli noti e documentati dei Cistercensi e dei
Templari. Gli indizi a conferma dell'esistenza di questo ordine non tardarono
ad arrivare.
Nel frattempo, abbiamo dedicato la nostra attenzione all'ipotetica
« scoperta » in Terrasanta, la base teorica sulla quale avevamo creato il
nostro « scenario ». Che cosa poteva essere stato ritrovato? Di quale segreto
erano a conoscenza i Templari, insieme a san Bernardo e al conte di Champagne?
Alla fine della loro esistenza storica, i Templari serbarono inviolato il
segreto dell'ubicazione e della natura del loro tesoro. Non rimasero neppure i
documenti. Se il tesoro aveva un carattere soltanto economico - se era
costituito da lingotti, ad esempio - non sarebbe stato necessario distruggere
tutti gli annali, tutte le regole e tutti gli archivi. Si può dedurre che i
Templari avessero in custodia qualcosa d'altro, qualcosa di tanto prezioso che
neppure la tortura avrebbe potuto costringerli a rivelarlo. Le ricchezze non
sarebbero certo bastate a
84
spiegare una segretezza cosi unanime e assoluta. Qualunque cosa
fosse, aveva a che fare con altre cose, come l'atteggiamento dell'Ordine verso
Gesù.
Il 13 ottobre 1307 tutti i Templari, in tutta la Francia, furono
arrestati dai siniscalchi di Filippo il Bello. Tuttavia, questa affermazione
non è esatta. I Templari di un presidio sfuggirono indenni alla rete del re: il
presidio di Bezù, vicino a Rennes-le-Chàteau. Come e perché si salvarono? Per
rispondere a questo interrogativo, siamo stati costretti a indagare sulle
attività dell'Ordine nella zona di Bezù. Queste attività risultarono piuttosto
vaste. Anzi, c'erano una mezza dozzina di presìdi e altre proprietà, in quell'area
che misurava all'incirca trenta chilometri per trenta.
Nel 1153 un nobile di quella regione, un uomo che simpatizzava per
i Catari, divenne Gran maestro dell'Ordine del Tempio. Si chiamava Bertrand de
Blanchefort, e la sua dimora avita era situata su una vetta a pochi chilometri
da Bézu e da Rennes-le-Chàteau. Bertrand de Blanchefort, che presiedette
l'Ordine dal 1153 al 1170, fu probabilmente il più interessante di tutti i Gran
maestri dei Templari. Prima della sua elezione la gerarchia e la struttura
amministrativa dell'Ordine erano a dir poco nebulose. Fu Bertrand a trasformare
i Templari nell'istituzione gerarchica efficiente, bene organizzata e
magnificamente disciplinata che la storia conosce. Fu Bertrand a lanciare
l'Ordine nella diplomazia ad alto livello e nella politica internazionale. Fu
Bertrand a creare per i Templari una vasta sfera di interessi in Europa, e
soprattutto in Francia. E secondo la documentazione giunta fino a noi, il suo
mentore era stato Andre de Montbard, che alcuni storici elencano addirittura
come Gran maestro dell'Ordine immediatamente prima di Bertrand.
Pochi anni dopo il riconoscimento ufficiale dei Templari, Bertrand
era entrato a farne parte: non solo, ma aveva donato loro terreni nei dintorni
di Rennes-le-Chàteau e di Bézu. E nel 1156, quando Bertrand era Gran maestro, a
quanto si dice l'Ordine fece arrivare nella zona un contingente di minatori di
lingua tedesca. Questi operai erano soggetti a una disciplina severa, quasi
militare. Era loro proibito di fraternizzare con la popolazione locale e
venivano tenuti rigorosamente segregati. Fu addirittura creata una speciale
istituzione giudiziaria, la «Judicature des Alle-
85
mands », per dirimere i problemi legali che li riguardavano.
Ufficialmente avevano il compito di sfruttare le miniere d'oro sulle pendici
della montagna di Blanchefort: le miniere d'oro che erano state completamente
esaurite dai Romani quasi mille anni prima.36
Nel secolo XVII alcuni ingegneri ebbero l'incarico di studiare le
prospczioni mineralogiche della zona e di redigere rapporti dettagliati. Nel
suo rapporto uno di loro, Cesar d'Arcons, parlò delle rovine che aveva trovato,
ciò che restava dell'attività degli operai tedeschi. In base alle sue ricerche,
dichiarò che i Tedeschi non dovevano avere estratto minerali.37 E
allora, che cosa avevano fatto? Cesar d'Arcons non era sicuro: forse lavori di
fusione, forse lavori di costruzione in metallo, forse addirittura lo scavo di
una cripta sotterranea per creare una specie di deposito.
Qualunque fosse la soluzione di questo enigma, nelle vicinanze di
Rennes-le-Chàteau c'era stata la presenza dei Templari almeno a partire dalla
metà del XII secolo. Nel 1285 c'era un importante presidio a pochi chilometri
da Bézu, a Campagne-sur-Aude. Tuttavia, verso la fine del secolo XIII Pierre
de Voisins, signore di Bézu e di Rennes-le-Chàteau, invitò nella zona un
distaccamento di Templari, un distaccamento speciale che arrivò dalla provincia
aragonese del Rossiglione.38 Il nuovo distaccamento si insediò sulla
vetta della montagna di Bézu, dove costruì un posto di guardia e una cappella.
Ufficialmente, i Templari del Rossiglione erano stati chiamati a Bézu per
garantire la sicurezza della zona e proteggere la strada seguita dai
pellegrini, che passavano attraverso la valle per recarsi a Santiago de
Compostela, in Spagna. Tuttavia, non si capisce perché fosse necessaria la
presenza di questi cavalieri. Innanzi tutto, non potevano essere molto numerosi,
e quindi difficilmente inoro apporto sarebbe stato decisivo. In secondo luogo,
c'erano già molti Templari nei dintorni. Infine, Pierre de Voisins aveva le sue
truppe che, insieme ai Templari già presenti, potevano garantire la sicurezza
della zona. E allora, perché i Templari di Rossiglione erano andati a Bézu?
Secondo una tradizione locale, c'erano andati per spiare. E per sfruttare o
seppellire o custodire un tesoro.
Qualunque fosse la loro misteriosa missione, appare evidente che
godevano di una speciale immunità. Infatti, tra tutti i Templari
86
di Francia, furono i soli che non vennero molestati dai
siniscalchi di Filippo il Bello, il 13 ottobre 1307. Quel giorno fatidico, il
comandante del contingente dei Templari di Bézu era un certo Seigneur de Goth.39
E prima di assumere il nome di Clemente V, l'arcivescovo di Bordeaux, il debole
pontefice manovrato da Filippo il Bello, si chiamava Bertrand de Goth.
Inoltre, la madre del pontefice era Ida de Blanchefort, della stessa famiglia
di Bertrand de Blanchefort. Dunque il papa era a conoscenza di un segreto
affidato alla custodia del suo casato: un segreto che rimase nella famiglia
fino al XVIII secolo, quando l'abate Antoine Bigou, curato di Rennes-le-Chàteau
e confessore di Marie de Blanchefort, compose le pergamene ritrovate più tardi
da Saunière? Se era così, poteva darsi che il papa avesse accordato una specie
di immunità al suo parente che comandava i Templari di Bézu.
La storia dei Templari nella zona di Rennes-le-Chàteau era
evidentemente piena di enigmi sconcertanti non meno della storia dell'Ordine in
generale. Anzi, c'erano numerosi fattori - il ruolo di Bertrand de Blanchefort,
ad esempio - che sembravano costituire un evidente legame tra gli enigmi di
carattere generale e quelli più localizzati.
Nel frattempo, però, ci trovammo di fronte a una serie impressionante
di coincidenze, troppo numerose per essere coincidenze autentiche. Eravamo alle
prese con un disegno calcolato? In questo caso, dovevamo chiederci chi l'aveva
ideato, perché i disegni tanto complessi non si creano da soli. Tutte le prove
a noi accessibili indicavano una pianificazione meticolosa e un'attenta
organizzazione, tanto da convincerci che doveva esistere un gruppo specifico
di persone, forse una sorta di ordine, che operava assiduamente dietro le
quinte. Non dovemmo cercare la conferma dell'esistenza di quell'ordine. La
conferma venne da sé.
Note
1 Runciman, History ofthe Crusades, voi.
2, p. 477.
2 Esquieu, « LesTempliers de Cahors », p. 147,
n. 1, spiega che HuguesdePayen non era nato nello Champagne, bensì nello
chàteau de Mahun, presso Annonay, nella bassa valle del Rodano (Ardèche). È
stata trovata/la registrazione della sua
87
nascita; la data è il 9
febbraio 1070. Si può presumere che in seguito si trasferisse nello Champagne.
3 Guillaume de Tyre, Storia
delle gesta in Oltremare (nella versione inglese, William of Tyre, History
ofDeeds Done Beyond thè Sea, voi. I, pp. 525 sgg.).
4 Addison, History of thè Knights Templars, p.
19. Per la copia della regola originale, cfr. Curzon, La règie du
Temple,
5 Addison, History ofthe Knights Templars, p.
19.
6 La data è stata contestata; è stato sostenuto
che non può essere anteriore al 1152.
7 Riccardo I era amico dell'Ordine, e visse
presso i Templari durante il suo soggiorno ad Acri. Quando nel 1192 lasciò la
Terrasanta, partì travestito da Templare, s'imbarcò su una nave dei Templari,
accompagnato da quattro cavalieri dell'Ordine. Cfr. Addison, History ofthe Knights Templars, p.
148.
8 Daraul, History ofSecret Societies, pp.
46 sgg. Daraul non indica la fonte.
'
Cfr. Piquet, Des banquieres mi moyen Sge. La funzione iniziale
era facilitare ì pellegrinaggi in Terrasanta. Cfr. inoltre Melville, Vie des Templieres, pp. 87
sgg. Il primo prestito fu registrato nel 1135. Seward, TheMonksofWar,
p. 213, dice: « La realizzazione più duratura dei Poveri Cavalieri, il loro
contributo destinato a cambiare la posizione della Chiesa verso l'usura, fu di
carattere economico Nessuna istituzione medievale contribuì maggiormente alla
nascita del capitalismo ».
L'usura era proibita, quindi
gli interessi sui prestiti venivano calcolati in anticipo e inclusi nel totale
della somma prestata. Se venivano dati terreni come garanzie accessorie, i Templari
usufruivano di tutte le rendite di tali terreni fino all'estinzione del
debito.
10
Melville, Vie des Templiers, p. 220.
1 ' Cfr.
Mazières, « La Venue et le séjour des Templiers », p. 235.
12 Blanchefort fu distrutto durante la Crociata
contro gli Albigesi. Cadde poco prima del 1215; in quell'anno le sue terre
furono cedute da Simone di Montfort a Pierre de Voisins. Il signore di
Blanchefort aveva combattuto a fianco di Raymond-Roger Trencavel. il comandante
dei Catari. Cfr. Fédié, Le comte deRazès, p. 151.
Bertrand de Blanchefort,
spesso insieme ad altri Trencavel, fece donazioni di denaro e di beni immobili
ai Templari. Queste transazioni avvennero prima che egli entrasse nell'Ordine,
quando era ancora sposato con Fabrissa. Cfr. Albon, Cartulaire generai, p.
41 (Atto LVI, 1133-4). Nella stessa opera si può trovare menzione della moglie
e dei due fratelli di Bertrand, Arnaud e Raymond, Atto CLX, 1138, p. 112.
13 Mazières, « La venue et le séjour des
Templiers », pp. 243 sgg. Cfr. inoltre Mazières, « Recherches historiques », p.
276. Un documento trovato negli archivi della famiglia Bruyères e
Mauléon prova che i Templari di Campagne e Albedune (Bézu) fondarono una
casa-rifugio per i « bonhommes » Catari. Questo documento, insieme ad altri,
scomparve durante la guerra, nel novembre 1942.
'4
Cfr ad esempio Léonard, Introduction
au cartulaire, p. 76. Il titolare del
presidio del Tempio a
Tolosa, all'inizio della Crociata contro gli Albigesi, apparteneva alla
famiglia catara dei Trencavel.
15 L'Ordine potrebbe essere stato preavvertito
dell'imminente repressione tramite Jean de Joinville, che era siniscalco di
Champagne e quindi dovette ricevere da Filippo il Bello l'ordine segreto di
effettuare gli arresti. Si sa che simpatizzava per i Templari, e suo zio Andre
era stato cavaliere dell'Ordine e titolare del presidio di Payns tra il 1260 e
il 1270 (Léonard, Introduction au cartulaire, p. 145). Jean scrisse di
un misterioso giuramento in cui si parlava di sputi sulla croce, nel periodo in
cui i Templari venivano appunto accusati di tale pratica. Inoltre, fa capire
che san Luigi già cinquant'anni prima ne era a conoscenza e rifiutava di
condannarla. (Cfr. Jean de Joinville, Vita di san Luigi, p. 254
dell'edizione in inglese Life ofSaint Louis). Jean organizzò una lega di
nobili per contrastare gli eccessi del sovrano francese contro il Tempio.
L'azione della lega divenne superflua alla morte del re.
16 Quando gli ufficiali incaricati degli
arresti, accompagnati dal re in persona, presero il Tempio di Parigi nel 1307,
non trovarono né il denaro dell'Ordine né i documenti. Il tesoriere dell'Ordine
era Hugues de Peraud, che aveva come subordinato Gerard de Villers,
responsabile del Tempio in Francia.
Nel 1308 settantadue
Templari furono condotti a Poitiers per testimoniare davanti al papa (il numero
dei cavalieri è indicato dalla Bolla pontificia Faciens misericordiam). Non
tutte le deposizioni fatte in quell'occasione sono pervenute fino a noi. È
possibile che molte sparissero quando gli archivi segreti del Vaticano, inclusi
tutti i documenti relativi ai Templari, furono portati a Parigi per ordine di
Napoleone. Il caos era così enorme che certi bottegai incartavano le merci con
i preziosi documenti.
Trentatrè delle deposizioni
di Poitiers furono pubblicate nel 1887 dallo storico tedesco Conrad
Schottmuller, e altri sette da Heinrich Finke nel 1907. Quest'ultimo gruppo
comprende una curiosa dichiarazione di Jean de Chalons. Questi affermò che
Gerard de Villers era stato preavvertito degli arresti imminenti, era fuggito
dal Tempio accompagnato da cinquanta cavalieri ed era salpato con diciotto
navi dell'Ordine. E aggiunse che Hugues de Chàlons era fuggito con tutto il
tesoro di Hugues de Peraud, cum toto thesauro fratris Hugonis de Peraudo. Questo,
disse quando gli venne chiesto, era rimasto segreto perché i Templari che ne
erano al corrente temevano che sarebbero stati uccisi se avessero parlato. Cfr. Finke, Papsttum und Untergang des
Templerordens, voi. II, p. 339.
Vi sono vari indizi che
confermano l'affermazione. Quando i Templari furono arrestati all'alba, alcuni
non erano presenti e vennero catturati dopo qualche giorno. Tra coloro che
furono presi più tardi c'erano Gerard de Villers e Hugues de Chàlons. Cfr.
Barber. M.. Trialoftlie Templars, p. 46. \
17 L'episodio è riferito da Waite, New
Encyclopaedia of Freemasonry, voi. 2, p. 223.
18 Wolfram von Eschenbach, Parzival, p.
251 (della versione inglese).
19 Shah, The Sufis, p. 225. Cfr.
inoltre l'introduzione di Ropert Graves al libro di Shah, che a p. xix spiega
il gioco di parole tra « nero » e j< sapiente » in arabo.
' 89
Graves afferma che le tre
teste nere nello stemma di famiglia di Hugues de Payen hanno quindi un duplice
significato.
20 Oursel, Leprocès des Templiers, p.
208.
21 Lobineau, H., Dossierssecrets, tavolan.
4, OrdredeSion, riporta un brano dalla p. 292 del Lìyre
des costitutions (dell'Ordine di Sion), dove la testa è chiamata caput lviii Hj-Testa 58 Virgo.
22 Questa versiohe è tratta da Ward, Freemasonry
and theAncient Gods, p. 305.
23 Roger de Hoveden, Annals, voi. II,
248 sgg. Per una discussione dettagliata delle leggende di Yse, cfr.
Barber, M., Trialofthe Templars, pp. 185 sgg, Barber non ritiene che
l'episodio abbia relazione con la storia dei Templari, e ipotizza che si
trattasse di una leggenda popolare usata come arma contro l'Ordine.
24 Barber, M., Trial ofthe Templars, p.
249. L'elenco è abbreviato.
25 Michelet, Procès des Templiers, voi.
II, p. 384, deposizione di Jean de Chaumes.
26 Schottmiiller, Der Untergangdes
Templer-Ordens, voi. Ili, p. 67, deposizione di Deodatus Jefet.
27 Michelet, Procès des Templiers, pp.
383 sgg., deposizione di Fulk de Troyes.
28 Jean de Joinville, Vita di san Luigi (p.
254 della versione inglese, Life ofSaint Louis). Cfr. inoltre cap. 3, n.
15.
29 Albon, Cartulaire generai, p. 2 (Atto
IV, 1125) menziona un Templare chiamato Roberti, forse il Robert che
divenne Gran maestro dopo la morte di Hugues de Payen. Ap. 3 (attoIV,
U25)sonomenzionatiiTemplarif/enricoer/Jo6er(o. Sono quindi aggiunti i nomi di
Fulk d'Angiò e Hugues de Champagne, e si hanno quindi almeno quattro reclute.
3U
Bouquet, Recueil des Historiens, voi. 15 (Epistolae Ivonis
Carnotensìs Episcopi), p. 162, n. 245.
31 « La mitice du Christ, la milizia
evangelica di questa lettera non è altro che l'Ordine del Tempio. Ma nel 1114
l'Ordine del Tempio non era ancora stato fondato... » Arbois de Jubainville, Histoire... de Champagne, voi.
II, pp. 113-14, n. 1.
32 La scuola fu fondata dal famoso rabbi medievale
Rashi (1040-1105).
33 Allegro, Treasure ofthe Copper Scroll, pp.
107 sgg.
34 Arbois de Jubainville, Histoire... de
Champagne, voi. II, pp. 87 sgg.
35 Ibid., pp. 98 sgg., n. 1
36 Comunicazione personale dell'Abbé Mazières a
Henry Lincoln.
37 Arcons, Du Flux et reflux, pp. 355
sgg. Cfr. inoltre Catel, Mémoires... du Languedoc, libro
I, p. 51.
38 Mazières, « La venue et le séjour des
Templiers », pp. 234 sgg.
39 Comunicazione personale dell'Abbé Mazières a
Henry Lincoln.
90
IV
Documenti segreti
La conferma dell'esistenza di un terzo ordine - un ordine che
stava alle spalle tanto dei Templari quanto dei Cistercensi - si impose alla
nostra attenzione. In un primo tempo, comunque, non la prendemmo sul serio.
Sembrava giungere da una fonte troppo inattendibile, vaga e nebulosa. Non
potevamo credere alle sue affermazioni, se prima non avessimo accertato la
veridicità della fonte.
Nel 1956 incominciò ad apparire in Francia una serie di libri,
articoli, opuscoli e altri documenti su Bérenger Saunière e l'enigr ma di
Rennes-Ie-Chàteau. Questo materiale ha continuato a proliferare, e oggi è
molto voluminoso. Anzi, è diventato la base di una vera e propria « industria
». E la sua stessa voluminosità, l'impegno e i fondi necessari per produrlo e
diffonderlo, attestano implicitamente l'esistenza di qualcosa d'importanza
immensa ma tuttora inspiegata.
Non è affatto sorprendente che il « caso » abbia contribuito ad
aguzzare l'appetito di numerosi ricercatori indipendenti, noi compresi, le cui
opere sono venute ad aggiungersi alla massa del materiale già esistente.
Tuttavia, sembra che il materiale originale provenga da un'unica fonte. È
evidente che qualcuno ha interesse a svolgere un'attività promozionale per
Rennes-le-Chàteau, ad attirare,sulla vicenda l'attenzione del pubblico,
a\ispirare ulteriori indagini. Comunque, non sembra trattarsi di un interesse
economico. Al contrario, ha piuttosto .carattere propagandistico: una
propaganda che mira a dare credibilità a qualcosa. E quali che siano le persone
responsabili di questa propaganda, si sono adope-
91
rate per puntare i riflettori su certe questioni, pur restando
scrupolosamente nell'ombra.
A partire dal 1956, c'è stata una « fuga » di materiale pertinente,
orchestrata in modo sistematico, frammento per frammento. In gran parte questi
frammenti sembrano provenire, implicitamente o esplicitamente, da una fonte «
privilegiata ». Molti contengono ulteriori informazioni che integrano quanto
già si sapeva e quindi aiutano a ricostruire l'intero rompicapo. Tuttavia,
finora non sono stati indicati chiaramente la natura e il significato del
rompicapo. Anzi, ogni nuovo frammento d'informazione è servito ad addensare il
mistero, anziché a diradarlo. Il risultato è stato una rete sempre più
complessa di allusioni affascinanti, di accenni provocatori, di riferimenti e
di collegamenti indicativi. Di fronte alla massa di dati oggi disponibili, il
lettore può facilmente avere l'impressione di essere preso in giro, o di venire
ingegnosamente condotto da una conclusione all'altra per mezzo delle esche che
gli vengono messe sotto il naso. E alla base di tutto c'è la continua,
onnipresente allusione sottintesa a un segreto: un segreto di proporzioni
monumentali, esplosive.
Il materiale diffuso a partire dal 1956 assume forme diverse. In
parte è apparso in libri di carattere popolare o addirittura in best-sellers
più o meno sensazionali, più o meno enigmaticamente avvincenti. Ad esempio,
Gerard de Sède ha prodotto una serie di opere su argomenti in apparenza
diversissimi come i Catari, i Templari, la dinastia merovingia, i Rosacroce,
Saunière e Rennes-le-Chàteau. In questi libri, de Sède è spesso malizioso,
insinuante, sconcertante ed evasivo. Il suo tono sottintende sempre che sa
molto di più di quanto sta dicendo. Forse è un trucco per nascondere che in
realtà non sa quanto finge di sapere. Ma i suoi libri contengono abbastanza
dettagli riscontrabili per forgiare un anello di congiunzione tra i vari temi.
Qualunque cosa si possa pensare di lui, de Sède dimostra con efficacia che i
diversi argomenti di cui si occupa sono in qualche modo intercollegati.
D'altra parte, non potevamo fare a meno di sospettare che le opere
di de Sède si avvalessero in buona misura di notizie fornite da un informatore,
e per la verità questo lo riconosce più o meno lo stesso de Sède. Per puro
caso, noi siamo venuti a sapere chi era l'informatore. Nel 1971, quando abbiamo
incominciato a realizza-
re il nostro primo documentario su Rennes-le-Chàteau per la BBC,
abbiamo scritto all'editore parigino di de Sède per chiedere certo materiale
iconografico. Le fotografìe che avevamo richiesto ci furono spedite. A tergo di
ciascuna c'era un timbro: « Plantard ». A quel tempo, il nome non ci diceva
molto. Ma l'appendice d'uno dei libri di de Sède consisteva nell'intervista con
un certo Pierre Plantard. E in seguito abbiamo avuto la certezza che Pierre
Plantard non era affatto estraneo ad alcune opere di de Sède. Pierre Plantard
cominciò a imporsi come uno dei personaggi principali della nostra indagine.
Le informazioni disseminate dal 1956 in poi non sempre sono
contenute in una forma popolare e accessibile come quella adottata da de Sède.
Alcune sono apparse in tomi poderosi, imponenti e addirittura pedanteschi,
diametralmente opposti al piglio giornalistico di de Sède. Una di queste opere
è stata scritta da Rene Descadeillas, ex direttore della Biblioteca municipale
di Carcas-sonne. Il libro di Descadeillas è rigorosamente antisensazionale. È
dedicato alla storia di Rennes-le-Chàteau e dintorni, e contiene una quantità
di minuziosi dettagli sociali ed economici: per esempio, le nascite, le morti,
i matrimoni, le situazioni finanziarie, le tasse e le opere pubbliche nel
periodo tra il 1730 e il 1820. ' Nel complesso, non potrebbe essere più diverso
dai libri a carattere popolare di de Sède, che del resto Descadeillas
assoggetta in altra sede a una critica spietata.2
Oltre ai libri pubblicati, inclusi quelli editi privatamente, sono
apparsi numerosi articoli su quotidiani e riviste. Ci sono state interviste con
varie persone che affermano di essere a conoscenza dell'uno o dell'altro
aspetto del mistero. Ma in generale le informazioni più interessanti e
importanti noTv^ono apparse nei libri. Quasi tutte sono affiorate altrove, in
documèntTe~opuscoli non destinati a una normale distribuzione. Molti di questi
documenti e opuscoli sono stati depositati, in edizioni private a tiratura
limitata, presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. Le pubblicazioni sono di
un tipo realizzato a basso costo. Alcune sono addirittura fogli dattiloscritti,
riprodotti con una fotocopiatrice. Ancora più delle opere diffuse sul normale
mercato editoriale, questa massa di materiale sembra provenire da un'unica
fonte. Mediante incisi e note enigmatiche che
si riferiscono a Saunière,
Rennes-le-
93
Chàteau, Poussin, la dinastia merovingia e altri temi, ogni testo
integra, amplia e conferma gli altri. Quasi sempre l'identità dell'autore è
incerta. C'è tutta una serie di pseudonimi trasparenti o allusivi: Madeleine
Blancassal, ad esempio, Nicolas Beaucéan, Jean Delaude e Antoine l'Ermite. «
Madeleine », ovviamente, allude a Maria Maddalena, alla quale sono dedicate la
chiesa di Rennes-le-Chateau e la torre fatta costruire da Saunière. la Torre
Magdala. « Blancassal » è formato dai nomi di due fiumicelli che convergono
presso il villaggio di Rennes-les-Bains: Blanque e Sals. « Beaucéan » è una
variante di « Beauséant », il grido di battaglia ufficiale e il motto dello
stendardo dei Cavalieri Templari. « Jean Delaude » è « Jean de l'Aude », o «
Giovanni dell'Au-de », il dipartimento in cui si trovava Rennes-le-Chateau. E
«Antoine l'Ermite » è sant'Antonio eremita, la cui statua orna la chiesa di
Rennes-le-Chàteau, e la cui festa cade il 17 gennaio che è poi la data sulla
tomba di Maria de Blanchefort e la data in cui Saunière ebbe l'attacco che lo
portò alla morte.
L'opera attribuita a Madeleine Blancassal è intitolata Les
de-scendants mérovingiens et l'énigme du Razès wisigoth (I discendenti
merovingi e l'enigma del Razès visigoto): Razès è il vecchio nome della zona
dove nacque e visse Saunière. Secondo il frontespizio, l'opera fu pubblicata
per la prima volta in tedesco e tradotta in francese da Walter Celse-Nazaire,
un altro pseudonimo ispirato ai santi Celso e Nazario ai quali è dedicata la
chiesa di Rennes-les-Bains. E sempre secondo il frontespizio, l'editrice
dell'opera era la Grande Loge Alpina, la suprema loggia della massoneria
svizzera, l'equivalente svizzero della Grand Lodge britannica e del Grand
Orient francese. Nulla indica perché mai una loggia massonica moderna debba
dimostrare tanto interesse per il mistero che circonda un oscuro parroco
francese del secolo XIX e la storia della sua parrocchia di millecinquecento
anni prima. Uno dei nostri colleghi e un ricercatore indipendente chiesero
precisazioni ai dirigenti della Grande Loge Alpina: e questi affermarono di non
saper nulla non soltanto della pubblicazione dell'opera ma addirittura della
sua esistenza. Tuttavia, un ricercatore indipendente afferma di aver visto con
i suoi occhi quel libro su uno scaffale della biblioteca dell'Alpina.3
E successivamente
94
abbiamo scoperto che il nome dell'Alpina appariva anche su altri
due opuscoli.
Fra tutti i documenti pubblicati privatamente e depositati presso
la Bibliothèque Nationale, il più importante è una compilazione di scritti
raccolti sotto il titolo collettivo di Dossiers segreti (Dos-siers secrets).
Catalogata sotto il numero 4° lm' 249, oggi la compilazione è su
microfiche. Fino a tempi recenti, però, era un volume scialbo e smilzo, una
specie di fascicolo con la copertina rigida che conteneva un'accozzaglia
eterogenea di materiale apparentemente irrelato: ritagli di giornali, lettere
incollate su fogli, opuscoli, numerosi alberi genealogici e alcune pagine stampate
estratte evidentemente da altre opere. Periodicamente, qualcuna delle pagine
veniva asportata. In altri momenti, ne venivano aggiunte altre. Su certi fogli,
qualche volta, venivano apportate aggiunte e correzioni a mano, in grafia
minuscola. Successivamente, questi fogli venivano sostituiti da altri stampati,
che includevano tutte le correzioni precedenti.
La parte più voluminosa dei Dossiers, che consiste di
alberi genealogici, è attribuita a un certo Henri Lobineau, il cui nome appare
nel frontespizio. Due testi inclusi nel fascicolo precisano che Henri Lobineau
è un altro pseudonimo - forse tratto da una via, Rue Lobineau, che passa
accanto a Saint Sulpice a Parigi - e che le genealogie sono in realtà opera di
un certo Leo Schidlof, storico e antiquario austriaco vissuto in Svizzera e
morto nel 1966. Sulla base di queste informazioni, cercammo eli scoprire il più
possibile sul conto di Leo Schidlof. \.
Nel 1978 riuscimmo a rintracciare la figlia di Leo Schidlof, che
viveva in Inghilterra. Suo padre, ci disse, era veramenteWstriaco. Però non era
un genealogista, uno storico o un antiquario, bensì un esperto e commerciante
di miniature, e aveva scritto due opere sull'argomento. Nel 1948 si era
stabilito a Londra, dove aveva vissuto fino al 1966, l'anno in cui era morto a
Vienna: l'anno e il luogo corrispondevano a quelli specificati nei Dossiers
segreti.
La signorina Schidlof dichiarò con molta fermezza che suo padre
non aveva mai nutrito alcun interesse per le genealogie, la dinastia merovingia
e i misteriosi eventi della Francia meridionale. Tuttavia, continuò, certe
persone erano convinte del contrario. Negli anni Sessanta, ad esempio, Leo
Schidlof aveva ricevuto
95
numerose lettere e telefonate da individui non identificati, che
dall'Europa e dagli Stati Uniti chiedevano di incontrarsi con lui per discutere
cose di cui non sapeva assolutamente nulla. Quando Schidlof era morto nel 1966
c'era stata una nuova ondata di lettere e telefonate, e quasi tutte avevano
chiesto notizie delle sue carte.
Qualunque fosse la vicenda in cui il padre della signorina Schidlof
era rimasto involontariamente invischiato, sembrava aver destato l'attenzione
del governo americano. Nel 1946-un decennio prima della data conclamata della
compilazione dei Dossiers segreti - Leo Schidlof aveva chiesto il visto
per recarsi negli Stati Uniti. II permesso era stato respinto perché Schidlof
risultava sospetto di spionaggio o di altre attività clandestine. Alla fine la
cosa venne risolta, il visto fu concesso e Schidlof potè andare negli Stati
Uniti. È possibile che si fosse trattato soltanto di uno dei soliti malintesi
burocratici. Ma la signorina Schidlof sembrava sospettare che la vicenda fosse
in qualche modo connessa agli interessi arcani stranamente attribuiti a suo
padre.
Il racconto della signorina Schidlof ci fece riflettere. Il
rifiuto del visto americano poteva non essere una semplice coincidenza, perché
tra le carte dei Dossiers segreti c'erano allusioni che collegavano il
nome di Leo Schidlof a un misterioso intrigo di spionaggio internazionale. Nel
frattempo, tuttavia, a Parigi era apparso un nuovo opuscolo che, nei mesi
successivi, fu corroborato da altre fonti. Secondo l'opuscolo l'enigmatico
Henri Lobineau non era Leo Schidlof, bensì un aristocratico francese d'illustre
lignaggio, il conte Henri de Lénoncourt.
Il problema della vera identità di Henri Lobineau non era l'unico
enigma legato ai Dossiers segreti. C'era anche un testo che alludeva
alla « borsa di pelle di Leo Schidlof». Questa borsa avrebbe contenuto un certo
numero di documenti segreti che si riferivano a Rennes-le-Chàteau nel periodo
tra il 1600 e il 1800. Poco dopo la morte di Schidlof, la borsa sarebbe passata
nelle mani di un corriere, un certo Fakhar ul Isiam, che nel febbraio 1967
doveva incontrarsi nella Germania orientale con un « agente delegato da Ginevra
» per consegnargli la borsa stessa. Però, prima che l'incontro potesse
avvenire, Fakhar ul Isiam sarebbe stato espulso dalla Germania orientale e
sarebbe tornato a Parigi « per attendere nuovi ordini ». Il 20 febbraio 1967 il
suo
96
cadavere fu trovato sui binari della ferrovia a Melun: era stato
gettato dall'espresso Parigi-Ginevra. La borsa, a quanto sembra, era sparita.
Ci accingemmo a controllare questa vicenda tragica, per quanto ci
era possibile. Diverse notizie apparse su quotidiani francesi del 21 febbraio
la confermavano quasi tutta.4 Un cadavere decapitato era stato
effettivamente trovato sui binari a Melun. Era stato identificato come il corpo
di un giovane pachistano, Fakhar ul Isiam. Per ragioni rimaste oscure, l'uomo
era stato espulso dalla Germania orientale e stava andando da Parigi a Ginevra;
sembrava che fosse coinvolto in qualche attività spionistica. Secondo i
quotidiani, le autorità sospettavano che si fosse trattato di un delitto e le
indagini erano state affidate al DST (la Direzione della sorveglianza
territoriale, il controspionaggio).
D'altra parte, i quotidiani non parlavano di Leo Schidlof, di una
borsa di pelle, né di altre cose che potessero collegare la morte di Fakhar ul
Isiam al mistero di Rennes-le-Chàteau. Ci trovavamo quindi di fronte a parecchi
interrogativi. Da una parte, era possibile che la morte di Fakhar ul Isiam
fosse legata a Rennes-le-Chàteau e che la notizia contenuta nei Dossiers
segreti attingesse a « informazioni riservate » inaccessibili ai giornali.
D'altronde, poteva darsi che la notizia dei Dossiers segreti fosse una
voluta mistificazione. Basta trovare una morte inspiegata e sospetta ed
attribuirla, dopo il fatto, a ciò che ci interessa. Ma se era davvero così, che
scopo aveva quella manovra? Perchè-qualcuno doveva cercare di creare
un'atmosfera di intrighi sinistri intornaaJRennes-le-Chàteau? Cosa si poteva
guadagnare creando una simiìelfEfno-sfera? E chi poteva guadagnarci?
Questi interrogativi ci sconcertavano soprattutto perché la morte
di Fakhar ul Isiam non era, apparentemente, un caso isolato. Meno di un mese
dopo un'altra opera edita privatamente fu depositata presso la Bibliothèque
Nationale. Era intitolata Le serpent rouge, e portava la data
significativa e simbolica del 17 gennaio. Il frontespizio l'attribuiva a tre
autori: Pierre Feugère, Louis Saint-Maxent e Gaston de Koker.
Le serpent rouge è un'opera singolare. Contiene una genealogia merovingia e due
carte geografiche della Francia dei tempi merovingi, più un commento
affrettato e superficiale. Inoltre, contiene
97
una pianta di Saint Sulpice a Parigi, che delinea le cappelle dei
vari santi. Ma la parte principale del testo è costituita da tredici brevi poemi
in prosa di livello letterario notevole: molti ricordano l'opera di Rimbaud.
Ognuna di queste poesie in prosa non supera la lunghezza di un capoverso, e
ognuna corrisponde a un segno dello Zodiaco: uno Zodiaco di tredici
costellazioni, perché la tredicesima, Ofiuco o Serpentario, è inserita tra lo
Scorpione e il Sagittario.
'
Scritte in prima persona, le tredici poesie in prosa rappresentano
una specie di pellegrinaggio simbolico o allegorico, che incomincia
dall'Acquario e termina con il Capricorno che, come il testo precisa
esplicitamente, presiede al 17 gennaio. Nel testo, per il resto enigmatico, ci
sono riferimenti a temi già familiari: la famiglia Blanchefort, le decorazioni
della chiesa di Rennes-le-Chàteau, alcune delle iscrizioni che Saunière vi fece
apporre, Poussin e il quadro Les bergers d'Arcadie, il motto sulla
tomba, « Et in Arcadia Ego ». A un certo punto si accenna a un serpente rosso «
citato nelle pergamene » che si snoda attraverso i secoli: un'allusione
esplicita, sembrerebbe, a una stirpe o a un lignaggio. Al segno astrologico del
Leone è dedicato un capoverso enigmatico che merita di essere citato
integralmente:
Da colei che io desidero liberare esala verso di me la fragranza
del profumo che impregna il Sepolcro. Un tempo qualcuno la chiamò iside, regina di tutte le fonti
benefiche. venite a me, O voi tutti che soffrite e
SIETE AFFLITTI, E IO VI DARÒ
PACE. Per altri, ella è MADDALENA, colei dal famoso vaso colmo di
balsamo risanatore. Gli iniziati conoscono il suo vero nome: notre dame des cross.5
Le implicazioni di questo capoverso sono estremamente interessanti.
Iside, naturalmente, è la Dea Madre Egizia, patrona dei misteri: la « Regina
Bianca » nei suoi aspetti benigni, la « Regina Nera » in quelli malefici. Molti
autori che hanno scritto di mitologia, antropologia, psicologia e teologia,
hanno seguito il culto della Dea Madre dai tempi pagani fino all'epoca
cristiana. E secondo questi autori Iside sarebbe sopravvissuta nel cristianesimo
nell'aspetto della Vergine Maria, la « Regina del Cielo », come la chiamò san
Bernardo, una designazione che nell'Antico Testamento è riferita alla Dea Madre
Astarte, l'equivalente fenicia di Iside. Ma, secondo il testo contenuto nel Serpent
rouge, la
98
Dea Madre del cristianesimo non sembra essere la Vergine. AI
contrario, è la Maddalena, alla quale è dedicata la chiesa di Rennes-le-Chàteau
e alla quale Saunière consacrò la sua torre. Inoltre, il testo sembra indicare
che neppure il titolo di Nostra Signora « Notre Dame » spetta alla Vergine.
Questo titolo altisonante, conferito a tutte le grandi cattedrali della
Francia, sembrerebbe riferirsi egualmente alla Maddalena. Ma perché mai la
Maddalena dovrebbe essere venerata come « Nostra Signora », e soprattutto come
Dea Madre? La maternità è proprio l'ultima cosa che si possa associare a
Maddalena. Nella tradizione popolare cristiana, Maddalena è una prostituta che
si redime diventando seguace di Gesù. E spicca soprattutto nel Quarto Vangelo,
dove è la prima persona che vede Gesù dopo la resurrezione. Di conseguenza
viene considerata una santa, soprattutto in Francia dove, secondo varie
leggende medievali, avrebbe portato il Santo Graal. E infatti il « vaso colmo
di balsano risanatore » potrebbe venire inteso con un'allusione al Graal. Ma
collocare la Maddalena al posto solitamente riservato alla Vergine sembrerebbe
come minimo un'eresia.
Qualunque fosse il loro intento, gli autori del Serpent rouge,
o meglio i presunti autori, ebbero una sorte tragica quanto quella di
Fakhar ul Isiam. Il 6 marzo 1967, Louis Saint-Maxent e Gaston de Koker furono
trovati impiccati. E l'indomani, il 7 marzo, fu trovato impiccato anche Pierre
Feugère. ^~\
Naturalmente, si potrebbe immediatamente dedurre che\}ueste morti
erano collegate in qualche modo alla composizione ^ pubblicazione del Serpent
rouge. Tuttavia, come nel caso di Fakhar ul Isiam, non potevamo escludere
una spiegazione alternativa. Se qualcuno vuole creare un'atmosfera sinistra e
misteriosa, non è troppo difficile. Basta spulciare i giornali fino a quando ci
si imbatte in una morte sospetta o, come in questo caso, in tre morti sospette.
Dopo il fatto, si possono legare i nomi dei morti a un opuscolo di propria
creazione e depositarlo presso la Bibliothèque Nationale, con una data
antecedente (17 gennaio) sul frontespizio. Sarebbe virtualmente impossibile
smascherare un falso del genere, che sicuramente creerebbe la sensazione
voluta. Ma perché perpetrare un simile imbroglio? Perché qualcuno desiderava
evocare un'atmosfera di violenza, di delitto e di intrigo? Difficil-
99
nulla di nuovo. Ricapitolava succintamente la storia della contea
di Razès, di Rennes-le-Chàteau e di Bérenger Saunière. Insom-ma, ripresentava
tutti i particolari che noi conoscevamo già da molto tempo. Era impossibile
immaginare perché mai qualcuno se ne fosse servito, tenendola « communiqué »
per una settimana intera. E non sembrava che esistessero ragioni per negarcela.
Ma la cosa più sconcertante era che l'opera non era originale. Eccettuate
poche parole sostituite qua e là, era la riproduzione integrale, composta in
caratteri diversi e ristampata, di un capitolo di un fortunato tascabile: un
tascabile vendutissimo, reperibile per pochi franchi in tutte le edicole, che
parlava dei tesori perduti in tutto il mondo. Quindi, o Antoine l'Ermite aveva
sfacciatamente plagiato il libro pubblicato, oppure l'autore del libro aveva
plagiato Antoine l'Ermite.
Episodi del genere sono tipici della mistificazione che circonda
il materiale apparso in Francia, frammento per frammento, a partire dal 1956.
Altri ricercatori si sono imbattuti in enigmi molto simili. Nomi apparentemente
plausibili sono risultati pseudonimi. Certi indirizzi, inclusi quelli delle
case editrici e di organizzazioni, sono risultati inesistenti. Vi sono
citazioni tratte da libri che nessuno, a quanto ci consta, ha mai avuto modo
di vedere. Vari documenti sono scomparsi, o^sono stati modificati, oppure sono
stati Ìnspiegabilmente catalogati in modo erroneo nella Bibliothèque Nationale.
Qualche volta viene da sospettare che si tratti di una beffa. Ma se questo è
vero, si tratta di una beffa colossale, che comporta la disponibilità di
risorse imponenti, finanziarie e non finanziarie. E chiunque stia perpetrando
questa beffa, sembra prenderla molto sul serio.
Nel frattempo è apparso in continuazione materiale nuovo, con i
soliti temi che ricorrono come leitmotifs: Saunière, Rennes-le-Chàteau,
Poussin, Les bergers d'Arcadie, i Cavalieri Templari, Dagoberto II e la
dinastia merovingia. Vi figurano allusioni alla viticoltura - l'innesto delle
viti - presumibilmente in senso allegorico. Ma nel contempo vengono aggiunte
altre informazioni. Un esempio è l'identificazione di Henri Lobineau con il
conte di Lénoncourt. Un altro è la crescente e inspiegata insistenza sull'importanza
della Maddalena. E altre due località sono state poste
102
ripetutamente in risalto, fino ad assumere un rilievo ormai paragonabile
a quello di Rennes-le-Chàteau. Una è Gisors, una fortezza situata in Normandia,
che ebbe una vitale importanza strategica e politica1 al culmine
delle Crociate. L'altra è Stenay, un tempo chiamata Satanicum, al limitare
delle Ardenne: la vecchia capitale della dinastia merovingia, nei cui pressi fu
assassinato nel 679 re Dagoberto II.
Il corpus del materiale oggi accessibile non può venire adeguatamente
esaminato o discusso in questo libro. È troppo denso, troppo confuso e
sconnesso, e soprattutto è troppo copioso. Ma da questa mole di informazioni
che continuano a proliferare emergono alcuni punti chiave che costituiscono la
base per un'ulteriore ricerca. Sono presentati come fatti storici
incontestabili, e si possono riassumere così:
1) Esisteva un ordine
segreto che aveva creato i Templari per servirsene come braccio armato e
amministrativo. Questo ordine, che aveva agito sotto una quantità di nomi
diversi, è spesso conosciuto come il Priorato di Sion (Prieuré de Sion).
2) II Priorato di Sion è
stato diretto da una sequenza di Gran maestri i cui nomi sono tra i più
illustri della storia e della cultura occidentale.
3) Anche se i Templari vennero annientati e scioltr-tra il 1307 e
il 1314, il Priorato di Sion rimase indenne. Anche se è statooeriodi-camente
dilaniato da lotte intestine e faziose, ha continuato a funzionare nel corso
dei secoli. Agendo nell'ombra, tra le quirite, ha orchestrato alcuni degli
eventi decisivi della storia dell'Occì* dente.
\
4) II Priorato di Sion
esiste ancora ed è ancora operante. È influente, e ha un ruolo d'alto livello
negli affari internazionali, nonché nelle vicende interne di certi paesi
europei. In misura significativa, è responsabile della massa di informazioni
diffuse dal 1956 in poi.
5) Lo scopo dichiarato del
Priorato di Sion è la restaurazione della dinastia e della stirpe merovingia,
non soltanto sul trono di Francia, ma anche sui troni di altre nazioni europee.
6) La restaurazione della
dinastia merovingia è sanzionata e giustificabile, tanto legalmente quanto
moralmente. Sebbene deposta nell'VIII secolo, la stirpe merovingia non si è
estinta. Al
103
contrario, si è perpetuata in linea diretta a partire da Dagoberto
II e suo figlio, Sigisberto IV. Per mezzo di alleanze dinastiche e di
matrimoni, la stirpe include Goffredo di Buglione, che nel 1099 conquistò
Gerusalemme, e altre famiglie nobili e reali del passato e del presente:
Blanchefort, Gisors, Saint-Clair (Sinclair in Inghilterra), Montesquiou,
Montpézat, Poher, Lusignano, Plantard e Asburgo-Lorena. Al giorno d'oggi, la
stirpe merovingia ha tuttora pretese legittime sull'eredità che le spetta.
Nel cosiddetto Priorato di Sion c'era una possibile spiegazione
dei riferimenti a « Sion » contenuti nelle pergamene scoperte da Bérenger
Saunière. E c'era anche la spiegazione della strana sigla « P.S. » che appariva
su una di quelle pergamene e sulla tomba di Marie de Blanchefort.
Tuttavia, come moltissimi altri, eravamo estremamente scettici nei
confronti delle « teorie delle cospirazioni nella storia », e quasi tutte le
asserzioni elencate più sopra ci sembravano improbabili, non pertinenti e/o
assurde. Ma restava pur sempre il fatto che certe persone le promulgavano con
la massima serietà; e per giunta, come avevamo motivo di credere, le
promulgavano da posizioni di considerevole potere. E quale che fosse la
veridicità delle asserzioni, erano chiaramente connesse in qualche modo al
mistero che circondava Saunière e Rennes-le-Chàteau.
Intraprendemmo perciò un esame sistematico di quelli che avevamo
incominciato a chiamare ironicamente « i documenti del Priorato » e delle
asserzioni che contenevano. Ci sforzammo di sottoporre tali asserzioni a uno
scrupoloso esame critico per scoprire se potevano essere suffragate in un modo
o nell'altro. Lo facemmo con uno scetticismo cinico, quasi irridente, pienamente
convinti che quelle stravaganti pretese si sarebbero sgretolate di fronte ad
un'indagine anche superficiale e affrettata. Sebbene a quel tempo non lo
sapessimo, ci attendevano molte grandi sorprese.
104
Note
1 Descadeillas, Rennes etses derniers
seigneurs.
2 Cfr. Descadeillas, « Mythologie » e de Sède, Le
vrai dossier.
3 Paoli,
Les dessous, p. 86.
4 « Le Monde » (21 febbr. 1967), p. 11. « Le
Monde » (22 febbr. 1967), p. 11. « Paris-Jour » (21 febbr. 1967), n. 2315, p.
4.
5 Feugère, Saint-Maxent e Koker, Le serpenl
rouge, p. 4.
105
Parte seconda
La società segreta
V
L'ordine nell'ombra
Avevamo già sospettato che, dietro ai Cavalieri Templari, ci fosse
un gruppo di individui, se non un « ordine » vero e proprio. L'affermazione che
i Templari erano stati creati dal Priorato di Sion ci sembrava quindi un po'
più plausibile delle altre asserzioni contenute nei « documenti del Priorato ».
Perciò incominciammo l'esame da questa affermazione.
Il Priorato di Sion era stato menzionato già nel 1962, brevemen- \
te e in modo enigmatico, in un'opera di Gerard de Sède. Il primo riferimento
particolareggiato che trovammo, però, fu una pagina dei Dossiers segreti. Nella
parte superiore della pagina c'è una citazione tratta da Rene Grousset, una
delle massime autorità del nostro secolo sulla storia delle Crociate; la sua
opera monumentale sull'argomento, pubblicata negli anni Trenta, è considerata
fondamentale da storici moderni come Sir Steven Runciman. La citazione parla di
Baldovino I, fratello minore di Goffredo di Buglione, duca di Lorena e
conquistatore della Terrasanta. Alla morte di Goffredo, Baldovino accettò la
corona che gli veniva offerta e diventò quindi ufficialmente il primo re di
Gerusalemme. Secondo Rene Grousset esisteva, tramite Baldovino I, una « tradizione
reale ». E poiché era « fondata sulla Pietra di Sion »,' questa tradizione era
« eguale » alle dinastie regnanti dell'Europa: la dinastia capetingia in
Francia, la dinastia anglo-normanna (i Plantageneti) in Inghilterra, le
dinastie Hohenstauffen e Asburgo che regnavano sulla Germania e il Sacro romano
impero.
Ma Baldovino e i suoi discendenti erano re elettivi, non sovrani
per diritto di sangue. Perché, allora, Grousset aveva parlato di una
109
« tradizione reale » che « esisteva per suo tramite »? Grousset
non lo spiega. E non spiega neppure perché questa tradizione, essendo « fondata
sulla Pietra di Sion », fosse « eguale » alle più importanti dinastie europee.
Sulla pagina dei Dossiers segreti, la citazione di Grousset
è seguita da un'allusione al misterioso Priorato di Sion, o Ordine di Sion,
come veniva apparentemente chiamato a quel tempo. Secondo il testo, l'Ordine
di Sion fu fondato da Goffredo di Buglione nel 1090, nove anni prima della
conquista di Gerusalemme, benché altri « documenti del Priorato » indichino
come data della fondazione il 1099. Secondo il testo, Baldovino, fratello
minore di Goffredo, « doveva il suo trono » all'Ordine. E sempre secondo il
testo, la sede ufficiale dell'Ordine, il suo « quartier generale » era
un'abbazia: l'abbazia di Nostra Signora del Monte di Sion, a Gerusalemme. O
forse era situata nei dintorni immediati di Gerusalemme, sul monte Sion, il
famoso « alto colle » a sud della città.
Consultammo tutte le opere più autorevoli del XX secolo sulle
Crociate, ma non trovammo nessuna menzione dell'Ordine di Sion. Ci accingemmo
perciò ad accertare se quell'Ordine era veramente esistito, e se poteva aver
avuto il potere di conferire un regno. Fummo quindi costretti a frugare tra
fasci di documenti antichi. Non ci limitavamo a cercare riferimenti espliciti
all'Ordine; cercavamo anche qualche traccia della sua eventuale influenza e
delle sue attività. E ci sforzammo di accertare se c'era stata o no un'abbazia
chiamata Nostra Signora del Monte di Sion.
A sud di Gerusalemme torreggia « l'alto colle » di Sion. Nel 1099,
quando Gerusalemme fu conquistata dai crociati di Goffredo di Buglione, sul
colle c'erano le rovine di una vecchia basilica bizantina, che risaliva
presumibilmente al IV secolo ed era chiamata « la Madre di tutte le Chiese »,
un titolo molto suggestivo e indicativo. Secondo numerosi documenti, cronache e
resoconti del tempo pervenuti fino a noi, sul sito delle rovine fu costruita
un'abbazia, per ordine di Goffredo di Buglione. Doveva essere un edificio
imponente, una comunità autosufficiente. Secondo un cronista che scriveva nel
1172, era saldamente fortificata, munita di mura, torri e bastioni. E veniva
chiamata abbazia di Nostra Signora del Monte di Sion.
Ovviamente, doveva essere occupata da qualcuno. Poteva trat-
110
tarsi di un « ordine » autonomo che prendeva il nome dalla località?
Era possibile che l'abbazia ospitasse veramente l'Ordine di Sion? Non era
un'ipotesi irragionevole. I cavalieri e i monaci che occuparono la chiesa del
Santo Sepolcro, egualmente installata da Goff redo, costituivano un « ordine »
ufficiale e debitamente riconosciuto, l'Ordine del Santo Sepolcro. Lo stesso
principio poteva essere valido anche per gli inquilini dell'abbazia del Monte
Sion; e infatti sembra che fosse così. Secondo il massimo esperto in materia
del secolo XIX, l'abbazia era « abitata da un capitolo di canonici
agostiniani, incaricati di servire i santuari sotto la direzione di un abate.
La comunità assunse il duplice nome di "Santa Maria del Monte Sion e del
Santo Spirito" ».2 E un altro storico, che scriveva nel 1698,
era ancora più esplicito: « Vi erano in Gerusalemme, durante le Crociate...
cavalieri legati all'abbazia di Nostra Signora di Sion, che presero il nome di
"Cavalieri dell'Ordine di Nostra Signora di Sion" ».3
Come se questo non rappresentasse una conferma sufficiente,
scoprimmo anche documenti dell'epoca - documenti originali -che portavano il
sigillo e la firma di vari priori di « Nostra Signora di Sion ». Cen'è uno, ad
esempio, firmato da un priore Arnaldus e datato 19 luglio 1116.4 Su
un altro, datato 2 maggio 1125, il nome di Arnaldus appare abbinato a quello di
Hugues de Payen, il primo Gran maestro del Tempio.5
Fin lì i « documenti del Priorato » si erano dimostrati validi, e
potevano affermare che alla fine del secolo XII era esistito veramente un
Ordine di Sion. Tuttavia, restava ancora da accertare quando l'ordine era stato
fondato. Non si sa esattamente che cosa venisse per primo, l'ordine o il
complesso che l'ospitava. I Cister-censi, ad esempio, presero il nome da una
località, Citeaux. D'altra parte, i Francescani e i Benedettini - per citare
due esempi -presero il nome dai fondatori, e incominciarono a esistere prima di
avere una sede fissa. Potevamo dire soltanto, perciò, che intorno al 1100
esisteva un'abbazia e che ospitava un ordine dallo stesso nome... che poteva
essere stato fondato in precedenza.
I « documenti del Priorato » sottintendono che era appunto così, e
vi sono indizi che'lo confermano, sia pure in modo vago e indiretto. Si sa che
nel 1070, ventinove anni prima della conquista di Gerusalemme, un gruppo di
monaci provenienti dalla Calabria
era arrivato nella Foresta delle Ardenne, parte dei domìni di
Goffredo di Buglione.6 Secondo Gerard de Sède, i monaci erano
capeggiati da un certo « Ursus », un nome che i « documenti del Priorato »
associano spesso alla stirpe merovingia. Giunti nelle Ardenne, i monaci
calabresi ottennero la protezione di Madide di Toscana, duchessa di Lorena, zia
e, in pratica, madre adottiva di Goffredo di Buglione. Da Matilde, i monaci
ebbero in dono un appezzamento di terreno a Orval, non lontano da Stenay, dove
cinquecento anni prima era stato assassinato Dagoberto II. Per alloggiarli, fu
costruita un'abbazia. I monaci, però, non rimasero a Orval per molto tempo. Nel
1108 erano misteriosamente scomparsi, e non si sa dove si fossero trasferiti.
Secondo la tradizione, sarebbero ritornati in Calabria. Nel 1131 Orval era già
feudo di san Bernardo.
Può darsi che, prima di abbandonare Orval, i monaci calabresi
avessero lasciato un'impronta cruciale nella storia dell'Occidente. Secondo de
Sède, tra loro c'era un uomo divenuto famoso più tardi come Pietro l'Eremita.
Se è vero, sarebbe estremamente significativo, poiché molti ritengono che
Pietro l'Eremita fosse l'istitutore personale di Goffredo di Buglione.7
Ma non è questo a conferirgli la fama più grande. Nel 1095, insieme al papa
Urbano II, Pietro si fece conoscere in tutta la cristianità predicando con
ardore carismatico la necessità di una crociata, una guerra santa per liberare
il sepolcro di Cristo e la Terrasanta dalle mani degli infedeli musulmani. Oggi
Pietro l'Eremita è considerato uno dei principali ispiratori delle Crociate.
Basandoci sugli accenni contenuti nei « documenti del Priorato »,
cominciammo a domandarci se poteva esserci una sorta di continuità fra i monaci
di Orval, Pietro l'Eremita e l'Ordine di Sion. Senza dubbio, sembra evidente
che i monaci di Orval non fossero semplicemente un gruppo di religiosi
itineranti. Al contrario, i loro movimenti - l'arrivo nelle Ardenne dalla
Calabria e la loro misteriosa sparizione in massa - attestano una sorta di
coesione e di organizzazione, e forse l'esistenza di una base permanente
situata altrove. E se Pietro faceva parte di questo gruppo di monaci, la sua
predicazione per invocare una crociata forse non era stata una manifestazione
di fanatismo scatenato, ma di finalità politiche ben calcolate. Se era stato
l'istitutore di Goffredo, inol-
112
tre, poteva benissimo aver contribuito a indurre il suo allievo a
intraprendere la conquista della Terrasanta. E quando i monaci sparirono da
Orval, è possibile che non ritornassero in Calabria. Potrebbero essersi
stabiliti a Gerusalemme, forse nell'abbazia di Nostra Signora di Sion.
Naturalmente, questa era soltanto un'ipotesi, senza la minima
conferma documentale. Anche in questo caso, però, trovammo presto indizi
circostanziali che la confermavano. Si sa che, quando s'imbarcò per la
Terrasanta, Goffredo di Buglione era accompagnato da un gruppo di personaggi
anonimi che fungevano da consiglieri e amministratori: in pratica era
l'equivalente di uno stato maggiore moderno. Ma quella di Goffredo non fu
l'unica armata cristiana che partì per la Palestina. Ce n'erano altre tre, e
ognuna era comandata da un illustre e influente potentato occidentale. Se la
Crociata avesse raggiunto il suo scopo, se Gerusalemme fosse caduta e se si
fosse fondato un regno franco, ognuno dei quattro potentati avrebbe avuto le
carte in regola per aspirare al trono. Sembra tuttavia che Goffredo sapesse in
anticipo di essere il prescelto. Unico tra tutti i comandanti europei, rinunciò
ai suoi feudi, vendette tutti i suoi beni e lasciò capire chiaramente che la
Terrasanta sarebbe diventata il suo dominio per il resto della sua vita.
Nel 1099, subito dopo la caduta di Gerusalemme, certi personaggi
anonimi si riunirono in un congresso segreto. La loro identità ha eluso tutte
le ricerche storiche, anche se Guillaume deTyre, che scrisse tre quarti di
secolo più tardi, riferisce che tra loro il più importante era « un vescovo
venuto dalla Calabria » .8 In ogni caso, lo scopo della riunione era
chiaro: eleggere il re di Gerusalemme. E nonostante le convincenti
rivendicazioni di Raimondo, conte di Tolosa, i misteriosi ed evidentemente
influentissimi elettori si affrettarono a offrire il trono a Goffredo di
Buglione. Dando prova di una modestia che non gli era affatto caratteristica,
Goffredo rifiutò il titolo di sovrano e accettò invece quello di « Difensore
del Santo Sepolcro ». In altre parole, divenne re di fatto, anche se non di
nome. E quando morì, nel 1100, suo fratello Baldovino non esitò ad accettare il
titolo regale.
È possibile che i misteriosi individui riunitisi per eleggere Goffredo
fossero i monaci di Orval, incluso forse anche Pietro l'Ere-
mita che a quel tempo era in Terrasanta e godeva di un'autorità
considerevole? È possibile che costoro avessero occupato l'abbazia sul Monte
Sion? Insomma, è possibile che questi tre gruppi apparentemente diversi — i
monaci di Orval, gli elettori di Goffre-do e gli occupanti di Nostra Signora di
Sion - fossero in realtà uno solo? È una possibilità che non può essere dimostrata,
ma non può neppure venire scartata a cuor leggero. E se questo è vero, confermerebbe
sicuramente la potenza dell'Ordine di Sion: una potenza che includeva il
diritto di conferire titoli sovrani.
Il mistero che circonda la
fondazione dei Templari
II testo incluso nei Dossiers segreti parla poi dell'Ordine
del Tempio. I fondatori del Tempio sono elencati esattamente così: « Hu-gues
de Payen, Bisol de St. Omere Hugues, conte di Champagne, unitamente a certi
membri dell'Ordine di Sion, Andre de Montbard, Archambaud de Saint-Agnan,
Nivard de Montdidier, Gondemar eRossal ».9
Conoscevamo già Hugues de Payen e Andre de Montbard, lo zio di san
Bernardo. Conoscevamo anche Hugues, conte di Champagne, che donò il terreno su
cui sorse l'abbazia di Bernardo a Clairvaux, divenne Templare nel 1124
(giurando fedeltà al proprio vassallo) e ricevette dal vescovo di Chartres la
lettera citata nel III capitolo. Ma sebbene i legami fra il conte di Champagne
e i Templari fossero ben noti, non lo avevamo mai visto citato come uno dei
fondatori: e invece figura tra costoro nei Dossiers segreti. E Andre de
Montbard, lo zio di san Bernardo, figura come appartenente all'Ordine di Sion,
cioè a un altro Ordine, che esisteva prima di quello dei Templari e che ebbe un
ruolo fondamentale nella creazione di quest'ultimo.
E non è tutto. Il testo contenuto nei Dossiers afferma che
nel marzo 1117 Baldovino I « che doveva il suo trono a Sion », fu « obbligato »
a negoziare la costituzione dell'Ordine del Tempio, nella località di Saint
Léonard d'Acri. Le nostre ricerche rivelarono che Saint Léonard era in effetti
uno dei feudi dell'Ordine di Sion. Ma non sapevamo perché mai Baldovino fosse
stato « obbligato » a negoziare la costituzione del Tempio. In francese, il
verbo indica indiscutibilmente una coercizione o una pressione. E l'impli-
114
cazione contenuta nei Dossiers era che tale pressione venne
esercitata dall'Ordine di Sion, al quale Baldovino « doveva il suo trono ». Se
era veramente così, l'Ordine di Sion doveva essere un'organizzazione influente
e potentissima: un'organizzazione che non soltanto poteva conferire titoli
sovrani, ma evidentemente poteva costringere un re all'obbedienza.
Se era stato effettivamente l'Ordine di Sion a fare eleggere
Goffredo di Buglione, allora Baldovino, fratello minore di Gof-fredo, avrebbe «
dovuto il trono » alla sua influenza. Inoltre, come avevamo già scoperto,
c'erano le prove incontestabili che l'Ordine del Tempio esisteva, almeno in
forma embrionale, già quattro anni prima della data generalmente accettata per
la sua fondazione, il 1118. Nel 1117 Baldovino era malato, prossimo alla morte.
È quindi possibile che i Cavalieri Templari fossero in attività, sia pure ex
officio, molto prima del 1118, magari come braccio armato o amministrativo
dell'Ordine di Sion, arroccato nella sua abbazia fortificata. Ed è possibile
che re Baldovino, sul letto di morte, fosse costretto - dalla sua infermità,
dall'Ordine di Sion o dall'una e dall'altro - a concedere ai Templari un
riconoscimento ufficiale, ad accordare loro una costituzione e rendere
pubblica la loro organizzazione.
Già mentre svolgevamo le ricerche sui Templari, avevamo incominciato
a intravedere una rete di legami intricati e sfuggenti, forse le vestigia
nebulose di un disegno molto ambizioso. Sulla base di questi collegamenti
avevamo formulato un'ipotesi. Non potevamo sapere se questa ipotesi fosse
esatta o no: ma le vestigia di un vasto disegno erano diventate ormai più
evidenti. Radunammo i frammenti in questo modo:
1) Verso la fine del secolo
XI un misterioso gruppo di monaci calabresi appare nelle Ardenne e riceve
un'ottima accoglienza, ottiene pretezione e un appezzamento di terreno a Orval
dalla zia e madre adottiva di Goffredo di Buglione.
2) Un membro di questo
gruppo potrebbe essere stato l'istitutore di Goffredo e potrebbe aver
contribuito a ispirare la Prima Crociata.
3) Qualche tempo prima del 1108 i monaci abbandonano Orval e
scompaiono. Benché non ci sia traccia della loro destinazione, può darsi che
fosse Gerusalemme. È certo che Pietro l'Eremita s'im-
115
barcò per la Terrasanta; e se era uno dei monaci di Orval, è
probabile che in seguito i suoi confratelli lo raggiungessero.
4) Nel 1099 cade
Gerusalemme e il trono viene offerto a Gof-fredo da un consesso anonimo, uno dei
cui capi, come i monaci di Orval, è di origine calabrese.
5) Per volontà di Goffredo
viene costruita sul Monte Sion un'abbazia, che ospita un ordine dallo stesso
nome: un ordine di cui forse facevano parte i personaggi che gli avevano
offerto il trono.
6) Nel 1114 i Cavalieri
Templari sono già attivi, forse come braccio armato dell'Ordine di Sion; ma la
loro costituzione viene negoziata soltanto nel 1117, e il loro ordine non viene
reso pubblico fino all'anno successivo.
7) Nel 1115 san Bernardo -
membro dell'Ordine cistercense, che a quel tempo era sull'orlo dello sfacelo
economico - s'impone come principale portavoce della cristianità. E i
Cistercensi, già ridotti in miseria, diventano una delle istituzioni più
eminenti, ricche e influenti d'Europa.
8) Nel 1131 san Bernardo
riceve in dono l'abbazia di Orval, abbandonata diversi anni prima dai monaci
venuti dalla Calabria. Orval diventa una sede dei Cistercensi.
9) Contemporanemente, certi personaggi oscuri sembrano muoversi di
continuo tra questi eventi, componendo l'intero arazzo in un modo non del
tutto chiaro. Il conte di Champagne, ad esempio, dona il terreno per l'abbazia
di san Bernardo a Clair-vaux, tiene corte a Troyes, dove nascono in seguito i
romanzi del Graal e, nel 1114, progetta di entrare nei Templari, il cui primo
Gran maestro, secondo i documenti, è Hugues de Payen, suo vassallo.
10) Andre de Montbard, zio
di san Bernardo e presunto membro dell'Ordine di Sion, insieme a Hugues de
Payen fonda ì Templari. Poco dopo, due fratelli di Andre raggiungono san Bernardo
a Clairvaux.
11) San Bernardo diviene un
ardente propagandista dei Templari, contribuisce al loro riconoscimento
ufficiale e alla redazione della loro regola, che è in sostanza quella dei
Cistercensi, l'ordine dello stesso Bernardo.
12) Approssimativamente tra
il 1115 e il 1140, i Cistercensi e i
116
Templari cominciano a prosperare, e acquisiscono ingenti somme di
denaro e grandi proprietà terriere.
Ancora una volta, non potevamo fare a meno di chiederci se questa
moltitudine di legami intricati era dovuta soltanto a coincidenze. Ci
trovavamo di fronte a un certo numero di personaggi, di avvenimenti e di
fenomeni sostanzialmente irrelati che, per puro caso, di tanto in tanto si
sovrapponevano e si incrociavano? Oppure si trattava di qualcosa che non era
per nulla casuale e incidentale? Eravamo alle prese con una specie di piano,
concepito e congegnato da un'organizzazione umana? E quell'organizzazione
poteva essere stata l'Ordine di Sion?
Era possibile che dietro san Bernardo e i Templari ci fosse
veramente l'Ordine di Sion? Era possibile che l'uno e gli altri agissero
secondo una precisa strategia politica scrupolosamente pianificata?
Luigi VII e il Priorato di Sion
I « documenti del Priorato » non fornivano indicazioni circa le
attività dell'Ordine di Sion tra il 1118 - anno della fondazione pubblica dei
Templari - e il 1152. Durante l'intero periodo, sembrerebbe, l'Ordine di Sion
conservò la sua base in Terrasanta, nell'abbazia presso Gerusalemme. Poi, al
suo ritorno dalla Seconda Crociata, Luigi VII di Francia, a quanto si dice,
condusse con sé novantacinque membri dell'Ordine. Non si sa a che titolo accompagnassero
il re, e neppure perché questi dimostrasse loro tanta benevolenza* Ma se
l'Ordine di Sion era veramente la potenza che stava dietro ai Templari, questa
sarebbe una spiegazione: dato che Luigi VII era debitore nei confronti del
Tempio, che gli aveva fornito denaro e aiuti militari. In ogni caso l'Ordine di
Sion, creato mezzo secolo prima da Goffredo di Buglione, nel 1152 si insediò -o
si reinsediò - in Francia. Secondo il testo, sessantadue membri dell'Ordine
furono installati nel « Grande priorato » di Saint-Samson a Orleans, donato
loro da re Luigi. Sette entrarono, sembra, nelle file militanti dei Templari. E
ventisei- due gruppi di tredici - entrarono invece nel « Piccolo priorato del
Monte di Sion », situato a Saint Jean le Blanc, alla periferia di Orleans.'0
. Quando cercammo conferme di queste affermazioni, ci trovam-
117
della Giarrettiera. Tuttavia altri resoconti confermano l'avvenimento,
anche se non i suoi dettagli specifici.
Secondo un'altra cronaca, sembra che Filippo avesse informato
Enrico della sua intenzione di abbattere l'albero. Enrico reagì rinforzando il
tronco dell'olmo con fasce di ferro. L'indomani i Francesi si armarono e
formarono una falange di cinque squadroni, comandati da altrettanti nobili
illustri, che avanzarono verso l'olmo, accompagnati da frombolieri, nonché dai
carpentieri che brandivano scuri e martelli. Seguì uno scontro, al quale prese
parte Riccardo Cuor di Leone, figlio maggiore ed erede di Enrico II, che cercò
di difendere l'olmo con grande spargimento di sangue. Alla fine della
giornata, comunque, i Francesi erano padroni del campo; e l'albero fu
abbattuto.
Questa seconda versione indica qualcosa di più di una meschina
ripicca o di una scaramuccia. Indica una battaglia in piena regola che
coinvolse un gran numero di combattenti e presumibilmente costò perdite
rilevanti. Tuttavia nessuna biografia di Riccardo attribuisce molta importanza
all'episodio, e tanto meno l'approfondisce.
Ancora una volta, comunque, i « documenti del Priorato » trovavano
conferma nella storia documentata e nella tradizione; se non altro, è certo che
nel 1188 a Gisors ebbe luogo una strana disputa che comportò l'abbattimento di
un olmo. Non ci sono conferme « esterne » che questo avvenimento fosse in
qualche modo collegato ai Templari o all'Ordine di Sion. D'altra parte, le
versioni dell'episodio giunte fino a noi sono troppo vaghe, troppo succinte,
troppo incomprensibili e contraddittorie per venire accettate come definitive.
È estremamente probabile che fossero presenti alcuni Templari: Riccardo I era
spesso accompagnato da Cavalieri dell'Ordine, e inoltre Gisors, trent'anni
prima, era stata affidata al Tempio.
In base alle prove esistenti è senza dubbio possibile, se non
probabile, che il taglio dell'olmo riguardasse qualcosa di più o qualcosa di
diverso rispetto a ciò che rivelano le versioni tramandate ai posteri. Anzi,
data la stranezza dei resoconti pervenuti fino a noi, non sarebbe sorprendente
se si fosse trattato di qualcosa d'altro, qualcosa su cui si preferì sorvolare,
o che forse non venne mai reso di dominio pubblico: insomma, qualcosa di cui le
versioni
120
oggi esistenti formano una sorta di allegoria, nella quale viene
contemporaneamente accennato e nascosto un avvenimento molto più importante.
Ormus
Dal 1188 in poi, affermano i « documenti del Priorato », i Templari
furono autonomi, non più sottoposti all'autorità dell'Ordine di Sion, e non
agirono più come il suo braccio militare e amministrativo. Dal 1188 in poi, i
Templari furono ufficialmente liberi di perseguire i loro obiettivi e di
percorrere il loro cammino durante il secolo o poco più della loro esistenza,
fino alla tragica conclusione del 1307. E nel frattempo, sempre a partire dal
1188, l'Ordine di Sion avrebbe subito un'importante ristrutturazione amministrativa.
Fino al 1188 l'Ordine di Sion e l'Ordine del Tempio avrebbero
avuto lo stesso Gran maestro. Hugues de Payen e Bertrand de Blanchefort, ad
esempio, avrebbero presieduto contemporaneamente le due istituzioni. Tuttavia,
a partire dal 1188, dopo « il taglio dell'olmo », l'Ordine di Sion si sarebbe
scelto un Gran maestro che non aveva alcun rapporto con i Templari. II primo di
questi Gran maestri, secondo i « documenti del Priorato » fu Jean de Gisors.
Nel 1188, inoltre, l'Ordine di Sion avrebbe modificato il suo
nome, adottando quello che porterebbe tuttora: Priorato di Sion. E come una
sorta di sottotitolo, avrebbe adottato lo strano nome di « Ormus ». Questo
sottotitolo sarebbe stato usato fino al 1306, un anno prima dell'arresto dei
Templari francesi. L'emblema di « Ormus » era ì^, una specie di acrostico o di
anagramma che unisce un certo numero di parole chiave e di simboli. Ours, in
francese, significa orso, ilrsus in latino ; come risultò evidente in
seguito, era un'eco di Dagoberto II e della dinastia merovingia. Orme, in
francese, significa « olmo ». Or, naturalmente, è « oro ». E la «M» che
forma la cornice racchiudente le altre lettere non è soltanto una «M»: è anche
il simbolo astrologico della Vergine, che nel linguaggio dell'iconografia
medievale rappresenta Notre Dame.
Le nostre ricerche non portarono alla scoperta di riferimenti a
121
un ordine o un'istituzione medievale che avesse portato il nome «
Ormus ». In questo caso non potemmo trovare conferme esterne per il testo
incluso dei Dossiers segreti, e neppure indizi circostanziali che
permettessero di affermare la veridicità. D'altra parte, « Ormus » ricorre in
altri due contesti radicalmente diversi. Figura nel pensiero zoroastriano e nei
testi gnostici, dove è sinonimo del principio della luce. E riaffiora di nuovo
nelle discendenze vantate dalla massoneria del tardo secolo XVII. Secondo gli
insegnamenti massonici, Ormus era il nome di un saggio e mistico egizio, un «
adepto » gnostico di Alessandria, che sarebbe vissuto nei primi anni dell'era
cristiana. Nel 46 d.C. Ormus e sei suoi seguaci sarebbero stati convertiti a
una forma di cristianesimo da uno dei discepoli di Gesù, che le versioni più
numerose identificano come san Marco. Da questa conversione sarebbe nata una
nuova setta, o un ordine, che fondeva il credo del cristianesimo di quei tempi
con gli insegnamenti di altre scuole misteriche ancora più antiche. A quanto ne
sappiamo, questo episodio non trova conferme documentali. Tuttavia è certamente
plausibile. Durante il I secolo d.C, Alessandria era una vera fucina di
attività mistiche, un crogiolo nel quale le dottrine giudaiche, mitraiche,
zoroa-striane, pitagoriche, ermetiche e neoplatoniche aleggiavano nell'aria e
si fondevano con innumerevoli altre. Abbondavano i maestri di ogni tipo
possibile e immaginabile; e non sarebbe affatto sorprendente se uno di loro
avesse adottato un nome ispirato al principio della luce.
Secondo la tradizione massonica, nel 46 d.C. Ormus avrebbe
assegnato al suo « ordine di iniziati » appena costituito uno speciale simbolo
d'identificazione: una croce rossa o rosa. Certo, la croce rossa avrebbe in
seguito trovato un'eco nel blasone dei Templari ; ma il significato del testo
incluso nei Dossiers segreti e in altri « documenti del Priorato » è
inequivocabilmente chiaro. Si deve vedere in Ormus l'origine dei cosiddetti
Rosacroce. E nel 1188 il Priorato di Sion avrebbe adottato un secondo
sottotitolo, oltre a « Ormus »: avrebbe preso il nome di «Ordre de la
Rose-Croix Veritas ».
A questo punto abbiamo avuto l'impressione di trovarci su un
terreno molto infido, e il testo contenuto nei « documenti del Priorato »
incominciò ad apparire assai sospetto. Conoscevamo le
122
affermazioni dei moderni « Rosacroce » della California e di altre
organizzazioni contemporanee, i quali rivendicavano a posteriori una
discendenza che si perde tra le nebbie dell'antichità e che include quasi tutti
i più grandi uomini del mondo. Un « Ordine della Rosacroce » datato 1188
appariva altrettanto spurio.
Come aveva dimostrato in modo convincente Frances Yates, non vi
sono a quanto si sa, documenti che provino l'esistenza dei « Rosacroce »
(almeno sotto questo nome) prima dell'inizio del XVII secolo, o al massimo
prima della fine del XVI.12 Il mito che circonda quest'ordine
leggendario 'risale approssimativamente al 1605 e incominciò a prendere slancio
un decennio più tardi, con la pubblicazione di tre esaltanti trattati. Questi
trattati, che apparvero rispettivamente nel 1614,1615 e 1616, proclamavano
l'esistenza di una confraternita segreta di « iniziati » mistici, fondata da un
certo Christian Rosenkreuz, il quale, si affermava, era nato nel 1378 ed era
morto nel 1484, alla bella età di 106 anni. Christian Rosenkreuz e la sua
confraternita segreta oggi vengono generalmente considerati fittizi: una
specie di falso ideato per qualche scopo che finora nessuno è riuscito a spiegare
in modo soddisfacente, anche se a quei tempi non fu privo di ripercussioni
politiche. Inoltre, oggi si conosce l'autore di uno dei tre trattati, Le
nozze chimiche di Christian Rosenkreuz, apparso nel 1616. L'autore era
Johann Valentin Andrea, uno scrittore e teologo tedesco vissuto a Wurttemberg,
il quale confessò di aver composto Le nozze chimi-che come « Iudibrium
»: uno « scherzo », o forse una « commedia ,» intesa nel senso dantesco e
balzacchiano della parola. Vi è motivo di credere che fosse Andrea, o un suo
collaboratore, a comporre anche gli altri trattati « rosacrociani » ; ed è a
questa fonte che si può far risalire il « rosacrocianesimo » nella forma in cui
si è evoluto ed è conosciuto oggi.
Se i « documenti del Priorato » erano attendibili, tuttavia,
avremmo dovuto riconsiderare queste conclusioni e dedurre che non si trattava
di un falso del secolo XVII. Avremmo dovuto pensare a una società segreta o a
un ordine segreto esistito veramente, un'autentica confraternita clandestina.
Non era necessario che avesse un carattere interamente o fondamentalmente
mistico. Avrebbe anche potuto essere soprattutto politico. Ma sarebbe esistito
ben 425 anni prima che'il suo nome divenisse di dominio
123
pubblico, e due secoli prima del tempo in cui sarebbe vissuto il
suo leggendario fondatore.
Ancora una volta non trovammo indizi o tracce a conferma. Senza
dubbio la rosa era un simbolo mistico da tempo immemorabile, e aveva avuto un
particolare spicco durante il Medioevo, ad esempio nel famoso Roman de la
Rose di Jean de Meung e nel Paradiso di Dante. Anche la croce rossa
era un motivo simbolico tradizionale. Non soltanto era il blasone dei Cavalieri
Templari, ma in seguito era diventata la Croce di san Giorgio e, quindi, era
stata adottata dall'Ordine della Giarrettiera, istituito una trentina d'anni
dopo la caduta del Tempio. Ma anche se le rose e le croci rosse abbondavano
come emblemi simbolici, non c'era nulla che indicasse l'esistenza di
un'istituzione o di un ordine, e tanto meno di una società segreta legata ad
esse.
D'altra parte, Frances Yates sostiene che erano in attività varie
società segrete molto tempo prima della nascita dei « rosacrocia-ni » nel
secolo XVII e che quelle società erano in effetti « rosacro-ciane »
nell'orientamento politico e filosofico, se non nel nome.13 Parlando
con uno dei nostri ricercatori, ad esempio, Frances Yates disse che Leonardo
era stato un « rosacrociano » usando il termine in senso metaforico per
definire la sua mentalità e i suoi valori.
E non basta. Nel 1629, quando in Europa l'interesse per i «
rosacrociani » era al culmine, un certo Robert Denyau curato di Gisors, compose
una storia minuziosa di Gisors e della famiglia de Gisors. Nel manoscritto,
Denyau afferma esplicitamente che la società della Rosacroce era stata fondata
da Jean de Gisors nel 1188. In altre parole, esiste una conferma del secolo
XVII per le affermazioni contenute nei « documenti del Priorato ». Certo, il
manoscritto di Denyau fu redatto ben quattro secoli e mezzo dopo la presunta
fondazione. Tuttavia costituisce un indizio estremamente importante. E il
fatto che provenga da Gisors lo rende più importante ancora.14
c
Comunque, quella che ci trovavamo per le mani non era una
conferma, ma soltanto una possibilità. Fino a quel momento, però, i « documenti
del Priorato » avevano dato prova di essere sorprendentemente esatti sotto ogni
aspetto. Quindi, sarebbe stata una decisione avventata liquidarli con
leggerezza. Non eravamo
124
disposti ad accettarli per fede, a occhi chiusi. Ma ci sentivamo
in dovere di riservarci il giudizio.
Il Priorato a Orleans
Oltre alle loro affermazioni più grandiose, i « documenti del Priorato
» contenevano informazioni di un tipo molto diverso, minuzie in apparenza così
banali e inconseguenti che il loro significato ci sfuggiva. Nel contempo,
proprio la scarsa importanza di queste notizie appariva come un punto a favore
della loro veridicità. Sembrava che non vi fosse nessun motivo per inventare o
manipolare dettagli tanto trascurabili. E soprattutto, era possibile trovare
conferma dell'autenticità di molti di quei dettagli.
Ad esempio, nei « documenti del Priorato » è detto che Girard,
abate del « Piccolo Priorato » di Orleans tra il 1239 e il 1244, aveva ceduto un
appezzamento di terreno, ad Acri, ai Cavalieri Teutonici. Non si capisce
perché questo fatto debba meritare una menzione: tuttavia è indiscutibilmente
documentato. Esiste l'atto di cessione, che porta la data del 1239 e la firma
di Girard.
Informazioni dello stesso genere, anche se più indicative, vengono
date sul conto di un abate di nome Adam, che nel 1281 presiedeva il « Piccolo
Priorato » di Orleans. In quell'anno, secondo i « documenti del Priorato »,
Adam cedette un terreno presso Orval ai monaci che allora vivevano in
quell'abbazia, i Cistercensi che vi si erano trasferiti, sotto l'egida di san
Bernardo, un secolo e mezzo prima. Non riuscimmo a trovare conferme documentali
di questa cessione, ma appare piuttosto plausibile: esistono atti che attestano
parecchie altre transazioni del genere. A renderla interessante, ovviamente, è
il nome di Orval, che era già prima apparso nella nostra indagine. Inoltre,
sembra che il terreno in questione avesse una particolare importanza, perché i
« documenti del Priorato » ci dicono che a causa di questa donazione Adam
incorse nell'ira del confratelli di Sion, al punto che fu costretto a
dimettersi. L'atto di abdicazione, secondo i Dossiers segreti, ebbe come
testimone Thomas de Sainville, Gran maestro dell'Ordine di San Lazzaro. Subito
dopo, Adam si era recato ad Acri; quindi era fuggito quando la città era caduta
nelle mani del Saraceni, ed era morto in Sicilia nel 1291.
125
Non riuscimmo a trovare l'atto di abdicazione di Adam. Ma Thomas
de Sainville era Gran maestro dell'Ordine di San Lazzaro nel 1281 e la sede
centrale di San Lazzaro era nei pressi di Orleans, dove avrebbe avuto luogo
l'abdicazione di Adam. E non ci sono dubbi circa il fatto che Adam si recò ad
Acri: in quella città firmò due proclamazioni e due lettere, le prime
nell'agosto 1281,IS le seconde nel marzo 1289. '6
La « testa » dei Templari
Secondo i « documenti del Priorato », il Priorato di Sion non era,
a stretto rigore, un organismo che perpetuava o continuava l'Ordine del
Tempio; al contrario, il testo sottolinea enfaticamente che la separazione tra
i due ordini risale al «taglio dell'olmo » avvenuto nel 1188. Apparentemente,
però, continuarono a esistere rapporti, e « nel 1307 Guillaume de Gisors
ricevette la testa d'oro, Caput LVIII JTJ,
dall'Ordine del Tempio ». "
La nostra indagine sui Templari ci aveva già fatto conoscere
questa testa misteriosa. Tuttavia, il collegamento con Sion e con l'importante
famiglia de Gisors ci appariva dubbio, come se i « documenti del Priorato »
cercassero di stabilire legami potenti ed evocativi. Eppure fu precisamente su
questo punto che trovammo una delle conferme più concrete e inquietanti.
Secondo i verbali dell'Inquisizione:
11 custode e amministratore dei beni del Tempio a Parigi, dopo gli
arresti, era un uomo del re, chiamato Guillaume Pidoye. L'11 maggio 1308,
davanti agli inquisitori, egli dichiarò che al tempo dell'arresto dei Cavalieri
Templari, aveva ricevuto, insieme al suo collega Guillaume de Gisors e a un
certo Raynier Bourdon, l'ordine di presentare all'Inquisizione tutte le statue
di metallo o di legno che avessero trovato. Tra i beni del Tempio essi avevano
rinvenuto una grande testa d'argento dorato... l'immagine di una donna, che 1*11
maggio Guillaume presentò all'Inquisizione. La testa portava una dicitura,
« caput Lvnim ».18
Se la testa continuava a lasciarci perplessi, il contesto in cui
compariva Guillaume de Gisors era non meno sconcertante. È citato
esplicitamente come un collega di Guillaume Pidoye, uno degli uomini del re Filippo.
In altre parole, sembrerebbe che, come Filippo, fosse ostile ai Templari e
partecipasse all'attacco sferrato contro di loro. Tuttavia, secondo i «
documenti del Prio-
126
rato », a quel tempo Guillaume era Gran maestro del Priorato di
Sion. Questo significa che Sion appoggiò l'azione intrapresa da Filippo contro
il Tempio, e che forse vi collaborò addirittura? Vi sono certi « documenti del
Priorato » che sembrano confermare questa possibilità: Sion, in modi che non
sono specificati, consentì e contribuì allo scioglimento dei suoi
indisciplinati ex-protetti. D'altra parte, i « documenti del Priorato »
indicano anche che Sion protesse paternamente almeno certi Templari durante gli
ultimi tempi dell'esistenza dell'Ordine. Se questo è vero, è ben possibile che
Guillaume de Gisors facesse il doppio gioco. Potrebbe essere stato lui il
responsabile della « fuga di notizie » circa le intenzioni di Filippo,
avvertendo in anticipo i Templari delle macchinazioni del re. Se, dopo la
separazione ufficiale del 1188, Sion aveva continuato effettivamente a
esercitare una specie di controllo clandestino sulle attività del Tempio, è
possibile che Guillaume de Gisors fosse in parte responsabile della meticolosa
distruzione dei documenti dell'Ordine... e dell'inspiegata sparizione del suo
tesoro.
I Gran maestri dei Templari
Oltre alle notizie frammentarie discusse più sopra, il testo contenuto
nei Dossiers segreti include tre elenchi di nomi. Il primo è abbastanza
semplice; è il meno interessante e il meno soggetto a controversie e dubbi,
poiché è soltanto un elenco degli abati che presiedettero sulle terre di Sion
in Palestina tra il 1152 e il 1281. Le nostre ricerche ne confermarono la
veridicità; l'elenco appare altrove, indipendentemente dai Dossiers segreti,
in fonti accessibili e inoppugnabili. '9 Gli elenchi riportati
in queste fonti concordano con quello dei Dossiers segreti; nelle fonti
mancano soltanto due nomi. In questo caso, dunque, i « documenti del Priorato »
non soltanto concordano con la storia accertata, ma sono più completi perché
colmano certe lacune.
Il secondo elenco dei Dossiers è un elenco dei Gran maestri
dei Cavalieri Templari del 1118 al 1190: in altre parole, dalla fondazione
pubblica del Tempio fino alla sua separazione da Sion e al « taglio dell'olmo »
a Gisors. A prima vista, l'elenco non aveva nulla di insolito o di
straordinario. Ma quando lo comparammo
127
con altri elenchi, ad esempio quelli citati da storici autorevoli,
affiorarono subito alcune evidenti discrepanze.
Secondo quanto affermano virtualmente tutti gli altri elenchi
conosciuti, tra il 1118 e il 1190 vi furono dieci Gran maestri. Secondo i Dossiers
furono soltanto otto. Secondo quasi tutti gli altri elenchi, Andre de
Montbard, lo zio di san Bernardo, non fu soltanto uno dei fondatori
dell'Ordine, ma anche il suo Gran maestro tra il 1153 e il 1156. Invece,
secondo i Dossiers, Andre non divenne mai Gran maestro; sembra che
continuasse a esercitare la sua influenza restando nell'ombra, come aveva
sempre fatto. Secondo quasi tutti gli altri elenchi, Bertrand de Blanche-fort
fu il sesto Gran maestro del Tempio, e assunse la carica dopo Andre de
Montbard, nel 1156. Nei Dossiers, Bertrand non fu il sesto in ordine di
successione, bensì il quarto, e divenne Gran maestro nel 1153. C'erano altre
discrepanze e contraddizioni, e non sapevamo cosa pensarne. Dovevamo
considerare errato l'elenco dei Dossiers perché non concordava con
quelli compilati da storici autorevoli?
Dobbiamo ricordare che non esiste un elenco ufficiale o definitivo
dei Gran maestri del Tempio: non è stato conservato e tramandato ai posteri. I
documenti del Tempio furono distrutti o fatti sparire, e la più antica
compilazione conosciuta dei Gran maestri dell'Ordine è del 1342: trent'anni
dopo la soppressione dell'Ordine stesso, e duecento venticinque anni dopo la
sua fondazione. Di conseguenza, gli storici che compilarono elenchi dei Gran
maestri si sono basati sui cronisti coevi, ad esempio su un autore che, scrivendo
nel 1170, accenna di sfuggita a un « Maestro » o « Gran maestro » del Tempio.
Altre prove si possono trovare esaminando i documenti e gli atti di quel
periodo, nei quali l'uno o l'altro dignitario dei Templari aggiungeva il suo
titolo alla firma. Perciò è tutt'altro che sorprendente che la sequenza e le
date di Gran maestri generino incertezze e confusioni; e che la sequenza e le
date divergano, a volte clamorosamente, da un autore all'altro, da un'opera
all'altra.
C'erano tuttavia alcuni dettagli importantissimi - come quelli
riassunti più sopra - in cui i « documenti del Priorato » deviavano in modo
significativo da tutte le altre fonti. Quindi non potevamo ignorare tali
deviazioni. Dovevamo accertare, per quanto era
128
possibile, se l'elenco dei Dossiers segreti era inficiato
dalla trascuratezza o dall'ignoranza; o per contro se l'elenco era veramente
definitivo, basato su informazioni « interne », non accessibili agli storici.
Se Sion aveva creato i Cavalieri Templari e se Sion (o almeno il suo archivio)
era sopravvissuto fino ai nostri giorni, si poteva ragionevolmente supporre che
fosse a conoscenza di dettagli non reperibili altrove.
Quasi tutte le discrepanze tra l'elenco dei Dossiers segreti e
quelli delle altre fonti si possono spiegare abbastanza facilmente. A questo
punto, non è il caso di approfondirle e di chiarirle una a una. Ma un solo
esempio dovrebbe bastare a illustrare come e perché tali discrepanze poterono
prodursi. Oltre al Gran maestro, il Tempio aveva una quantità di Maestri
locali: uno per l'Inghilterra, per la Normandia, l'Aquitania, per tutti i
territori dove si trovavano i suoi domìni. C'era anche un Maestro per l'Europa
e, a quanto sembra, un Maestro marittimo. Nei documenti e negli atti, questi
maestri locali e regionali si firmavano invariabilmente « Magister Templi », «
Maestro del Tempio ». E molto spesso il Gran maestro, per modestia, noncuranza,
indifferenza o alterigia, si firmava semplicemente « Magister Templi ». In
altre parole, Andre de Montbard, Maestro del territorio di Gerusalemme, in un
documento avrebbe avuto, dopo il suo nome, la stessa designazione del Gran
maestro, Bertrand de Blanchefort.
Non è difficile, quindi, capire come uno storico, lavorando in
base a uno o due documenti e senza controllare le fonti, possa interpretare in
modo errato la vera posizione di Andre nell'Ordine. Appunto a causa di questi
errori, molti elenchi dei Gran maestri includono un certo Everard des Barres.
Ma il Gran maestro, secondo le costituzioni del Tempio, doveva essere eletto
da un capitolo generale a Gerusalemme, e doveva risiedere in quella città. Le
nostre ricerche rivelarono che Everard des Barres era un Maestro regionale,
eletto in Francia e residente in Francia, e non si era recato in Terrasanta se
non molto più tardi. Perciò poteva venire escluso dall'elenco dei Gran maestri,
come infatti era escluso nei Dossiers segreti. E appunto in queste
sottigliezze accademi-che i « documenti del Priorato » dimostravano una
meticolosa precisione, che non potevamo immaginare certo costruita a posteriori.
129
Impiegammo più di un anno per esaminare e comparare i vari elenchi
dei Gran maestri Templari. Consultammo tutte le opere sull'Ordine, in inglese,
in francese e in tedesco, e poi controllammo le loro fonti. Esaminammo le
cronache del tempo - come quella di Guillaume de Tyre - e altre notizie coeve.
Consultammo tutti gli atti che riuscimmo a trovare, e ci procurammo informazioni
precise su tutti quelli che risultavano ancora esistenti; Comparammo le firme
e i titoli su numerosi editti, proclamazioni, atti di proprietà e altri
documenti dei Templari. Al termine di questa approfondita indagine, risultò
evidente che l'elenco dei Dossiers segreti era più esatto di tutti gli
altri, non solo per quanto riguardava l'identità dei Gran maestri, ma anche le
date e la durata dei rispettivi incarichi. Se esisteva un elenco definitivo dei
Gran maestri del Tempio, era appunto quello dei Dossiers.20
L'esattezza dell'elenco non era importante soltanto in se stessa.
Le implicazioni erano molto più vaste. Certo, l'elenco poteva essere stato compilato
da un ricercatore estremamente attento e scrupoloso; ma sarebbe stata
un'impresa monumentale. Ci sembrava molto più probabile che un elenco tanto
preciso attestasse l'esistenza di un patrimonio di notizie privilegiate,
inaccessibili agli storici.
Fossero o no giustificate le nostre conclusioni, ci trovavamo di
fronte a un fatto incontestabile: qualcuno, chissà come, aveva avuto accesso a
un elenco più preciso di tutti gli altri. E poiché quell'elenco, sebbene
divergesse da altri accettati dagli storici, risultava tanto spesso esatto,
conferiva una considerevole credibilità ai « documenti del Priorato » nel loro
complesso. Se i Dossiers erano dimostrabilmente attendibili sotto questo
aspetto importantissimo, c'erano meno ragioni di dubitarne in altri casi.
Questa assicurazione era tempestiva e necessaria. Altrimenti,
forse avremmo scartato a prima vista il terzo elenco dei Dossiers, quello
dei Gran maestri del Priorato di Sion. Questo terzo elenco, infatti, appariva
assurdo anche a un esame superficiale.' ^
Note
1 Grousset, Histoire des croisades, voi.
III., p. XIV.
2 Voglie, Les eglises, p. 326.
130
3
Vincent, Histoìre de l'anciene image, pp. 92 sgg. ■* Ròhricht, « Regesta », p. 19, n. 83.
5 Ibid.,p. 25, n. 105.
6 Tillière, Histoire... d'Ornai, pp. 3
sgg.
7 Jeantin, Les chroniques, voi. 1, p.
398. In Le vra< e/ le fatue sur Pierre l'Hermite, di
Hagenmeyer, si afferma che prima di diventare monaco Pietro era un nobile,
possedeva il feudo di Achères presso Amiens ed era vassallo di Eustachio di
Boulogne, il padre di Goffredo. Cfr. pp. 58 sgg. Hagenmeyer, tuttavia, non
crede che Pietro fosse l'istitutore di Goffredo.
' i
È evidente che Pietro godeva
di un grande prestigio perché dopo la presa di Gerusalemme l'esercito crociato
intraprese un'altra campagna e lasciò la città affidata a lui.
8 Guillaume de Tyre, Storia delle gesta in
Oltremare (nella versione inglese, WilliamofTyre, History of
DeedsDoneBeyondthèSea, voi. l,p. 380). Cfr. inoltre Runciman, History ofthe Crusades, voi.
1, p. 292. Lo stesso vescovo venuto dalla Calabria era amico di un certo
Arnulf (Arnolfo), un oscuroecclesiastico che, con l'aiuto del vescovo, in
seguito fu eletto primo patriarca latino di Gerusalemme!
Dalla precedente « crociata
del popolo » sopravvisse uno strano gruppo, quello dei Tafur, che
acquisirono una certa notorietà quando alcuni di loro furono accusati di
cannibalismo dall'emiro di Antiochia1. Questo gruppo aveva un «
collegio » interno presieduto da un Re Tafur. Le cronache contemporanee
presentano il Re Tafur come un uomo al quale gli stessi principi
crociati si accostano con umiltà e reverenza. Si dice che fu questo Re Tafur
a incoronare Goffredo di Buglione. Inoltre, si afferma che avesse legami
con Pietro l'Eremita. È possibile che questo gruppo ristretto e il re fossero i
rappresentanti venuti dalla Calabria? Il nome Tafur, con la sostituzione
di una lettera, potrebbe essere l'anagramma di Artus, un nome rituale.
Per un riepilogo relativo all'influenza dei Tafur eh. Cohn, Pursnitof thè Millennium, pp.
66 sgg.
9 Lobineau, H., Dossiers secrets, planche
n. 4.
10 Ibid.
".
Archives du Loiret, sèrie D. 357. Cfr. anche Rey, E.-G., «Chartes...du
Mont-Sion », pp. 31 sgg. e Le Maire, Histoire et Antiquitez, parte 2,
cap. XXVI, pp. 96 sgg-
12 Yates, Rosicrucian Enlightenmenì.
'
13 Cfr. ad esempio Yates, Giordano Bruno, pp.
312 sgg., e Yates, OccultPhilqsop-hy, p, 38. Nelle due opere Frances
Yates esplora la trasmissione del pensiero ermetico e le società segrete sorte
intorno ai personaggi centrali. , i
14 Questa notizia è stata fornita da fonti del
Priorato. Abbiamo visto il manoscritto nella Bibliothèque de Rouen, Histoire
polytique de Gisors etdupaysde Vulcsain, di Robert Denyau, 1629 (Collezione
Montbret 2219, V 14a). È molto difficile accertare l'esattezza delle
informazioni. Delle 575 pagine manoscritte, moltissime sono appena leggibili e
molte mancano, mentre altre sono state tagliate, oppure parzial-
131
VI
I Gran maestri e il fiume
sotterraneo
Nei Dossiers segreti sono elencati i seguenti personaggi
che, in ordine cronologico, hanno portato il titolo di Gran maestro del
Priorato di Sion o più esattamente, per usare il termine ufficiale, il titolo
di « Nautonnier », una vecchia parola francese che significa « navigatore », «
timoniere » o « nocchiero » :
Jean de Gisors |
1188-1220 |
Marie de Gisors |
1220-1266 |
Guillaume de
Gisors |
1266-1307 |
Edouard de Bar |
1307-1336 |
Jeanne de Bar |
1336-1351 |
Jean de
Saint-Clair |
1351-1366 |
Bianche d'Evreux |
1366-1398 |
Nicolas Flamel |
1398-1418 |
Rene d'Anjou |
1418-1480 |
Iolande de Bar |
1480-1483 |
Sandro Filipepi |
1483-1510 |
Léonard de Vinci |
1510-1519 |
Connétable de
Bourbon |
1519-1527 |
Ferdinand de
Gonzague |
1527-1575 |
Louis de Nevers |
1575-1595 |
Robert Fludd |
1595-1637 |
J. Valentin Andrea |
1637-1654 |
Robert Boyle |
1654-1691 |
Isaac Newton |
1691-1727 |
Charles Radclyffe |
1727-1746 |
134
Charles de
Lorraine |
1746-1780 |
Maximilien de
Lorraine |
1780-1801 |
Charles Nodier |
1801-1844 |
Victor Hugo |
1844-1885 |
Claude Debussy |
1885-1918 |
Jean Cocteau |
1918- |
La prima volta che lo vedemmo, questo elenco suscitò subito il
nostro scetticismo. Da una parte include molti nomi che ci si aspetterebbe
automaticamente di trovare, nomi di personaggi famosi legati a tradizioni «
occulte » o « esoteriche ». Dall'altra, comprende anche molti nomi illustri e
improbabili, personaggi che, in certi casi, non immagineremmo mai a capo di una
società segreta. Nel contempo, però, molti di questi ultimi nomi appartengono
esattamente alla categoria che certe organizzazioni del XX secolo hanno spesso
cercato di « annettersi » per crearsi una sorta di genealogia spuria. Ad esempio,
vi sono elenchi pubblicati dall'AMORC, il moderno ordine « rosacrociano » con
base in Cali-fornia, che includono virtualmente tutti i personaggi importanti
della storia e della cultura occidentale i cui valori, anche se tangenzialmente,
coincidevano con quelli dell'Ordine. Spesso una convergenza di mentalità e di
princìpi viene sfruttata e presentata come l'appartenenza alla società segreta.
Perciò ci sentiamo dire che Dante, Shakespeare, Goethe e innumerevoli altri
erano «ro-sacrociani », il che implicherebbe che erano regolarmente iscritti e
pagavano le quote associative.
All'inizio, la nostra presa di posizione nei confronti dell'elenco
riprodotto più sopra fu altrettanto scettica. Anche qui vi sono nomi
prevedibili, associati a tradizioni « occulte » ed « esoteriche ». Nicolas
Flamel, ad esempio, è forse il più famoso degli alchimisti medievali, e quello
sul quale esiste la documentazione più probante. Robert Fludd, filosofo vissuto
nel secolo XVII, era un esponente del pensiero ermetico e di altre tradizioni
arcane. Johann Valentin Andrea, tedesco e contemporaneo di Fludd, scrisse tra
l'altro alcune delle opere dalle quali nacque il mito del favoloso Christian
Rosenkreuz. E vi sono anche personaggi come Leonardo da Vinci e Sandro
Filipepi, meglio noto come Botticelli. Vi sono i nomi di illustri scienziati,
come Robert Boyle e Isaac
135
Newton. E negli ultimi due secoli, tra i Gran maestri del Priorato
di Sion vi sarebbero stati importanti esponenti della cultura e dell'arte come
Victor Hugo, Claude Debussy e Jean Cocteau.
Poiché includeva questi nomi, l'elenco dei Dossiers segreti non
poteva non apparire sospetto. Era quasi inconcepibile che alcuni dei personaggi
citati avessero presieduto una società segreta, e in particolare una società
segreta votata a interessi « occulti » ed « esoterici ». Boyle e Newton, ad
esempio, non sono affatto nomi che il pubblico del XX secolo può associare
all'occultismo e all'esoterismo. E anche se Hugo, Debussy e Cocteau si
interessavano attivamente a queste discipline, sembrano troppo ben conosciuti,
grazie alle ricerche e alle documentazioni, per essere stati « Gran maestri »
di un ordine segreto senza che qualcosa trapelasse.
D'altra parte, i nomi illustri non sono i soli che appaiono nell'elenco.
Quasi tutti gli altri appartengono a nobili europei, molti dei quali sono
estremamente oscuri, sconosciuti o quasi non soltanto al grosso pubblico ma
persino agli storici. C'è Guillaume de Gi-sors, ad esempio, che nel 1306
avrebbe organizzato il Priorato di Sion come una « massoneria ermetica ». E c'è
il nonno di Guillaume, Jean de Gisors, che viene presentato come il primo Gran
maestro indipendente di Sion, e che avrebbe assunto la carica nel 1188, dopo il
« taglio dell'olmo » e la separazione dal Tempio. Non c'è dubbio, che Jean de
Gisors sia veramente esistito. Nacque nel 1133 e morì nel 1220. È menzionato in
vari documenti, ed era signore, almeno nominalmente, della famosa fortezza
normanna, dove si svolgevano per tradizione gli incontri fra i re d'Inghilterra
e di Francia, e dove avvenne nel 1188 l'episodio del « taglio dell'olmo ».
Sembra che Jean fosse un proprietario terriero molto ricco e potente, e fino al
1193 fu vassallo del re d'Inghilterra. Si sa inoltre che possedeva proprietà in
Inghilterra, e precisamente nel Sussex, oltre al maniero di Titchfield nello
Hampshire.2 Secondo i Dossiers segreti, nel 1169 s'incontrò
a Gisors con Tommaso Becket, sebbene non sia indicato lo scopo del colloquio.
Trovammo la conferma che Becket andò effettivamente a Gisors nel 1169,3
e quindi è probabile che avesse qualche contatto con il signore della fortezza;
ma non riuscimmo a trovare documenti che provassero un effettivo incontro fra i
due.
Insomma, a parte pochi dettagli, Jean de Gisors restava virtual-
136
mente nebuloso. Sembrava che non avesse lasciato tracce nella
storia, a parte la sua esistenza e il suo titolo. Non riuscimmo a scoprire che
cosa avesse fatto di importante, che cosa giustificasse la sua elezione a Gran
maestro di Sion. Se l'elenco dei presunti Gran maestri di Sion era autentico,
cosa aveva fatto Jean per meritarsi un posto? E se l'elenco era un falso
recente, perché doveva includere un personaggio tanto oscuro?
Ci parve che vi fosse una sola spiegazione possibile, anche se in
pratica non spiegava molto. Come tutti gli altri aristocratici inclusi
nell'elenco dei Gran maestri di Sion, Jean de Gisors appariva nelle complicate
genealogie che figuravano in altri « documenti del Priorato ». Non diversamente
da questi altri nobili altrettanto elusivi, apparteneva alla stessa
intricatissima foresta di alberi genealogici, tutti discesi, in apparenza,
dalla dinastia merovingia. Perché ci sembrava evidente che il Priorato di Sion,
almeno in misura significativa, fosse una faccenda di famiglia. In un certo
senso, l'Ordine sembrava intimamente legato a una stirpe e a un lignaggio. E
forse l'appartenenza a questa stirpe giustificava la presenza dei vari nomi
titolati nell'elenco dei Gran maestri.
In base all'elenco riportato all'inizio di questo capitolo, sembrerebbe
che la carica di Gran maestro di Sion passasse in modo ricorrente tra due
gruppi di individui essenzialmente distinti. Da una parte ci sono i personaggi
di statura monumentale che, tramite l'esoterismo, le arti o le scienze, hanno
esercitato un influsso sulla tradizione, la storia e la cultura dell'Occidente.
Dall'altra vi sono annoverati i membri di una specifica rete di famiglie
intercollega-te, nobili e talvolta reali. In una certa misura, questa strana
giustapposizione conferiva plausibilità all'elenco. Se qualcuno avesse
semplicemente voluto « inventare » una discendenza ideale per Sion, non
avrebbe avuto motivo di includervi tanti aristocratici sconosciuti o
dimenticati. Non avrebbe avuto senso, ad esempio, includere un personaggio
come Carlo di Lorena, feldmaresciallo austriaco del secolo XVIII, cognato
dell'imperatrice Maria Teresa, che si mostrò straordinariamente inetto sul
campo di battaglia e fu sconfitto in uno scontro dopo l'altro da Federico il
Grande di Prussia.
Almeno sotto questo punto di vista, il Priorato di Sion darebbe
prova di modestia e di realismo. Non sostiene di svolgere la sua
137
attività sotto gli auspici di geni non meglio qualificati, di «
Maestri » sovrumani, di « iniziati » illuminati, di santi, saggi o immortali.
Al contrario, riconosce che i suoi Gran maestri sono stati esseri umani
fallibili, rappresentativi dell'intera umanità: qualche genio, qualche
notabile, qualche « individuo medio », qualche nullità e persino qualche
incapace.
Non potevamo fare a meno di domandarci: un elenco falsificato o
inventato di sana pianta avrebbe incluso una simile gamma? Se qualcuno voleva
fabbricare un elenco di Gran maestri, perché non scegliere tutti nomi illustri?
Se aspirava a inventare una successione che includesse Leonardo, Newton e
Victor Hugo, perché non includervi anche Dante, Michelangelo, Goethe eTolstoj,
anziché personaggi oscuri come Edouard de Bar e Massimiliano di Lore-na? E
ancora, perché nell'elenco c'erano tanti individui « minori »? Perché uno
scrittore relativamente di secondo piano come Charles Nodier, anziché un suo
contemporaneo come Byron o Puskin? Perché un « eccentrico » come Cocteau
anziché uomini di prestigio internazionale come Andre Gide o Albert Camus? E
perché venivano omessi personaggi come Poussin, il cui legame con il mistero
era già stato accertato? Questi interrogativi ci assillavano, e indicavano che
l'elenco meritava un attento esame, prima che fosse possibile liquidarlo come
un falso sfacciato.
Intraprendemmo quindi un lungo, dettagliato studio dei presunti
Gran maestri: le loro biografie, le loro attività, le loro qualità. Svolgendo
tale studio cercammo, per quanto era possibile, di sottoporre ogni nome
dell'elenco al vaglio di certi interrogativi critici:
1) C'era qualche contatto personale, diretto o indiretto, tra ogni
presunto Gran maestro, il suo immediato predecessore e il suo immediato
successore?
2) Esisteva qualche affiliazione, di sangue o no, tra ogni presunto
Gran maestro e le famiglie che figuravano nelle genealogie dei « documenti del
Priorato », con le famiglie di pretesa discendenza merovingia, e in particolare
con la casa ducale diLorena?
3) Ogni presunto Gran
maestro era collegato in qualche modo con Rennes-le-Chàteau, Gisors, Stenay,
Saint Sulpice o qualcuna delle altre località che ricorrevano precedentemente
nella nostra indagine?
138
4) Se Sion si autodefiniva « una massoneria ermetica », ognuno dei
presunti Gran maestri mostrava una propensione per il pensiero ermetico o
aveva legami con qualche società segreta?
Anche se era difficile e talvolta impossibile procurarsi informazioni
sui presunti Gran maestri prima del 1400, l'indagine che svolgemmo sui
personaggi del periodo successivo diede risultati coerenti e sorprendenti.
Molti di loro erano collegati, in un modo o nell'altro, con una o più di una
delle località che apparivano tanto importanti: Rennes-le-Chàteau, Gisors,
Stenay o Saint Sul-pice. Quasi tutti i personaggi dell'elenco avevano legami di
sangue con la casa di Lorena, o vi erano associati in qualche altro modo;
persino Robert Fludd, ad esempio, era stato istitutore dei figli del duca di
Lorena. A partire da Nicolas Flamel ogni individuo elencato, senza eccezione,
conosceva molto bene il pensiero ermetico, e spesso era legato a società
segrete, e questo valeva anche per uomini che istintivamente nessuno penserebbe
di associare a tali attività, come Boyle e Newton. E con una sola eccezione,
ognuno dei presunti Gran maestri aveva qualche contatto — a volte direttamente
, a volte tramite amici intimi comuni - con quello che l'aveva preceduto e con
quello che era venuto dopo di lui. Per quanto potemmo accertare, c'era una sola
apparente « frattura nella catena ». E anche questa, che sembra avvenisse al
tempo della Rivoluzione francese, fra Massimiliano di Lorena e Charles Nodier,
non è per nulla provata.
Nel contesto di questo capitolo non è possibile discutere dettagliatamente
ognuno dei presunti Gran maestri. Alcuni dei personaggi più oscuri assumono un
significato solo sullo sfondo di una data epoca, e per spiegare compiutamente
questo significato sarebbero necessarie lunghe digressioni tra gli angoli
dimenticati nella storia. Nel caso dei nomi più famosi, sarebbe impossibile
render loro giustizia in poche pagine. Perciò, il materiale biografico
pertinente relativo ai presunti Gran maestri e ai legami tra loro è stato
incluso nell'appendice. Il presente capitolo si occuperà invece degli'sviluppi
sociali e culturali più ampi, nei quali ebbero una parte collettiva alcuni dei
presunti Gran maestri. Fu appunto in questi sviluppi sociali e culturali che le
nostre ricerche rivelarono in apparenza una traccia riconoscibile
dell'influenza del Priorato di Sion.
'
139
Renato d'Angiò
Sebbene oggi sia poco noto, Renato d'Angio - « il buon re Rene »,
come veniva chiamato - fu uno dei personaggi più importanti della cultura
europea negli anni immediatamente precedenti al Rinascimento. Nato nel 1408,
nel corso della sua vita divenne detentore di una sfilza impressionante di
titoli. Fra i più importanti c'erano i seguenti: conte di Bar, di Provenza, di
Piemonte, e di Guisa, duca di Calabria, d'Angiò, e di Lorena, re d'Ungheria, di
Napoli e Sicilia, d'Aragona, di Valenza, di Maiorca e Sardegna, e, quello forse
più altisonante di tutti, di Gerusalemme. Naturalmente, quest'ultimo era un
titolo soltanto nominale. Tuttavia indicava una continuità che risaliva a
Goffredo di Buglione, ed era riconosciuto dagli altri potentati europei. Una
delle figlie di Renato, Margherita d'Angiò, sposò nel 1445 Enrico VI
d'Inghilterra, ed ebbe un ruolo di grande rilievo nella Guerra delle due rose.
Nei primi tempi della sua « carriera », Renato d'Angiò sembra
legato in modo piuttosto oscuro a Giovanna d'Arco. A quanto si sa, Giovanna era
nata nel paesetto di Domrémy, nel ducato di Bar, e quindi era suddita di
Renato. Si impose per la prima volta all'attenzione della storia del 1429,
quando arrivò alla fortezza di Vaucouleurs, situata sulla Mosa a pochi
chilometri più a monte di Domrémy. Si presentò al comandante della fortezza e
annunciò la sua « missione divina » : salvare la Francia dagli invasori inglesi
e far sì che il delfino, il futuro Carlo VII, fosse incoronato re. Per
adempiere tale missione, avrebbe dovuto raggiungere il delfino alla sua corte
di Chinon, sulla Loira, molto più a sud-ovest. Ma Giovanna non chiese al
comandante di Vaucouleurs i mezzi per raggiungere Chinon; chiese invece di
essere ricevuta dal duca di Lorena, suocero e prozio di Renato.
L'udienza fu accordata a Giovanna nella capitale del duca, Nancy.
Quando la Pulzella vi arrivò, si sa che Renato d'Angiò era presente. E quando
il duca di Lorena le chiese che cosa desiderava, Giovanna rispose
esplicitamente con parole che hanno sempre sconcertato gli storici: « Vostro
figlio [genero], un cavallo e alcuni uomini valenti per portarmi in Francia ».4
A quei tempi, non meno che in seguito, correvano voci di ogni
sorta circa la natura dei rapporti tra Renato e Giovanna. Secondo
140
alcune fonti, probabilmente inesatte, i due erano amanti. Ma resta
il fatto che si conoscevano, e che Renato era presente quando Giovanna
intraprese la sua missione. Inoltre, i cronisti del tempo affermano che quando
Giovanna partì per raggiungere la corte del delfino a Chinon, Renato
l'accompagnò. E non è tutto. Gli stessi cronisti riferiscono che Renato era a
fianco dell'eroina durante l'assedio di Orleans.5 Nei secoli che
seguirono, sembra siano stati fatti tentativi sistematici per espungere ogni
traccia del possibile ruolo avuto da Renato nella vita di Giovanna. Tuttavia i
biografi di Renato non sono in grado di spiegare dove fosse e cosa facesse tra
il 1429 e il 1431, al culmine della « carriera » di Giovanna. Di solito si
sottintende tacitamente che Renato vegetava alla corte ducale, a Nancy: ma non
c'è nulla che lo confermi.
Le circostanze indicano che Renato accompagnò Giovanna a Chinon.
Infatti, se a quel tempo c'era a Chnu n una personalità dominante, era Iolanda
d'Angiò. Era Iolanda che incoraggiava e sosteneva incessantemente il debole,
febbrile delfino. Fu Iolanda ad autoproclamarsi, inspiegabilmente, protettrice
e garante ufficiale di Giovanna. Fu Iolanda a vincere la diffidenza della corte
nei confronti della fanciulla visionaria e le ottenne l'autorizzazione ad
accompagnare l'esercito a Orleans. Fu sempre Iolanda a convincere il delfino
che Giovanna poteva essere la salvatrice che affermava di essere. Fu Iolanda a
combinare il matrimonio del delfino con la propria figlia. E Iolanda era la
madre di Renato d'Angiò.
Mentre studiavamo questi dettagli, ci convincemmo sempre di più,
come tanti storici moderni, che dietro le quinte si stesse svolgendo qualcosa
di misterioso, un complicato intrigo ad alto livello, un disegno audace. E più
l'approfondivamo, e più la carriera breve e folgorante di Giovanna d'Arco
sembrava far pensare a una « montatura », come se qualcuno, sfruttando le
leggende popolari che parlavano di una « vergine di Lorena » e giocando
abilmente sulla psicologia delle masse, avesse congegnato e orchestrato la
cosiddetta missione della Pulzella d'Orléans. Naturalmente, questo non
presupponeva l'esistenza di una società segreta, ma la rendeva senza dubbio più
plausibile. E se questa società segreta esisteva, l'uomo che la presiedeva
poteva benissimo essere Renato d'Angiò.
141
Renato e il tema dell'Arcadia
Anche se Renato aveva avuto qualche legame con Giovanna d'Arco, il
resto della sua vita fu in generale molto meno bellicoso. A differenza di tanti
suoi contemporanei, Renato era più un uomo di corte che di guerra. Sotto questo
aspetto era fuori posto nella sua epoca; era insomma in anticipo sui tempi, un
antesignano dei coltissimi principi italiani del Rinascimento. Era molto dotto,
scriveva parecchio e miniava di persona i suoi libri. Compose opere poetiche e
allegorie mistiche, nonché un compendio di regole dei tornei. Si adoperò per
promuovere l'avanzamento della conoscenza, e a un certo momento assunse al suo
servizio Cristo-foro Colombo. Era versato nella tradizione esoterica, a alla
sua corte viveva un astrologo, medico e cabalista ebreo, conosciuto come Jean
de Saint-Rémy. Secondo numerose fonti, Jean de Saint-Rémy era il nonno di
Nostradamus, il famoso profeta del XVI secolo, che a sua volta sarebbe apparso
nella nostra storia.
Renato nutriva anche un vivo interesse per la cavalleria e i
romanzi arturiani e del Graal. Anzi, sembra che il Graal lo affascinasse in
modo particolare. Andava molto fiero, si dice, di una magnifica coppa di
porfido rosso che secondo le sue affermazioni era stata usata alle nozze di
Cana, e che si era procurato a Marsiglia, dove secondo la tradizione era
sbarcata la Maddalena, portando con sé il Graal. Altri cronisti parlano di una
coppa di proprietà di Renato - forse la stessa - che portava incisa lungo
l'orlo un'iscrizione misteriosa:6
Qui bien beurra
Dieu voira.
Qui beurra tout
d'une baleine
Voira Dieu et la
Madeleine.*
Non sarebbe esagerato considerare Renato d'Angiò tra coloro che
diedero lo slancio iniziale al fenomeno oggi chiamato Rinascimento. Trascorse
diversi anni in Italia, dove aveva numerosi possedimenti, e tramite gli Sforza
di Milano, suoi intimi amici, entrò in contatto con i Medici di Firenze. C'è
motivo di ritenere
*(Chi ben berrà / Dio vedrà.
/ Chi berrà tutto d'un fiato / Vedrà la Maddalena e il Re del Creato.) [N.d.R.]
142
che fosse soprattutto l'influenza di Renato a spingere Cosimo de'
Medici a intraprendere una serie di progetti ambiziosi, destinati a trasformare
la civiltà occidentale.
Nel 1439, mentre Renato si trovava in Italia, Cosimo de' Medici
incominciò a inviare agenti in tutto il mondo, alla ricerca di manoscritti
antichi. Poi, nel 1444, Cosimo fondò la prima biblioteca pubblica d'Europa, la
Biblioteca di San Marco, e cominciò così a sfidare il monopolio sulla cultura
che la Chiesa deteneva da tanto tempo. Per espresso incarico di Cosimo, il corpus
del pensiero platonico, neoplatonico, pitagorico, gnostico ed ermetico fu
tradotto per la prima volta e divenne facilmente accessibile. Inoltre, Cosimo
ordinò che l'Università di Firenze incominciasse a insegnare il greco, per la
prima volta in Europa dopo ben sette secoli. E creò un'accademia di studi
pitagorici e platonici. L'accademia di Cosimo generò in breve tempo una
quantità di istituzioni analoghe in tutta la penisola italiana, che divennero
bastioni della tradizione esoterica occidentale. Fu là che incominciò a fiorire
la grande cultura del Rinascimento.
■ Renato d'Angiò non si limitò a contribuire alla formazione
delle accademie ma, sembra, trasmise loro uno dei prediletti temi simbolici,
quello dell'Arcadia. Certamente, è nell'esistenza di Renato che il motivo
dell'Arcadia appare per la prima volta nella cultura occidentale
post-cristiana. Nel 1449, ad esempio, nella sua corte di Tarascona, Renato
organizzò una serie di pas d'armes, bizzarri ibridi fra il torneo e il masque,
nei quali i cavalieri si scontravano e, nel contempo, recitavano una specie
di dramma o commedia. Uno dei più famosi pas d'armes di Renato era il « Pas
d'armes della Pastora ». Impersonata dalla sua amante in carica, la «
Pastora » era una figura esplicitamente arcadica, e incarnava attributi romantici
e filosofici; presiedeva a un torneo nel quale i cavalieri assumevano identità
allegoriche che rappresentavano valori e idee contrastanti. Era una singolare
fusione tra il romanzo pastorale arcadico, il fasto della Tavola Rotonda e i
misteri del Santo Graal.
L'Arcadia figura anche nell'opera di Renato. Spesso è denotata da
una fonte o da una pietra tombale, entrambe associate a un fiume sotterraneo.
Di solito, questo fiume viene identificato con l'Alfeo, che scorre nella parte
centrale dell'attuale Arcadia, in Grecia, si inabissa nel suolo e, si dice,
riemerge nella Fonte di
143
Aretusa in Sicilia. Dalla più remota antichità fino alla celebre
poesia « Kubla Khan » di Coleridge, il fiume Alfeo è sempre stato ritenuto
sacro. Il suo nome deriva dalla stessa radice della lettera greca « alfa », che
significa « primo », « inizio » o « fonte ».
Sembra che, agli occhi di Renato, il motivo del fiume sotterraneo
fosse ricchissimo di echi simbolici e allegorici. Tra l'altro, parrebbe
connotare la tradizione esoterica « sotterranea » del pensiero pitagorico,
gnostico, cabalistico ed ermetico. Ma potrebbe anche connotare qualcosa di più
di un corpus di insegnamenti, forse anche un'informazione concreta e specifica:
un « segreto », trasmesso clandestinamente di generazione in generazione. E potrebbe
connotare anche una stirpe non riconosciuta e quindi « sotterranea ».
Nelle accademie italiane, all'immagine del « fiume sotterraneo »
erano attribuiti, a quanto sembra, tutti questi significati. Ricorre di
frequente, tanto che spesso le stesse accademie venivano chiamate « Arcadia ».
Nel 1502 fu pubblicata un'opera importante, il lungo poema intitolato Arcadia,
di Jacopo Sannazzaro: e l'entourage italiano di Renato d'Angiò, diversi
anni prima, aveva incluso un certo « Jacques Sannazar » che era probabilmente
il padre del poeta. Nel 1553 il poema di Sannazzaro fu tradotto in francese. E
venne dedicato, cosa piuttosto interessante, al cardinale di Lénoncourt, antenato
del conte di Lénoncourt che nel XX secolo avrebbe compilato le genealogie
contenute nei « documenti del Priorato ».
Nel XVI secolo l'Arcadia e il « fiume sotterraneo » divennero una
dilagante moda culturale. In Inghilterra ispirarono l'opera più importante di
Sir Philip Sidney, Arcadia? in Italia ispirarono letterati illustri come
Torquato Tasso, il cui capolavoro, la Gerusalemme liberata, canta la
conquista della Città Santa ad opera di Goffredo di Buglione. Nel XVII secolo,
il tema dell'Arcadia trovò il suo culmine in Nicolas Poussin e Les bergers
d'Arcadie.
Più approfondivamo le ricerche, e più appariva evidente che il «
fiume sotterraneo » alludeva costantemente a qualcosa: una tradizione, una
gerarchia di valori, forse un particolare corpus di informazioni.
L'immagine sembra avere assunto proporzioni ossessive agli occhi di certe
eminenti famiglie dell'epoca; e tutte, direttamente o indirettamente, figurano
nelle genealogie dei « do-
144
cumenti del Priorato ». E sembra che queste famiglie trasmettessero
l'immagine agli artisti da loro protetti. Da Renato d'Angiò, sembra che
qualcosa venisse passato ai Medici, agli Sforza, agli Estensi e ai Gonzaga; e
questi ultimi, secondo i « documenti del Priorato », diedero a Sion due Gran
maestri, Ferrante e Luigi, duca di Nevers. Sembra inoltre che, da queste grandi
famiglie, il tema sia passato nell'opera dei poeti e dei pittori più illustri
del tempo, inclusi il Botticelli e Leonardo da Vinci.
I manifesti dei Rosacroce
Una disseminazione di idee abbastanza simile si ebbe nel XVII
secolo, dapprima in Germania e quindi in Inghilterra. Nel 1614 apparve il primo
dei cosiddetti « manifesti dei Rosacroce », seguito un anno dopo da un secondo
trattato. A quel tempo i manifesti suscitarono grande clamore: attirarono i
fulmini della Chiesa e in particolare dei Gesuiti, e trovarono appoggio
entusiastico da parte degli ambienti liberali dell'Europa protestante. Fra gli
esponenti più eloquenti e influenti del pensiero « rosacrociano » vi fu Robert
Fludd, che è elencato come sedicesimo Gran maestro del Priorato di Sion, dal
1595 al 1637.
Tra le altre cose, i « manifesti rosacrociani » 8
promulgavano la storia del leggendario Christian Rosenkreuz. Dicevano di promanare
da una confraternita segreta, « invisibile » di « iniziati » esistente in
Germania e in Francia. Promettevano la trasformazione del mondo e della
conoscenza umana secondo i principi esoterici ed ermetici: il « fiume
sotterraneo » che da Renato d'Angiò era affluito nel Rinascimento. Veniva
annunciata un'epoca nuova di libertà spirituale, un'epoca nella quale l'uomo si
sarebbe emancipato dalle catene, avrebbe dischiuso i « segreti della natura »
e avrebbe governato il proprio destino in armonia con le leggi cosmiche. Nel
contempo, i manifesti erano politicamente esplosivi, e attaccavano con
violenza la Chiesa cattolica e il Sacro romano impero. Oggi si ritiene, in
generale, che i manifesti fossero stati scritti da un teologo ed esoterista
tedesco, Johann Valentin An-drea, elencato come Gran maestro del Priorato di
Sion dopo Robert Fludd. Se non fu Andrea a scriverli, fu sicuramente qualcuno
dei suoi amici e collaboratori.
145
Nel 1616 apparve un terzo trattato « rosacrociano », Le nozze
chimiche di Christian Rosenkreuz. Come le due opere precedenti, Le nozze
chimiche era di autore anonimo; ma in seguito la stesso Andrea confessò di
averlo composto come « scherzo » o commedia.
Le nozze chimiche è una complessa allegoria ermetica, che più tardi fece sentire la
sua influenza su opere come il Faust di Goethe. Come ha dimostrato
Frances Yates, contiene echi inconfondibili delFesoterista inglese John Dee,
che influenzò anche Robert Fludd. L'opera di Andrea evoca inoltre certe
risonanze dei romanzi del Graal e dei Cavalieri Templari: ad esempio, è detto
che Christian Rosenkreuz portava una tunica bianca con una croce rossa sulla
spalla. Nello svolgimento della narrazione viene rappresentato un dramma,
un'allegoria all'interno di un'allegoria. Il dramma parla di una principessa
d'imprecisato lignaggio « reale », i cui legittimi domìni sono stati usurpati
dai Mori e che viene gettata a riva entro una cassa di legno. Il resto del
dramma narra le sue vicissitudini e le sue nozze con un principe che l'aiuterà
a riconquistare la sua eredità.
Le nostre ricerche rivelarono vari collegamenti di seconda e 'di
terza mano tra Andrea e le famiglie che figurano nelle genealogie dei «
documenti del Priorato ». Tuttavia, non scoprimmo nessun legame diretto o di
prima mano, eccettuato forse Federico, elettore palatino della Renania.
Federico era nipote di un importante esponente del protestantesimo francese,
Enrico de la Tour d'Au-vergne, visconte di Turenne e duca di Buglione: l'antico
titolo di Goff redo, il conquistatore di Gerusalemme. Enrico era inoltre
imparentato con la famiglia dei LongueviUe, che avevano un posto eminente tanto
nei « documenti del Priorato » quanto nelle nostre indagini. E nel 1591, questo
personaggio s'era dato molto da fare per acquisire la cittadina di Stenay.
Nel 1613 Federico del Palatinato aveva sposato Elisabetta Stuart,
figlia di Giacomo I d'Inghilterra, nipote della famosa Maria Stuarda regina di
Scozia, e pronipote di Maria di Guisa; e Guisa era il ramo cadetto della casa
di Lorena. Maria di Guisa, un secolo prima, aveva sposato il duca di LongueviUe
e poi, alla morte di questi, Giacomo V di Scozia. Questo fatto aveva creato
un'alleanza dinastica fra gli Stuart e i Lorena. Di conseguenza, gli
146
Stuart incominciarono ad apparire, sia pure marginalmente, nelle
genealogie dei « documenti del Priorato » ; e Andrea, come i tre presunti Gran
maestri che vennero dopo di lui, mostrò un notevole interesse per la casa
reale scozzese. In questo periodo la casa di Lorena era in fase di eclisse. Se
Sion era un ordine organizzato e attivo, a quei tempi, è possibile che avesse
trasferito la sua devozione, almeno in parte e temporanemente, alla più
potente dinastia degli Stuart.
Comunque Federico del Palatinato, dopo il matrimonio con
Elisabetta Stuart, creò nella sua capitale, Heidelberg, una corte dalle tendenze
esoteriche. Come scrive Frances Yates:
Nel Palatinato si andava
formando una cultura che derivava direttamente dal Rinascimento, ma con
l'aggiunta di tendenze più recenti, una cultura che potrebbe venire definita
con l'aggettivo « rosacrociana ». Il principe intorno al quale turbinavano
queste correnti profonde era Federico, l'elettore palatino, e i loro esponenti
speravano in un'espressione politico-religiosa delle loro aspirazioni... Il
movimento federiciano... era un tentativo di dare a queste correnti
un'espressione politico-religiosa, di realizzare l'ideale della riforma
ermetica, incentrata su un vero principe... Creò una cultura, uno stato «
rosacrociano », con la corte insediata a Heidelberg.»
Insomma, sembra che gli anonimi « rosacrociani » e i loro simpatizzanti
avessero circondato Federico con l'aureola di una missione spirituale e
politica. E a quanto pare, Federico accettò volentieri il ruolo che gli veniva
imposto, con tutte le speranze e le attese che comportava. Perciò nel 1618 accettò
la corona di Boe-mia che gli era stata offerta dai nobili ribelli di quella
terra; e incorse nell'ira del papato e del Sacro romano impero, causando la
disastrosa Guerra dei trent'anni. Due anni dopo, Federico ed Elisabetta
fuggirono esuli in Olanda, e Heidelberg fu invasa dalle truppe cattoliche. Per
un quarto di secolo la Germania divenne il teatro del conflitto più feroce,
sanguinoso e costoso di tutta la storia d'Europa prima del XX secolo: un
conflitto in cui poco mancò che la Chiesa riuscisse a imporre nuovamente
l'egemonia di cui aveva goduto durante il Medioevo.
Mentre intorno a lui infuriava il tumulto, Andrea creò una rete di
società più o meno segrete, conosciute come Unioni cristiane. Secondo il
modello proposto da Andrea, ogni società era capeggiata da un anonimo
principe, assistito da altri dodici, suddivisi in
147
gruppi di tre; e ognuno di loro doveva essere specialista in un
dato campo dello scibile.10 Lo scopo originario delle Unioni
cristiane era quello di conservare la conoscenza minacciata, soprattutto i
progressi scientifici più recenti che in maggioranza erano considerati eretici
dalla Chiesa. Nel contempo, però, le Unioni cristiane servivano anche da
rifugio per quanti cercavano di sottrarsi all'Inquisizione che accompagnava
gli eserciti cattolici invasori e mirava a sradicare ogni traccia del pensiero
« rosacrociano ». Perciò parecchi studiosi, scienziati, filosofi ed esoteristi
trovarono rifugio nelle istituzioni create da Andrea. Grazie ad esse, molti di
loro furono condotti clandestinamente al sicuro in Inghilterra, dove stava
incominciando a formarsi la massoneria. In un certo senso, è possibile che le
Unioni cristiane di Andrea abbiano contribuito all'organizzazione del sistema
delle logge massoniche.
Tra gli europei che ripararono in Inghilterra c'erano numerosi
amici personali di Andrea: ad esempio Samuel Hartlib, Adam Komensky, più noto
come Comenius, con il quale Andrea intrattenne una continua corrispondenza;
Theodore Haak, che era inoltre amico personale di Elisabetta Stuart ed era in
corrispondenza con lei; e il dottor John Wilkins, già cappellano di Federico
del Palatinato e successivamente vescovo di Chester.
Giunti in Inghilterra, questi uomini si legarono strettamente agli
ambienti massonici. Ad esempio, erano in ottimi rapporti con Robert Moray, la
cui iniziazione in una loggia massonica, avvenuta nel 1641, è una delle più
antiche che si conoscano; con Elias Ashmole, studioso d'antichità ed esperto
conoscitore degli ordini cavaliereschi, che fu iniziato nel 1646; e con il
giovane e precoce Robert Boyle che, pur non essendo massone, era membro di
un'altra, più misteriosa società segreta." Non ci sono prove concrete che
questa società fosse il Priorato di Sion; ma secondo i « documenti del Priorato
», Boyle divenne Gran maestro di Sion succedendo ad Andrea.
Durante il Protettorato di Cromwell, questi personaggi inglesi e
continentali formarono quello che Boyle - riecheggiando voluta-mente i
manifesti « rosacrociani » - chiamò un « collegio invisibile ». E con la
restaurazione della monarchia nel 1660, il « collegio invisibile » diventò la
Royal Society,12 sotto il patronato del sovrano Stuart, Carlo II.
Virtualmente tutti i membri fondatori della
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Royal Society erano massoni. Si potrebbe persino sostenere che la
stessa Royal Society, almeno all'inizio, era un'istituzione massonica,
derivata dalla « confraternita invisibile rosacrociana » tramite le Unioni
cristiane di Andrea. Ma non sarebbe stato questo, il culmine del « fiume
sotterraneo ». Al contrario, questo sarebbe affluito da Boyle a Isaac Newton,
elencato come suo successore nella carica di Gran maestro di Sion, e quindi
nella complessa rete della massoneria del XVIII secolo.
La dinastia Stuart
Secondo i « documenti del Priorato », il successore di Newton come
Gran maestro di Sion fu Charles Radclyffe. Per noi, era un nome assai meno
altisonante di quello di Newton, di Boyle o dello stesso Andrea. Anzi,
all'inizio non riuscivamo a capire esattamente chi fosse Charles Radclyffe.
Quando incominciammo a svolgere ricerche su di lui, tuttavia, apparve come un
personaggio che aveva avuto un'importanza considerevole, anche se sotterranea,
nella storia culturale del XVIII secolo.
A partire dal XVI secolo i Radclyffe erano stati un'influente
famiglia del Northumberland. Nel 1688, poco prima di venire deposto, Giacomo II
li aveva creati conti di Derwentwater. Charles Radclyffe era nato nel 1693.
Sua madre era figlia naturale di Carlo II e di Moli Davies. Perciò, per parte
di madre, Radclyffe era di sangue reale; era nipote del penultimo sovrano
Stuart, cugino del « Bonnie Prince Charlie » e di George Lee, conte di
Lichfield, altro nipote illegittimo di Carlo II. Non è quindi sorprendente che
Radclyffe dedicasse la sua vita alla causa degli Stuart.
Nel 1715, questa causa era incarnata dal « Vecchio pretendente »,
Giacomo III, allora in esilio a Bar-le-Duc, sotto la protezione del duca di
Lorena. Radclyffe e suo fratello maggiore, James, parteciparono alla ribellione
scozzese di quell'anno. Entrambi furono catturati, e James fu giustiziato.
Charles, aiutato a quanto sembra,dal conte di Lichfield, evase clamorosamente
dal carcere di Newgate, e si rifugiò tra i giacobiti, in Francia. Negli anni
seguenti divenne il segretario personale del « Giovane pretendente », il «
Bonnie Prince Charlie ».
149
Nel 1745, quest'ultimo sbarcò in Scozia e intraprese un tentativo
donchisciottesco di reinsediare gli Stuart sul trono britannico. Nello stesso
anno Radclyffe, mentre si recava a raggiungerlo, fu catturato a bordo di una nave
francese al largo del Dogger Bank. Un anno dopo, nel 1746, il « Giovane
pretendente » subì una disastrosa disfatta nella battaglia di Culloden Moor.
Pochi mesi dopo, Charles Radclyffe fu decapitato nella Torre di Londra.
Durante il loro soggiorno in Francia, gli Stuart avevano avuto
legami profondi con la diffusione della massoneria. Anzi, in generale vengono
ritenuti la fonte di quella particolare forma di massoneria che è conosciuta
come « Rito scozzese ». La massoneria di « Rito scozzese » introdusse gradi più
elevati di quelli offerti dagli altri sistemi massonici del tempo. Prometteva
l'iniziazione a misteri più grandi e profondi: misteri che si diceva fossero
conservati e tramandati in Scozia. Stabiliva legami più diretti tra la massoneria
e le varie attività - alchimia, cabalismo e pensiero ermetico, ad esempio — che
venivano considerate « rosacrociane ». E poneva in grande risalto non solo
l'antichità ma anche l'illustre lignaggio dell'« arte ».
È probabile che la massoneria di « Rito scozzese » fosse stata
promulgata, se non addirittura ideata, da Charles Radclyffe. Comunque, nel
1725 Radclyffe avrebbe fondato la prima loggia massonica sul continente, a
Parigi. Lo stesso anno, o forse l'anno successivo, sembra che venisse
riconosciuto Gran maestro di tutte le logge francesi; è ancora citato come tale
un decennio più tardi, nel 1736. In ultima analisi, la diffusione della
massoneria nel XVIII secolo si deve a Radclyffe più che a chiunque altro.
La cosa non appare sempre evidente perché Radclyffe, soprattutto
dopo il 1738, non si tenne relativamente nell'ombra. Sembra che operasse
soprattutto per mezzo di intermediari e << portavoce ». Il più
importante e famoso era un personaggio enigmatico, conosciuto come il cavalier
Andrew Ramsay.13
Ramsay era nato in Scozia tra il 1680 e il 1690. In gioventù aveva
fatto parte di una società un po' massonica e un po' « rosacrocia-na », quella
dei Philadelphians. Tra i membri di questa società c'erano almeno due amici
intimi di Newton. Lo stesso Ramsay nutriva per Newton un'immensa reverenza, e
lo considerava una
150
sorta di grande « iniziato » mistico, un uomo che aveva riscoperto
e ricostruito le verità eterne celate negli antichi misteri.
Ramsay aveva altri legami con Newton. Era in buoni rapporti con Jean
Desaguliers, uno dei più cari amici dello scienziato. Nel 1707 studiò
matematica con Nicolas Fatio de Duillier, il più intimo tra tutti i compagni di
Newton. Come Newton, mostrava interesse e simpatia per i Camisards, una setta
di eretici che nutrivano concezioni affini a quelle dei Catari e che in quel
periodo venivano perseguitati nella Francia meridionale: e i Camisards erano
una specie di cause célèbre per Fatio de Duillier.
Dal 1710 Ramsay era a Cambrai, dove intrattenne ottimi rapporti
con il filosofo mistico Fénolon, ex curato di Saint Sulpice, che già a quei
tempi era un bastione di discutibile ortodossia. Non si sa esattamente quando
Ramsay incontrò Charles Radclyffe; ma già prima del 1730 si era legato alla
causa giacobita. Per qualche tempo fu persino istitutore del « Bonnie Prince
Charlie ».
Pur avendo avuto rapporti con i giacobiti, nel 1729 Ramsay tornò
in Inghilterra, dove nonostante l'apparente mancanza di adeguati requisiti, fu
prontamente ammesso nella Royal Society. Inoltre, divenne membro di
un'istituzione piuttosto oscura, il Gentleman's Club di Spalding. Questo « club
» annoverava uomini come Desaguliers, Alexander Pope e, fino alla sua morte
avvenuta nel 1727, anche Isaac Newton.
Col 1730, Ramsay era di nuovo in Francia ed espletava un'intensa
attività in favore della massoneria. Si sa che presenziò a parecchie riunioni
in diverse logge, insieme a numerosi personaggi degni di nota, incluso
Desaguliers. Godeva della protezione dei Tour d'Auvergne, visconti di Turenne e
duchi di Buglione che, tre quarti di secolo prima, si erano imparentati con
Federico del Palatinato. Ai tempi di Ramsay, il duca di Buglione era un cugino
del« Giovane pretendente », ed esponente illustre della massoneria. Il duca
donò a Ramsay una tenuta e una casa e lo nominò istitutore di suo figlio.
Nel 1737 Ramsay tenne la sua famosa « Orazione », una lunga
disquisizione sulla storia della massoneria, che in seguito divenne uno dei
documenti fondamentali delF« arte ».M Grazie all'« Orazione »,
Ramsay divenne il principale portavoce della massoneria dei suoi tempi. Le
nostre ricerche, tuttavia, ci convinsero che il
151
vero ispiratore era Charles Radclyffe, il quale presiedeva la
loggia dove Ramsay tenne il suo discorso e nel 1743 figurò come principale
firmatorio al funerale dì Ramsay. Ma se Radclyffe era la vera forza che agiva
per mezzo di Ramsay, sembra che Ramsay fosse il collegamento tra Radclyffe e
Newton.
Nonostante la morte prematura di Radclyffe nel 1746, i semi che
aveva gettato in Europa continuarono a dar frutti. Poco dopo il 1750 apparve un
nuovo ambasciatore della massoneria, un tedesco che si chiamava Karl Gottlieb
von Hund. Hund affermava di essere stato iniziato nel 1742, un anno prima della
morte di Ramsay, e quattro anni prima di quella di Radclyffe.
Nell'iniziazione, diceva, era stato introdotto a un nuovo sistema massonico,
confidatogli da « superiori sconosciuti ».15 Questi « superiori sconosciuti
», sosteneva Hund, erano strettamente legati alla causa giacobita. Anzi,
all'inizio aveva creduto persino che l'uomo che presiedeva alla sua iniziazione
fosse il «Bonnie Prince Charlie». E sebbene poi risultasse che non era così,
Hund rimase convinto che il personaggio in questione fosse intimamente legato
al «Giovane pretendente». Sembra ragionevole supporre che si trattasse in
realtà di Charles Radclyffe.
II sistema massonico al quale fu introdotto Hund, un'altra
estensione del « Rito scozzese », fu in seguito chiamato « Stretta osservanza
». Il nome derivava dal giuramento che veniva richiesto, un giuramento di
incrollabile e indiscussa obbedienza ai misteriosi « superiori sconosciuti ».
E il credo fondamentale della « Stretta osservanza » era che questa discendeva
direttamente dai Cavalieri Templari, alcuni dei quali, sopravvissuti
all'epurazione del 1307-14, avevano perpetuato il loro Ordine in Scozia.
Conoscevamo già questa affermazione. E in base alle nostre
ricerche, potevamo riconoscerle un certo fondamento di verità. Un contingente
di Templari, sembra, aveva combattuto a fianco di Robert Bruce nella battaglia
di Bannockburn. Poiché la Bolla pontificia che scioglieva i Templari non era
mai stata promulgata in Scozia, là l'Ordine non era stato ufficialmente
soppresso. E noi stessi avevamo rintracciato quello che sembrava un cimitero
templare nell'Argyllshire. La più antica delle pietre tombali in questo
cimitero risaliva al XIII secolo, le più recenti al XVIII. Le lapidi più
antiche presentavano certi rilievi unici e certi simboli identici a
152
quelli che si trovano nei presìdi del Tempio in Inghilterra e in
Francia. Le pietre più tarde univano a questi simboli vari motivi tipicamente
massonici, e attestavano quindi una specie di fusione. Perciò non era
impossibile, concludemmo, che l'Ordine si fosse perpetuato nel territorio
desolato delI'Argyll medievale, mantenendo un'esistenza semiclandestina,
secolarizzandosi a poco a poco per associarsi finalmente tanto con le
confraternite massoni-che quanto con il predominante sistema dei clan.
Il lignaggio che Hund rivendicava alla « Stretta osservanza »,
quindi, non ci appariva del tutto improbabile. Tuttavia, con suo grande
imbarazzo e disonore, Hund non fu mai in grado di spiegare meglio il nuovo
sistema massonico. Perciò i suoi contemporanei la considerarono un ciarlatano e
lo accusarono di aver inventato l'episodio della sua iniziazione, l'incontro
con i « superiori sconosciuti », e il mandato di diffondere la « Stretta
osservanza ». A queste accuse, Hund potè rispondere soltanto che i suoi «
superiori sconosciuti » lo avevano inspiegabilmente abbandonato. Avevano
promesso di mettersi ancora in contatto con lui e di fornirgli altre
istruzioni, diceva, ma poi non l'avevano fatto. Fino alla fine della sua vita,
Hund proclamò la sua buona fede, asserendo di essere stato abbandonato dai
superiori che, asseriva, erano veramente esistiti.
Più consideravamo le affermazioni di Hund e più ci sembravano
credibili; sembrava che fosse vittima non tanto di un tradimento
premeditato quanto di una serie di circostanze. Hund era stato iniziato nel
1742, quando i giacobiti rappresentavano una notevole forza politica sul
continente. Ma nel 1746 Radclyffe era morto; erano morti anche molti suoi
colleghi, mentre altri erano in carcere o in esilio, in certi casi addirittura
in Nord America. Se i « superiori sconosciuti » di Hund non avevano ristabilito
i contatti con il loro iniziato, sembra che l'omissione non fosse volontaria.
Il fatto che Hund venisse abbandonato subito dopo la disfatta della causa
giacobita sembra, se mai, confermare la sua versione.
C'è un altro indizio frammentario che conferisce credibilità non
soltanto alle affermazioni di Hund ma anche ai « documenti del Priorato ». Si
tratta di un elenco di Gran maestri dei Cavalieri Templari, che secondo Hund
gli era stato consegnato dai « superiori sconosciuti ».16 In base
alle nostre ricerche, avevamo conclu-
153
so che l'elenco dei Gran maestri dei Templari contenuto nei Dossiers
segreti era esatto, tanto esatto che sembrava derivare da « informazioni
privilegiate ». Ora, se si esclude l'ortografia di un solo cognome, l'elenco
mostrato da Hund concordava con quello dei Dossiers segreti. Insomma,
Hund aveva ricevuto un elenco dei Gran maestri del Tempio più esatto di tutti
gli altri conosciuti ai suoi tempi. Inoltre, l'aveva ricevuto quando molti dei
documenti su cui noi ci eravamo basati - atti, proclamazioni, ecc. - erano
ancora sottochiave in Vaticano e nessun estraneo poteva consultarli. Questo
parrebbe confermare che i « superiori sconosciuti » di Hund non erano
un'invenzione. Inoltre, sembra indicare che questi « superiori sconosciuti »
erano straordinariamente informati circa l'Ordine del Tempio, assai più di
quanto avrebbero potuto esserlo se non avessero avuto accesso a « fonti
privilegiate ».
Comunque, nonostante le accuse che gli venivano rivolte, Hund non
era rimasto senza amici. Dopo la sconfitta della causa giacobi-ta trovò un
protettore premuroso e un amico addirittura nel Sacro romano imperatore. A quel
tempo il Sacro romano imperatore era Francesco, duca di Lorena che, sposando
nel 1735 Maria Teresa d'Austria, aveva unito le case di Asburgo e di Lorena,
inaugurando la dinastia degli Asburgo-Lorena. E secondo i « documenti del
Priorato », fu il fratello di Francesco, Carlo di Lorena, a succedere a
Radclyffe come Gran maestro di Sion.
Francesco fu il primo principe europeo che divenne massone e
proclamò pubblicamente la sua affiliazione. Fu iniziato nel 1731 all'Aia, che
era una roccaforte delle attività esoteriche fin da quando vi si erano
installati i « rosacrociani » durante la Guerra dei trent'anni. E l'uomo che
presiedette all'iniziazione di Francesco fu Jean Desaguliers, amico intimo di
Newton, Ramsay e Radclyffe. Inoltre, poco dopo la sua iniziazione, Francesco
soggiornò a lungo in Inghilterra; là divenne membro di un'istituzione dal nome
innocuo, che abbiamo già ricordato: il Gentleman's Club di Spalding.
Negli anni che seguirono, Francesco di Lorena favorì la diffusione
della massoneria più di qualunque altro signore europeo. La sua corte, a
Vienna, diventò in un certo senso la capitale massonica dell'Europa, e il
centro di un'intera gamma di altre attività
154
esoteriche. Lo stesso Francesco era un alchimista praticante, e
aveva un suo laboratorio nel palazzo imperiale, l'Hofburg. Alla morte
dell'ultimo dei Medici divenne granduca di Toscana, e sventò abilmente le
persecuzioni dell'Inquisizione contro i massoni fiorentini. Tramite Francesco,
Charles Radclyffe, fondatore della prima loggia massonica sul continente, aveva
lasciato un'eredità destinata a durare.
Charles Nodier e il suo circolo
Rispetto agli importanti personaggi della cultura e della politica
che lo avevano preceduto, e persino rispetto a un uomo come Charles Radclyffe,
Charles Nodier appariva come un candidato inverosimile alla carica di Gran
maestro. Lo conoscevamo soprattutto come una sorta di curiosità letteraria: un
autore minore, saggista piuttosto garrulo, romanziere e novellista di
second'ordine nella tradizione bizzarra di E.T.A. Hoffmann e, più tardi, di
Edgar Allan Poe. Ai suoi tempi, però, Nodier era considerato un importante
esponente della cultura, e la sua/influenza era enorme. Inoltre, scoprimmo che
era collegato alla nostra indagine in molti modi sorprendenti.
Nel 1824 Nodier era già un letterato celebre. Quell'anno fu
nominato capo bibliotecario della Biblioteca dell'Arsenale, dove si conserva la
più grande raccolta francese di manoscritti medievali e occulti. Fra i suoi
vari tesori, si diceva che l'Arsenale avesse incluso le opere alchemiche di
Nicolas Flamel, l'alchimista medievale elencato come uno dei Gran maestri di
Sion. L'Arsenale comprendeva anche la biblioteca del cardinale Richelieu, un'imponente
collezione di opere sul pensiero magico, cabalistico ed ermetico. E c'erano
anche altri tesori. Allo scoppio della Rivoluzione francese, in tutto il paese
i monasteri erano stati saccheggiati, e tutti i'iibri e i manoscritti erano
stati inviati a Parigi. Nel 1810 Napoleone, che ambiva a creare una biblioteca
mondiale, confiscò e portò a Parigi quasi tutto l'archivio del Vaticano. Erano
più di tremila casse di materiale, che in parte era stato richiesto espressamente?
ad esempio, tutti i documenti riguardanti i Templari. Anche se una parte dei
documenti fu in seguito restituita a Roma, molti rimasero in Francia! Ed era
appunto questo materiale - libri
155
attività molte società segrete, dichiara Nodier. Ma ce n'è una,
aggiunge, che ha la precedenza su tutte le altre, anzi, presiede a tutte.
Secondo Nodier, questa società segreta « suprema » è chiamata « i Philadelphes
». Nel contempo, tuttavia, egli parla del « giuramento che mi lega ai
Philadelphes e mi vieta di farli conoscere sotto il vero nome della società ».22
Tuttavia, c'è un accenno a Sion in discorso citato da Nodier e che sarebbe
stato pronunciato a un'assemblea di Philadelphes da uno dei congiurati contro
Napoleone. L'uomo in questione sta parlando del figlio neonato:
È troppo giovane per legarsi a voi con il giuramento di Annibale;
ma ricordate che io l'ho chiamato Eliacin, e che delego a lui la custodia del
tempio e dell'altare, se dovessi morire prima di aver veduto cadere dal trono
l'ultimo degli oppressori di Gerusalemme.21
Il libro di Nodier apparve sulla scena quando la paura delle
società segrete aveva assunto proporzioni virtualmente patologi-che. Spesso
queste società venivano accusate di aver istigato la Rivoluzione francese; e
sotto molti aspetti l'atmosfera dell'Europa post-napoleonica era simile a
quella del periodo maccarthista negli Stati Uniti durante gli anni Cinquanta.
La gente vedeva cospirazioni dappertutto, o credeva di vederle. Imperversavano
le cacce alle streghe. Ogni disordine, ogni evento anomalo, ogni fatto
spiacevole veniva attribuito all'« attività sovversiva », all'opera di
organizzazioni clandestine che lavoravano insidiosamente dietro le quinte,
corrodendo le istituzioni e perpetrando ogni sorta di subdolo sabotaggio.
Questa mentalità portò a misure estremamente repressive. E la repressione,
spesso diretta contro una minaccia fittizia, generava a sua volta oppositori
autentici, autentici gruppi di cospiratori sovversivi, che potevano formarsi
ispirandosi ai modelli fattizi. Anche come creature dell'immaginazione, le
società segrete fomentavano una diffusa paranoia agli alti livelli dei governi;
e di frequente questa paranoia causava più danni di quanti avrebbe potuto farne
qualunque società segreta. Non c'è dubbio che il mito della società segreta, se
non la società segreta vera e propria, ebbe un ruolo importante nella storia
dell'Europa nel secolo XIX. E uno dei principali architetti del mito, e forse
di una realtà che stava dietro il mito, fu Charles Nodier.24
158
Debussy e la Rosacroce
Le tendenze che trovarono espressione in Nodier - un interesse
affascinato per le società segrete e la rinnovata passione per l'esoterismo -
continuarono ad acquisire influenza e seguaci per tutto il XIX secolo. Entrambe
le tendenze raggiunsero il culmine nella Parigi fin de siede, l'ambiente
in cui visse Claude Debussy,presunto Gran maestro di Sion al tempo in cui, nel
1891, Bérenger Saunière scoprì le misteriose pergamene a Rennes-Ie-Chàteau.
Sembra che Debussy avesse conosciuto Victor Hugo tramite il poeta
simbolista Paul Verlaine. In seguito, mise in musica diverse opere di Hugo.
Inoltre, entrò nei circoli simbolisti che, nell'ultimo decennio del secolo,
finirono per dominare la vita culturale parigina. Di questi circoli facevano
parte il giovane ecclesiastico Émile Hoffet ed Emma Calve; e fu per loro
tramite che Debussy conobbe Saunière. C'era anche l'enigmatico mago della
poesia simbolista francese, Stéphane Mallarmé, del quale Debussy musicò uno
dei capolavori, L'Après-Midi d'un Faun. C'era il commediografo
simbolista Maurice Maeterlinck, il cui dramma merovingio, Pel-léas et
Mélisande, venne trasformato da Debussy in un'opera famosa in tutto il
mondo. C'era il pittoresco conte Philippe Auguste Villiers de l'Isle-Adam, il
cui dramma « rosacrociano » Axel diventò una specie di Bibbia per
l'intero movimento simbolista. Sebbene la morte, avvenuta nel 1918, gli
impedisse di completare il lavoro, Debussy aveva incominciato a comporre un
libretto tratto dal dramma occulto di Villiers, con l'intenzione di ricavarne
un'opera. Tra gli altri c'erano anche le celebrità che frequentavano i famosi
martedì di Mallarmé: Oscar Wìlde, W.B. Yeats, Stefan George1, Paul
Valéry, il giovane Andre Gide e Marcel Proust.
,
I circoli di Debussy e di Mallarmé erano letteralmente impregnati
di esoterismo. Nel contempo, avevano contatti con ambienti ancora più
esoterici. Quindi Debussy frequentava virtualmente tutti i nomi più eminenti
del cosiddetto « revival occulto » francese. Uno di questi personaggi era il
marchese Stanislas de Guaìta, intimo di Emma Calve e fondatore del cosiddetto
Ordine cabalistico della Rosacroce. Un altro era Jules Bois, famigerato
satanista, anche lui intimo di Emma Clave e amico di MacGregor Mathers.
i.sy
Ispirato da Jules Bois, Mathers fondò la più famosa società
occulta inglese del periodo, l'Ordine della Golden Dawn.
Un altro occultista conosciuto da Debussy era il dottor Gerard
Encausse, meglio noto come Papus,25 che sotto questo nome pubblicò
un'opera sui Tarocchi ancora oggi considerata fondamentale. Papus era non
soltanto membro di numerosi ordini segreti e società segrete, ma era anche
confidente dello zar Nicola e della zarina Alessandra di Russia. E tra gli
amici più intimi di Papus c'era un personaggio che era già apparso nella nostra
indagine: Jules Doinel. Nel 1890, Doinel era diventato bibliotecario a
Carcassonne e aveva fondato nella Linguadoca una chiesa neocatara; della quale
fungevano da vescovi lui e Papus. Doinel, anzi, si autoproclamava vescovo
gnostico di Mirepoix, che includeva la parrocchia di Montségur, e di Alet, che
includeva la parrocchia di Rennes-le-Chàteau.
La chiesa di Doinel sarebbe stata consacrata da un vescovo
orientale a Parigi, nella casa di Lady Caithness, moglie del conte di
Caithness, Lord James Sinclair: e questo è piuttosto interessante. Vista in
retrospettiva, sembra che questa chiesa fosse una delle tante sette innocue che
fiorirono verso la fine del secolo scorso, A quel tempo, però, suscitò un
notevole allarme negli ambienti ufficiali. Per il Santo Uffizio venne preparata
persino una speciale relazione sulla « rinascita delle tendenze catare ». E il
papa promulgò una condanna esplicita dell'Istituzione di Doinel, denunciandola
energicamente come una nuova manifestazione dell'« antica eresia albigese ».
Nonostante la condanna del Vaticano, Doinel, verso il 1895, era
attivo nel territorio di Saunière, proprio nel periodo in cui il curato di
Rennes-le-Chàteau incominciava a ostentare la sua ricchezza. Può darsi che i
due uomini fossero stati presentati da Debussy o da Emma Calve. Oppure
dall'abate Henri Boudet, curato di Rennes-les-Baines, ottimo amico di Saunière
e collega di Doinel nella Società delle arti e scienze di Carcassonne.
Debussy era in stretto contatto con Joséphin Péladan, un altro
amico di Papus e, cosa abbastanza prevedibile, intimo di Emma Calve. Nel 1889
Péladan partì per la Terrasanta. Al suo ritorno, affermò di aver scoperto la
tomba di Gesù, non già nel sito tradizionale del Santo Sepolcro, bensì sotto la
moschea di Ornar,
160
che anticamente aveva fatto parte dell'enclave dei Templari. Per
ripetere le parole di un ammiratore entusiasta, la pretesa scoperta di Péladan
era « così sbalorditiva che in qualunque altra epoca avrebbe scosso il mondo
cattolico fino alle fondamenta ».26 Ma Péladan e i membri della sua
cerchia non spiegavano in che modo fosse stato possibile identificarla con
assoluta certezza, e neppure perché la scoperta avrebbe dovuto scuotere il
mondo cattolico; a meno che, ovviamente, contenesse qualcosa di significativo,
sensazionale o forse addirittura esplosivo. Comunque, Péladan non fornì
particolari sulla sua presunta scoperta. Ma, sebbene si dichiarasse cattolico,
insisteva nell'affermare che Gesù era stato mortale.
Nel 1890 Péladan fondò un nuovo ordine, l'Ordine cattolico della
Rosacroce, del Tempio e del Graal. E diversamente dalle altre istituzioni
rosacrociane di quell'epoca, l'ordine sfuggì alla condanna papale. Nel
frattempo, Péladan rivolse sempre più la sua attenzione alle arti. L'artista,
dichiarava, doveva essere « un . cavaliere in armatura, impegnato nella cerca
simbolica del Santo Graal ». E in omaggio a questo principio, Péladan
intraprese una vera e propria crociata estetica, che si concretò in una serie
molto pubblicizzata di mostre annue, con il nome di Salon de la Rose + Croix,
che aveva lo scopo conclamato di « rovinare il realismo, riformare il gusto latino
e creare una scuola d'arte idealista ». A questo fine, certi temi venivano
respinti autocriticamente e sommariamente come indegni, « anche se eseguiti
bene o persino in modo perfetto ». L'elenco dei temi respinti includeva la
pittura storica « prosaica », la pittura patriottica e militare, le rappresentazioni
della vita contemporanea, i ritratti, le scene agresti e « tutti i paesaggi,
eccettuati quelli composti alla maniera di Poussin ».27
Péladan non si accontentò della pittura. Cercò di promulgare la sua
estetica anche nel campo della musica e del teatro. Fondò una sua compagnia
teatrale, per rappresentare opere composte appositamente su temi come Orfeo,
gli Argonauti e la ricerca del Vello d'oro, il « Mistero della Rosacroce » e il
« Mistero del Graal ». Uno dei promotori e patroni di queste realizzazioni era
Claude Debussy.
Tra coloro che erano legati a Péladan e a Debussy figurava anche
Maurice Barrès che, in gioventù, aveva fatto parte di un
161
circolo « rosacrociano » insieme a Victor Hugo. Nel 1912 Barrès
pubblicò il suo romanzo più noto, La colline inspirée (La collina
ispirata). Certi commentatori odierni ritengono che l'opera sia un'allegoria
appena velata di Bérenger Saunière e di Rennes-Ie-Chàteau. Senza dubbio, vi
sono paralleli che appaiono troppo evidenti per essere semplici coincidenze. Ma
Barrès non ambienta gli eventi da lui narrati a Rennes-le-Chàteau o in qualche
altra parte della Linguadoca. Al contrario, la « collina ispirata » del titolo
è un colle sovrastato da un villaggio, in Lorena. E il paesetto è Sion, vecchio
centro di pellegrinaggi.
Jean Cocteau
Ancora più di Charles Radclyffe e di Charles Nodier, Jean Cocteau,
a prima vista, ci sembrava un candidato inverosimile per la carica di Gran
maestro di un'influente società segreta. Nei casi di Radclyffe e di Nodier,
però, le nostre indagini avevano rivelato certi collegamenti di interesse
considerevole. Nel caso di Cocteau ne scoprimmo pochissimi.
Senza dubbio era cresciuto in un ambiente vicino ai « corridoi del
potere » ; la sua famiglia era politicamente eminente e suo zio era un illustre
diplomatico. Ma Cocteau, almeno in apparenza, aveva abbandonato quel mondo,
andandosene di casa a quindici anni e tuffandosi nella subcultura marsigliese.
Dal 1908 si era fatto un nome negli ambienti artistici bohémiens. A poco
più di vent'an-ni cominciò a frequentare Proust, Gide e Maurice Barrès. Era
inoltre amico intimo del pronipote di Victor Hugo, Jean, con il quale si lanciò
in varie escursioni nel mondo dello spiritismo e dell'occultismo. Ben presto
divenne molto versato nella cultura esoterica, e il pensiero ermetico ispirò
non soltanto gran parte della sua opera, ma tutta la sua estetica. Nel 1912, se
non anche prima, aveva incominciato a frequentare Debussy, al quale allude
spesso, sebbene in modo non molto indicativo, nei suoi diari. Nel 1926 disegnò
le scene per una rappresentazione dell'opera Pelléas et Mélisande perché,
secondo un commentatore, « non seppe resistere alla tentazione di legare per
sempre il suo nome a quello di Claude Debussy ».
La vita privata di Cocteau, tra la droga euna serie di amori
)
162
omosessuali, fu notoriamente eccentrica, e gli conferì l'immagine
di un individuo volubile e irresponsabile. In realtà, però, teneva molto alla
sua immagine pubblica e faceva in modo che le sue avventure personali non gli
impedissero di frequentare personaggi potenti e influenti. Come ammetteva senza
esitare, aveva sempre aspirato a riconoscimenti pubblici, agli onori, alla
stima, addirittura all'ammissione all'Accademia di Francia. E si preoccupò di
mostrarsi conformista quanto bastava per ottenere ciò che voleva. Per questo
restò sempre nell'orbita di personalità eminenti come Jacques Maritain e Andre
Malraux. Anche se ufficialmente non si occupò mai di politica, durante l'ultima
guerra denunciò il governo di Vichy e, a quanto sembra, ebbe rapporti con la
Resistenza. Nel 1949 fu nominato cavaliere della Legion d'Onore. Nel 1958 fu
inviato dal fratello di de Gaulle a tenere un discorso ufficiale sulla Francia.
Non è il ruolo che di solito si attribuisce a Cocteau, tuttavia sembra che lo
recitasse abbastanza di frequente e con molta soddisfazione.
Per buona parte della sua vita Cocteau fu legato, a volte strettamente,
a volte in modo marginale, agli ambienti cattolici realisti. Lì frequentava
molti esponenti della vecchia aristocrazia, inclusi alcuni amici e protettori
di Proust. Nel contempo, però, il cattolicesimo di Cocteau era molto sospetto,
molto poco ortodosso, e sembra che il suo impegno avesse un carattere più
estetico che religioso. Nell'ultima parte della sua vita consacrò molte energie
al restauro e alla nuova decorazione di varie chiese: forse una strana eco
delle attività di Bérenger Saunière. Tuttavia, anche in questo caso la sua
pietà era molto dubbia: « Mi credono un pittore religioso perché ho decorato
una cappella. Sempre la solita mania di etichettare la gente ».28
Come Saunière, nelle sue nuove decorazioni Cocteau introdu-ceva
dettagli curiosi e suggestivi. Alcuni si possono vedere nella chiesa di Notre
Dame de France, presso Leicester Square a Londra. La chiesa fu eretta nel 1865
ed è possibile che, al tempo della sua consacrazione, avesse legami massonici.
Nel 1940, durante i bombardamenti tedeschi, fu gravemente danneggiata, ma continuò
a essere il centro culturale preferito da molti esponenti di rilievo delle
Forze della Francia libera; e dopo la guerra fu restaurata e decorata a nuovo
da artisti provenienti da ogni parte della
Francia. Fra questi vi fu Cocteau che nel 1960, tre anni prima di
morire, eseguì un affresco raffigurante la Crocifissione. È una Crocifissione
molto singolare. C'è un sole nero, e nell'angolo inferiore destro spicca una
figura non identificata, sinistra e colorata di verde. C'è un solo soldato
romano con uno scudo ornato da un uccello estremamente stilizzato che ricorda
l'Horus egizio. Tra le donne dolenti e i centurioni che giocano a dadi, vi sono
due figure incongruamente moderne: una è lo stesso Cocteau che,
significativamente, volge le spalle alla croce. La cosa più sorprendente è che
l'affresco mostra soltanto la parte inferiore della croce. Colui che vi è
appeso è visibile solo fino alle ginocchia, e quindi non si vede il suo viso, e
non è possibile accertarne l'identità. Alla croce, immediatamente sotto i
piedi della vittima anonima, è fissata una enorme rosa, in pratica l'emblema
della Rosacroce. Un motivo molto singolare per una chiesa cattolica.
I due Giovanni XXIII
I Dossiers segreti, nei quali appariva l'elenco dei
presunti Gran maestri di Sion, portavano la data del 1956. Cocteau morì più
tardi, nel 1963. Perciò nulla indicava chi poteva essere stato il suo
successore, chi fosse colui che oggi potrebbe presiedere il Priorato di Sion.
Ma lo stesso Cocteau poneva un altro problema di interesse immenso.
Fino al « taglio dell'olmo » avvenuto nel 1188, secondo le affermazioni
dei « documenti del Priorato », Sion e l'Ordine del Tempio avevano avuto
sempre lo stesso Gran maestro. Dopo il 1188, ci viene detto, Sion scelse i suoi
Gran maestri; il primo fu Jean de Gisors. Secondo i « documenti del Priorato »
ogni Gran maestro, nell'assumere la carica, adottava il nome di Jean (Giovanni)
o di Jeanne (Giovanna), poiché vi furono anche quattro donne. Perciò i Gran
maestri di Sion avrebbero incluso una continua successione di Jean e di Jeanne,
dal 1188 al presente. Chiaramente, questa successione rappresenta una sorta di
papato esoterico ed ermetico fondato su Giovanni, in contrasto e forse in
opposizione con il papato essoterico fondato su Pietro.
Un interrogativo fondamentale, naturalmente, era: quale Giovanni?
Giovanni Battista? Giovanni Evangelista, il « discepolo
164
prediletto » del Quarto Vangelo? Oppure Giovanni, autore dell'Apocalisse?
Sembrava che dovesse essere uno dei tre, perché Jean de Gisors, nel 1188,
avrebbe assunto il nome di Jean II. E allora, chi era Jean I?
Qualunque fosse la risposta a questo interrogativo, Jean Coc-teau
figurava nell'elenco dei presunti Gran maestri di Sion come Jean XXIII. Nel
1958, quando Cocteau deteneva ancora presumibilmente il titolo di Gran
maestro, il papa Pio XII morì e il conclave elesse come nuovo pontefice il
cardinale Angelo Roncal-li, patriarca di Venezia. Poiché per tradizione il
pontefice, appena eletto, si sceglie il nuovo nome, il cardinale Roncalli
suscitò una notevole costernazione quando scelse quello di Giovanni XXIII. La
costernazione non era ingiustificata. Innanzitutto, il nome Giovanni era
implicitamente escluso da quando era stato portato, all'inizio del secolo XV,
da un antipapa. E poi, c'era già stato un Giovanni XXIII. L'antipapa che aveva
abdicato nel 1415 e che -ecco un particolare abbastanza interessante - in
precedenza era stato vescovo di Alet, era appunto Giovanni XXIII. Quindi era a
dir poco strano che il cardinal Roncalli assumesse lo stesso nome.
Nel 1976 fu pubblicato in Italia un libro enigmatico, che poco
dopo venne tradotto in francese. È intitolato Le profezie di papa Giovanni* e
contiene una compilazione di oscure poesie in prosa di carattere profetico che
sarebbero state composte dal pontefice morto tredici anni prima, nel 1963, lo
stesso anno di Cocteau. Quasi tutte queste « profezie » sono impenetrabili e
sfidano ogni interpretazione coerente. È dubbio, inoltre, che siano veramente
opera di Giovanni XXIII. Ma l'introduzione afferma che sono proprio di papa
Giovanni; e inoltre sostiene che Giovanni XXIII era segretamente membro della «
Rosacroce » alla quale si sarebbe affiliato nel 1935, quando era nunzio
apostolico in Turchia.
È superfluo aggiungere che questa affermazione sembra incredibile.
Di certo non può essere provata, e noi non trovammo nessun indizio che la
suffragasse. Ma, ci chiedemmo, perché mai era stata fatta un'affermazione del
genere?
Possibile che fosse vera? Possibile che contenesse almeno un
granello di verità? Nel 1188 il Priorato di Sion avrebbe adottato il
*Pier Carpi, Le profezìe dipapa Giovanni, Roma 1976. [N.d.R.]
Ifi5
« sottotitolo » di « Rose-Croix Veritas ». Se papa Giovanni era
affiliato a un'organizzazione « rosacrociana », e se tale organizzazione era
il Priorato di Sion, le implicazioni sarebbero estremamente sconcertanti. Tra
l'altro suggerirebbero che il cardinale Roncalli, salendo al soglio pontificio,
avrebbe scelto perse il nome del suo Gran maestro segreto, in modo che, per
qualche ragione simbolica, vi fosse simultaneamente un Giovanni XXIII a presiedere
tanto Sion che il papato.
In ogni caso, il regno contemporaneo di un Giovanni (o Jean) XXIII
su Sion e su Roma sembrerebbe una coincidenza straordinaria. Non è possibile
che i « documenti del Priorato » contenessero un elenco inventato allo scopo
di creare questa coincidenza: un elenco che culminava con Jean XXIII proprio
quando un uomo con lo stesso nome occupava il trono di san Pietro. Infatti
l'elenco dei presunti Gran maestri di Sion era stato composto e depositato
presso la Bibliothèque Nationale non più tardi del 1956, tre anni prima
dell'elezione di Giovanni XXIII.
C'era poi un'altra coincidenza singolare. Nel XII secolo un monaco
irlandese, Malachia, compilò una serie di profezie alla Nostradamus. In queste
profezie - che, sia detto per inciso, sembra siano tenute in gran conto da
molti illustri cattolici, incluso l'attuale papa, Giovanni Paolo II - Malachia
enumera i pontefici destinati a occupare il soglio di Pietro nei secoli futuri.
E da, per ogni pontefice, un motto descrittivo. Il motto di Giovanni XXIII, «
Pastor et Nauta », tradotto in francese è « Pasteur et Nauton-nier » (« Pastore
e Navigatore »).29 Il titolo ufficiale del presunto Gran maestro di
Sion è appunto « Nautonnier ».
Qualunque sia la verità che costituisce il substrato di queste
strane coincidenze, non c'è dubbio che papa Giovanni XXIII fu responsabile più
di ogni altro di un nuovo orientamento della Chiesa cattolica: e come spesso
hanno osservato i commentatori, fu lui a portarla nella realtà del XX secolo.
In gran parte, questo fu dovuto alle riforme del Concilio Vaticano II, voluto e
inaugurato da Giovanni. Nel contempo, però papa Giovanni fu responsabile di
altri cambiamenti. Modificò la posizione della Chiesa nei confronti della
massoneria, ad esempio, rompendo almeno due secoli di tradizione consolidata e
dichiarando che un cattolico poteva essere massone. E nel giugno 1960 promulgò
una lettera apostoli-
166
)
ca profondamente significativa.30 Verteva sul tema del
« Preziosissimo sangue di Gesù » al quale attribuiva un'importanza senza
precedenti. Sottolineava le sofferenze di Gesù come essere umano, e affermava
che la redenzione dell'umanità era stata compiuta mediante lo spargimento del
suo sangue. Nel contesto della lettera di papa Giovanni la passione umana di
Gesù e lo spargimento del suo sangue assumono un rilievo maggiore della
Resurrezione e della stessa meccanica della Crocifissione.
Le implicazioni sono enormi. Come ha osservato un commentatore,
modificano la base stessa della fede cristiana. Se la redenzione dell'umanità
fu compiuta dallo spargimento del sangue di Gesù, la sua morte e la sua
resurrezione diventano incidentali, se non addirittura superflue. Con questo
documento papa Giovanni sottintende infatti che la morte di Gesù sulla croce
non è più una dottrina irrinunciabile della fede cattolica. Non è necessario
che Gesù sia morto sulla croce perché tale fede conservi la sua validità.
Note
1 Lobineau, H., Dossiersecrets, planche
n. 4, Ordre de Sion.
2 Loyd, Origins of Anglo-Norman Famihes, pp.
45 sgg. E Powicke, Loss of Normandy, p. 340.
3 Roger de Hoveden, Annali, voi. 1, p.
322. « Tommaso, arcivescovo di Canter-bury, e alcuni dei suoi compagni
d'esilio, vennero a un incontro con i legati, l'ottava di san Martino, tra
Gisors e Trie... » Questo luogo d'incontro tra i due castelli vicini è il sito
dove cresceva il famoso olmo abbattuto più tardi. Nei suoi Voyages
pittoresques (Normandie, voi. 2, p. 138); Charles Nodier dice
che « San Tommaso di Canterbury si preparò là (sotto l'olmo di Gisors) per il
suo martirio ». Non è esattamente chiaro che cosa intenda questa frase, ma è
suggestiva.
4 Lecoy de la Marche, Le RoiRené, voi. I, p.
69. Il duca di Lorena non aveva figli maschi, e secondo le convenzioni del
tempo Giovanna si riferiva a Renato.
5 Cfr. Staley, King Rene d'Anjou, pp.
153 sgg.
6 Staley, King Rene d'Anjou, p. 29. Fu lo
stesso Renato a incidere l'iscrizione.
7 Sir Philip Sidney era amico di John Dee, e
come lui era versato nel pensiero ermetico. Frances Yates ritiene che John Dee
fosse la fonte dei manifesti rosacro-ciani. Yates, OccultPhilosophy, pp.
170 sgg. Per ulteriori notizie su Sidney e Dee, cfr. French, John Dee. Sidney
conosceva quindi il « fiume sotterraneo » che scorreva nella cultura europea.
167
8 Tutti i manifesti sono riprodotti in Waite, Real
History ofthe Rosicrucians,
9 Yates, Rosicrucian Enlightenment, p.
125.
10 Ibid.,p. 192.
1 '
Esistono lettere, conservate presso la Royal Society, scritte da Robert Boyle a
proposito di un gruppo chiamato Sacred Cabalistic Society of Philosophers, che
lo accolse quale membro. Sembra che avesse sede in Francia. Cfr. Maddison, Life of... Robert Boyle,
pp. 166 sgg.
12 Yates, Rosicrucian Enlightenment, pp.
223 sgg. Frances Yates spiega i legami tra il movimento dei Rosacroce e la
Royal Society.
13 Per ulteriori notizie su Ramsay, cfr.
Walker, TheAncient Theology, pp. 231 sgg. eHenderson, ChevalierRamsay,
14 II testo dell'orazione è pubblicato in Gould,
Histoty of Freemasonry, voi. 5, pp. 84 sgg.
15 Waite, New Encyclopaedia of Freemasonry, voi.
2, pp. 353 sgg., e Le Forestier, La Franc-Maconnerie, pp. 126 sgg.
16 Questo elenco è riprodotto in Thory, Acta
Latomomm, voi. 2, p. 282. L'elenco segue quello di Sion solo fino alla
scissione del 1188. A quel tempo il Gran maestro era Gerard de Ridefort.
17 Nodier, Voyages Pittoresques, Normandie, voi.
2, pp. 137 sgg.
18 Pingaud, La Jeunesse de Charles Nodier, p.
39.
19 Ibid., pp. 231 sgg., contiene lo
statuto della società. Alcune delle regole sono curiose. La regola 18 dice: « I
fratelli della Societé dei Philadelphes hanno una particolare predilezione per
il colore azzurro cielo, la figura del pentagramma e il numero 5 ».
2°
Ibid., p. 47.
21 Nodier, Comes, pp. 4 sgg.
22 Nodier, History ofthe Secret Societies
ofthe Army,p. 105. » Ibid., p. U6.
24 II
personaggio più significativo delle società segrete del tempo fu Filippo Michele
Buonarroti (discendente del fratello di Michelangelo) che incominciò la
carriera come paggio del granduca di Toscana (figlio di Francesco di Lorena) e
si levò alla Massoneria. Allo scoppio della Rivoluzione francese andò in
Corsica, dove rimase fino al 1794 e conobbe Napoleone. Nei primi anni del 1800
creò tutta una serie di società segrete. Ne fondò tante che gli storici non
sanno esattamente quante fossero. Uno di loro osserva che « Buonarroti era una
vera divinità, se non onnipotente almeno onnipresente » : Eisenstein, The
First Professional Revolutio-nist... Buonarroti, p. 48, citando Lehning.
Buonarroti aveva molti amici in comune con Nodier e Hugo: Petrus-Borel, Louis
Blanc, Célestin Nanteuil, Jehan Dusei-gneur, Jean Gigoux, quindi è molto
probabile che si conoscessero. Anzi, l'assenza di ogni notizia su di loro
eventuali incontri è molto sospetta, data la posizione che Buonarroti assunse
più tardi a Parigi.
168
'
Cfr. inoltre Roberts, Mythology
of thè Secret Societies, pp. 233 sgg.: « Per trent'anni, senza arrestarsi
mai, come un ragno nella sua tana, tessendo le fila di una cospirazione che
tutti i governi hanno di volta in volta spezzato, e che non si stanca mai di
ritessere. » Eisenstein, The First Professional
Revolutiomst... Buonarroti. p.51.
E molto probabile che tanto
Buonarroti quanto Nodier appartenessero al Priorato di Sion, dato soprattutto
che una delle organizzazioni di Buonarroti era quella dei Philadelphes, lo
stesso nome usato da Nodier per il suo ordine.
-5 Cfr. la nota 33 del
capitolo VII.
26 Lucie-Smith, Symbolist Art, p. 110.
Per quanto riguarda la vita e i rapporti di Péladan, cfr. Pincus-Witten, Occult
Symbolism in France.
27 Lucie-Smith, Symbolist Art, p. 111.
28 Questo fu il suo commento, quando venne
invitato a eseguire il dipinto che ora fa parte di una cappella della chiesa di
Notre Dame de France a Londra.
29 Cfr. Bander, Prophecies ofSt. Malachy, p.
93. La frase latina è Pastor et nmita: la parola nauta può
significare tanto « marinaio » quanto « navigatore », che in francese antico è
« nautonnier ».
30 « Inde a primis », pubblicata dall'a
Osservatore Romano » (2 luglio 1960), p. 1. Una traduzione inglése si trova in
« Review for Religious », voi. 20 (1961), pp. 3 sgg-
169
VII
Una cospirazione attraverso
i secoli
Come dovevamo sintetizzare le prove e gli indizi che avevamo
accumulato? Grati parte della nostra documentazione era impressionante e
sembrava indicare qualcosa: uno schema, un disegno coerente. L'elenco dei
presunti Gran maestri di Sion, sebbene all'inizio fosse sembrato improbabile,
aveva rivelato certi fattori coerenti e sconcertanti. Quasi tutti i personaggi
elencati, ad esempio, erano legati per parentela di sangue o per associazioni
personali alle famiglie le cui genealogie figuravano nei « documenti del
Priorato », e in particolare alla casa di Lorena. Quasi tutti i personaggi
elencati avevano avuto rapporti con vari ordini o società segrete.
Virtualmente tutti, anche quando erano cattolici, avevano nutrito credenze
religiose poco ortodosse. Tutti erano legati al pensiero e alla tradizione
dell'esoterismo. E in quasi tutti i casi c'erano stati stretti contatti fra
ogni Gran maestro, il suo predecessore e il suo successore.
Tuttavia questi fattori, per quanto sensazionali, non provavano
nulla. Non provavano, ad esempio, che il Priorato di Sion, del quale avevamo
accertato l'esistenza durante il Medioevo, fosse veramente sopravvissuto nei
secoli successivi. E tanto meno provavano che gli individui citati come Gran
maestri lo fossero stati davvero. Ci sembrava ancora incredibile che alcuni di
loro potessero aver ricoperto tale carica. Certo, era possibile che Edouard de
Bar fosse stato eletto Gran maestro a cinque anni, o Renato d'Angiò a otto, in
base a qualche principio ereditario. Ma questo principio non sembrava valido
per Robert Fludd e Charles No-dier, entrambi diventati Gran maestri a ventun
anni, o per Claude
170
^
Debussy, che lo sarebbe divenuto a ventitré. Questi personaggi non
avevano avuto il tempo di « salire la scala », come avverrebbe ad esempio nella
massoneria. Al tempo della loro presunta elezione, non si erano ancora affermati
neppure nei rispettivi campi. In apparenza, questa anomalia non aveva senso. A
meno di presumere che il ruolo di Gran maestro di Sion fosse spesso puramente
simbolico, una posizione rituale occupata da un prestanome: un prestanome che
forse non era neppure a conoscenza dell'onore assegnatogli.
Tuttavia, era inutile formulare speculazioni e ipotesi, almeno
sulla base delle informazioni in nostro possesso. Perciò ci rivolgemmo di
nuovo alla storia, cercando notizie del Priorato altrove, al di fuori dall'elenco
dei presunti Gran maestri. In particolare, ci occupammo delle fortune della
casa di Lorena e di alcune delle altre famiglie citate nei « documenti del
Priorato ». Cercammo di verificare altre affermazioni contenute in quei
documenti. E cercammo altri indizi a conferma dell'opera di una società
segreta che agisse più o meno nascostamente dietro le quinte.
Se era davvero una società segreta, naturalmente non potevamo
aspettarci di trovare il Priorato di Sion menzionato in modo esplicito con
questo nome. Se aveva continuato a operare nel corso dei secoli, doveva averlo
fatto sotto una quantità di camuffamenti e di maschere e di « facciate », come
aveva operato per un certo tempo, a quanto veniva affermato, sotto il nome di
Ormus, in seguito abbandonato. Inoltre, non avrebbe rivelato un'unica politica,
ovvia e specifica, una posizione o un atteggiamento predominante. Anzi, una
posizione unificata, se fosse stato possibile ricostruirla, sarebbe apparsa
molto sospetta. Se eravamo alle prese con un'organizzazione sopravvissuta per
nove secoli, dovevamo attribuirle una flessibilità e un'adattabilità
considerevoli. La sua sopravvivenza doveva dipendere da queste qualità; senza
di esse sarebbe degenerato in una forma vana e priva di potere autentico come,
ad esempio, gli Yeomen della Guardia in Inghilterra. In-somma, il Priorato di
Sion non poteva essere rimasto rigorosamente immutabile in tutto il corso
della sua storia. Al contrario, sarebbe stato costretto a cambiare
periodicamente, a modificare se stesso e le sue attività, ad adattare i propri
obiettivi al mutevole caleidoscopio della realtà del mondo, come le unità della
cavalle-
171
ria, durante l'ultimo secolo, sono state costrette ad abbandonare
i cavalli per passare ai carri armati e ai mezzi corazzati. Nelle sue capacità
di adeguarsi a una data epoca sfruttandone la tecnologia e le risorse, Sion
avrebbe costituito un parallelo di quella che sembrava la sua rivale
essoterica, la Chiesa cattolica di Roma; o forse, per citare un esempio
sinistro, all'organizzazione conosciuta come mafia. Naturalmente, non vedevamo
il Priorato di Sion come una congrega di malvagi. Ma la mafia dimostrava come,
adattandosi via via ai tempi, una società segreta poteva continuare a esistere
e ad avere un grande potere.
Il Priorato di Sion in
Francia
Secondo i « documenti del Priorato », tra il 1306 e il 1480 Sion
aveva nove commanderies. Nel 1481, quando morì Renato d'An-giò, il
numero era salito, sembra, a ventisette. Le più importanti sono elencate come
situate a Bourges, Gisors, Jarnac, Mont-Saint-Michel, Montréval, Parigi, Le
Puy, Solesmes e Stenay. Inoltre, aggiungono enigmaticamente i Dossiers
segreti, vi era « un'arca chiamata Beth-Ania - casa di Anna - situata a
Rennes-le-Chàteau ».' Non è molto chiaro cosa significhi questo passo: ma
Rennes-le-Chàteau sembrerebbe godere di una posizione molto particolare. E
senza dubbio non può essere una coincidenza il fatto che Saunière costruisse
Villa Bethania.
Secondo i Dossiers segreti, la commanderie di Gisors
risaliva al 1306 ed era situata in rue de Vienne. A quanto sembra, per mezzo di
un passaggio segreto, era in comunicazione con il cimitero locale e la cappella
sotterranea di Sainte-Catherine, ubicata sotto la fortezza. Nel secolo XVI la
cappella, o forse una cripta adiacente, sarebbe diventata il deposito degli
archivi del Priorato di Sion, custoditi in trenta forzieri.
Nei primi mesi del 1944, quando Gisors fu occupata dai Tedeschi,
da Berlino fu inviata una speciale missione militare con il compito di
intraprendere una serie di scavi sotto la fortezza. L'invasione degli Alleati
in Normandia interruppe i lavori; ma non molto più tardi un operaio francese,
un certo Roger Lhomoy, incominciò a scavare per conto proprio. Nel 1946 Lhomoy
riferì al sindaco di Gisors di aver trovato una cappella sotterranea che
172
conteneva diciannove sarcofagi di pietra e trenta forzieri di
metallo. La sua richiesta di proseguire gli scavi e di rendere pubblica la
scoperta fu ostacolata - si direbbe di proposito - da una quantità di complicazioni
burocratiche. Finalmente, nel 1962, Lhomoy incominciò gli scavi a Gisors. I
lavori si svolsero sotto gli auspici di Andre Malraux, che a quel tempo era il
ministro francese della Cultura, e gli scavi non furono ufficialmente aperti al
pubblico. Non furono trovati né sarcofagi né forzieri. Si è molto discusso,
sulla stampa e in vari libri, se la cappella venne trovata o no. Lhomoy
sosteneva che aveva ritrovato la strada per giungere alla cappella, ma che nel
frattempo il contenuto era stato asportato. Comunque stiano le cose, la
cappella sotterranea di Sainte-Catherine è menzionata in due vecchi
manoscritti, uno datato 1696, l'altro 1375.2
Su questa base, la versione di Lhomoy diviene plausibile, e lo
diviene anche l'affermazione che la cappella sotterranea fosse il deposito
degli archivi di Sion. Nelle nostre ricerche, infatti, trovammo la prova certa
che il Priorato di Sion continuò a esistere per almeno tre secoli dopo la fine
delle Crociate e lo scioglimento dei Cavalieri Templari. Tra l'inizio del XIV
secolo e l'inizio del XVII, ad esempio, vari documenti relativi a Orleans e
alla sede di Sion a Saint-Samson fanno riferimenti sporadici all'Ordine. È
documentato che all'inizio del XVI secolo alcuni membri del Priorato di Sion a
Orleans, violando la loro « regola » e « rifiutandosi di vivere
comunitariamente », incorsero nella collera del papa e del re di Francia. Verso
la fine del XV secolo, i membri dell'Ordine furono accusati di numerose colpe;
non rispettavano la loro regola, vivevano « individualmente » anziché « in
comune », erano licenziosi, risiedevano fuori dalle mura di Saint-Samson,
boicottavano i servizi divini e trascuravano di ricostruire l'edificio che era
stato gravemente danneggiato nel 1562. Col 1619, a quanto sembra, le autorità
persero la pazienza. Quell'anno, secondo i documenti, il Priorato di Sion fu
espulso da Saint-Samson e la sede passò ai Gesuiti.3
Dal 1619 in poi non riuscimmo a trovare riferimenti al Priorato di
Sion, almeno sotto questo nome. Ma, se non altro, potevamo provare che era
esistito fino al XVII secolo. Tuttavia la prova, se tale la si poteva
considerare, sollevava molti interrogativi. Innan-
173
zitutto, i riferimenti che avevamo trovato non gettavano alcuna
luce sulle vere attività, gli obiettivi, gli interessi e l'eventuale influenza
di Sion. In secondo luogo questi riferimenti, sembrava, attestassero soltanto
cose poco importanti: l'esistenza di una sfuggente confraternita di monaci o
di devoti il cui comportamento, per quanto poco ortodosso e forse clandestino,
aveva un peso relativamente trascurabile. Non riuscivamo a riconciliare i negligenti
inquilini di Saint-Samson con i famosi, leggendari Rosacroce, o con un gruppo
di strani monaci appartenenti a un'istituzione i cui Gran maestri includevano
alcuni dei personaggi più illustri della storia e della cultura occidentale.
Secondo i « documenti del Priorato », Sion era un'organizzazione potente e
influente, che aveva creato i Templari e manovrato l'andamento degli affari
internazionali. I riferimenti che avevamo scoperto non indicavano nulla di
simile.
Una possibile spiegazione, naturalmente, era, che Saint-Samson, a
Orleans, fosse soltanto una sede isolata, probabilmente minore, delle attività
di Sion. E infatti nell'elenco delle comman-deries più importanti di
Sion, contenuto nei Dossiers segreti, Orleans non è neppure inclusa. Se
Sion era veramente una forza ragguardevole, Orleans poteva essere soltanto un
piccolo frammento di un disegno molto più vasto. E in questo caso, avremmo
dovuto cercare altrove le tracce dell'Ordine.
I duchi di Guisa e Lorena
Nel XVI secolo la casa di Lorena e il suo ramo cadetto, la casa di
Guisa, fecero un tentativo deciso e concertato per rovesciare la dinastia dei
Valois in Francia e impadronirsi del trono. In diverse occasioni il tentativo
arrivò vicinissimo al successo.
In una trentina d'anni tutti i sovrani, gli eredi e i principi
Valois furono spazzati via, e la stirpe si estinse.
Il tentativo di impadronirsi del trono francese impegnò tre
generazioni dei Lorena e dei Guisa. Giunse molto vicino al successo tra il
1550 e il 1570, sotto gli auspici di Carlo, cardinale di Lorena, e di suo
fratello Francesco, duca di Guisa. Carlo e Francesco erano imparentati con i
Gonzaga di Mantova e con Carlo di Montpensier, connestabile di Borbone:
elencato nei Dossiers se-
174
|
Iwì HESSE f^CnV^ |
/ f liegi /v^y |
|
|
STATI GERMANICI |
sit LÒRÈNÀ |
|
Francia >j : ; : : \Tl |
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CONTEA |
^^—^r\r |
5 / |
CONFEDERAZIONE ELVETICaV |
' Carta 6 II ducato di Lorena alla metà del XVI
secolo.
greti come Gran maestro di Sion fino al 1527. Inoltre Francesco, duca di
Guisa, aveva sposato Anna d'Este, duchessa di Gisors. E nelle sue macchinazioni
per impadronirsi del trono sembra che ricevesse l'aiuto clandestino e
l'appoggio di Ferrante Gonzaga, presunto Gran maestro di Sion dal 1527 al 1575.
Gli stòrici hanno stigmatizzato Francesco e suo fratello, il cardinale
di Lorena, come cattolici fanatici e bigotti, intolleranti, brutali e assetati
di sangue. Ma molti indizi concreti fanno pensare che questa reputazione fosse
alquanto immeritata, almeno per quanto riguarda la loro fedeltà al
cattolicesimo. Appare evidente che Francesco e suo fratello fossero sfacciati e
abili opportunisti, che corteggiassero tanto i cattolici quanto i protestanti
nella speranza di realizzare il loro disegno.4 Nel 1562, ad esempio,
al Concilio di Trento il cardinale di Lorena lanciò una proposta di decentrare
il papato, di conferire autonomia ai vescovi locali e di restaurare la
gerarchia ecclesiastica così come era stata ai tempi dei Merovingi.
17?
to profezie, ma si riferivano esplicitamente al passato: ai
Cavalieri Templari, alla dinastia Merovingia, alla storia della casa di
Lore-na. Un numero sorprendente di queste « profezie » riguarda il Razès, la
vecchia contea di Rennes-le-Chàteau.7 E le numerose quartine che
parlano dell'avvento di « le Grand Monarch » indicano che questo sovrano verrà
dalla Linguadoca.
Le ricerche rivelarono un altro indizio frammentario che collegava
Nostradamus alla nostra indagine in modo ancora più diretto. Secondo Gerard de
Sède,8 come pure secondo la leggenda popolare, Nostradamus, prima di
incominciare la carriera di profeta, trascorse diverso tempo in Lorena. Sembra
che fosse una specie di noviziato, un periodo di prova, al termine del quale
sarebbe stato « iniziato » a un grande segreto. Più precisamente si dice che
gli fu mostrato un antico libro arcano, sul quale basò tutta la sua opera
successiva. E questo libro gli sarebbe stato mostrato in un luogo molto
significativo: la misteriosa abbazia di Orval, donata dalla madre adottiva di
Goffredo di Buglione, dove secondo le nostre ricerche poteva essere nato il
Priorato di Sion. Comunque, per altri due secoli Orval continuò a essere associata
al nome di Nostradamus. Ancora ai tempi della Rivoluzione francese e nel
periodo napoleonico vari libri di profezie, presentati come opera di
Nostradamus, uscivano da Orval.
Il tentativo di impadronirsi
del trono di Francia
Alla metà del decennio 1620-30, sul trono di Francia sedeva Luigi
XIII. Ma il vero detentorc del potere, il vero architetto della politica
francese, era il primo ministro, il cardinale Richelieu. In generale, Richelieu
è considerato l'arci-Machiavelli, il supremo genio delle macchinazioni del suo
tempo. Può darsi che fosse anche qualcosa di più.
Mentre Richelieu dava alla Francia una stabilità che non aveva
precedenti, il resto dell'Europa, soprattutto la Germania, era in preda alla
terribile Guerra dei trent'anni. In origine, la causa della Guerra dei
trent'anni non era religiosa; ma ben presto il conflitto si polarizzò sotto
questa luce. Da una parte c'erano le forze della Spagna e dell'Austria,
fervidamente cattoliche, dall'altra c'erano gli eserciti protestanti della
Svezia e dei principati tedeschi, inclusi
178
il Palatinato del Reno, i cui sovrani, l'elettore Federico e sua
moglie, Elisabetta Stuart, erano in esilio all'Aia* Federico e i suoi alleati
erano sostenuti e appoggiati dai pensatori e scrittori « rosa-crociani », tanto
sul continente quanto in Inghilterra.
Nel 1633 il cardinale Richelieu intraprese una politica audace e
in apparenza incredibile. Fece entrare la Francia nella Guerra dei trent'anni,
ma non dalla parte che ci si potrebbe aspettare. Agli occhi di Richelieu, molte
considerazioni ebbero il sopravvento sui suoi doveri religiosi di principe
della Chiesa. Aspirava a imporre all'Europa la superiorità della Francia.
Mirava a neutralizzare la continua, tradizionale minaccia rappresentata per la
Francia dall'Austria e dalla Spagna. E sognava di annientare l'egemonia
spagnola che si era instaurata da più di un secolo, soprattutto nell'antica
terra merovingia dei Paesi Bassi e in varie parti della moderna Lorena. A causa
di questi fattori, l'Europa venne colta alla sprovvista dall'azione inaudita di
un cardinale cattolico, virtualmente padrone di una nazione cattolica, che
inviava truppe cattoliche a combattere a fianco dei protestanti contro altri
cattolici. Nessuno storico ha mai insinuato che Richelieu fosse un «
rosa-crociano ». Ma certamente non avrebbe potuto fare niente che si
armonizzasse meglio con la mentalità dei « rosacrociani » o che meritasse di
più la loro approvazione.
Nel frattempo la casa di Lorena aveva ricominciato ad aspirare al
trono di Francia, anche se in modo più obliquo. Questa volta il pretendente era
Gastone d'Orléans, fratello minore di Luigi XIII. Gastone non apparteneva,
ovviamente, alla casa di Lorena, ma nel 1632 aveva sposato la sorella del duca
di Lorena. Quindi il suo erede avrebbe avuto nelle vene il sangue dei Lorena
per parte materna; e se Gastone fosse asceso al trono, dopo una generazione un
discendente dei Lorena sarebbe diventato re di Francia. Questa prospettiva
bastò per mobilitare un vasto appoggio. Fra coloro che sostenevano il diritto
di Gastone alla successione ritrovammo un personaggio che avevamo già
incontrato: Carlo, duca di Guisa. Carlo aveva avuto come istitutore il giovane
Robert Fludd. E aveva sposato Enrichetta-Caterina de Joyeuse, proprie-taria di
Couiza e Arques: dove si trova la tomba identica a quella raffigurata nel
quadro di Poussin.
I tentativi di deporre Luigi e di sostituirgli Gastone fallirono;
ma
179
associati alla Compagnia sono quelli di intermediari o di membri
di basso rango della sua gerarchla, gli « uomini di paglia », per così dire,
che agivano in base a istruzioni impartite dall'alto. Uno di costoro era il
fratello della duchessa di Longueville. Un altro era Charles Fouquet, fratello
del sovrintendente delle Finanze di Luigi XIV. E c'era lo zio del filosofo
Fénelon che, mezzo secolo più tardi, avrebbe esercitato una profonda influenza
sulla massoneria tramite il cavalier Ramsay. Tra i personaggi più eminenti
legati alla Compagnia c'erano quell'individuo misterioso che oggi è conosciuto
come san Vincenzo di Paola, Nicolas Pavillon, vescovo di Alet, la cittadina
situata a pochi chilometri da Rennes-le-Chàteau, e Jean-Jacques Olier,
fondatore del seminario di Saint Sulpice. Anzi, oggi si ritiene in genere che
Saint Sulpice tósse il « centro operativo » della Compagnia.9
Nell'organizzazione e nelle attività, la Compagnia riecheggiava
l'Ordine del Tempio e prefigurava la massoneria. Dal centro di Saint Sulpice
creò una complessa rete di sedi provinciali, o capitoli. I membri provinciali
ignoravano l'identità dei loro superiori, e spesso venivano manovrati
nell'interesse di obiettivi che non condividevano. Era loro vietato di avere
contatti l'uno con l'altro se non attraverso Parigi, e questo assicurava un
controllo estremamente centralizzato. E persino a Parigi gli ideatori della
società restavano sconosciuti a coloro che li servivano. Insomma, la Compagnia
costituiva un'organizzazione simile a un'idra, con un cuore invisibile. Ancora
oggi non si sa chi fosse quel cuore, o che cosa lo costituisse. Ma si sa che
quel cuore batteva al ritmo di un grande segreto. Le notizie contemporanee
parlano esplicitamente del « Segreto che è il nucleo della Compagnia ». Secondo
uno degli statuti della società, scoperto molto tempo dopo, « il canale fondamentale
che plasma lo spirito della Compagnia e che è per esso essenziale, è il Segreto
».10
Per i membri novizi non iniziati, la Compagnia era ufficialmente
dedita ad attività caritatevoli, soprattutto nelle zone devastate dalle guerre
di religione e successivamente dalla Fronda, ad esempio in Piccardia,
Champagne e Lorena. Oggi tuttavia viene generalmente ammesso che queste «
attività caritatevoli » fossero soltanto una comoda, ingegnosa facciata, e che
avessero poco a che vedere con la vera raison d'ètre della Compagnia. La
vera raison
182
d'éfre.era duplice: esercitare quello che veniva chiamato « pio
spionaggio », raccogliere informazioni e infiltrarsi nelle cariche più
importanti della nazione e negli ambienti più vicini al trono.
Sembra che la Compagnia conseguisse considerevoli successi in
entrambi gli obiettivi. Quale membro del « Consiglio di coscienza » reale, ad
esempio, Vincenzo di Paola diventò confessore di Luigi XIII, In seguito fu
consigliere di Luigi XIV, fino a quando la sua opposizione a Mazzarino lo
costrinse a dimettersi. E la regina madre Anna d'Austria era, sotto molti
aspetti, un'ignara pedina nelle mani della Compagnia che, almeno per qualche
tempo, riuscì a metterla contro Mazzarino. Ma la Compagnia non si limitava ad
agire nell'entourage del trono. Verso la metà del XVII secolo esercitava un
notevole potere tramite l'aristocrazia, il parlement, la magistratura e
la polizia, al punto che in diverse occasioni queste istituzioni osarono
sfidare apertamente il sovrano.
Nelle nostre ricerche constatammo che nessuno storico, di quel
tempo o dei tempi successivi, dava una spiegazione adeguata della Compagnia del
Santo Sacramento. Molti autori la dipingono come un'organizzazione militante
arcicattolica, un bastione intransigente dell'ortodossia. Gli stessi autori
sostengono che era votata all'estirpazione degli eretici. Ma perché, in un
paese devotamente cattolico, un'organizzazione del genere avrebbe dovuto agire
nella più stretta segretezza? E chi era « eretico » a quel tempo? I protestanti?
I giansenisti? Ma c'erano numerosi protestanti e giansenisti proprio nelle
file della Compagnia.
Se la Compagnia era tanto cattolica, in teoria avrebbe dovuto
appoggiare il cardinal Mazzarino, il quale, dopotutto, incarnava gli interessi
cattolici di quel tempo. Invece la Compagnia osteggiava energicamente
Mazzarino al punto che il cardinale perse la pazienza e giurò che avrebbe fatto
tutto il possibile per annientarla. E c'è di più: la Compagnia destò una
vigorosa ostilità anche in altri ambienti rigorosamente cattolici. I Gesuiti,
ad esempio, ne fecero l'oggetto di una. assidua campagna. Altre autorità
cattoli-che accusavano la Compagnia di « eresia » : per l'appunto ciò che la
Compagnia stessa affermava di contrastare. Nel 1651 il vescovo di Tolosa accusò
la Compagnia di « pratiche empie » e accennò a gravi irregolarità nelle sue
cerimonie d'iniziazione", una bizzarra
183
eco delle accuse formulate contro i Templari. E minacciò addirittura
di scomunica i membri della Compagnia. Molti di loro sfidarono con impudenza
la minaccia: una reazione estremamente singolare da parte di cattolici che si
proclamavano tanto « pii ».
La Compagnia era stata fondata quando era ancora al culmine lo
scalpore suscitato dai « rosacrociani ». A quei tempi si credeva che la «
confraternita invisibile » fosse onnipresente, e ciò dava origine non soltanto
a un panico paranoico, ma anche alle inevitabili cacce alle streghe. Tuttavia,
non è mai stata trovata traccia di un « rosacrociano » regolarmente iscritto:
in nessun luogo, e tanto meno nella cattolicissima Francia. Per quanto
riguardava la Francia, i « rosacrociani » restavano il prodotto
dell'allarmistica fantasia popolare. Ma lo erano veramente? Se esistevano
davvero « rosacrociani » decisi a insediarsi in Francia, quale facciata più
conveniente poteva esservi di un'organizzazione dedita a stanare i «
rosacrociani »? Insomma, è possibile che i « rosacrociani » mirassero a
realizzare i loro obiettivi, e acquisissero un seguito in Francia spacciandosi
per i nemici implacabili di se stessi.
La Compagnia sfidò con successo Mazzarino e Luigi XIV. Nel 1660,
pochi mesi prima della morte del cardinale, il re si pronunciò ufficialmente
contro la Compagnia e ne ordinò la scioglimento. Nei cinque anni che seguirono,
la Compagnia ignorò sfrontatamente l'editto reale. Alla fine, nel 1665,
pervenne alla conclusione che non poteva continuare a operare nella « forma
presente ». Perciò tutti i documenti relativi alla società furono richiamati e
nascosti a Parigi in un deposito segreto. Il deposito non è mai stato
individuato, anche se in genere si ritiene che fosse Saint Sulpice.12 Se
era veramente così, gli archivi della Compagnia dovettero essere accessibili,
più di due secoli dopo, a uomini come l'abate Émile Hoffet.
Ma anche se la Compagnia smise di esistere in quella che era
allora la sua « forma presente », continuò egualmente a operare almeno fino
all'inizio del secolo successivo e a costituire una spina nel fianco di Luigi
XIV. Secondo certe tradizioni non confermate, sopravvisse fino al XX secolo.
Sia vera o no quest'ultima affermazione, non c'è dubbio che la
Compagnia sopravvisse al presunto scioglimento del 1665. Nel 1667 Molière,
fedelissimo di Luigi XIV, la attaccò con varie allu-
sioni velate ma pungenti nel Tartufo, Benché fosse
apparentemente estinta, per rappresaglia la Compagnia riuscì a far proibire la
commedia per due anni, nonostante la protezione reale di cui godeva Molière. E
sembra che la Compagnia avesse i propri portavoce letterari. Si dice, ad
esempio, che includesse La Roche-foucauld, il quale ebbe certamente una parte
nella Fronda. Secondo Gerard de Sède, anche La Fontaine era membro della Compagnia,
e le sue incantevoli favole, in apparenza tanto innocue, erano attacchi
allegorici contro il trono. La cosa non è inconcepibile. Luigi XIV nutrì
sempre una profonda antipatia per La Fontaine, e si oppose energicamente alla
sua ammissione all'Accademia di Francia. Inoltre tra i padroni e protettori di
La Fontaine figuravano il duca di Guisa, il duca di Buglione, il visconte di
Turenne e la vedova di Gastone d'Orleans.
Nella Compagnia del Santo Sacramento avevamo quindi trovato
un'autentica società segreta, la cui storia era ben documentata. Era
ufficialmente cattolica, ma era legata ad attività nettamente anticattoliche.
Era associata a certe importanti famiglie aristocra-tiche, che erano state
attive nella Fronda e le cui genealogie figuravano nei « documenti del Priorato
». Aveva stretti collegamenti con Saint Sulpice. Operava principalmente
mediante l'infiltrazione e aveva finito per esercitare un'influenza enorme.
Infine si opponeva attivamente al cardinale Mazzarino. Sotto tutti questi
aspetti corrispondeva in modo quasi perfetto all'immagine del Priorato di Sion,
come veniva presentato dai « documenti del Priorato ». Se Sion era davvero
attivo durante il XVII secolo, potevamo ragionevolmente presumere che fosse
stato sinonimo della Compagnia, o forse il potere che stava dietro alla Compagnia.
Chàteau Barberie
Secondo i « documenti del Priorato », l'opposizione di Sion a
Mazzarino aveva provocato la rabbiosa rappresaglia del cardinale. Tra le
vittime più illustri sarebbe stata la famiglia Plantard, discendente in linea
retta da Dagoberto II e dalla dinastia Merovingia. Nel 1548, affermano i «
documenti del Priorato », Jean des Plantard aveva sposato Marie de Saint-Clair
formando così un altro
185
legame tra la sua famiglia e quella dei Saint-Clair-Gisors. A quel
tempo, inoltre, la famiglia Plantard si era stabilita in un certo Chàteau
Barberie presso Nevers, nel Nivernese. Il castello sarebbe stato la residenza
ufficiale dei Plantard durante il secolo successivo. Poi, l'il luglio 1659,
secondo i « documenti del Priorato », Mazzarino ordinò di radere al suolo il
castello. Nell'incendio, la famiglia Plantard avrebbe perduto tutti i suoi
averi.'1
Nessun testo di storia, nessuna biografia di Mazzarino confermava
queste asserzioni. Nelle nostre ricerche non trovammo menzione di una famiglia
Plantard nel Nivernese e, all'inizio, neppure di Chàteau Barberie. Tuttavia
Mazzarino, per qualche ragione imprecisata, aveva messo gli occhi sul Nivernese
e sul ducato di Nevers. Alla fine riuscì a ottenerli, e il contratto di
cessione porta la data dell'll luglio 1659,'4 lo stesso giorno in
cui sarebbe stato distrutto Chàteau Barberie.
'
Questo ci indusse ad approfondire le indagini. Alla fine riesumammo
alcune prove frammentarie. Non bastavano a spiegare tutto, ma confermavano la
veridicità dei « documenti del Priorato ». In una compilazione delle tenute
del Nivernese, datata 1506, era effettivamente menzionata una Barberie. E un
atto del 1575 nominava un villaggio del Nivernese chiamato Les Plantards.'5
Cosa ancora più convincente, scoprimmo che l'esistenza di Chàteau
Barberie era stata definitivamente accertata. Nel 1874-75 alcuni membri della
Società delle lettere, scienze e arti di Nevers intrapresero scavi esplorativi
sul sito di certe rovine. Fu un'impresa difficile, perché le rovine erano
pressoché irriconoscibili; le pietre erano state vetrificate dal fuoco e la
località era invasa dagli alberi. Alla fine, tuttavia, furono scoperti i resti
delle mura e di un castello. Oggi si ammette che in quel luogo sorgesse
Barberie. Prima della distruzione, a quanto pare, consisteva di una cittadina
fortificata e di un castello '6 che si trova a poca distanza dal
vecchio villaggio di Les Plantards.
Adesso potevamo affermare che Chàteau Barberie era indiscutibilmente
esistito ed era stato distrutto da un incendio. E data l'esistenza del
villaggio di Les Plantards, non c'è motivo di dubitare che appartenesse a una
famiglia che portava questo nome. La cosa strana è che non sia documentata la
data della distruzione del castello, né chi lo distrusse. Se il responsabile fu
Mazzarino,
186
sembra che si fosse dato molto da fare per eliminare tutte le
tracce della sua azione. Anzi, evidentemente c'era stato un tentativo
sistematico per cancellare Chàteau Barberie dalle carte geografiche e dalla
storia. Perché intraprendere una simile opera di cancellazione, se non c'era
qualcosa da nascondere?
Nicolas Fouquet
Mazzarino aveva altri nemici, oltre ai frondisti e alla Compagnia
del Santo Sacramento. Tra i più potenti c'era Nicolas Fouquet, che nel 1653 era
divenuto sovrintendente delle Finanze di Luigi XIV. Fouquet, ambizioso, dotato
e precoce, in pochi anni diventò l'uomo più ricco e potente del regno. Qualche
volta veniva addirittura chiamato « il vero re di Francia ». E non gli
mancavano le aspirazioni politiche. Correva voce che intendesse trasformare la
Breta-gna in un ducato indipendente e farsene signore.
La madre di Fouquet era un membro eminente della Compagnia del
Santo Sacramento, e lo era anche suo fratello Charles, arcivescovo di Narbona
in Linguadoca. Anche il fratello minore, Louis, era un ecclesiastico. Nel 1656
Nicolas Fouquet inviò Louis a Roma per ragioni che - anche se non sono
necessariamente misteriose - non sono mai state spiegate. Da Roma, Louis
scrisse l'enigmatica lettera citata nel primo capitolo, la lettera che parla di
un incontro con Poussin e di un segreto che « persino i re stenterebbero
grandemente a ottenere da lui ». E infatti, se Louis era indiscreto nella sua
corrispondenza, Poussin non lasciò trapelare nulla. Il suo sigillo personale
portava il motto « Tenet Confiden-tiam ».
Nel 1661 Luigi XIV ordinò l'arresto di Nicolas Fouquet. Le
imputazioni erano estremamente generiche e nebulose. C'erano vaghe accuse di
malversazione e altre, ancora più vaghe, di sedizione. In base a queste
accuse, tutti i beni e le proprietà di Fouquet furono posti sotto sequestro
reale. Ma il re vietò ai suoi funzionari di toccare le carte e la
corrispondenza di Fouquet. Pretese di esaminare questi documenti personalmente
e in privato.
Il processo si trascinò per quattro anni e fece molto scalpore in
Francia, dividendo violentemente l'opinione pubblica. Louis Fouquet, che si
era incontrato con Poussin e aveva inviato la lettera da
187
Roma, nel frattempo era morto. Ma la madre del sovrintendente e
l'altro fratello mobilitarono la Compagnia del Santo Sacramento, della quale
faceva parte anche uno dei giudici. La Compagnia appoggiò in pieno il
sovrintendente, influenzando i tribunali e la pubblica opinione. Luigi XIV, che
di solito non era assetato di sangue, esigeva una condanna a morte. Rifiutando
di lasciarsi intimidire, il tribunale pronunciò una sentenza di bando perpetuo.
Infuriato, il re, che continuava a pretendere una condanna capitale, destituì
i giudici recalcitranti e li sostituì con altri più docili; ma sembra che la
Compagnia continuasse ad adoperarsi attivamente, sfidandolo. Alla fine, nel
1665 Fouquet fu condannato al carcere a vita. Per ordine del re, fu tenuto in
rigoroso isolamento. Gli era proibito scrivere e non poteva comunicare con
nessuno. E sembra che i soldati che parlavano con lui venissero mandati alle
galere o, in alcuni casi, venissero addirittura impiccati.17
Nel 1665, l'anno della condanna di Fouquet, Poussin morì a Roma.
Negli anni successivi, Luigi XIV cercò ostinatamente, per mezzo di suoi agenti,
di procurarsi un quadro: Les bergers d'Arcadie. Nel 1685 ci riuscì, ma
il quadro non fu messo in mostra, neppure nella residenza reale. Venne chiuso
negli appartamenti privati del re, dove nessuno poteva vederlo senza espressa
autorizzazione del sovrano.
La storia di Fouquet ha un seguito perché la sua disgrazia, per
quanto enorme, non ricadde sui suoi figli. Verso la metà del secolo successivo
il nipote di Fouquet, il marchese di Belle-Isle, era diventato l'uomo più
importante di Francia. Nel 1718 il marchese cedette alla corona Belle-Isle,
un'isola fortificata al largo della costa bretone. In cambio ottenne certi
territori interessanti. Uno era Longueville, i cui duchi e duchesse figuravano
spesso nelle nostre indagini. E un altro era Gisors. Nel 1718 il marchese di
Belle-Isle divenne conte di Gisors. Nel 1742 diventò duca di Gisors. E nel 1748
Gisors fu elevato al rango di primo ducato.
Nicolas Poussin r v
Poussin nacque nel 1594 in un paesetto, Les Andelys, situato a
pochi chilometri da Gisors in Normandia. Da giovane lasciò la Francia e si
stabilì a Roma, dove trascorse tutta la vita, ritornando
188
una sola volta nella sua terra natale. Rientrò in Francia poco
dopo il 1640, su richiesta del cardinale Richelieu, che l'aveva invitato ad
affidargli una particolare commissione.
Sebbene non fosse coinvolto attivamente nella politica- e pochi
storici hanno accennato ai suoi interessi in questo campo-Poussin era
strettamente legato alla Fronda. Non lasciò il rifugio romano. Ma la sua
corrispondenza del periodo rivela che era profondamente votato al movimento
anti-Mazzarino e che era in rapporti sorprendentemente amichevoli con un gran
numero di frondisti influenti, al punto che, parlando di loro, usa più volte il
pronome « noi », includendo quindi anche se stesso.18
Avevamo già fatto risalire i motivi del fiume sotterraneo Alfeo,
dell'Arcadia e dei pastori arcadi, a Renato d'Angiò. Ci accingemmo, adesso, a
cercare un antecedente per la frase che appare nel quadro di Poussin, Et in
Arcadia Ego. La stessa frase compariva in un precedente quadro dello stesso
Poussin, dove la tomba è sovrastata da un teschio e non costituisce una
costruzione a sé, ma è inserita in una parete rocciosa. In primo piano, un
barbuto dio delle acque è atteggiato in posa meditabonda: è il dio fluviale
Alfeo, signore del fiume sotterraneo. L'opera risale al 1630 o al 1635, quindi
a cinque o dieci anni prima del più noto Les bergers d'Arcadie.
La frase « Et in Arcadia Ego » fece la sua prima apparizione
pubblica tra il 1618 e il 1623, in un quadro di Giovanni Francesco Barbieri
detto il Guercino, un quadro che costituisce la base dell'opera di Poussin. Nel
dipinto del Guercino due pastori, entrando in una radura, si sono imbattuti in
un sepolcro di pietra, che reca l'iscrizione ormai famosa. Sul sepolcro spicca
un grosso cranio. Qualunque sia il significato simbolico di quest'opera, il
Guercino presentava un certo numero di interrogativi. Non soltanto era versato
nella tradizione esoterica, ma sembra anche che conoscesse bene quella delle
società segrete, e alcuni dei suoi dipinti hanno temi chiaramente massonici...
vent'anni prima che le logge cominciassero a proliferare in Inghilterra e in
Scozia. Un quadro, II risveglio del Maestro, si riferisce esplicitamente
alla leggenda massonica di Hiram Abiff, architetto e costruttore del Tempio di
Salomone. E fu dipinto quasi un secolo prima che la leggenda di
189
Hiram, a quanto si sa, entrasse nel patrimonio della tradizione
massonica.19
Nei « documenti del Priorato » si dice che « Et in Arcadia Ego »
fosse il motto ufficiale della famiglia Plantard almeno dal XII secolo, quando
Jean de Plantard sposò Idoine de Gisors. Secondo una fonte citata nei «
documenti del Priorato », è riportato nel 1210 da una certo Robert, abate di
Mont-Saint-Michel.20 Non ci fu permesso di consultare gli archivi di
Mont-Saint-Michel, e quindi non potemmo accertare la fondatezza
dell'affermazione. Le ricerche ci convinsero, comunque, che la data del 1210
era errata. Per l'esattezza, nel 1210 non c'era un abate di Mont-Saint-Michel
che si chiamasse Robert. D'altre parte, un certo Robert de Torigny fu abate di
Mont-Saint-Michel tra il 1154 e il 1186. E si sa che Robert de Torigny fu uno
storico assiduo e prolifico, che si compiaceva di collezionare motti, stemmi,
blasoni e armi delle famiglie nobili di tutta la cristianità.21
Qualunque fosse l'origine della frase, « Et in Arcadia Ego »
sembra aver avuto per il Guercino e Poussin un significato più importante di un
semplice verso elegiaco. Chiaramente, doveva avere un rilevante significato
segreto, riconoscibile per certe altre persone: insomma, l'equivalente di un
segno o di una parola d'ordine massonica. È appunto in questi termini che
un'affermazione contenuta nei « documenti del Priorato » definisce il carattere
dell'arte simbolica o allegorica:
Le opere allegoriche hanno
questo vantaggio: una sola parola basta a illuminare connessioni che la
moltitudine non può afferrare. Tali opere sono accessibili a tutti, ma il loro
significato si rivolge a un'elite. Al di sopra e al di là delle masse, mittente
e destinatario si comprendono. Il successo inspiegabile di certe opere deriva
da questa qualità di allegoria, che costituisce non già una semplice moda, ma
una forma di comunicazione esoterica.22
Nel suo contesto, questa affermazione veniva fatta con riferimento
a Poussin. Tuttavia, come ha dimostrato Frances Yates, potrebbe venire
applicata con la stessa validità alle opere di Leonardo, del Botticelli e di
altri artisti rinascimentali. E potrebbe venire applicata anche a personaggi
vissuti più tardi: Nodier, Hugo, Debussy, Cocteau, e ai loro rispettivi
circoli.
l'JO
Figura 1 Lo stemma della
famiglia Piantarci
La cappella di Rosslyn e Shugborough Hall
Nel corso delle precedenti ricerche avevamo scoperto una quantità
di legami importanti fra i presunti Gran maestri di Sion del XVII e del XVIII
secolo e la massoneria europea. Durante il nostro studio sulla massoneria
scoprimmo anche certi altri legami. Questi collegamenti non riguardavano i
presunti Gran maestri, ma altri aspetti della nostra indagine.
Ad esempio, incontrammo ripetuti riferimenti alla famiglia Sinclair,
il ramo scozzese della famiglia normanna Saint-Clair-Gisors. Il suo dominio, a
Rosslyn, era a pochi chilometri dall'antico quar-tier generale scozzese dei
Cavalieri Templari, e la cappella di Rosslyn, costruita tra il 1446 e il 1486,
da molto tempo è stata associata tanto alla massoneria quanto ai Rosacroce. In
un atto che si ritiene risalga al 1601, inoltre, i Sinclair sono riconosciuti
come « Gran maestri ereditari della massoneria scozzese ».23 Questo
è il primo documento specificamente massonico che si conosca. Tuttavia, secondo
fonti massoniche, il titolo ereditario di Gran maestro fu conferito ai Sinclair
da Giacomo II, che regnò tra il 1437 e il 1460, all'epoca di Renato d'Angiò.
Un altro pezzo, ancora più misterioso, del nostro rompicapo emerse
egualmente in Gran Bretagna, questa volta nello Stafford-shire, che era stato
un vivaio di attività massoniche nella prima metà del XVII secolo. Quando
Charles Radclyffe, presunto Gran maestro di Sion, evase dal carcere di Newgate
nel 1714, fu aiutato dal cugino, il conte di Lichfleld. Nello stesso secolo, la
famiglia dei conti di Lichfield si estinse, e il titolo rimase adespoto.
All'inizio del XIX secolo fu acquistato dai discendenti della famiglia Anson,
che sono gli attuali conti di Lichfield.
La sede dei conti di Lichfield, oggi, è Shugborough Hall, nello
Staffordshire. Già residenza vescovile, Shougborough fu acquistata dalla
famiglia Anson nel 1697. Durante il secolo che seguì, fu la residenza del
fratello di George Anson, il celebre ammiraglio che circumnavigò il globo.
Quando George Anson morì nel 1762, venne letta in Parlamento una elegia. Una
stanza della poesia dice:
Su quel marmo istoriato posa l'occhio.
La scena strappa un sospiro morale.
Fin nelle piane elisie dell'Arcadia,
192
. Tra le ninfe ridenti e i pastori, Vedi la
gioia festosa che si spegne, E la pietà surrogare il sorriso; Dove le danze, e
il liuto, e le feste, La passione che vibra in cuori ardenti, Nel giovanile
fiore della vita, Sta la ragione e indica la tomba!24
Sembra un'allusione esplicita al quadro di Poussin e all'iscrizione
« Et in Arcadia Ego », fino al dettaglio della « ragione che indica la tomba ».
E nei terreni di Shugborough c'è un imponente bassorilievo marmoreo, eseguito
per ordine della famiglia Anson tra il 1761 e il 1767. Il bassorilievo è una
riproduzione - rovesciata come in uno specchio - dei Bergers d'Arcadie di
Poussin. E sotto c'è un'iscrizione enigmatica che nessuno ha mai decifrato in
modo soddisfacente:
O.U.O.S.V.A.V.V. D M
La lettera segreta del papa
Nel 1738 il pontefice Clemente XII emanò una Bolla che condannava
e scomunicava tutti i massoni, dichiarati « nemici della Chiesa di Roma ». Non
è mai stato completamente chiarito perché dovessero essere considerati tali,
tanto più che molti di loro, come i giacobiti di quel tempo, erano
ufficialmente cattolici. Forse il papa era a conoscenza del collegamento che
anche noi avevamo scoperto fra la massoneria e i « rosacrociani » anticattolici
del XVII secolo. Comunque, sul problema può gettare un po' di luce una lettera
resa accessibile e pubblicata per la prima volta nel 1962. La lettera era stata
scritta da Clemente XII a un destinatario sconosciuto. Il papa vi afferma che
il pensiero massonico è fondato su un'eresia che noi avevamo già incontrato più
volte: la negazione della divinità di Gesù. Inoltre, asserisce che gli
ispiratori, le « menti » che stanno dietro la massoneria, sono gli stessi che
avevano provocato la Riforma luterana.25 È possibile che il papa
fosse paranoico; ma è importante notare che non parla affatto di nebulosi
correnti di pensiero o di tradizioni vaghe. Al contrario, parla di un gruppo di
individui ben organizzati, una setta, un ordine, una
193
società segreta che, nel corso dei secoli, si è impegnata per
sovvertire l'edificio del cristianesimo cattolico.
La Pietra di Sion
Nel tardo secolo XVIII, quando proliferavano a getto
continuo i più diversi sistemi massonici, apparve il cosiddetto Rito orientale
di Memphis.26 In questo rito ricorreva per la prima volta- a quanto
ci risultava - il nome Ormus: il nome che sarebbe stato adottato dal Priorato
di Sion tra il 1188 e il 1307. Secondo il Rito orientale di Memphis, Ormus era
un saggio egiziano che, intorno all'anno 46 d.C., fuse i misteri pagani e
cristiani e fondò la Rosacroce.
In altri riti massonici del XVIII secolo vi sono ripetuti
riferimenti alla « Pietra di Sion », la stessa Pietra di Sion che, secondo i «
documenti del Priorato », rendeva la « tradizione reale » stabilita da
Goffredo e Baldovino di Buglione « eguale » a quella di tutte le altre dinastie
regnanti in Europa. Avevamo presunto, in precedenza, che la Pietra di Sion
fosse semplicemente il Monte Sion, I'« alto colle » a sud di Gerusalemme dove
Goffredo costruì un abbazia per accogliere l'ordine divenuto poi il Priorato di
Sion. Ma le fonti massoniche attribuiscono alla Pietra di Sion un altro significato.
Dato il loro interesse per il Tempio di Gerusalemme, non è sorprendente che
rimandino a passi precisi della Bibbia. E in questi passi la Pietra di Sion è
qualcosa di più di un colle. È una particolare pietra, trascurata o
ingiustificatamente dimenticata durante la costruzione del Tempio, che deve
essere recuperata e incorporata come testata d'angolo. Secondo il Salmo 118, ad
esempio:
La pietra scartata dai
costruttori è divenuta testata d'angolo. In Matteo 21:42 Gesù allude
espressamente a questo salmo:
Non avete mai letto nelle
Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata
d'angolo.
Nella lettera ai Romani 9:33
c'è un altro riferimento, più ambiguo:
Ecco che io pongo in Sion
una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo ; ma chi crede in lui non sarà
deluso.
194
Negli Atti degli Apostoli
4:11 la Pietra di Sion può essere interpretata come una metafora che indica lo
stesso Gesù:
nel nome di Gesù Cristo il
Nazareno... costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che,
scartata da voi costruttori, è diventata testata d'angolo.
Nella Lettera degli Efesini
2:20, l'equazione tra Gesù e la Pietra di Sion diviene più evidente:
edificati sopra il
fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso
Cristo Gesù.
E nella I Lettera di Pietro
2:3-8 l'equazione viene resa ancora più esplicita:
come è buono il Signore.
Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa
davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione
di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici
spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella
Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare scelta, preziosa, e chi
crede in essa non resterà confuso. Onore dunque a voi che credete: ma per gli
increduli, la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra
angolare, sasso d'inciampo e pietra di scandalo. Loro v'inciampano perché non
credono alla parola; a questo sono stati destinati.
Nel versetto successivo, il
testo pone in risalto temi il cui significato ci apparve evidente solo più
tardi. Parla di una stirpe eletta di re che sono capi spirituali e secolari,
una stirpe di re-sacerdoti:
Ma voi siete la stirpe eletta,
il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato...
Cosa dovevamo dedurre da
questi passi sconcertanti? Cosa dovevamo pensare della Pietra di Sion, la
pietra angolare del Tempio, che sembrava avere un posto tanto saliente nei «
segreti interni » della massoneria? Come dovevamo interpretare l'esplicita
identificazione tra la pietra angolare e lo stesso Gesù? E come dovevamo
intendere la « tradizione regale » che, essendo fondata sulla Pietra di Sion e
lo stesso Gesù, era « eguale » alle dinastie dei regnanti in Europa durante le
Crociate?27
195
Il movimento modernista cattolico
Nel 1833 Jean Baptiste Pitois, già discepolo di Charles Nodier
alla Biblioteca dell'Arsenale, era funzionario del ministero della Pubblica
Istruzione.28 Quell'anno il ministero intraprese un progetto
ambizioso: pubblicare tutti i documenti relativi alla storia della Francia che
in precedenza erano rimasti inaccessibili. Furono istituite due commissioni
incaricate di occuparsi del progetto. Delle commissioni facevano parte, tra gli
altri, Victor Hugo, Jules Michelet e un'autorità in fatto di Crociate, il
barone Emmanuel Rey.
Tra le opere pubblicate successivamente sotto gli auspici del
ministero della Pubblica Istruzione, vi fu il monumentale Procès des Templìers
di Michelet, un'esauriente compilazione dei verbali dell'Inquisizione
relativi ai processi dei Cavalieri Templari. Sotto gli stessi àuspici, il
barone Rey pubblicò diverse opere sulle Crociate e il regno franco di
Gerusalemme. In queste opere vennero stampati per la prima volta atti originali
relativi al Priorato di Sion. In certi punti, i testi che Rey cita coincidono
quasi parola per parola con brani dei « documenti del Priorato ».
Nel 1875 il barone Rey fu co-fondatore della Société de l'Orient Latin.
La società, che aveva sede a Ginevra, si dedicò ad ambiziosi progetti
archeologici. Pubblicò una sua rivista, la « Revue de l'Orient Latin », che
oggi è una delle fonti principali per gli storici moderni come Sir Steven
Runciman. La « Revue de l'Orient Latin » riprodusse un certo numero di altri
atti del Priorato di Sion.
Le ricerche di Rey erano tipiche di una nuova metodologia di studi
storici che stava nascendo a quei tempi in Europa, soprattutto in Germania, e
che costituiva una minaccia estremamente seria per la Chiesa. La diffusione del
pensiero darwiniano e dell'agnosticismo aveva già prodotto una « crisi di fede
» nella seconda metà del XIX secolo, e la nuova ricerca storica ingigantiva
tale crisi. In passato, la ricerca storica era stata quasi sempre inattendibile,
basata su fondamenta molto tenui, sulla leggenda e sulla tradizione, sulle
memorie personali, sulle esagerazioni promulgate nell'interesse delFuna o
dell'altra causa. Solo nel XIX secolo gli studiosi tedeschi incominciarono a
introdurre le tecniche rigorose
196
e meticolose che oggi vengono accettate come gli strumenti normali
di ogni storico serio. L'interesse per l'esame critico, le indagini sulle
fonti di prima mano, i dati a conferma e la cronologia esatta crearono l'immagine
convenzionale del pedante teutonico. Ma se gli scrittori tedeschi di quel
periodo tendevano a perdersi nella minuzie, fornivano anche una solida base per
le indagini. E anche per un buon numero di grandiose scoperte archeologiche.
L'esempio più famoso, naturalmente, è la scoperta dell'antica Troia effettuata
da Heinrich Schliemann.
Era solo questione di tempo, prima che le tecniche tedesche
venissero applicate con la stessa diligenza anche alla Bibbia. E la Chiesa, che
si basava sull'accettazione indiscussa del dogma, si rendeva perfettamente
conto che la Bibbia poteva anche non reggere a un simile esame critico. Nella
sua famosa e discussa Vita di Gesù, Ernest Rénan aveva già applicato la
metodologia tedesca al Nuovo Testamento, e per Roma i risultati erano
estremamente imbarazzanti.
Il movimento modernista cattolico nacque inizialmente in risposta
a questa nuova sfida. Il suo obiettivo originario era produrre una generazione
di esperti ecclesiastici, versati nella tradizione tedesca, capaci di difendere
la verità letterale delle Scritture con i mezzi dell'erudizione critica.
Tuttavia, le cose non andarono come si sperava. Più la Chiesa si sforzava di
dotare ecclesiastici più giovani degli strumenti per combattere il mondo
polemico moderno, e più gli stessi ecclesiastici cominciavano a disertare la
causa per la quale erano reclutati. L'esame critico della Bibbia rivelava una
quantità di contraddizioni, di discrepanze e di implicazioni decisamente
avverse al dogma' romano. E alla fine del secolo i modernisti non erano più le
truppe scelte d'assalto su cui aveva aspirato la Chiesa, ma disertori ed
eretici potenziali. Anzi, costituirono la minaccia più grave che la Chiesa
avesse incontrato dopo Martin Luterò, e portarono l'intero edificio del
cattolicesimo sull'orlo di uno scisma che non aveva precedenti da secoli.
La fucina dell'attività modernista era Saint Sulpice, a Parigi,
che era già stato la culla della Compagnia del Santo Sacramento. Anzi, una
delle voci più risonanti del movimento modernista fu l'uomo che dal 1852 al
1884" diresse il seminario di Saint Sulpice. Da Saint Sulpice, il pensiero
modernista si diffuse rapidamente nel resto
197
della Francia, in Italia e in Spagna. Secondo questo pensiero, i
testi biblici non erano inoppugnabilmente autorevoli, ma andavano intesi nel
contesto specifico dei loro tempi. Inoltre i modernisti si ribellavano alla
crescente centralizzazione del potere ecclesiastico, e soprattutto alla
dottrina dell'infallibilità del papa, imposta di recente,30 che
contrastava in modo clamoroso con le nuove tendenze. In breve tempo, il
pensiero modernista venne diffuso non soltanto da ecclesiastici intellettuali,
ma anche da scrittori illustri e influenti. Personaggi come Roger Martin du
Gard in Francia e Miguel de Unamuno in Spagna furono tra i principali portavoce
del modernismo.
La Chiesa, prevedibilmente, reagì con iroso vigore. I modernisti
vennero accusati d'essere massoni. Molti di loro furono sospesi a divinis o
addirittura scomunicati, e i loro libri furono messi all'Indice. Nel 1903 papa
Leone XIII istituì la Pontificia commissione biblica per controllare l'opera
degli studiosi delle Scritture. Nel 1907 papa Pio X pronunciò una formale
condanna contro il modernismo. E il 1° settembre 1910 la Chiesa pretese dai
suoi religiosi un giuramento contro le tendenze moderniste.
Il modernismo continuò a fiorire fino a che la Prima guerra
mondiale dirottò l'attenzione del pubblico su altri e più gravi avvenimenti.
Fino al 1914 rimase una cause célèbre. Un autore modernista, l'abate
Turmel, si dimostrò un personaggio particolarmente insidioso. Mentre in
apparenza si comportava in modo impeccabile nella sua cattedra d'insegnamento
in Bretagna, pubblicò una serie di opere moderniste sotto ben quattordici
pseudonimi diversi. Furono tutte messe all'Indice, ma solo nel 1929 il loro
autore venne identificato in Turmel. È superfluo aggiungere che fu
immediatamente scomunicato.
Nel frattempo il modernismo si era diffuso in Gran Bretagna, dove
fu accolto a braccia aperte dalla Chiesa anglicana. Fra i suoi seguaci
anglicani vi fu William Temple, poi divenuto arcivescovo di Canterbury, il
quale dichiarava che « quasi tutta le gente istruita crede già nel modernismo ».M
Uno dei collaboratori di Temple era il canonico A.L. Lilley. E Lilley aveva
conosciuto l'ecclesiastico dal quale avevamo ricevuto quella lettera
sensazionale: la lettera in cui si parlava della « prova incontrovertibile »
del fatto che Gesù non era morto sulla croce.
198
Come già sapevamo, Lilley aveva lavorato per diverso tempo a
Parigi, dove aveva conosciuto l'abate Émile Hoffet, l'uomo al quale Saunière
portò le pergamene trovate a Rennes-le-Chàteau. Con la sua conoscenza della
storia, delle lingue e della linguistica, Hoffet era il tipico giovane erudito
modernista del suo tempo. Tuttavia, non aveva studiato a Saint Sulpice. Al
contrario, aveva studiato in Lorena. Al seminario di Sion: La colline
inspirée.™
I protocolli di Sion
Una delle testimonianze più persuasive che noi trovammo circa
l'esistenza e le attività del Priorato di Sion risaliva alla fine del XIX secolo.
È una testimonianza piuttosto nota, ma non è riconosciuta come tale. Al
contrario, è sempre stata associata a cose molto più sinistre.
Ha avuto un ruolo esecrabile nella storia recente e ancora oggi
tende a suscitare sentimenti così violenti, rabbiosi antagonismi e lugubri
ricordi, che quasi tutti gli autori preferiscono liquidarla sommariamente. Data
la misura in cui questa testimonianza ha contribuito a fomentare i pregiudizi
umani e a causare sofferenze, tale reazione è del tutto comprensibile. Ma se la
testimonianza è stata usata in modo criminoso, le nostre ricerche ci convinsero
che era anche stata gravemente fraintesa.
Il ruolo di Rasputin alla corte di Nicola e Alessandra di Russia è
in generale più o meno noto. Tuttavia, non è altrettanto noto che alla corte
russa, molto tempo prima di Rasputin, vi furono gruppi esoterici influenti o
addirittura molto potenti. Tra il 1890 e il 1910, uno di questi gruppi si formò
intorno a un personaggio conosciuto come Monsieur Philippe, e intorno al suo
mentore, che fece visite periodiche alla corte imperiale di Pietroburgo. E il mentore
di Monsieur Philippe non era altro che l'uomo chiamato Papus,"
l'e-sotensta francese legato a Jules Doinel (fondatore della chiesa neocatara
in Linguadoca), Péladan (che affermava di aver scoperto la tomba di Gesù),
Emma Calve e Claude Debussy. Insomma, la « rinascita dell'occultismo francese »
della fine del XIX secolo non soltanto era arrivata a Pietroburgo, ma i
suoi esponenti godevano del ruolo privilegiato di confidenti dello zar e della
zarina.
Tuttavia, il gruppo esoterico di Papus e di Monsieur Philippe
199
era attivamente contrastato da altri potenti interessi: c'era ad
esempio la granduchessa Elisabetta, impegnata a installare i suoi favoriti
intorno al trono imperiale. Uno dei favoriti della granduchessa era un
individuo piuttosto spregevole, conosciuto dai posteri sotto lo pseudonimo di
Serghei Nilus. Intorno al 1903 Nilus presentò allo zar un documento
estremamente polemico che, a quanto sembrava, attestava l'esistenza di una
pericolosa cospirazione. Ma se Nilus si aspettava che lo zar gli fosse grato
per la rivelazione, rimase amaramente deluso. Lo zar affermò che il documento
era un falso vergognoso, e ordinò la distruzione di tutte le copie. E Nilus fu
bandito dalla corte.
Naturalmente il documento, o almeno una sua copia, sopravvisse.
Nel 1903 fu pubblicato su un quotidiano, ma non suscitò interesse. Nel 1905 fu
ripubblicato, questa volta come appendice a un libro di un illustre filosofo
mistico, Vladimir Soloviov. A questo punto cominciò a destare attenzione. Negli
anni che seguirono divenne uno dei documenti più famigerati del XX secolo.
Il documento era un trattato o, a stretto rigore, un presunto
programma sociale e politico. È apparso sotto titoli diversi, tra i quali il
più comune è Iprotocolli degli anziani di Sion.M I Protocolli,
si affermava, provenivano da fonti specificatamente ebree. E per molti
antisemiti, a quel tempo, costituivano la prova convincente di una «
cospirazione giudaica internazionale ». Nel 1919, ad esempio, furono
distribuiti alle truppe dell'armata bianca russa; e nei due anni successivi
quelle truppe massacrarono ben 60.000 Ebrei, ritenuti responsabili della
Rivoluzione del 1917. Nel 1919 i Protocolli, vennero fatti circolare
anche da Alfred Rosen-berg, destinato a diventare il principale teorico e propagandista
del razzismo per conto del Partito nazionalsocialista tedesco. In Mein Kampf
Hitler si servì dei Protocolli per alimentare i suoi pregiudizi
fanatici, e sembra che credesse ciecamente nella loro autenticità. In
Inghilterra i Protocolli furono immediatamente presi sul serio dalla «
Morning Post ». Persino il « Times », nel 1921, li prese altrettanto sul serio,
e solo più tardi ammise il proprio errore. Oggi gli esperti concordano nel
ritenere — e a ragione, secondo le nostre conclusioni - che i Protocolli, alme-'
no nella forma attuale, siano un falso perverso e insidioso. Tuttavia sono
ancora in circolazione nell'America Latina, in Spagna
200
e persino in Gran Bretagna, come propaganda antisemita.35 I
Protocolli presentano a grandi linee niente meno che un programma per
la dominazione totale del mondo. A una prima lettura appaiono come il programma
machiavellico - una specie di memorandum interno, per così dire - di un gruppo
di individui decisi a imporre un nuovo ordine mondiale e a diventarne i despoti
supremi. Il testo propugna una cospirazione tentacolare, votata al disordine
e all'anarchia e mirante a rovesciare certi regimi esistenti, a infiltrarsi
nella massoneria e in altre organizzazioni del genere, e infine ad assumere il
controllo assoluto delle istituzioni sociali, politiche ed economiche del mondo
occidentale. E gli autori anonimi dei Protocolli dichiararono
esplicitamente di aver « manovrato » interi popoli « secondo un piano politico
che nessuno ha mai neppure intuito nel corso di molti secoli ».M
A un lettore moderno i Protocolli possono apparire ideati
da un'organizzazione fittizia, come la SPECTRE, l'avversaria di James Bond nei
romanzi di Ian Fleming. Quando furono pubblicati perla prima volta, però, i Protocolli
vennero presentati come redatti durante un Congresso giudaico
internazionale svoltosi a Basilea nel 1897. L'affermazione è stata confutata
ormai da molto tempo. Si sa che le prime copie dei Protocolli furono
scritte in francese, e al Congresso di Basilea, nel 1897, non era presente
neppure un delegato francese. Inoltre, si sa che una copia dei Protocolli circolava
già nel 1884, ben tredici anni prima del Congresso di Basilea. La copia del
1884 apparve nelle mani di un membro di una loggia massonica, la stessa di cui
Papus era membro, e di cui divenne in seguito Gran maestro.37
Inoltre, nella stessa loggia era apparsa per la prima volta la tradizione di
Ormus, il leggendario saggio egiziano che avrebbe amalgamato i misteri pagani
e cristiani e avrebbe fondato i Rosacroce.
Gli studiosi moderni hanno accertato che i Protocolli, nella
versione pubblicata, sono basati almeno in parte su un'opera satirica scritta e
stampata a Ginevra nel 1864. L'opera fu redatta, per attaccare Napoleone III,
da un certo Maurice Joly, che in seguito fu arrestato. Joly viene presentato
come appartenente a un ordine rosacrociano. Fosse vero o no, è comunque certo
che era amico di Victor Hugo; e Hugo, che condivideva le antipatie di Joly per
Napoleone III, faceva parte di un ordine rosacrociano.
201
Si può quindi provare in modo indiscutibile che i Protocolli non
uscirono dal Congresso giudaico di Basilea del 1897. L'interrogativo ovvio,
perciò, è questo: da dove provenivano? Gli studiosi moderni li ritengono un
falso, un documento interamente spurio fabbricato da antisemiti decisi a
screditare il giudaismo. Tuttavia, gli stessi Protocolli confutano tale
conclusione. Ad esempio, contengono un certo numero di riferimenti enigmatici,
che chiaramente non sono giudaici. Ma questi riferimenti sono così palesemente
non giudaici che non possono neppure essere stati plausibilmente fabbricati da
un falsario. Nessun falsario antisemita dotato di un minimo d'intelligenza
avrebbe inventato riferimenti del genere per screditare il giudaismo, perché
nessuno sarebbe stato disposto a credere che fossero d'origine giudaica.
Ad esempio, il testo dei Protocolli termina con queste
parole: « Firmati dai rappresentanti di Sion del 33° Grado ».38
Perché un falsario antisemita avrebbe inventato questa espressione?
Perché non avrebbe cercato invece d'incriminare tutti gli Ebrei, anziché i
pochi « rappresentanti di Sion del 33° Grado »? Perché non avrebbe dichiarato
che il documento era stato firmato, poniamo, dai rappresentanti del Congresso
giudaico internazionale? Anzi, i « rappresentanti di Sion del 33° Grado » non
sembrano aver alcun legame con il giudaismo o con una « cospirazione
internazionale ebraica ». Se mai, sembrano riferirsi a qualcosa di
specificamente massonico. E il 33° grado della massoneria è quello della
cosiddetta « Stretta osservanza », il sistema massonico introdotto da Hund per
ordine dei suoi « superiori sconosciuti », uno dei quali sembra fosse Charles
Radclyffe.
I Protocolli contengono anomalie ancora più flagranti. Il
testo parla ripetutamente, ad esempio, dell'avvento di un « regno massonico »
e di un « re del sangue di Sion » che presiederà questo « regno massonico ».
Afferma che il futuro sovrano sarà « delle radici dinastiche di re Davide ».
Asserisce che « il re dei Giudei sarà il vero papa » e « il patriarca di una
chiesa internazionale ». E conclude, in modo molto enigmatico: « Certi membri
del seme di Davide prepareranno i re e i loro eredi... Solo il re e i tre che
furono suoi garanti sapranno ciò che avverrà».39
Quali espressioni del pensiero giudaico, autentico o inventato,
queste affermazioni sono clamorosamente assurde. Dopo i tempi
202
biblici, nella tradizione giudaica non figura più nessun re, e lo
stesso principio della regalità è divenuto del tutto irrilevante. Il concetto di
un re sarebbe stato privo di senso per gli Ebrei nel 1897 quanto lo sarebbe
oggi; e questo nessun falsario poteva ignorarlo. Anzi, i riferimenti citati
sembrerebbero più cristiani che giudaici. Negli ultimi due millenni, l'unico «
re dei Giudei » è stato soltanto Gesù; e Gesù, secondo i Vangeli, era delle «
radici dinastiche di Davide ». Se qualcuno fabbrica un documento per
attribuirlo a una cospirazione ebraica, perché vi include echi tanto avidamente
cristiani? Perché parla di un concetto specificatamente e inequivocabilmente
cristiano come quello di un papa? Perché parla di una « chiesa internazionale »
anziché di una sinagoga o di un tempio internazionale? E perché include
l'enigmatica allusione al « re e i tre che furono suoi garanti », una frase che
fa pensare non tanto al giudaismo e al cristianesimo quanto alle società
segrete di Johann Valentin Andrea e di Charles Nodier? Se i Protocolli erano
interamente frutto di un'immaginazione propagandistica antisemita, è difficile
concepire un propagandista tanto inetto, ignorante e disinformato.
In base a una ricerca lunga e sistematica, siamo pervenuti a certe
conclusioni circa i Protocolli degli anziani di Sion. Eccole:
1) Esisteva un testo
originale sul quale si basava la versione pubblicata dei Protocolli. Questo
testo originale non era un falso. Al contrario, era autentico. Ma non aveva
nulla a che fare con il giudaismo o una « cospirazione giudaica internazionale
». Proveniva piuttosto da un'organizzazione massonica o da una società segreta
d'orientamento massonico che incorporava la parola « Sion ».
2) II testo originale sul quale si basava la versione pubblicata
dei Protocolli non doveva essere inevitabilmente provocatorio e infiammato
nel linguaggio. Ma poteva includere un programma per acquisire potere, per
infiltrare la massoneria, per controllare le istituzioni sociali, politiche ed
economiche. Un simile programma sarebbe stato perfettamente in armonia con le
società segrete del Rinascimento, con la Compagnia del Santo Sacramento e le
istituzioni di Andrea e di Nodier.
3) II testo originale sul quale si basava la versione pubblicata
dei Protocolli era finito nella mani di Serghei Nilus. Nilus,
inizialmen-
21)3
te, non intendeva screditare il giudaismo. Al contrario, portò i Protocolli
allo zar con l'intenzione di screditare il gruppo esoterico alla corte
imperiale, il gruppo di Papus, Monsieur Philippe e altri membri della società
segreta in questione. Prima di farlo, quasi sicuramente modificò il linguaggio,
rendendolo molto più velenoso e infiammato di quanto fosse inizialmente.
Quando lo zar lo respinse, Nilus consegnò per la pubblicazione i Protocolli nella
versione manipolata. Non erano serviti allo scopo primario di compromettere
Papus e Monsieur Philippe, ma potevano ancora essere utili per uno scopo
secondario: fomentare l'antisemitismo. Anche se i suoi principali bersagli
erano Papus e Monsieur Philippe, Nilus era ostile anche al giudaismo.
4) La versione esistente dei Protocolli, quindi, non è un
testo completamente falso. Piuttosto, è un testo radicalmente modificato. Ma
nonostante le alterazioni si possono scorgere certe vestigia della versione
originale, come in un palinsesto o in certi passi della Bibbia. Queste vestigia
- che si riferivano a un re, un papa, una chiesa internazionale e a Sion -
probabilmente significavano poco o nulla per Nilus. Sicuramente, non le avrebbe
inventate lui. Ma se erano presenti, Nilus, data la sua ignoranza, non avrebbe
avuto motivo di eliminarle. E se queste vestigia non erano pertinenti al giudaismo,
potevano esserlo a una società segreta. Come apprendemmo in seguito erano, e
sono tuttora, di estrema importanza per il Priorato di Sion.
L'Hiéron du Val
d'Or
Mentre proseguivamo la nostra ricerca indipendente, erano apparsi
nuovi « documenti del Priorato ». Alcuni - stampati privatamente , come i Dossiers
segreti, e destinati a una diffusione limitata - furono messi a nostra
disposizione grazie ai buoni uffici di vari amici in Francia o tramite la
Bibliothèque Nationale. Altri apparvero in libri appena pubblicati e messi per
la prima volta sul mercato.
Alcune di queste opere contenevano altre notizie sul tardo secolo
XIX, e specialmente su Berenger Saunière. Secondo uno di questi resoconti «
aggiornati », Saunière non scoprì per puro caso le fatidiche pergamene nella
sua chiesa. Al contrario, si afferma,
204
fu messo sulle loro tracce da emissari del Priorato di Sion, che
si recarono a trovarlo a Rennes-le-Chàteau e si servirono di lui come factotum.
Verso la fine del 1916, si aggiunge, Saunière sfidò gli emissari di Sion e si
mise in contrasto con loro.'10 Se questo è vero, la morte del curato
nel gennaio 1917 assume un aspetto molto più sinistro di quanto si ritenga di
solito. Dieci giorni prima di morire, Saunière era in ottima salute. Tuttavia, dieci
giorni prima della sua morte, fu ordinata una bara per lui. La ricevuta per la
bara, datata 13 gennaio 1917, è firmata dalla governante e confidente di Saunière,
Marie Denarnaud.
Una pubblicazione più recente del Priorato, e apparentemente più
autorevole, si dilunga sulla storia di Saunière e sembra confermare, almeno in
parte il racconto più sopra. Secondo questa pubblicazione, Saunière era poco
più di una pedina, e la parte che ebbe nel mistero di Rennes-le-Chàteau è stata
molto esagerata. La vera forza motrice degli eventi accaduti nel villaggio di
montagna sarebbe stato l'amico di Saunière, l'abate Henri Boudet, curato del
vicino villaggio di Rennes-les-Bains.41
Sarebbe stato Boudet a fornire a Saunière tutto il denaro, per un
totale di 13 milioni di franchi, fra il 1887 e il 1915. E sarebbe stato Boudet
a guidare Saunière nei suoi vari progetti: le opere pubbliche, la costruzione
di Villa Bethania e della Torre Magdala. Inoltre, sarebbe stato lui a
sovrintendere ai restauri della chiesa di Rennes-le-Chàteau e a ideare le
sconcertanti Stazioni della Via Crucis di Saunière: come una specie di versione
illustrata di un suo libro enigmatico.
Secondo questa recente pubblicazione del Priorato, Saunière
sarebbe rimasto sostanzialmente all'oscuro del vero segreto di cui era stato
custode, fino a quando Boudet, prossimo alla morte, glielo confidò nel marzo
del 1915. Secondo la stessa pubblicazione, Marie Denarnaud, la governante di
Saunière, era in realtà l'agente di Boudet. Era per suo tramite che Boudet
avrebbe trasmesso le istruzioni a Saunière. E tutto il denaro veniva pagato a
lei. O almeno, quasi tutto. Si afferma infatti che Boudet, tra il 1885 e il
1901, avrebbe pagato 7.655.250 franchi al vescovo di Carcassonne, l'uomo che
mandò a proprie spese Saunière a Parigi con le pergamene. Sembrerebbe che anche
il vescovo fosse quindi, in un certo senso, alle dipendenze di Boudet. E senza
dubbio una
205
situazione incongrua: un vescovo importante al servizio retribuito
di un umile parroco di campagna. E il parroco? Per chi lavorava Boudet? Quali
interessi rappresentava? Che cosa gli dava il potere di assicurarsi i servigi e
il silenzio del suo superiore ecclesiastico? E chi poteva avergli fornito
risorse finanziarie così enormi da dispensare con tanta prodigalità? Questi
interrogativi non trovano risposte esplicite: ma la risposta è continuamente
implicita: il Priorato diSion.
Una nuova luce sull'argomento venne gettata da un'altra opera
recente che, come quelle che l'avevano preceduta, sembrava attingere a « fonti
privilegiate » d'informazione. L'opera è Le trésor du triangle d'or (II
tesoro del triangolo d'oro) di Jean-Lue Chau-meil, pubblicata nel 1979. Secondo
Chaumeil, numerosi ecclesiastici coinvolti nell'enigma di Rennes-le-Chàteau -
Saunière, Boudet, molto probabilmente altri come Hoffet, lo zio di Hoffet a
Saint Sulpice e il vescovo di Carcassonne - erano affiliati a una forma di
massoneria di « Rito scozzese ». Questa massoneria, sostiene Chaumeil,
differiva da quasi tutte le altre forme perché era « cristiana, ermetica e
aristocratica ». Insomma, a differenza di tanti riti della massoneria, non
consisteva soprattutto di liberi pensatori e di atei. Al contrario, sembra che
fosse profondamente religiosa e orientata verso la magia, ed esaltasse una sacra
gerar-chia sociale e politica, un ordine divino, un piano cosmico fondamentale.
E i gradi superiori di questa massoneria, secondo Chaumeil, erano i gradi
inferiori del Priorato di Sion.42
Nelle nostre ricerche, avevamo già incontrato una massoneria come
quella descritta da Chaumeil. Anzi, la sua descrizione si potrebbe applicare al
« Rito scozzese » introdotto da Charles Radclyffe e dal suo gruppo. Tanto la
massoneria di Radclyffe quanto quella descritta da Chaumeil sarebbero state
accettabili, nonostante la condanna papale, per i devoti cattolici: tanto per i
giacobiti del XVIII secolo quanto per i preti francesi del XIX. In entrambi i
casi, Roma disapprovò, e con grande veemenza. Tuttavia i personaggi coinvolti,
sembra, non soltanto continuarono a considerarsi cristiani e cattolici, ma a
giudicare dagli indizi accessibili, avevano ricevuto una nuova, esaltante
trasfusione di fede: una trasfusione che permetteva loro, se mai, di
considerarsi più autenticamente cristiani del papato.
206
Sebbene Chaumeil sia vago ed evasivo, fa capire chiaramente che
negli anni precedenti al 1914 la massoneria di cui facevano parte Boudet e
Saunière si fuse con un'altra istituzione esoterica: un'istituzione che
potrebbe spiegare gli strani riferimenti a un sovrano contenuti nei Protocolli
degli anziani di Sion, soprattutto se, come accenna Chaumeil, il vero
potere che stava dietro a questa seconda istituzione era sempre il Priorato di
Sion.
L'istituzione si chiamava l'Hiéron du Val d'Or, che sembrerebbe
un anagramma di un sito che ricorre spesso nella nostra storia: Orval.43
L' Hiéron du Val d'Or era una specie di società segreta fondata, sembra, nel
1873. A quanto pare, aveva molte cose in comune con altre organizzazioni
esoteriche di quel tempo. Ad esempio, c'era il caratteristico risalto
attribuito alla geometria sacra e a vari luoghi sacri. C'era una particolare
insistenza sulla verità mistica o gnostica alla base dei motivi mitologici.
C'era un interesse per le origini degli uomini, delle razze, delle lingue e dei
simboli, come nella teosofia. E come molte altre sette e società del tempo,
l'Hiéron du Val d'Or era simultaneamente cristiano e « transcristiano ».
Esaltava l'importanza del Sacro cuore, ad esempio, tuttavia collegava il Sacro
cuore ad altri simboli precristiani. Come avrebbe fatto il leggendario Ormus,
cercava di conciliare i misteri pagani e cristiani. E attribuiva una speciale
importanza al pensiero druidico che, come molti esperti moderni, riteneva
parzialmente pitagorico. Tutti questi temi sono adombrati nell'opera pubblicata
dell'amico di Saunière, l'abate Henri Boudet.
Ai fini della nostra indagine, l'Hiéron du Val d'Or risultò interessante,
grazie alla formulazione di ciò che Chaumeil chiama « una geopolitica esoterica
»eun« ordine mondiale etnarchico ». Tradotto in linguaggio più semplice, questo
comportava in pratica la fondazione di un nuovo Sacro romano impero nell'Europa
del XIX secolo: un Sacro romano impero rivitalizzato e ricostruito, uno Stato
laico che unificasse tutti i popoli e avesse fondamenta spirituali più che
sociali, politiche o economiche. A differenza del primo, questo nuovo Sacro
romano impero sarebbe stato autenticamente « sacro », autenticamente « romano
» e autenticamente « imperiale », anche se il significato specifico di questi
termini sarebbe stato radicalmente diverso dal significato accettato dalla
207
tradizione convenzionale. Questo Stato avrebbe realizzato il sogno
antichissimo di un « regno celeste » sulla terra, una copia o immagine
speculare dell'ordine, dell'armonia e della gerarchia del cosmo. Avrebbe
realizzato l'antica premessa ermetica « Come lassù, così quaggiù ». E non era
neppure una concezione del tutto ingenua o utopistica. Al contrario, era almeno
lontanamente realizzabile nel contesto dell'Europa alla fine del XIX secolo.
Secondo Chaumeil, gli obiettivi dello Hiéron du Val d'Or erano:
una teocrazia nel cui ambito le nazioni non sarebbero state altro
che province, e i loro dirigenti non sarebbero stati altro che proconsoli al
servizio di un governo mondiale occulto formato da un'elite. Per l'Europa, il
regime del Grande re comportava una duplice egemonia del papato e dell'impero,
del Vaticano e degli Asburgo, che sarebbero stati il braccio destro del
Vaticano.44
Nel XIX secolo, naturalmente, gli Asburgo erano ormai sinonimi
della casa di Lorena. Il concetto di un « Grande re » avrebbe così costituito
la realizzazione delle profezie di Nostradamus. Inoltre, avrebbe concretato,
almeno in un certo senso, il programma monarchico delineato nei Protocolli
degli anziani di Sion. Nel contempo, la realizzazione di un disegno tanto
grandioso avrebbe comportato numerosi cambiamenti nelle istituzioni esistenti.
Il Vaticano, ad esempio, sarebbe stato presumibilmente molto diverso da quello
ubicato in Roma. E gli Asburgo sarebbero stati più che imperiali capi di Stato.
Sarebbero divenuti, in effetti, una dinastia di re-sacerdoti, come i faraoni
dell'antico Egitto. O come il Messia atteso dagli Ebrei agli albori dell'era
cristiana.
Chaumeil non chiarisce se e come gli Asburgo fossero coinvolti
attivamente in questi ambiziosi disegni clandestini. Tuttavia, vi sono
moltissimi indizi, inclusa la visita di un arciduca asburgico a
Rennes-le-Chàteau, che sembrano attestare almeno una certa partecipazione. Ma,
quali che fossero i piani in preparazione, erano destinati a essere sventati
dalla Prima guerra mondiale che, tra l'altro, rovesciò gli Asburgo.
Come li spiegava Chaumeil, gli obiettivi dello Hiéron du Val d'Or
- o del Priorato di Sion - avevano un certo senso logico nel contesto di ciò
che noi avevamo scoperto. Gettavano nuova luce sui Protocolli degli anziani
di Sion. Concordavano con i fini dichia-
208
rati di varie società segrete, incluse quelle di Charles Radclyffe
e di Charles Nodier. E soprattutto erano conformi alle aspirazioni politiche
che, nel corso dei secoli, noi avevamo osservato nella casa di Lorena.
Ma se gli obiettivi dello Hiéron du Val d'Or avevano un senso
logico, non avevano nessun senso politico pratico. Su quale base, ci
chiedevamo, gli Asburgo avrebbero rivendicato il diritto di essere una dinastia
di re-sacerdoti? A meno di ottenere un travolgente appoggio popolare, non
avrebbero potuto asserire un tale diritto contro il governo repubblicano della
Francia, per non parlare poi delle dinastie imperiali allora regnanti in
Russia, Germania e Gran Bretagna. E come sarebbe stato possibile ottenere
l'indispensabile appoggio popolare?
Nel contesto delle realtà politiche del XIX secolo, un disegno del
genere, per quanto coerente dal punto di vista logico, ci sembrava
effettivamente assurdo. Forse, concludemmo, avevamo male interpretato lo Hiéron
du Val d'Or. O forse i membri dello Hiéron du Val d'Or erano matti.
In attesa di procurarci ulteriori informazioni, non potevamo far
altro che accantonare la cosa. Nel frattempo, rivolgemmo l'attenzione al
presente, per accertare se il Priorato di Sion esisteva ancora. Come scoprimmo
molto presto, esisteva. I suoi membri non erano matti, e nel XX secolo, dopo
due guerre mondiali, perseguivano ancora un programma sostanzialmente simile a
quello perseguito nel secolo precedente dallo Hiéron du Val d'Or.
Note
1 Lobineau, H., Dossiers secrets, planche
n. 4, Ordre de Sion.
2 De Sède, Les Templiers, pp. 220 sgg. Per
l'episodio di Lhomoy, cfr. de Sède, pp. 20 sgg. e 231 sgg. Cfr. inoltre Chaumeil, Trjangle d'or, pp.
19 sgg.
3 Le Maire, Histoire et Antiquitez, parte
2, cap. XXVI, pp. 96 sgg.
4 Fu il cardinale di Lorena a ispirare
l'amnistia concessa agli Ugonotti ad Amboise il 7 marzo 1560. Inoltre, il
cardinale forniva segretamente somme di denaro a certi gruppi protestanti.
5 Fu con Renato d'Angiò che la doppia croce
venne associata alla casa di Lorena. Renato aveva adottato questa croce come
suo emblema e la usava sui sigilli e sulle
209
monete. La popolarità della
croce risale al tempo in cui venne usata da Renato II, duca di Lorena, nella
battaglia di Nancy nel 1477. Cfr.
Marot, Le symbolisme, pp. 1 sgg-
6 Nostradamus frequentava
ambienti legati alla casa di Lorena. Visse per alcuni anni ad Agen, e a quel
tempo Giovanni di Lorena era vescovo di Agen e presiedeva all'Inquisizione in
Francia. Le ricerche indicano che Nostradamus fu preavvertito dell'interesse
dell'Inquisizione nei suoi confronti, e tutti i fattori inducono a supporre che
a informarlo fosse stato Giovanni, cardinale di Lorena. Inoltre Scaliger,
l'amico di Nostradamus ad Agen, era anche amico del cardinale, e conosceva bene
Giulio Camillo, ermetista e creatore del « Teatro della Memoria » (cfr. Yates, Art
of Memory, cap. 6). Il cardinale di Lorena conosceva Camillo. Inoltre, due
poeti di corte, Pierre de Ronsard e Jean Dorat, erano amici di Nostradamus.
Ronsard scrisse diverse poesie in lode di Nostradamus e del cardinale. Il
cardinale finanziava entrambi i poeti. Fu Jean Dorat che mandò Jean-Aimé de
Chavigny presso Nostradamus come segretario. Molte delle ricerche al riguardo
sono presentate nel romanzo The Dreamer of thè Vine di Liz Greene
(London 1979).
7 La quartina V: 74, ad esempio, si riferisce
probabilmente a Carlo Martello che respinge i Saraceni e li sconfigge nella
battaglia di Poitiers, nel 732. La quartina III: 83 può alludere ai
lungichiomati re merovingi che presero il regno d'Aqui-tania dopo il 507. Molte
quartine menzionano il Rases, che sembra essere un gioco di parole
sulla zona del Razés e sui conti esiliati, i « rasati », discendenti dei
Merovingi.
8 De Sède, La racefabuleuse, pp. 106
sgg. La credibilità di de Sède, in questo libro, è alquanto inficiata
dall'asserzione che i Merovingi erano extraterrestri! In un colloquio, gli fu
chiesto quale fosse la fonte della sua affermazione, secondo la quale
Nostradamus trascorse qualche tempo a Orval. Rispose che un certo Eric Muraise
aveva un manoscritto che lo provava, e che l'aveva visto personalmente.
Interrogammo alcuni monaci
dell'abbazia di Orval circa la possibilità che Nostradamus vi avesse
soggiornato. Scrollarono le spalle e risposero che quella era la tradizione, ma
non avevano nessun documento che potesse confermarlo o confutarlo. Era
possibile, disse uno di loro in tono rassegnato.
' Allier, La cabale, pp.
99 sgg. L'autore afferma che fu la Compagnia a consigliare a Oher di fondare
Saint Sulpice.
10 Allier, op. cit.,p. 33.
11 Auguste, La Compagnie... à Toulouse, pp.
20 sgg.
12 Allier, op. cit.,p. 33.
13 Lobineau, H., Dossiers secrets, planche
n. 1, 1100-1600, planche n. 19, 1800-1900.
14 Sainte-Marie, Recherches historiques, p.
243.
15 Soultrait (a cura di), Dictionnaire
topographiques... de la Nièvre, pp. 8, 146. Il villaggio di Les
Plantards era situato presso Sémelay, dove nacque poi Jean XXII des Plantard.
210
16 Cfr. « Bulletin de la société nivernais des
lettres, sciences et arts », 2eme sèrie, tome VII (1876), pp.
110,139,140-1,307. Cfr. inoltre Chaumeil, Triangle d'or, pp. 80 sgg. e le
illustrazioni delle monete scoperte sul luogo.
17 Questi sono esémpi dei fattori che hanno
indotto gli autori successivi a considerare Fouqùet come il candidato più
verosimile al ruolo della Maschera di ferro. Esistono molti indizi convincenti
che suffragano questa ipotesi.
18 Blunt, Poussin, voi. I, p. 170.
19 II quadro è illustrato in Ward, Freemasonry
and theAncient Gods, di fronte a p. 134. E di proprietà del Supreme Grand
Royal Arch Chapter of Scotland, Edin-burgh. ' '
20 Delaude, Cercle d'Ulysse, p. 3
21 Gout, Mont-Saint-Michel, pp. 141 sgg.
Robert de Torigny! abate dal 1154 al 1186, scrisse circa 140
volumi, molti dei quali dedicati alla storia della regione. Sotto di lui il
numero dei monaci nell'abbazia raddoppiò, e Mont-Saint-Michel divenne un «
santuario della scienza ». Robert era amico intimo tanto di Enrico II quanto di
Becket, e dati i loro stretti rapporti con il Priorato di Sion, i Templari e
Gisors, sarebbe sorprendente che Robert non sapesse qualcosa. Se la famiglia
Plantard usava veramente il motto come viene indicato, sarebbe logico
attendersi che Robert lo avesse registrato, dato che non soltanto sembra che i
Plantard risiedessero in Bretagna a quel tempo, ma Jean VI des Plantard sposò
nel 1156 (secondo Henri Lobineau) Moine de Gisors, sorella di Jean de Gisors,
nono Gran maestro dell'Ordine di Sion, fondatore dell'Ordine della Rosacroce.
La storia ricorda Idoine, ma non suo marito, quindi non ci è stato possibile
scoprire quale titolo portasse nel XII secolo la famiglia Plantard.
Non riuscimmo a trovare
nessuna menzione della famiglia Plantard, né tracce delle ricerche genealogiche
di Robert. I suoi manoscritti sono andati dispersi, ma ne esistono elenchi
sebbene nessuno includa, a quanto sembra, materiale genealogico. In seguito ci
fu detto che il manoscritto in questione si trovava negli archivi « privati »
di Saint Sulpice a Parigi. Non è certo una conclusione soddisfacente per questa
indagine.
22 Myriam, « Les bergers d'Arcadie », in « Le
Charivari », n. 18, pp. 49 sgg.
23 Thory, Acta Latomorum, voi. 2, pp. 15
sgg. Gould, History of Freemasonry, voi. 2, p. 383.
2«
Erdeswìvk, A Survey of Staffordshire, p. 189.
23
Peyrefitte, « La Lettre Secrète », pp. 197 sgg. La lettera in
questione era allegata a una Bolla di scomunica emanata dal papa il 28 aprile
1738.
26 II
Rito orientale di Memphis apparve per la prima volta nel 1838, quando Jacques
Etienne Marconis de Nègre fondò la Grande loggia Osiris a Bruxelles. La
leggenda alla base del Rito affermava che il Rito stesso discendeva dai misteri
dionisiaci ed egizi. Il saggio Ormus avrebbe fuso questi misteri con il
cristianesimo, creando la prima Rosacroce. II Rito orientale di Memphis era un
sistema con novantasette gradi, e comprendeva titoli altisonanti come
Comandante del Triangolo luminoso, Sublime principe del Mistero reale, Sublime
pastore dell'Hutz,
21!
Dottore dei Planisferi, ecc.
Cfr. Waite, New Encyclopaedia ofFreemasonry, voi. 2, pp. 241 sgg. Il
Rito fu successivamente ridotto a trentatré gradi e prese il nome di Rito
antico e primitivo. Fu poi introdotto negli Stati Uniti intorno al 1845-6
da H. J. Seymour, e in Inghilterra nel 1872 da John Yarker. In seguito fu
associato all'Ordo Templi Orientis. La pubblicazione del Rito di Memphis, VOriflamme,
faceva propaganda all'O.T.O. Nel 1875 il Rito si fuse con il Rito
diMisraim. In History of thè Antìent and Primitive Rite of Memphis (London
1875), si afferma che il Rito di Memphis deriva da quello dei Filadelfi di
Narbona, fondato nel 1779.
27 Cfr. inoltre Genesi (28:18), dove Giacobbe
unge una colonna di pietra.
28 Pitois, bibliotecario del Ministero della
Pubblica istruzione, ebbe l'incarico di esaminare e suddividere tutti i libri
provenienti dai monasteri e dalle biblioteche provinciali portati a Parigi.
Pitois e Charles Nodier li studiarono e dichiararono che ogni giorno avevano
avuto modo di fare scoperte interessanti.
29 Jean-BaptisteHogan.
30 È possibile che la dottrina dell'infallibilità
del papa, formulata ufficialmente per la prima volta il 18 luglio 1870, facesse
parte della reazione della Chiesa di Roma alle tendenze moderniste, oltre che
al pensiero darwiniano e alla crescente potenza continentale della Prussia
luterana.
31 Iremonger, William Temple, p. 490.
32 Una breve biografia di Hoffet è contenuta in
Descadeillas, Mythologie, pp. 85 sgg. Hoffet nacque a Schiltingheim, in
Alsazia, l'I 1 maggio 1873. Nel 1884 iniziò gli studi a Parigi presso la
Maìtrise de Montmartre, e in seguito li continuò presso il Petit Séminaire de
Notre-Dame de Sion, dove si preparò alla carriera ecclesiastica. Incominciò il
noviziato a Saint-Gerlach in Olanda, ed entrò nell'ordine religioso degli Oblats
de Marie nel 1892. Fu ordinato sacerdote a Liegi nel 1898. Fu quindi
missionario, prima in Corsica e poi di nuovo in Francia. Nel 1903-4 fu a Roma.
Tornò a stabilirsi a Parigi nel 1914, e vi morì nel marzo 1946. Fu uno
scrittore prolifico e collaborò soprattutto a riviste specializzate nella
storia religiosa. Era un linguista e conosceva perfettamente il greco,
l'ebraico e il sanscrito. De Sède, Le vrai dossier, pp. 33 sgg.,
riferisce che Descadeillas, pur ridicolizzando in pubblico l'idea di un «
mistero » di Rennes, nel 1966 scrisse ai superiori degli Oblats de Marie per
chiedere se c'erano prove che Hoffet avesse predicato a Rennes-le-Chàteau. Come
riferisce de Sède, l'archivista dell'Ordine di Hoffet scrisse: « Hoffet è
autore di alcune opere interessantissime sulla massoneria, che aveva studiato
con particolare attenzione, e io ho ritrovato numerosi suoi manoscritti... Ho
disposto perché questi documenti tanto interessanti venissero messi al sicuro
». Cfr. inoltre Chaumeil, Triangle d'or, pp. 106 sgg.
33 Papus nacque in Spagna il 13 luglio 1865. Nel
1887 entrò nell'Associazione teosofica, ma nel 1888 l'abbandonò per formare il
suo gruppo, basato sui principii martinisti. Nello stesso anno fu uno dei
membri fondatori dell'Ordre Kabbalistic de la Rose-Croix, insieme a
Péladan e Stanislas de Guaita. Nel 1889, con questi ultimi e Villers de
l'Isle-Adams, fondò la rivista « L'Initiation ». Nel 1891 si formò a Parigi un
« consiglio supremo » dell'ordine martinista, con Papus come Gran maestro. Più
o meno nello stesso periodo, Papus aiutò Doinel a fondare la Chiesa
212
cattolica gnostica. Nel 1895
Doinel si ritirò, lasciando la chiesa alle cure di Papus e di altri due, sotto
la giurisdizione di un patriarca; quindi si trasferì a Carcassonne. Lo stesso
anno Papus entrò nell'Ordine della Golden Dawn, nella loggia parigina Ahatiioor.
Tra il 1890 e il 1900 Papus fu amico di Emma Calve. Nel 1899 uno dei suoi
amici più intimi, Philippe de Lyon, si recò in Russia e fondò una loggia
martinista alla corte imperiale. Nel 1900 anche Papus si recò a Pietroburgo,
dove diventò confidente dello zar e della zarina. Visitò la Russia almeno altre
tre volte; l'ultima fu nel 1906. Conobbe anche Rasputin.
Più tardi, Papus divenne
Gran maestro, in Francia, dell'Ordo Templi Orientis della Loggia di Memphis e
Misraim. Morì il 25 ottobre 1916.
34 Nilus, Protocols. Negli anni
Sessanta, quest'opera aveva già avuto ben ottanta-tré edizioni, e questo
indicherebbe che l'antisemitismo è molto diffuso in Gran Bretagna. La casa
editrice, Briton Publishing (che ora è stata incorporata dall'Au-gustine
Publishing, cattolica tradizionalista) aveva in catalogo anche titoli come Jews'
Rilual Slaughter (Gli omicidi rituali degli Ebrei) e Jews and thè White
Slave Traffic (Gli Ebrei e la tratta delle bianche).
35 Per la storia dei Protocolli, cfr. Cohn, Warrantfor
Genocide, e Bernstein, Trulli about « The Protocols», che
riproduce integralmente le traduzioni delle varie possibili fonti dei
Protocolli. La storia antisemita è esposta dettagliatamente in Fry, Waters
Flowing Eastward, un documento controverso da ogni punto di vista. Fra le
altre cose, pubblica una fotografia che « prova » come lo zar Nicola II sarebbe
stato assassinato in un omicidio rituale da un cabalista ebreo! Vedere
pubblicato ancora nel 1965 questo tipo di letteratura è sconcertante.
36 Nilus, Protocols, n. 13.
37 Loggia di Memphis e Misraim. Cfr. nota 33 di
questo capitolo.
38 Nilus, Protocols n. 24. Questa
affermazione non appare in alcune precedenti edizioni dei Protocolli.
39 Nilus, Protocols, n. 24.
40 Blancasall, Les descendants, p. 6.
41 Cfr. la prefazione di Pierre Plantard de
Saint-Clair nella ristampa, fatta nel 1978 da Belfond, di Boudet, La vraie
langue celtique.
42 Chaumeil, Triangle d'or, p. 136.
43 Cfr. Rosnay, Le Hiéron du Val d'Or.
44 Chaumeil, Triangle d'or, pp. 139 sgg.
213
Vili
La società segreta oggi
II « Journal Officiel » francese è una pubblicazione settimanale
governativa nella quale devono dichiararsi tutti i gruppi, le società e le
organizzazioni del paese. Nel « Journal Officiel » della settimana del 20
luglio 1956 (numero 167) c'è questa registrazione:
25 juin 1956.
Déclaration à la sour-préfecture de Saint-Julien-en-Genevois. Prieuré de Sion.
But: études et entr'aide des membres. Siège social: Sous-Cassan, Annemasse
(Haute Savoie).
(25 giugno 1956. Dichiarazione alla sottoprefettura di
Saint-Julien-en-Genevois. Priorato di Sion. Finalità: studi e mutua assistenza
tra i soci. Sede sociale: Sous-Cassan, Annemasse, Alta Savoia.)
Il Priorato di Sion era ufficialmente registrato presso la
polizia. Comunque, sembrava la prova definitiva della sua esistenza nel nostro
tempo: anche se ci pareva un po' strano che una presunta società segreta si
mettesse in mostra. Ma forse non era poi tanto strano. Il Priorato di Sion non
figurava in nessun elenco telefonico della Francia. L'indirizzo era troppo vago
per permetterci di identificare con precisione un ufficio, una casa, un
edificio, o almeno una via. E alla sottoprefettura, quando telefonammo, non ci
furono di grande aiuto. C'erano state molte richieste d'informazioni, dissero
in tono stanco e rassegnato. Ma non erano in grado di dire altro. A quanto
risultava a loro, l'indirizzo non era rintracciabile. Questo ci indusse a
riflettere. Fra le altre cose, ci chiedemmo com'era possibile che certi
individui fossero riusciti a registrare presso la polizia un indirizzo fittizio
o inesistente e poi, apparentemente, a sottrarsi alle conseguenze del loro
operato. La polizia era
214
davvero indifferente e noncurante come sembrava? Oppure Sion, in
un modo o nell'altro, s'era assicurato la sua collaboraziozne e la sua
discrezione?
Su nostra richiesta, la sottoprefettura ci fornì una copia del
presunto statuto del Priorato di Sion. Il documento, che consisteva di ventun
articoli, non era né misterioso né particolarmente illuminante. Ad esempio, non
chiariva le finalità dell'Ordine. Non forniva indicazioni sull'eventuale
influenza di Sion, sui suoi iscritti o sulle sue risorse. Nel complesso era
piuttosto anodino, e nello stesso tempo ingigantiva le nostre perplessità. A un
certo punto, ad esempio, lo statuto affermava che l'ammissione all'Ordine non
era condizionata dalla lingua, l'origine sociale, l'ideologia politica o di
classe. In un altro punto dichiarava che tutti i cattolici oltre i ventun anni
potevano essere candidati. Per la verità, in generale lo statuto sembrava
emanato di un'istituzione fervidamente cattolica. Eppure i presunti Gran
maestri di Sion e la sua storia, come eravamo riusciti a ricostruirla, non
davano certo prova di un cattolicesimo ortodosso. E del resto anche i moderni «
documenti del Priorato », molti dei quali erano stati pubblicati contemporaneamente
allo statuto, avevano un orientamento non tanto cattolico quanto ermetico o
addirittura gnostico. La contraddizione sembrava priva di senso, a meno che
Sion, come i Templari e la Compagnia del Santo Sacramento, richiedesse
l'adesione al cattolicesimo come requisito esoterico, che poi veniva trasceso
in seno all'Ordine. Comunque Sion, come il Tempio e la Compagnia del Santo
Sacramento, esigeva apparentemente un'obbedienza che, nel suo carattere
assoluto, comprendeva tutti gli altri impegni laici o spirituali. Secondo
l'articolo VII dello statuto, « II cadidato deve rinunciare alla propria
personalità per dedicarsi a un alto apostolato morale ».
Lo statuto dichiara inoltre che Sion ha come sottotitolo «
Che-valerie d'institutions et règles catholiques, d'union indépendante et
traditionaliste » (Cavalleria di istituzioni e regole cattoliche dell'unione
indipendente e tradizionalista). La sigla è CIRCUIT,1 la testata di
una rivista che, secondo lo statuto, viene pubblicata dall'Ordine e distribuita
agli iscritti.
L'informazione forse più interessante contenuta nello statuto è
che dopo il 1956 il numero degli aderenti al Priorato di Sion
215
sarebbe quasi quintuplicato.
Secondo una pagina riprodotta nei Dossìers segreti e stampata prima del
1956, Sion aveva in totale 1093 membri, ripartiti in sette gradi. La struttura
era tradizionale, a piramide. Alla sommità c'era il Gran maestro o « Nautonnier
». C'erano tre persone nel grado a lui inferiore (« Prince Noachite de Notre
Dame »), nove in quello successivo (« Croisé de Saint-Jean »). Ogni grado, in
ordine discendente, contava un numero di persone tre volte superiore a quello
precedente: 27,81,243,729.1 tre gradi più alti - il Gran maestro e i dodici
subordinati immediati - costituivano i tredici « Rose-croix ». Naturalmente,
questo numero poteva alludere simbolicamente a qualunque cosa, da una congrega
satanica a Gesù e i suoi dodici discepoli.
Secondo la statuto
post-1956, Sion aveva un totale di 9841 membri, suddivisi non già in sette
gradi, bensì in nove. Sembra che la struttura fosse rimasta sostanzialmente la
stessa, anche se appariva più chiara, e due nuovi gradi erano stati introdotti
alla base della gerarchla, isolando ancora di più la leadership dietro una più
vasta rete di novizi. Il Gran maestro conservava il titolo di « Nautonnier ».
I tre « Princes Noachites de Notre Dame » erano semplicemente « Siniscalchi ».
I nove « Croisés de Saint-Jean » venivano chiamati « Connestabili ».
L'organizzazione dell'Ordine, nel gergo enigmatico e altisonante dello statuto,
era la seguente:
L'assemblea generale è
composta da tutti i membri dell'associazione. Consiste di 729 province, 27 commanderies
e un'Arca designata come « Kyria ».
Ognuna delle commanderies,
come pure l'Arca, deve consistere di quaranta membri, ogni provincia di
tredici membri.
I membri sono divisi in due
gruppi effettivi:
a) La Légion, incaricata dell'apostolato.
b) La Phalange, custode della Tradizione.
I membri formano una
gerarchia di nove gradi. La gerarchia di nove gradi consiste di:
a) nelle 729 province
1. Novices: 6561 membri
2. Croisés: 2187 membri
b) nelle 27 commanderies
3. Preux: 729 membri
4. Ecuyers: 243 membri
5. Chevaliers: 81
membri
216
6. Commandeurs: 27 membri e) nell'Arca «
Kyria »
7. Connétables: 9 membri
8. Sénéchaux: 3 membri
9. Nautonnier:
1 membro 2
Apparentemente a fini ufficiali, burocratici e legali, quattro
individui erano elencati come facenti parte del « consiglio ». Tre dei nomi ci
erano sconosciuti, e forse erano pseudonimi: Andre Bonhomme, nato il 7 dicembre
1934, presidente; Jean Deleaval, nato il 7 marzo 1931, vicepresidente; Armand
Defagot, nato l'I 1 dicembre 1928, tesoriere. Ma c'era un nome che avevamo già
incontrato: Pierre Plantard, nato il 18 marzo 1920, segretario generale.
Secondo le ricerche di un altro autore, il titolo ufficiale di Monsieur Plantard
era segretario generale del Dipartimento documentazione: il che sottintende,
ovviamente, che vi sono anche altri dipartimenti.
Alain Poher
All'inizio degli anni Settanta il Priorato di Sion era diventato
una modesta cause célèbre in certi ambienti francesi. Se ne parlava in
numerosi articoli su varie riviste e su alcuni giornali. Il 13 febbraio
1973, il « Midi Libre » pubblicò un lungo servizio su Sion,
Sauniè-re e il mistero di Rennes-le-Chàteau. Il servizio collegava specificamente
Sion a una possibile sopravvivenza della stirpe merovingia fino al XX secolo.
Inoltre affermava che tra i discendenti Merovingi era incluso un « vero
pretendente al trono di Francia » e lo identificava come Alain Poher.3
Sebbene non sia molto noto all'estero, Alain Poher era (ed è
tuttora) un personaggio ben conosciuto in Francia. Durante la Seconda guerra
mondiale meritò la Medaglia della Resistenza e la Croce di guerra. Dopo le
dimissioni di de Gaulle, fu presidente provvisorio della Francia dal 28 aprile
al 19 giugno 1969. E lo fu di nuovo alla morte di Georges Pompidou, dal 2
aprile al 27 maggio
1974. Nel 1973, quando uscì
il servizio sul « Midi Libre », Poher era presidente del Senato francese.
A quanto ci risulta, Poher non ha mai fatto dichiarazioni di
217
nessun genere sui suoi presunti legami con il Priorato di Sion e
con la stirpe merovingia. Tuttavia, nelle genealogie incluse nei « documenti
del Priorato », viene menzionato Arnaud, conte di Poher che, tra l'894 e l'896,
sposò una dama della famiglia dei Plantard, i presunti discendenti diretti di
Dagoberto II. Il nipote di Arnaud de Poher, Alain, divenne duca di Bretagna nel
937. Indipendentemente dal fatto che l'attuale Alain Poher riconosca o no
Sion, sembra quindi chiaro che Sion riconosce lui, almeno come discendente dei
Merovingi.
Il Re Perduto
Nel frattempo, mentre proseguivano le nostre ricerche e i
mass-media francesi dedicavano periodicamente la loro attenzione all'intera
vicenda, continuavano ad apparire nuovi « documenti del Priorato ». Come in
precedenza, alcuni apparivano come libri, altri come opuscoli o articoli
pubblicati privatamente e depositati presso la Bibliothèque Nationale. E
contribuivano a -infittire il mistero. Era evidente che qualcuno forniva quel
materiale, ma il vero scopo restava oscuro. A volte eravamo tentati di
considerare l'intero caso come uno scherzo complesso, un falso di proporzioni
colossali. Ma se era così, era un falso che sembrava durare da secoli: e se c'è
chi investe tanto tempo, tante energie e risorse in un falso, si può davvero
parlare di falso? L'intero intrico dei « documenti del Priorato » appariva non
come1 uno scherzo ma come un'opera d'arte, uno sfoggio di
ingegnosità, suspense, genialità, conoscenze storiche e complessità
architettoniche degno, poniamo, di James Joyce. E anche se Finnegans Wake può
essere considerato una sorta di scherzo, non c'è dubbio che il suo creatore la
prendesse molto sul serio.
È importante osservare che i « documenti del Priorato » non
costituivano una tipica moda sbocciata in un'industria lucrosa, con tanto di
seguiti, antefatti e altre derivazioni. Non si poteva paragonarli, ad esempio,
ai Carri degli Dei di von Daniken, ai vari libri sul Triangolo delle
Bermude o alle opere di Carlos Castaneda. Qualunque fosse il movente dei «
documenti del Priorato », evidentemente non era il lucro. Anzi, il denaro
sembrava soltanto un fattore accidentale, se pure era un fattore. Anche se,
apparsi in
218
volume, sarebbero stati estremamente redditizi, i « documenti del
Priorato » più importanti non erano pubblicati in questa forma. Nonostante il
loro potenziale commerciale, erano circoscritti a pubblicazioni private,
edizioni limitate, e venivano depositati con molta discrezione presso la
Bibliothèque Nationale, dove non sempre risultavano disponibili. E le
informazioni che apparivano nei libri non erano casuali o arbitrarie, e per la
maggior parte non erano opera di ricercatori indipendenti. Quasi tutto il
materiale sembrava provenire da un'unica fonte, ed era basato sulla testimonianza
di informatori che misuravano con il contagocce le nuove rivelazioni secondo un
piano prestabilito. Ogni nuovo frammento apportava almeno una modifica,
aggiungeva un altro pezzo al rompicapo complessivo. Molti di questi frammenti
apparivano sotto nomi diversi. Si aveva così l'impressione superficiale che
esistesse una schiera di autori, ognuno dei quali confermava e suffragava gli
altri.
Ci sembrava che questo modo di procedere avesse una sola
motivazione plausibile: attirare l'attenzione del pubblico su certe cose,
dimostrare le credibilità, destare interesse, creare un'atmosfera psicologica
che induceva la gente ad attendere con il fiato sospeso nuove rivelazioni.
Insomma, i « documenti del Priorato » sembrano studiati apposta per « spianare
la strada » a una rivelazione sensazionale. Qualunque potesse essere, alla
fine, tale rivelazione, sembrava rendere necessario un lungo processo di preparazione
nei confronti dell'opinione pubblica. E in ogni caso, doveva riguardare in un
modo o nell'altro la dinastia merovingia, la perpetuazione di quella stirpe
dinastica fino ai giorni nostri e una sovranità clandestina. Ad esempio, in un
articolo apparso su una rivista e scritto in apparenza da un membro del
Priorato di Sion, trovammo questa affermazione: « Senza i Merovingi, il
Priorato di Sion non esisterebbe, e senza il Priorato di Sion la dinastia
merovingia sarebbe estinta ». La relazione fra l'Ordine e la stirpe viene in
parte chiarita e in parte ulteriormente confusa da questa elaborazione:
II Re è nel contempo pastore. Talvolta egli invia qualche
geniale ambasciatore al suo vassallo al potere, il suo factotum, che ha la
fortuna d'essere soggetto alla morte. Così Renato d'Angiò, il connestabile di
Borbone, Nicolas Fouquet... e numerosi altri, la cui sorprendente fortuna fu
seguita
219
da un'inspiegabile
sventura... poiché questi emissari sono nel contempo terribili e vulnerabili.
Custodi di un segreto, si può soltanto esaltarli o annientarli. Ecco quindi
personaggi come Gilles de Rais [il « Barbablù » storico], Leonardo da Vinci,
Giuseppe Balsamo, i duchi di Nevers e Gonzaga, la cui ascendenza è circondata
da un profumo di magia nel quale lo zolfo si mescola all'incenso: il profumo
della Maddalena.
Se re Carlo VII,
all'ingresso di Giovanna d'Arco nella grande sala del suo castello di Chinon,
si nascose tra la folla dei cortigiani, non lo fece per un gioco frivolo - che
ci sarebbe stato di divertente? - bensì perché già sapeva di chi ella era
ambasciatrice. E sapeva che, dinnanzi a lei, era poco più di un cortigiano tra
i tanti. Il segreto che ella gli rivelò in privato era contenuto in queste
parole:* Dolce signore, io vengo in nome del Re ».4
Le implicazioni di questo brano sono provocatorie e affascinanti.
Una è che il Re - il « Re Perduto », presumibilmente della stirpe dei Merovingi
- continua in pratica a regnare, solo in virtù di ciò che è. Un'altra
implicazione, forse ancora più sorprendente, è che i sovrani temporali sanno
della sua esistenza, Io riconoscono, lo rispettano e lo temono. Una terza
implicazione è che il Gran maestro del Priorato di Sion, o qualche altro membro
dell'Ordine, funge da ambasciatore tra il « Re Perduto » e i suoi sostituti
temporali. E questi ambasciatori, sembrerebbe, sono considerati sacrificabili.
Strani testi conservati
nella Bibliothèque Nationale di Parigi
Nel 1966 ebbe luogo uno strano scambio di lettere a proposito
della morte di Leo Schidlof, l'uomo che, si affermava a quel tempo, aveva
compilato con lo pseudonimo di Henri Lobineau le genealogie contenute in alcuni
« documenti del Priorato ». La prima lettera, che fu pubblicata sul «
Settimanale cattolico di Ginevra », porta la data del 22 ottobre 1966. È
firmata da un certo Lionel Burrus, che afferma di parlare a nome di
un'organizzazione chiamata Gioventù cristiana svizzera. Burrus annuncia che
Leo Schidlof, alias Henri Lobineau, è morto a Vienna la settimana prima, il 17
ottobre. Quindi passa a difendere il defunto da una calunnia che, dice, è
apparsa in un recente bollettino cattolico. Burrus esprime la sua indignazione
per l'attacco. Fa l'elogio di Schidlof e dichiara che questi, sotto il nome di
Henri Lobineau, aveva compilato nel 1956 « un notevolissimo studio...sulla
genea-
220
logia dei re merovingi e il mistero di Rennes-le-CMteau ».
Il Vaticano, asserisce Burrus, non aveva osato calunniare Schidlof
finché questi era vivo, sebbene avesse un esauriente dossier su di lui e sulle
sue attività. Ma anche ora, nonostante la sua morte* gli interessi dei
Merovingi continuano a essere difesi. Per provare questa affermazione; .Burrus
sconfina nell'assurdo. Cita quello che nel 1966 era l'emblemadell'Antar,
unadelle.maggiorisocietà petrolifere francesi. Questo emblema, dice, include
uno stemma merovingio e raffigura, sia pure nello stile dei cartoni animati, un
re merovingio. Secondo Burrus, l'emblema dimostra che la propaganda a favore
dei Merovingi continua con efficacia e che il clero francese - aggiunge ,con
notevole incoerenza - non sempre si precipita a obbedire al cenno del Vaticano.
In quanto a Leo Schidlof, Burrus conclude, riecheggiando la massoneria e il pensiero
cataro: « Per quanti conoscevano Henri Lobineau, grande viaggiatore e grande
ricercatore, uomo leale e buono, egli rimane nel cuore come il simbolo del
"maitre parfait", degno di rispetto e di venerazione » .5
La lettera di Lionel Burrus sembrerebbe decisamente eccentrica.
Di certo è molto curiosa. Ancora più curioso, però, è il presunto attacco
calunnioso contro Schidlof contenuto in un bollettino cattolico, che Burrus
cita a lungo. Il bollettino, secondo Burrus, accusa Schidlof di essere « un
filosovietico, notoriamente massone » e di « preparare attivamente la strada
per una monarchia popolare in Francia ».6 E un'accusa singolare e in
apparenza con-traddittoria, poiché di solito un simpatizzante filosovietico non
si adopera per cercare di insediare una monarchia. Tuttavia il bollettino che
Burrus sostiene di citare, formula accuse ancora più stravaganti:
I discendenti dei Merovingi sono sempre stati gli ispiratori di
tutte le eresie, dall'arianesimo ai Catari e ai Templari, fino alla massoneria.
All'inizio della Riforma protestante, nel luglio 1659, il cardinale Mazzari-no
fece distruggere il loro castello di Barberie, che risaliva al XII secolo.
Perché la famiglia in questione, nel corso dei secoli, non aveva generato altro
che agitatori segreti ostili alla Chiesa.7
Burrus non precisava quale fosse il bollettino cattolico che
avrebbe pubblicato questo brano da lui citato, e quindi non potemmo accertarne l'autenticità. Tuttavia, se fosse autentico,
221
avrebbe un significato considerevole. Costituirebbe infatti una
testimonianza indipendente, da parte di fonti cattoliche, della distruzione di
Chàteau Barberie nel Nivernais. Inoltre, sembrerebbe indicare almeno una raison
d'ètre parziale per il Priorato di Sion. Avevamo già concluso che Sion e le
famiglie legate all'Ordine, avevano manovrato per impadronirsi del potere, e
per questo si erano scontrati più. volte con la Chiesa. Secondo il brano sopra
riportato, però, l'opposizione alla Chiesa non sarebbe dovuta al caso, alle
circostanze o alla politica. Al contrario, sembrerebbe una linea precisa di
comportamento. E questo ci poneva di fronte a un'altra contraddizione. Infatti
lo statuto del Priorato di Sion, almeno ufficialmente, era quello di
un'istituzione saldamente cattolica. . l
Poco tempo dopo la pubblicazione di questa lettera, Lionel Burrus
morì in un incidente d'auto che fece altresei vittime. Poco prima della sua
morte, tuttavia; la lettera ebbe una risposta ancora più curiosa e provocatoria
del testo scritto da lui. La risposta fu pubblicata in un opuscolo stampato
privatamente sotto il nome di S. Roux.8
Sotto certi aspetti il testo di S. Roux sembra riecheggiare
l'attacco contro Schidlof che avrebbe ispirato la lettera di Burrus. Rimprovera
a quest'ultimo di essere giovane, troppo zelante, irresponsabile e incline a
parlare troppo. Ma, sebbene in apparenza condanni la posizione di Burrus,
l'opuscolo di S. Roux non soltanto conferma le sue affermazioni, ma le
integra. Leo Schidlof, afferma S. Roux, era un dignitario della Grande Loge
Alpina svizzera, la loggia massonica che figura come editrice di certi «
documenti del Priorato ». Secondo S. Roux, « non nascondeva i suoi sentimenti
di amicizia per il blocco orientale »,'J In quanto-alle affermazioni
di Burrus nei riguardi della Chiesa, S. Roux continua così:
Non si può dire che la Chiesa ignori la stirpe del Razès, ma si
deve ricordare che tutti i suoi discendenti, a partire da Dagoberto, sono stati
agitatori segreti, ostili tanto alla casa reale francese quanto alla Chiesa-e
che sono stati la fonte di tutte le eresie. Il ritorno al potere di un
discendente merovingio comporterebbe per la Francia la proclamazione di una
monarchia popolare alleata all'URSS, e il trionfo della massoneria: insomma,
la scomparsa della libertà religiosa10
Se tutto questo appare
abbastanza straordinario, le affermazioni conclusive dell'opuscolo di S. Roux
lo sono ancora di più:
Per quanto riguarda la
propaganda merovingia in Francia, tutti sanno che la pubblicità dell'Antar, con
un re merovingio che tiene in mano un Giglio e un Cerchio, rappresenta un
appello in favore del ritorno al potere dei Merovingi. E non si può fare a meno
di chiedersi che cosa stesse preparando Lobineau a Vienna, poco prima di
morire, alla vigilia di profondi cambiamenti in Germania. Non è vero, inoltre,
che Lobineau aveva preparato in Austria un futuro accordo reciproco con la
Francia? Non era questa la base dell'accordo franco-russo?"
Logicamente, restammo sbalorditi e ci chiedemmo di cosa diavolo
stesse parlando S. Roux, che sembrava aver superato Burrus in fatto di
assurdità. Come il bollettino che Burrus aveva attaccato^. Roux collega tra
loro obiettivi apparentemente diversi e incompatibili come l'egemonia sovietica
e la monarchia popolare. Si spinge più in là di Burrus, dichiarando che « tutti
sanno » che l'emblema di una società petrolifera è una sottile forma di propaganda
in favore di una causa sconosciuta e in apparenza ridicola. Accenna a cambiamenti
sensazionali in Francia, Germania e Austria come se fossero già in programma o
addirittura faits accom-pli. E parla di un misterioso accordo «
franco-russo » come se fosse di dominio pubblico.
A una prima lettura, l'opuscolo di S. Roux sembrava del tutto
privo di senso. Un esame più attento ci convinse che in realtà era un altro
ingegnoso « documento del Priorato », studiato di proposito per sconcertare,
confondere, stuzzicare, seminare allusioni a qualcosa di clamoroso e
monumentale. Comunque, in quel suo modo sfrenatamente eccentrico, lasciava
intravedere l'enormità del gioco. Se S. Roux aveva ragione, l'oggetto della
nostra indagine non era limitato alle attività di un moderno ordine
cavalieresco, misterioso ma innocuo; se aveva ragione, l'oggetto della nostra
indagine era in qualche modo legato ai più alti livelli della politica
internazionale.
Il tradizionalismo cattolico
Nel 1977 apparve un nuovo « documento del Priorato » particolarmente
significativo: un opuscoletto di sei pagine intitolato Le
223
cercle d'Ulysse e
scritto da un certo Jean Delaude. Nel testo, l'autore si rivolge esplicitamente
al Priorato di Sion. E sebbene faccia un rimpasto di molto materiale più
vecchio, fornisce anche alcuni dettagli nuovi relativi all'Ordine:
Nel marzo 1117 Baldovino fu
costretto, a Saint Léonard d'Acri, a negoziare e a preparare la costituzione
dell'Ordine del Tempio, secondo le direttive del Priorato di Sion. Nel 1118
l'Ordine del Tempio venne poi fondato da Hugues de Payen. Dal 1118 al 1188 il
Priorato di Sion e l'Ordine del Tempio ebbero gli stessi Gran maestri. Dopo la
separazione tra le due istituzioni, avvenuta nel 1188, il Priorato di Sion ha
avuto fino a oggi ventisette Gran maestri. I più recenti sono:
Charles
Nodier dal 1801 al 1844
Victor Hugo
dal 1844 al 1885
Claude Debussy dal
1885 al 1918
Jean
Cocteau dal 1918 al 1963
e dal 1963 fino all'avvento
del nuovo ordine, l'abate Ducaud-Bourget.
Che cosa sta preparando il
Priorato di Sion? Non so: ma rappresenta una potenza in grado di confrontarsi
con il Vaticano nei giorni futuri. Monsignor Lefebvre ne è un membro
attivissimo e temibile, capace di dire: « Tu fammi papa e io ti farò re ».12
Questo brano contiene due importanti informazioni nuove. Una è la
presunta affiliazione al Priorato di Sion dell'arcivescovo Marcel Lefebvre.
Monsignor Lefebvre, naturalmente, rappresen-■ ta l'ala conservatrice più
estrema della Chiesa cattolica. Si espresse apertamente e con molta decisione
contro papa Paolo VI, e lo sfidò clamorosamente. Nel 1976 e nel 1977, anzi, fu
esplicitamente minacciato di scomunica; e la sua assoluta indifferenza di
fronte alla minaccia rischiò di causare un vero e proprio scisma in seno alla
Chiesa. Ma come potevamo conciliare un cattolico militante e intransigente come
monsignor Lefebvre con un movimento e un Ordine dall'orientamento ermetico se
non apertamente eretico? Sembrava che la contraddizione fosse inspiegabile: a
meno che monsignor Lefebvre fosse un moderno esponente della massoneria ottocentesca
associata allo Hiéron du Val d'Or, la « massoneria cristiana, aristocratica ed
ermetica » che si considerava più cattolica del papa.
Il secondo punto interessante del brano sopra citato è naturalmente
l'identificazione del Gran maestro del Priorato di Sion in carica a quel
tempo con l'abate Ducaud-Bourget. Francois
224
Ducaud-Bourget nacque nel 1897 e studiò - abbastanza prevedibilmente
- nel seminario di Saint Sulpice. Quindi è verosimile che avesse conosciuto
molti dei modernisti che vi brulicavano a quel tempo, probabilmente anche Émile
Hoffet. In seguito divenne cappellano conventuale del Sovrano ordine di Malta.
Per la sua attività durante la Seconda guerra mondiale fu insignito della
Medaglia della Resistenza e della Croce di guerra. Oggi è riconosciuto come
letterato illustre, membro dell'Accademia di Francia, autore di biografie di
importanti scrittori cattolici francesi come Paul Claudel e Frangois Mauriac, e
poeta molto apprezzato lui stesso.
Come monsignor Lefebvre, l'abate Ducaud-Bourget assunse un
atteggiamento di opposizione aperta nei confronti di papa Paolo VI. Come
monsignor Lefebvre, è un sostenitore della messa tri-dentina. Come monsignor
Lefebvre si è dichiarato « tradizionalista », incrollabilmente contrario alle
riforme ecclesiastiche e a ogni tentativo di « modernizzare » il cattolicesimo.
Il 22 maggio 1976 gli fu vietato di confessare e di impartire l'assoluzione; e
come monsignor Lefebvre sfidò arditamente il divieto impostogli dai superiori.
Il 27 febbraio 1977 guidò i mille cattolici tradizionalisti che occuparono a
Parigi la chiesa di Saint-Nicolas-du-Chardonnet.
Se Marcel Lefebvre e Francois Ducaud-Bourget appaiono teologicamente
« dj destra », sembra che lo siano anche politicamente. Prima della Seconda
guerra mondiale, monsignor Lefevbre era legato all'Action frangaise, che a quel
tempo rappresentava l'estrema destra politica in Francia, e aveva certe
posizioni in comune con il nazionalsocialismo tedesco. In tempi più recenti,
l'« arcivescovo ribelle » si guadagnò una considerevole notorietà appoggiando
clamorosamente il regime militare argentino. Quando fu interrogato su questa
sua presa di posizione, rispose che aveva sbagliato: non aveva inteso riferirsi
all'Argentina, bensì al Cile! Francois Ducaud-Bourget sembrerebbe meno
estremista; e le decorazioni da lui meritate attestano un'attività patriottica
antitedesca durante la guerra. Tuttavia, si era espresso in termini di grande
considerazione nei confronti di Mussolini, e aveva dichiarato di sperare che
la Francia ritrovasse « il suo senso dei valori sotto la guida di un nuovo
Napoleone ».13
225
Il nostro primo sospetto fu che Marcel Lefebvre e Francois
Ducaud-Bourget non fossero veramente affiliati al Priorato di Sion, e che
qualcuno avesse tentato di metterli in imbarazzo collegandoli proprio alle
forze alle quali, in teoria, avrebbero dovuto opporsi vigorosamente. Eppure,
secondo lo statuto che ci aveva procurato la polizia francese, il sottotitolo
del Priorato di Sion era « Chevalerie d'institutions et règles catholiques,
d'union indépendante et traditionaliste ». Un'istituzione con un nome simile
poteva benissimo includere personaggi come Marcel Lefebvre e Frangois
Ducaud-Bourget.
Ci sembrava inoltre che fosse possibile una seconda spiegazione,
un po' astrusa, certo, ma che almeno avrebbe giustificato la contraddizione.
Forse Marcel Lefebvre e Frangois Ducaud-Bourget non erano ciò che sembravano.
Forse erano qualcosa d'altro. Forse erano in realtà agents provocateurs, e
miravano a creare sistematicamente scalpore, a seminare dissensi, a fomentare
uno scisma incipiente che minacciava il pontificato di Paolo VI. Una tattica
del genere sarebbe stata in armonia con le società segrete descritte da Charles
Nodier e con i Protocolli degli anziani di Sion. E in tempi recenti
numerosi commentatori - giornalisti ed ecclesiastici - hanno affermato che
l'arcivescovo Lefebvre lavora per altri, o viene manovrato da altri.14
Per quanto potesse essere astrusa la nostra ipotesi, aveva una sua
logica coerente. Se papa Paolo VI fosse stato considerato « il nemico », e
qualcuno avesse voluto costringerlo ad assumere posizioni più liberali, come
si sarebbe dovuto procedere? Non certo avanzando rivendicazioni di carattere
liberale: sarebbe servito soltanto a indurre il ponteficie a trincerarsi ancora
più fermamente dietro i suoi princìpi conservatori. Ma se qualcuno avesse
adottato pubblicamente una posizione più incrollabilmente conservatrice di
quella di papa Montini non lo avrebbe spinto, nonostante i suoi desideri contrari,
verso atteggiamenti sempre più liberali? E senza dubbio fu appunto questo ciò
che ottennero l'arcivescovo Lefebvre e i suoi seguaci: riuscirono nell'impresa
senza precedenti di far apparire liberale il papa.
Fossero o no valide le nostre conclusioni, sembrava chiaro che
l'arcivescovo Lefebvre, come tanti altri personaggi incontrati nella nostra
indagine, era a conoscenza di un grande, esplosivo segre-
226
to. Nel 1976, ad esempio, la sua scomunica appariva imminente. La
stampa se l'attendeva da un giorno all'altro perché Paolo VI, di fronte a una
sfida ripetuta e aperta, sembrava non avere alternative. Eppure, all'ultimo
momento, il papa indietreggiò. Ancora oggi non si sa di preciso il perché: ma
il seguente brano tratto dal « Guardian » del 30 agosto 1976 suggerisce un
indizio:
I preti che in Inghilterra si sono schierati con l'arcivescovo...
ritengono che il loro capo spirituale abbia ancora una potentissima arma
ecclesiastica da usare nella sua disputa con il Vaticano. Nessuno di loro è
disposto a lasciar trapelare di che si tratti, ma padre Peter Morgan, leader di
questro gruppo... sostiene che è qualcosa che « sconvolgerebbe la terra ».15
Quale informazione « che sconvolgerebbe la terra », quale « arma
segreta » potrebbe incutere tanto timore al Vaticano? Quale spada di Damocle,
invisibile agli occhi del grosso pubblico, veniva tenuta sospesa sulla testa
del pontefice? Qualunque cosa fosse, sicuramente si è dimostrata efficace. Si
direbbe anzi che abbia reso l'arcivescovo del tutto invulnerabile alle
rappresaglie di Roma. Come scriveva Jean Delaude, Marcel Lefebvre sembrava '
veramente rappresentare « una potenza in grado di confrontarsi con il Vaticano
» : se necessario in uno scontro frontale.
Ma a chi mai Lefebvre avrebbe detto o dovrebbe dire: « Tu fammi
papa e io ti farò re »?
Il Convento del 1981 e lo Statuto di Cocteau
In tempi più recenti, alcune delle questioni riguardanti Frangois
Ducaud-Bourget sembrano essersi chiarite. Il chiarimento è venuto
dall'improvvisa attenzione di cui il Priorato di Sion, tra la fine del 1980 e
l'inizio del 1981, è divenuto oggetto in Francia da parte dell'opinione
pubblica. E questa attenzione ha reso notissimo il suo nome.
Nell'agosto 1980 la rivista « Bonne Soirée », un rotocalco a
grande tiratura, pubblicò un servizio in due puntate sul mistero di
Rennes-le-Chàteau e il Priorato di Sion. In questo servizio Marcel Lefebvre e
Francois Ducaud-Bourget vengono collegati in modo esplicito con Sion. Entrambi,
si afferma, avrebbero fatto recentemente visita a uno dei luoghi sacri di
Sion, il villaggio di Sainte Colombe nel Nivernais, dove sorgeva Chàteau
Barberie, la rocca
227
dei Plantard, prima che nel
1659 Scardinale Mazzarino ne ordinasse la distruzione.
Nel frattempo, noi avevamo
stabilito contatti telefonici ed epistolari con l'abate Ducaud-Bourget. Fu
piuttosto cortese; ma le sue risposte a gran parte delle nostre domande furono
vaghe se non addirittura evasive; cosa tutt'altro che sorprendente, smentì di
avere rapporti con il Priorato di Sion. La smentita fu ripetuta in una lettera
che l'abate inviò poco tempo dopo a « Bonne Soirée ».
Il 22 gennaio 1981 apparve
sulla stampa francese un breve articolo16 che merita di essere
citato in buona parte: Una vera e propria società segreta formata da 121
dignitari, il Priorato di Sion, fondato a Gerusalemme da Goffredo di Buglione
nel 1099, ha enumerato tra i suoi Gran maestri Leonardo da Vinci, Victor Hugo e
Jean Cocteau. Quest'Ordine si è riunito in Convento a Blois il 17 gennaio 1981
(il precedente Convento si tenne il 5 giugno 1956 a Parigi).
Nel corso del recente
Convento di Blois, Pierre Plantard de Saint-Clair è stato eletto Gran maestro
dell'Ordine con 83 voti su 92, al terzo scrutinio.
Questa scelta del Gran
maestro segna un passo decisivo nell'evoluzione della concezione e dello
spirito dell'Ordine nei confronti del mondo; infatti i 121 dignitari del
Priorato di Sion sono tutti eminenze grige dell'alta finanza e di varie
organizzazioni politiche e filosofiche internazionali; Pierre Plantard discende
direttamente, tramite Dagoberto II, dai re Merovingi. La sua discendenza è
stata provata legalmente dalle pergamene della regina Bianca di Castiglia,
scoperte dell'abate Saunière nella sua chiesa di Rennes-le-.Chàteau (Aude) nel
1891.
Nel 1965 questi documenti furono
venduti dalla nipote del sacerdote al capitano Roland Stanmore e a Sir Thomas
Frazer, e depositati in una cassetta di sicurezza della Lloyds Bank Europe
Limited di Londra.17
Poco prima che la stampa
pubblicasse questa notizia, noi avevamo scritto a Philippe de Chérisey, con il
quale eravamo già entrati in contatto e che figurava, non meno frequentemente
di Pierre Plantard, come portavoce del Priorato di Sion. Rispondendo a una
delle domande che gli avevamo rivolte, Monsieur de Chérisey dichiarò che Frangois
Ducaud-Bourget non era stato eletto Gran maestro con il quorum necessario.
Inoltre, aggiunse, l'abate Ducaud-Bourget aveva ripudiato pubblicamente la sua
affiliazione all'Ordine. Quest'ultima affermazione ci sembrò poco chiara. Ma
aveva più senso nel contesto del documento che Philippe de Chérisey accludeva
alla sua lettera.
Qualche tempo prima avevamo
ottenuto dalla sottoprefettura
228
di Saint-Julien lo statuto
del Priorato di Sion. Una copia dello stesso statuto era stata pubblicata nel
1973 da una rivista francese.18 Ma a Parigi Jean-Lue Chaumeil ci
aveva detto che quello statuto era fraudolento. Nella sua lettera, Philippe de
Chérisey allegò una copia di quello che, diceva, era il vero statuto del
Priorato di Sion, tradotto dal latino. Lo statuto portava la firma di Jean
Cocteau; e a meno che fosse stata fatta da un falsario straordinariamente
abile, quella firma era autentica. Di conseguenza, siamo propensi ad accettare
come autentico anche lo statuto che reca la firma.19 Eccolo:
Articolo I -
Viene istituito, tra i firmatari di questa costituzione e quanti
successivamente vi aderiranno e adempiranno le seguenti condizioni, un ordine
iniziatico cavalieresco, i cui usi e costumi si basano sulla fondazione
stabilita a Gerusalemme da Goffredo VI detto il Pio, duca di Buglione, nel
1099, e riconosciuta nel 1100.
Articolo il -
L'ordine è chiamato « Sionis Prioratus » o « Priorato di Sion ».
Articolo ih - II Priorato di Sion
ha come scopi la perpetuazione dell'ordine . tradizionalista della cavalleria,
il suo insegnamento iniziatico e la mutua assistenza morale e materiale tra i
suoi membri, in ogni circostanza.
Articolo rv - La
durata del Priorato di Sion è illimitata.
Articolo v -
II Priorato di Sion adotta, quale ufficio di rappresentanza, il domicilio del
segretario generale nominato dall'Assemblea. Il Priorato di Sion non è una
società segreta. Tutti i suoi decreti, e così pure i suoi documenti e le sue
nomine, sono a disposizione del pubblico nel testo latino.
Articolo vi - II
Priorato di Sion comprende 121 membri. Entro questi limiti, è aperto a tutti
gli adulti che ne riconoscono le finalità e accettano gli obblighi specificati
in questa costituzione. I membri sono ammessi senza alcun pregiudizio relativo
al sesso, alla razza o alle idee filosofiche, politiche o religiose.
Articolo vn -
Tuttavia, nel caso che un membro designi per iscritto a succedergli uno dei
suoi discendenti, l'Assemblea accoglierà la richiesta e, nel caso che si tratti
di un minore, potrà assumersi il compito di provvedere all'istruzione del
designato.
Articolo vm -
Un futuro membro deve procurarsi, a proprie spese, per l'investitura del primo
grado, una veste bianca con cordiglio. Dal momento della sua ammissione al
primo grado, il membro ha diritto di voto. All'atto dell'ammissione, il nuovo
membro deve giurare di servire l'Ordine in ogni circostanza, nonché di
lavorare per la pace e il
rispetto della vita
229
Articolo IX -
All'atto dell'ammissione, il nuqvo membro deve pagare una quota simbolica, il
cui ammontare è a sua discrezione. Ogni anno deve versare alla Segreteria
generale un contributo volontario per l'Ordine, il cui ammontare verrà
egualmente deciso da lui.
Articolo X -
All'atto dell'ammissione, il nuovo membro deve presentare un certificato di
nascita e depositare la sua firma.
Articolo XI - Un
membro del Priorato di Sion contro il quale sia stata pronunciata da un
tribunale una sentenza per un reato comune può essere sospeso dai suoi doveri e
dai suoi titoli e dall'appartenenza all'Ordine.
Articolo XII -
L'assemblea generale dei membri è chiamata Convento. Nessuna deliberazione del
Convento sarà ritenuta valida se il numero dei membri presenti è inferiore a
ottantuno. Il voto è segreto e viene dato per mezzo di palline bianche e nere.
Per essere adottate, le mozioni devono ricevere ottantuno palline bianche.
Tutte le mozioni che non ricevono almeno sessantuno palline bianche nel corso
di una votazione non possono essere ripresentate.
Articolo xin - II
Convento del Priorato di Sion è il solo organo cui spetta decidere, con una
maggioranza di 81 voti su 121 membri, tutte le modifiche della costituzione e
il regolamento interno cerimoniale.
Articolo xrv -
Tutte le ammissioni saranno decise dal « Consiglio dei tredici Rosacroce ». I
titoli e i doveri saranno assegnati dal Gran maestro del Priorato di Sion. I
membri sono ammessi a vita alla loro carica. I loro titoli passano di diritto a
uno dei loro figli, scelto da loro stessi indipendentemente dal sesso. Il
figlio così designato può fare atto di rinuncia dei propri diritti, ma non può
compiere tale rinuncia in favore di un fratello, di una sorella, di un parente
o di un'altra persona. Non può venire inoltre riammesso nel Priorato di Sion.
Articolo XV -
Entro ventisette giorni, due membri saranno tenuti a mettersi in contatto con
il futuro membro per ottenere il suo assenso o la sua rinuncia. In mancanza di
un atto d'accettazione dopo un periodo di riflessione della durata di ottantun
giorni, sarà legalmente riconosciuta la rinuncia e il posto sarà considerato
vacante.
Articolo XVI -
In virtù del diritto ereditario confermato dai precedenti articoli, i doveri e
i titoli di Gran maestro del Priorato di Sion saranno trasmessi al suo
successore secondo le stesse prerogative. Nel caso si renda vacante la carica
di Gran maestro in assenza di un successore diretto, il Convento dovrà
procedere all'elezione entro ottantun giorni.
Articolo xvn -
Tutti i decreti devono essere votati dal Convento e venire convalidati dal
Sigillo del Gran maestro. Il segretario generale viene nominato dal Convento
per tre anni, rinnovabili per tacito consenso. Il segretario generale deve
avere il grado di Comandante per intraprendere le sue mansioni. Le funzioni e
le mansioni non sono retribuite.
230
Articolo XVin - La
gerarchla del Priorato di Sion è composta di cinque gradi:
1° Nautonnier numero: 1 2°
Croisé numero: 3
3° Commandeur numero: 9 4°
Chevalier numero: 27 5° Ecuyer numero: 81
totale
numero: 121
Arca dei 13 Rosacroce
Le nove Commanderies del
Tempio
Articolo XIX - Vi
sono 243 Liberi fratelli, chiamati Preux, o, a partire dall'anno 1681, Enfants
de Saint Vincent, che non partecipano né alle votazioni né ai Conventi, ma
ai quali il Priorato di Sion accorda certi diritti e privilegi conformemente al
decreto del 17 gennaio 1681.
Articolo XX -1
fondi del Priorato di Sion sono costituiti dalle donazioni e dalle quote
versate dai membri. Una riserva, chiamata il « patrimonio dell'Ordine », è
affidata al Consiglio dei tredici Rosacroce. Tale tesoro può essere usato solo
in caso di assoluta necessità e di grave pericolo per il Priorato e i suoi
membri.
Articolo XXI - II
Convento viene convocato dal segretario generale quando il Consiglio dei
Rosacroce lo ritiene utile.
Articolo XXII
- La smentita dell'appartenenza al Priorato di Sion, manifestata pubblicamente
e per iscritto, senza causa o pericolo personale, comporterà l'esclusione del
membro in questione, che verrà decisa dal Convento.
Testo della costituzione in
ventidue articoli, conforme all'originale e alle modifiche decise dal Convento
del 5 giugno 1956.
Firma del Gran maestro JEAN
COCTEAU
In certi dettagli, questo statuto è in contrasto tanto con lo
statuto che avevamo ricevuto dalla polizia francese quanto con le informazioni
relative a Sion contenute nei « documenti del Priorato ». Queste ultime
indicano un totale di 1093 membri, lo statuto fornitoci dalla polizia un totale
di 9841. Secondo gli articoli sopra riportati, il numero complessivo dei membri
di Sion, inclusi i 243 « Figli di san Vincenzo », sono soltanto 364. I «
documenti del Priorato », inoltre, stabiliscono una gerarchia di sette gradi.
Nello statuto che avevamo avuto dalla polizia francese, questa gerarchia
risulta ampliata a nove gradi. Secondo gli articoli citati più sopra, i gradi
sono soltanto cinque. E gli appellativi specifici di tali gradi sono diversi da
quelli che compaiono nelle altre due fonti.
231
Queste contraddizioni potrebbero indicare una specie di scisma,
compiuto o incipiente, all'interno del Priorato di Sion e avvenuto intorno al
1956, l'anno in cui i « documenti del Priorato » incominciarono ad apparire
nella Bibliothèque Natio-nale. E infatti Philippe de Chérisey allude a uno
scisma, in un recente articolo.20 Ebbe luogo tra il 1956 e il 1958,
egli dice, e minacciò di assumere le stesse proporzioni della scissione tra
Sion e l'Ordine del Tempio nel 1188, la scissione contrassegnata dal « taglio
dell'olmo ». Secondo de Chérisey, lo scisma fu scongiurato dall'abilità
diplomatica di Pierre Plantard, che riuscì a ricondurre all'ovile i potenziali
transfughi. In ogni caso, e quale che fosse la politica interna del Priorato di
Sion, l'Ordine, al Convento del gennaio 1981, sembrerebbe costituire un
organismo unito e compatto.
Se Francois Ducaud-Bourget era stato il Gran maestro del Priorato
di Sion, apparirebbe evidente che oggi non lo è più. De Chérisey dichiarò che
non era stato eletto dal quorum necessario. Questo potrebbe significare che era
stato eletto dai potenziali scismatici. Non è chiaro se gli sia stata imputata
la violazione dell'articolo XXII dello statuto. Possiamo comunque presumere
che, comunque stessero le cose in passato, non sia più affiliato a Sion.
Lo statuto sopra citato sembrerebbe chiarire la posizione di
Frangois Ducaud-Bourget. In ogni caso chiarisce il principio di selezione che
governa i Gran maestri del Priorato di Sion. Ora si comprende perché vi sono
stati Gran maestri di cinque o otto anni. Si comprende inoltre perché la carica
di Gran maestro debba passare, attraverso una particolare stirpe, a una
particolare rete di genealogie intercollegate. In linea di principio, il titolo
sembrerebbe ereditario, trasmesso nel corso dei secoli attraverso un gruppo
strettamente relato di famiglie che rivendicavano, tutte, di discendere dai
Merovingi. Tuttavia, quando non vi era un pretendente eleggibile o quando il
pretendente designato rifiutava la nomina, la carica di Gran maestro,
presumibilmente in armonia con le procedure delineate nello statuto, veniva
conferita a un estraneo. Sarebbe per questa ragione, quindi, che personaggi
come Leonardo, Newton, Nodier e Cocteau figurano nell'elenco.
232
Pierre
Plantard de Saint-Clair
Tra i nomi che ricorrevano più spesso e con particolare risalto
nei « documenti del Priorato » c'era quello della famiglia Plantard. E fra i
numerosi personaggi legati al mistero di Saunière e di Rennes-le-Chàteau, il
più autorevole sembrava essere Pierre Plantard o, come si firma oggi, Pierre
Plantard de Saint-Clair.21 Secondo le genealogie dei « documenti del
Priorato », Pierre Plantard è un discendente diretto di re Dagoberto II e della
dinastia merovingia. Secondo le stesse genealogie, è anche discendente diretto
dei proprietari di Chàteau Barberie, fatto distruggere nel 1659 dal cardinale
Mazzarino.
Nel corso di tutta la nostra indagine avevamo incontrato più volte
il nome di Pierre Plantard. Anzi, per quanto riguarda la diffusione delle
notizie durante gli ultimi venticinque anni, più o meno, tutte le piste
sembravano condurre a lui. Nel 1960, ad esempio, fu intervistato da Gerard de Sède
e parlò di un « segreto internazionale » nascosto a Gisors.22
Durante il decennio successivo sembra sia stato una delle principali fonti di
notizie per i libri di de Sède su Gisors e Rennes-le-Chàteau.23
Secondo rivelazioni recenti, il nonno di Pierre Plantard conosceva
personalmente Bérenger Saunière. E lo stesso Plantard dimostrò di essere proprietario
di numerosi terreni nei pressi di Rennes-le-Chàteau e di Rennes-les-Bains,
incluso il monte di Blanchefort. Quando intervistammo l'antiquario locale a
Stenay, nelle Ardenne, venimmo a sapere che anche il sito della Chiesa Vecchia
di Saint Dagobert era di proprietà del signor Plantard. E secondo lo statuto
che ci aveva passato la polizia francese, Pierre Plantard era registrato come
segretario generale del Priorato di Sion.
Nel 1973 una rivista francese pubblicò quella che sembra la
trascrizione di un'intervista telefonica col signor Plantard. Com'e-ra
prevedibile, l'intervistato non lasciava trapelare molte cose. Le sue
affermazioni erano allusive, enigmatiche e provocatorie, e in effetti
sollevavano più interrogativi di quanti non ne risolvessero. Ad esempio,
parlando della stirpe merovingia e dei suoi diritti regali, Plantard dichiarò:
« Dovete esplorare le origini di certe grandi famiglie francesi, e allora
comprenderete come un personaggio chiamato Henri de Montpézat potrebbe un
giorno diventa-
233
re re ».24 E
quando gli fu chiesto quali erano gli obiettivi del Priorato di Sion, Pierre
Plantard rispose in modo prevedibilmente evasivo: « Questo non posso dirvelo.
La società cui sono legato è antichissima. Io succedo semplicemente ad altri,
sono un punto in una sequenza. Noi siamo i custodi di certe cose. E senza
pubblicità ».25
La stessa rivista francese
pubblicò inoltre un profilo di Pierre Plantard, scritto dalla sua prima moglie,
Anne Lea Hisler, morta nel 1971. Se si deve credere alla rivista, il profilo
era apparso per la prima volta in « Circuit », la pubblicazione interna del
Priorato di Sion, per la quale il signor Plantard, a quanto viene affermato,
avrebbe scritto regolarmente con lo pseudonimo di « Chyren »:
Non dimentichiamo che questo
psicologo fu amico di personaggi diversis-simi come il conte Israèl Monti, uno
dei fratelli del Santo Vehm, Gabriel Trarieux d'Egmont, uno dei tredici membri
della Rosacroce, Paul Lecour, il filosofo che scrisse sull'Atlantide, l'abate
Hoffet del Servizio documentazione del Vaticano, Th. Moreaux, direttore del
Conservatorio di Bour-ges, ecc. Ricordiamo che durante l'occupazione fu
arrestato, torturato dalla Gestapo e internato come prigipniero politico per
lunghi mesi. Quale dottore in scienze arcane, ha imparato ad apprezzare il
valore delle informazioni segrete, e questo senza dubbio ha contribuito a
fargli assegnare il titolo di membro onorario di numerose società ermetiche.
Tutto ciò è servito a formare un personaggio singolare, un mistico della pace,
un apostolo della libertà, un asceta il cui ideale è servire il bene
dell'umanità. È sorprendente, quindi, che dovesse diventare una delle eminenze
grigie alle quali i grandi di questo mondo chiedono consiglio? Invitato nel
1947 dal governo federale svizzero, per diversi anni è vissuto nei pressi del
lago Lemano, dove si radunano numerosi chargés de missions e delegati di
tutto il mondo.26
Indubbiamente, la signora
Hisler era convinta che questo fosse un ritratto luminoso. Tuttavia, ne emerge
soprattutto la sensazione di trovarsi di fronte a un personaggio singolare. In
alcuni punti il linguaggio usato dalla signora Hisler diventa vago e nel contempo
iperbolico. Inoltre, le diverse persone citate come illustri conoscenze di
Pierre Plantard sono a dir poco strane.
D'altra parte, le
disavventure con la Gestapo sembrano indicare che Pierre Plantard svolgesse
attività encomiabili durante l'occupazione. E le nostre ricerche produssero le
prove documentali. Già nel 1941 Plantard aveva incominciato a dirigere un
giornale della resistenza, « Vaincre », pubblicato in un sobborgo di Parigi.
234
Fu prigioniero della Gestapo per più di un anno, dall'ottobre 1943
alla fine del 1944.27
Scoprimmo che fra gli amici e i conoscenti di Pierre Plantard
figuravano personalità molto più famose di quelle citate dalla signora Hisler.
C'erano, tra gli altri, Andre Malraux e Charles de Gaulle. In effetti, le
conoscenze di Pierre Plantard si estendevano nei « corridoi del potere ». Nel
1958, ad esempio, l'Algeria insorse e il generale de Gaulle cercò di
riottenere la presidenza della Repubblica francese. A quanto sembra, si rivolse
a Plantard e chiese il suo aiuto. Pierre Plantard, insieme ad Andre Malraux e
ad altri, mobilitò i cosiddetti « Comitati di salute pubblica », che
contribuirono in modo notevolissimo a riportare de Gaulle alI'Eli-seo. In una
lettera datata 29 luglio 1958, de Gaulle ringraziò personalmente Pierre
Plantard per i servigi resi. In una seconda lettera, datata cinque giorni più
tardi, il generale invitò Plantard a sciogliere i comitati, che avevano
realizzato il loro obiettivo. Con un comunicato ufficiale diffuso dalla stampa
e dalla radio, Plantard sciolse i comitati.28
È superfluo aggiungere che, con il progredire delle nostre indagini,
eravamo sempre più ansiosi di conoscere Plantard. All'inizio, però non sembrò
molto probabile che potessimo riuscire nell'intento. Pierre Plantard era
irreperibile e pareva che non esistesse la minima possibilità di rintracciarlo
a livello privato. Poi, nella primavera del 1979, incominciammo a preparare un
altro documentario su Rennes-le-Chàteau per conto della BBC, che mise a nostra
disposizione le sue risorse. E finalmente, sotto gli auspici della BBC,
riuscimmo a metterci in contatto con Pierre Plantard e il Priorato di Sion.
Le ricerche iniziali furono intraprese da un'inglese, una giornalista
residente a Parigi, che aveva lavorato diverse volte per la BBC e aveva in tutta
la Francia un gran numero di conoscenze, tramite le quali cercò di rintracciare
il Priorato de Sion. All'inizio, mentre svolgeva la sua indagine tra le logge
massoniche e la « subcultura » esoterica parigina, incontrò com'era prevedibile
una cortina fumogena di informazioni fuorvianti e di contraddizioni. Un
giornalista, ad esempio, l'avvertì che quanti si mostravano troppo curiosi sul
conto del Priorato di Sion prima o poi venivano
235
uccisi. Un altro giornalista disse che Sion era veramente esistito
nel Medioevo, ma ai giorni nostri non esisteva più. Un funzionario della Grande
Loge Alpina, d'altra parte, le riferì che Sion esisteva, ma era
un'organizzazione moderna: in passato, le disse, non era mai esistito.
Destreggiandosi in questa specie di labirinto, la nostra
ricerca-trice si mise finalmente in contatto con Jean-Lue Chaumeil, che aveva
intervistato Pierre Plantard per conto di una rivista e aveva scritto parecchio
su Saunière, Rennes-le-Chàteau e il Priorato di Sion. Chaumeil le disse che lui
non era un membro di Sion, tuttavia poteva contattare il signor Plantard e
forse anche combinare un incontro con noi. Nel frattempo, fornì alla nostra
ricerca-trice altre notizie frammentarie. Secondo Chaumeil il Priorato di Sion
non era, a stretto rigore, una « società segreta ». Semplicemente, preferiva
circondare di un'atmosfera di discrezione la sua esistenza, le sue attività e i
nomi dei suoi aderenti. La registrazione apparsa sul « Journal Officiel »,
dichiarò Chaumeil, era spuria, opera di certi « transfughi » dall'Ordine. E
secondo lui anche lo statuto depositato presso la polizia era spurio, e
proveniva dagli stessi « transfughi ».
Chaumeil confermò quanto avevamo sospettato, e cioè che Sion aveva
piani politici ambiziosi per il prossimo futuro. Entro pochi anni, asserì, vi
sarebbe stato un cambiamento sensazionale nel governo francese: un cambiamento
che avrebbe spianato la strada a una monarchia popolare, con un sovrano
merovingio. E Sion, affermò, sarebbe stato il responsabile di questo cambiamento,
come lo era stato di molti altri nei secoli precedenti. Secondo Chaumeil, Sion
era antimaterialista e mirava a una restaurazione dei « veri valori » : valori
che sembrerebbero avere un carattere spirituale, forse esoterico. Questi
valori, spiegò Chaumeil, erano in ultima analisi precristiani, nonostante
l'orientamento ufficialmente cristiano di Sion e nonostante il preteso spirito
cattolico dello statuto. Inoltre, Chaumeil ripetè che a quel tempo il Gran
maestro di Sion era Francois Ducaud-Bourget. Quando gli fu chiesto in che modo
il tradizionalismo cattolico dell'abate si poteva conciliare con i valori
precristiani, Chaumeil rispose enigmaticamente che avremmo dovuto chiederlo
allo stesso Ducaud-Buorget.
236
Chaumeil sottolineava l'antichità del Priorato di Sion e l'ampiezza
dell'associazione. Includeva, disse, membri appartenenti a ogni ambiente
sociale. E aggiunge che i suoi obiettivi non si limitavano alla restaurazione
della stirpe merovingia. A questo punto fece alla nostra ricercatrice una dichiarazione
molto curiosa. Non tutti i membri del Priorato di Sion, disse, erano Ebrei. Il
sottinteso di questa frase apparentemente incongrua è evidente: alcuni membri
dell'Ordine, o forse molti, sono Ebrei. Ancora una volta, eravamo di fronte a
una contraddizione sconcertante. Anche se lo statuto era spurio, come potevamo
conciliare un ordine con aderenti Ebrei e un Gran maestro che abbracciava il
tradizionalismo cattolico più estremista e che contava tra i suoi amici Marcel
Lefebvre, un uomo conosciuto per certe affermazioni al limite dell'antisemitismo?
Chaumeil fece anche affermazioni sconcertanti. Ad esempio, parlò
del « principe di Lorena » che discendeva dalla stirpe merovingia e la cui «
sacra missione era quindi ovvia ». L'affermazione è tanto più sconcertante in
quanto oggi, per quel che se ne sa, non c'è nessun principe di Lorena, neppure
titolare. Chaumeil intendeva dire che invece il principe esisteva e magari
viveva in incognito? Oppure usava il termine « principe » nel senso più ampio
di « discendente »? In quest'ultimo caso, l'attuale principe è il dottor Otto
d'Asburgo, duca titolare dì Lorena.
Nel complesso, le risposte di Jean-Lue Chaumeil, più che risposte
vere e proprie, erano basi per interrogativi nuovi; e la nostra ricercatrice, che
aveva avuto a disposizione pochissimo tempo per prepararsi, non sapeva
esattamente quali domande dovesse formulare. Tuttavia fece considerevoli
progressi perché sottolineò l'interesse della BBC; sul continente, infatti, la
BBC gode di un prestigio assai più grande che in Gran Bretagna, ed è ancora un
nome che fa colpo. Quindi la prospettiva di un intervento della BBC non poteva
venir presa alla leggera. Sarebbe eccessivo parlare di « propaganda » ; ma un
documentario della BBC che avrebbe messo in risalto o autenticato certi fatti
daveva apparire senza dubbio allettante, uno strumento autorevole per acquisire
credibilità e creare una certa atmosfera psicologica nel mondo anglofono. Se i
Merovingi e il Priorato di Sion fossero stati accettati come « dati storici » o
fatti generalmente riconosciuti, diciamo come la
237
battaglia di Hastings o l'assassinio di san Tommaso Becket, la
cosa sarebbe chiaramente tornata a vantaggio di Sion. Furono senza dubbio
queste considerazioni che indussero Chaumeil a telefonare al signor Plantard.
Finalmente, nel marzo 1979, con il nostro produttore della BBC,
Roy Davies, e la sua ricercatrice che tenevano i collegamenti, venne fissato
un incontro tra noi e Pierre Plantard. Quando si svolse, fu un po' come una
riunione di « padrini » della mafia. Si svolse in « territorio neutrale », in
un cinema parigino affittato per l'occasione dalla BBC, e tutti gli interessati
erano accompagnati dai rispettivi seguiti. Pierre Plantard era un uomo
dignitoso e cortese, dal portamento piuttosto aristocratico, privo di ostentazioni,
e dai modi garbati, volubili e discreti. Diede prova di una erudizione enorme e
di un'impressionante agilità mentale: aveva il dono della risposta pronta,
spiritosa, secca, maliziosa ma non pungente. Spesso nei suoi occhi si
affacciava una luce di gentile, indulgente divertimento: aveva quasi l'aria di
un buon nonno. Nonostante il suo fare modesto e discreto, esercitava sui suoi
accompagnatori un'autorità impressionante. E aveva anche qualcosa di ascetico
e di austero. Non faceva ostentazione di ricchezza. L'abbigliamento era sobrio,
di buon gusto, formale ma disinvolto, non esageratamente elegante né
manifestamente dispendioso. A quanto potemmo capire, non possedeva neppure
l'automobile.
Durante il primo incontro e i due successivi, il signor Plantard
ci fece capire chiaramente che non avrebbe detto nulla delle attività e degli
obiettivi attuali del Priorato di Sion. Per contro, si offrì di rispondere a
tutte le nostre domande sul passato dell'Ordine. E sebbene rifiutasse di
discutere il futuro in pubblico - in un filmato, ad esempio - ce ne diede
qualche cenno conversando con noi. Ad esempio, dichiarò che il Priorato di Sion
conservava effettivamente il tesoro perduto del Tempio di Gerusalemme, il
bottino delle legioni romane di Tito nel 70 d.C. Tali oggetti, disse, sarebbero
stati « restituiti a Israele al momento opportuno ». Ma disse che, qualunque
fosse il significato storico, archeologico o persino politico del tesoro, lo
considerava incidentale. Il vero tesoro, sostenne, era «. spirituale ».
E lasciò capire che questo « tesoro spirituale » consisteva, almeno in parte,
di un segreto. In qualche modo imprecisato, il tesoro in questione avrebbe
facilitato una grande
238
trasformazione sociale. Riecheggiando quanto aveva detto
Chau-meil, Pierre Plantard dichiarò che in un prossimo futuro vi sarebbe stato
in Francia un rivolgimento sensazionale: non una rivoluzione, ma un mutamento
radicale delle istituzioni che avrebbe spianato la strada al reinsediamento di
una monarchia. L'affermazione non fu fatta in toni profetici o istrionici. Al
contrario, Pierre Plantard ce lo assicurò con molta calma e in toni molto
pratici - e con assoluta convinzione.
Su quanto ci disse Pierre Plantard c'erano certe curiose incongruenze.
A volte, per esempio, sembrava parlare a nome del Priorato di Sion: diceva «
noi » per alludere all'Ordine. Altre volte, sembrava dissociarsi dall'Ordine:
parlava di se stesso come di un pretendente merovingio, un re legittimo, e dei
membri di Sion come dei suoi alleati o sostenitori. Avevamo l'impressione di
ascoltare due voci nettamente distinte, che non sempre erano compatibili. Una
era la voce del segretario generale di Sion. L'altra era quella di un re in
incognito che « regna ma non governa » e che considerava Sion come una specie
di consiglio privato. Questa dicotomia tra le due voci non fu mai spiegata in
modo soddisfacente, e fu impossibile convincere il signor Plantard a chiarirla.
Dopo tre incontri con Pierre Plantard e i suoi seguaci, non ne
sapevamo molto più di prima. A parte i Comitati di salute pubblica e le lettere
di Charles de Gaulle, non ricevemmo alcuna indicazione circa l'influenza o la
potenza politica di Sion, né alcun indizio che gli uomini da noi incontrati
fossero in grado di trasformare il governo e le istituzioni della Francia. E
non ci fu detto neppure perché la stirpe merovingia dovesse venire presa sul
serio più dei vari tentativi di restaurare qualunque altra dinastia regale. Ad
esempio, vi sono diversi pretendenti Stuart al trono britannico e le loro
rivendicazioni, almeno per gli storici moderni, poggiano su basi più solide di
quelle dei Merovingi. Del resto, vi sono molti altri pretendenti alle corone e
ai troni vacanti d'Europa; e vi sono i membri superstiti delle dinastie dei
Borbone, degli Asburgo, degli Hohenzollern e dei Romanov. Perché a loro si
dovrebbe accordare meno credibilità che ai Merovingi? Dal punto di vista della
« legittimità assoluta » puramente tecnica, la pretesa dei Merovingi potrebbe
avere in effetti la precedenza. Ma nel mondo
239
moderno la cosa sembrerebbe comunque accademica, come se poniamo,
un irlandese dei giorni nostri provasse di discendere dai Sommi re di Tara.
Ancora una volta prendemmo in considerazione la possibilità di
liquidare il Priorato di Sion come una setta minore ed eccentrica, se non
addirittura fasulla. Eppure tutte le nostre ricerche avevano indicato che
l'Ordine, in passato, aveva avuto un potere autentico ed era stato coinvolto in
questioni internazionali ad altissimo livello. Ancora oggi, c'era sotto
qualcosa di più di ciò che balzava agli occhi. Ad esempio, non era mercenario,
non aveva fini di lucro. Se il signor Plantard avesse voluto, avrebbe potuto
trasformare il Priorato di Sion in un affare estremamente redditizio, come
tanti altri culti, sette e istituzioni alla moda. Eppure quasi tutti i «
documenti del Priorato » fondamentali restavano relegati in edizioni private. E
Sion non cercava nuove reclute, neppure nell'ambito discreto in cui avrebbe
potuto farlo una loggia massonica. Il numero dei suoi membri, a quanto
potevamo accertare, rimaneva rigorosamente limitato, e i nuovi membri venivano
ammessi solo quando c'era un posto vacante. Questa « esclusività » attestava,
tra l'altro, una straordinaria sicurezza, la certezza di non aver bisogno di
arruolare sciami di novizi per motivi finanziari o per altre ragioni. In altre
parole, aveva già qualcosa che « lavorava a suo favore », qualcosa che
sembrava aver fruttato la devozione di uomini come Malraux e de Gaulle. Ma
potevamo credere veramente che uomini come Malraux e de Gaulle mirassero a
reinsediare la stirpe merovingia?
La politica del Priorato di Sion
Nel 1973 fu pubblicato un libro, Les dessous d'une ambition
politi-que (I retroscena di un'ambizione politica). Il libro, scritto da un
giornalista svizzero, Mathieu Paoli, narra i tentativi compiuti dall'autore
per indagare sul Priorato di Sion. Come noi, alla fine Paoli era entrato in
contatto con un rappresentante dell'Ordine, del quale non rivela il nome. Ma
Paoli non aveva alle spalle il prestigio della BBC, e il rappresentante che si
incontrò con lui-se possiamo giudicare in base al suo racconto - non ricopriva,
sembra, la posizione autorevole di Pierre Plantard. Nel contempo però Paoli,
240
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Figura 2 La copertina del
romanzo Circuit.
vivendo sul continente e godendo di una maggiore mobilità rispetto
a noi, era riuscito a seguire certe piste e a intraprendere ricerche « sul
posto » che noi non eravamo in grado di svolgere. Di conseguenza, il suo libro
è estremamente prezioso e contiene molte notizie nuove: al punto, anzi, che
sembrava giustificare un seguito. E ci chiedemmo perché Paoli non l'avesse
scritto. Quando ci informammo sul suo conto, ci fu detto che nel 1977 o nel
1978 era stato fucilato dagli Israeliani per aver cercato di vendere certi
segreti agli Arabi.29
Il metodo usato da Paoli, come lo descrive nel suo libro, sotto
molti aspetti era simile al nostro. Anche lui si mise in contatto con la figlia
di Leo Schidlof a Londra; e anche a lui la signorina Schidlof disse che suo
padre, a quanto le risultava, non aveva avuto nulla a che fare con società
segrete, con la massoneria o con le genealogie merovinge. Come la nostra
ricercatrice della BBC, anche Paoli aveva contattato la Grande Loge Alpina e si
era incontrato con il suo cancelliere, ricevendo una risposta egualmente
ambigua. Secondo Paoli, il cancelliere negò recisamente di conoscere qualcuno
che si chiamava « Lobineau » o « Schidlof ». In quanto alle varie opere che
portavano la dicitura della Alpina, il cancelliere affermò categoricamente che
non esistevano. Eppure un amico personale di Paoli che era membro dell'Alpina
sosteneva di aver visto quelle opere nella biblioteca della loggia. La
conclusione di Paoli è questa:
Vi sono due possibilità. Dato il carattere delle opere di Henri
Lobineau, la Grande Loge Alpina, che vieta ogni attività politica in Svizzera e
all'estero, non vuole che si sappia della sua partecipazione al mistero.
Oppure un altro movimento si è servito del nome della Grande Loge per
mimetizzare le proprie attività.30
Nella sede secondaria della Bibliothèque Nationale a Versail-les,
Paoli aveva scoperto quattro numeri di « Circuit »,31 la rivista
menzionata nello statuto del Priorato di Sion. Il primo portava la data 1°
luglio 1959, e il direttore era Pierre Plantard. Ma la rivista non affermava
affatto di essere legata al Priorato di Sion. Al contrario, si presentava come
l'organo ufficiale della Federazione delle Forze francesi. C'era persino un
sigillo, che Paoli riproduce nel suo libro, e in più i dati seguenti:
242
Publication
périodique culturelle de la Fédération des
Forces Frangaises
116 Rue Pierre
Jouhet, 116
Aulnay-sous-Bois -
(Seine-et-Oise)
Tèi: 929-72-49
Paoli controllò a quell'indirizzo. Non vi era mai stata stampata
una rivista. Anche il numero telefonico risultò falso. E tutti i tentativi
compiuti da Paoli per rintracciare la Federazione delle Forze francesi furono
vani. Ancora oggi non si hanno notizie su questa organizzazione. Ma non sembra
una pura e semplice coincidenza il fatto che la sede centrale francese dei
Comitati di salute pubblica fosse proprio ad Aulnay-sous-Bois.12 Quindi
sembra che la Federazione delle Forze francesi fosse legata in qualche modo ai
comitati. Sembra che questa ipotesi sia fondata. Paoli riferisce che il secondo
numero di « Circuit » allude a una lettera scritta da de Gaulle a Plantard per
ringraziarlo dei suoi servigi. Parrebbe che i servigi in questione
riguardassero l'attività dei Comitati di salute pubblica.
Secondo Paoli, in prevalenza gli articoli di « Circuit » trattavano
temi esoterici. Erano firmati da Pierre Plantard—con il suo vero nome e con lo
pseudonimo « Chyren » -, Anne Lea Hisler e altri che non ci risultavano nuovi.
Però c'erano anche altri articoli di carattere molto diverso. Alcuni, ad
esempio, parlavano di una scienza segreta della viticoltura - l'innesto dei
vitigni - che apparentemente aveva una fondamentale importanza politica. E questo
non aveva senso, a meno di presumere che le viti e la viticoltura andassero
intesi allegoricamente, forse come allusioni metafori-che alle genealogie, agli
alberi genealogici e alle alleanze dinasti-che.
Quando non erano arcani od oscuri, gli articoli di « Circuit »,
secondo Paoli, erano fervidamente nazionalisti. In uno di essi, firmato da
Adrian Servette, l'autore asserisce ad esempio che non vi sarà una soluzione
per i problemi attuali
se non tramite nuovi metodi e uomini nuovi, perché la politica è
morta. Rimane il fatto curioso che gli uomini non vogliono ammetterlo. Esiste
un solo problema: l'organizzazione economica. Ma vi sono ancora uomini capaci
di pensare alla Francia, come durante l'occupazione, quando i patrioti e
i combattenti della resistenza non si curavano delle tendenze politiche dei
compagni che lottavano al loro fianco?33
243
E dal quarto numero di «
Circuit », Paoli cita il brano che segue:
Noi ci auguriamo che le 1500
copie di « Circuit » siano un contatto che accenda una luce, ci auguriamo che
la voce dei patrioti possa trascendere gli ostacoli come nel 1940, quando essi
lasciarono la Francia invasa per bussare alla porta del leader della Francia
Libera. Oggi è la stessa cosa: siamo innanzi tutto Francesi, siamo la forza che
lotta, in un modo o nell'altro, per costruire una Francia nuova e purificata.
Deve essere fatto con lo stesso spirito patriottico, la stessa volontà e la
stessa solidarietà d'azione. Perciò citiamo qui quella che dichiariamo essere
una vecchia filosofia.-14
Segue poi un
particolareggiato piano di governo per ridare alla Francia il lustro perduto.
Ad esempio, propone l'abolizione dei dipartimenti e il ristabilimento delle
province:
11 dipartimento non è altro
che un sistema arbitrario, creato al tempo della Rivoluzione, imposto e
condizionato dall'epoca in armonia con le esigenze di una locomozione (il
cavallo). Oggi non rappresenta più nulla. Per contro, la provincia è una parte
viva della Francia; è un vestigio del nostro passato, la stessa base che diede
origine alla nostra nazione; ha il suo folklore, i suoi costumi, ì suoi
monumenti, spesso i suoi dialetti locali, che noi vogliamo riscattare e
promulgare. La provincia deve avere un suo apparato specifico per la difesa e
l'amministrazione, adatto alle sue esigenze specifiche, in armonia con l'unità
nazionale.-15
Paoli riporta quindi le otto
pagine successive. Il materiale che contengono è ordinato sotto i seguenti
sottotitoli:
Consiglio delle province
Consiglio di Stato
Consiglio parlamentare
Tasse
Lavoro e produzione
Medicina
Pubblica istruzione
Maggiore età
Alloggi e scuole
II piano di governo proposto sotto queste classificazioni non è
eccessivamente polemico, e probabilmente potrebbe venire tradotto in pratica
con pochi sconvolgimenti. Non si può neppure etichettare da un punto di vista
politico. Non può essere definito di sinistra o di destra, liberale o
conservatore, radicale o reazionario. Nel complesso, appare piuttosto innocuo,
e non si riesce a comprendere come potrebbe ridare alla Francia il lustro
perduto.
244
Come osserva Paoli: « Le
proposte... non sono rivoluzionarie. Tuttavia, sono basate su un'analisi
realistica delle strutture dello Stato francese e sono impregnate di un solido
buon senso » ,36 Ma il piano di governo esposto su « Circuit » non
parla della vera base sulla quale poggerebbe, se venisse attuato: la
restaurazione di una monarchia popolare della stirpe merovingia. Su « Circuit »
non sarebbe neppure stato necessario dichiararlo, perché costituirebbe un «
dato » fondamentale, una premessa su cui è imperniato tutto ciò che appare
sulla rivista. Per i suoi lettori, infatti, la restaurazione della stirpe
merovingia era chiaramente un obiettivo troppo ovvio e accettato per richiedere
un'ulteriore trattazione.
Nel suo libro, a questo
punto Paoli formula im interrogativo fondamentale, lo stesso che aveva
assillato anche noi:
Abbiamo, da una parte, una
discendenza nascosta dai Merovingi, e dall'altra un movimento segreto, il
Priorato di Sion, il cui fine è facilitare la restaurazione di una monarchia
popolare di stirpe merovingia... Ma è necessario scoprire se questo movimento
si accontenta di speculazioni esoterico-politiche (il cui scopo inconfessato è
guadagnare molto denaro sfruttando l'ingenuità e la credulità del mondo) o se
il movimento è veramente attivo.37
Paoli esamina il problema,
riconsiderando le prove e gli indizi a sua disposizione. E la sua conclusione è
questa:
Indiscutibilmente,' il
Priorato di Sion sembra avere relazioni potenti. Infatti, la creazione di
qualunque associazione viene sottoposta a un'indagine preliminare da parte del
Ministero dell'Interno. E questo vale anche per una rivista e una casa
editrice. Eppure costoro possono pubblicare, sotto pseudomini, a indirizzi
falsi, tramite case editrici inesistenti, opere che non si trovano in normale
distribuzione in Svizzera e in Francia. Vi sono due possibilità. O le autorità
governative non fanno il loro dovere. Oppure...38
Paoli non espone la seconda
alternativa. Tuttavia è evidente che, per quanto lo riguarda, la considera come
la più probabile. Insomma, la conclusione di Paoli è che vari funzionari
statali e molti altri personaggi influenti sono affiliati al Priorato di Sion o
gli obbediscono. Se è così, Sion dev'essere un'organizzazione molto, molto
influente.
Dopo aver svolto
approfondite ricerche personali, Paoli si è convinto della legittimità della
rivendicazione dei Merovingi. In questa misura, ammette, può comprendere gli
obiettivi di Sion.
245
Ma a parte questo confessa di essere profondamente sconcertato.
Che senso ha, si domanda, restaurare oggi la stirpe merovingia, 1300 anni dopo
la sua deposizione? Un odierno regime merovingio sarebbe diverso da qualunque
altro regime odierno? E se sì, come e perché? Che cos'hanno di tanto speciale i
Merovingi? Anche se le loro rivendicazioni sono legittime, sembrerebbero poco
pertinenti. Perché tanti personaggi potenti e intelligenti, oggi come in
passato, accordano loro non soltanto interesse ma anche devozione?
Anche noi ci ponevamo le stesse domande. Come Paoli, eravamo
disposti a riconoscere la legittimità delle pretese merovinge. Ma che
significato potrebbero avere al giorno d'oggi tali rivendicazioni? Possibile
che la legittimità « tecnica » di una monarchia costituisse-un argomento tanto
persuasivo e convincente? Perché, nella seconda metà del XX secolo, una
monarchia, legittima o no, doveva ispirare la devozione che sembravano
suscitare i Merovingi?
Se avessimo avuto a che fare con un gruppo di eccentrici, avremmo
potuto accantonare tranquillamente il problema. Ma non era così. Al contrario,
sembrava che avessimo di fronte un'organizzazione molto influente che
includeva nelle sue file alcuni degli uomini più importanti, più illustri, più
acclamati e più seri del nostro tempo. E in molti casi questi uomini sembravano
considerare la restaurazione della dinastia merovingia un obiettivo abbastanza
importante per trascendere le loro personali divergenze politiche, sociali e
religiose.
Sembrava non avere senso che la restaurazione di una stirpe
vecchia di 1300 anni costituisse una cause célèbre così importante per
tanti stimati personaggi pubblici. A meno che, naturalmente, ci fosse sfuggito
qualcosa. A meno che la legittimità non fosse l'unica rivendicazione dei Merovingi.
A meno che vi fosse qualcosa d'altro, immensamente importante, che
differenziava i Merovingi dalle altre dinastie. A meno che, insomma, il sangue
reale merovingio non fosse qualcosa di eccezionale.
Note
' Philippe de Chérisey,
amico di Pierre Plantari de Saint-Clair, ha scritto un « romanzo » allegorico
intitolato Circuit. Il tema spazia dall'Atlantide a Napoleo-
246
ne. Consta di ventidue
capitoli, ognuno dei quali prende il titolo da uno degli arcani maggiori dei
Tarocchi. Esiste in un unico esemplare nella sede di Versailles della
Bibliothèque Nationale di Parigi. In parte, narra la vicenda di due personaggi
simbolici, Charlot e Madeleine, che trovano un tesoro a Rennes-le-Chateau. Cfr.
Chaumeil, Triangle d'or, pp. 141 sgg., per questo estratto.
2
Prieuré de Sion, Statutes, articoli XI e XII. Ricevuto
dalla sottoprefettura di Saint-Julien-en-Genevois il 7 maggio 1956, numero di
protocollo KM 94550.
I « Midi Libre » (13 febbr. 1973), p. 5.
4 Myriam, « Les Bergers d'Arcadie », « Le
Charivari », n. 18, pp. 49 sgg.
5 In Henry Lobineau, Dossiers secrets, p.
1.
6 Ibìd.
7 Ibid.
8 Roux, S., L'affaire de Rennes-le-Chàteau. In
un'altra parte dei Dossiers secrets, una pagina scritta da un certo
Edmonde Albe, S. Roux viene identificato con l'abate Georges de Nantes. Nel suo
libro, Mathieu Paoli avalla {Les Dessous, p. 82) la stessa
identificazione. Georges de Nantes è il capo della « Controriforma cattolica
del XX secolo », ed è inoltre autore di un energico attacco contro papa Paolo
VI, Liber' accusalionìs in Paulum Sextum, nel quale Io accusa d'essere
un eretico. Sembrerebbe quindi che l'abate si sia schierato nello stesso campo
di monsignor Lefebvre. Sorpresi dal fatto che l'identificazione apparisse
incontestata, scrivemmo all'abate Georges de Nantes, citando il libro di
Paoli, chiedendogli un commento e pregandolo di confermare o smentire
l'asserzione. L'abate de Nantes ci rispose, dicendo che di tanto in tanto gli
venivano chieste spiegazioni riguardo quel testo, e che poteva soltanto
ripetere ancora una volta che non aveva nulla a che vedere con S. Roux.
Inoltre, aggiungeva: « Questo testo è una vera accozzaglia di assurdità. Come
potere prenderlo sul serio? ».
9 Roux, L'Affaire de Rennes-le-Chàteau, p.
1.
10 Ibid. p. 2.
II Ibid.
12 Delaude, Cercle d'Ulysse, p. 6 (V).
13 « Guardian » (London, 11 sett. 1976), p. 13.
14 Monsignor Brunon, che prese il posto di
Lefebvre come vescovo di Tulle, disse che secondo la sua opinione Lefebvre era
manovrato da altri. Cfr. il « Guardian » (London 1° sett. 1976), p. 4.
Gianfranco Svidercoschi, presentato dal « Times » come « un corrispondente
vaticano esperto e solitamente bene informato », dichiarò che il papa sapeva
che « monsignor Lefebvre veniva subdolamente condizionato da altri ». Cfr. « The Times » (London, 31 agosto
1976), p. 12.
15 « Guardian » (30 agosto 1976), p. 16.
Piuttosto sconcertati, scrivemmo a padre Peter Morgan, pregandolo di darci
chiarimenti. Padre Morgan non rispose.
16 Abbiamo una copia soltanto dell'articolo,
senza indicazione della provenienza, quindi è impossibile accertare di quale
rivista si tratti.
247
17 Secondo le informazioni più recenti, ora
sarebbero di nuovo in Francia.
18 « Le Charivari », n. 18, pp. 56sgg.
19 II vecchio statuto fu registrato presso la
sottoprefettura il 7 maggio 1956. Secondo il secondo numero di « Circuit »
datato 3 giugno 1956, quella settimana si tenne una riunione per discutere lo
statuto. Il documento che porta la firma di Cocteau è datato 5 giugno 1956.
2»
« Bonne Soirée », n. 3053 (14 ag. 1980), p. 14.
21 Mentre scrivevamo il presente libro, abbiamo
consultato un grande numero di opere sulle genealogie delle famiglie nobili,
antiche e contemporanee. Non abbiamo mai incontrato una sola volta il titolo
di Plantard de Saint-Clair. Tuttavia, ciò non invalida l'affermazione, dato
soprattutto che, come ammette il signor Plantard, la famiglia è rimasta in
clandestinità per secoli.
22 « Le Charivari », n. 18, p. 60, Gisorsetsonsecret,
23 L'opera principale di de Sède, Les
Templiers sont panni nous, comprende una sezione intitolata « Point de vue
d'un ésotériciste ». La sezione è costituita da una lunga intervista con Pierre
Plantard de Saint-Clair, nella quale de Sède non soltanto pone una quantità di
domande, ma riconosce Plantard come un'autorità definitiva. Sembra inoltre che
Monsieur Plantard c'entri per qualcosa con il libro di de Sède su
Rennes-le-Chàteau. Mentre stavamo realizzando il documentario The Lost
Treasure of Jerusalem? per la BBC, ricevemmo dagli editori di de Sède una
quantità di materiale iconografico che era stato utilizzato nel libro. Tutte le
fotografie portavano sul retro il timbro « Plantard ». Ciò indicherebbe che il
materiale apparteneva a Plantard, e che questi l'aveva affidato a de Sède.
24 « Le Charivari », n. 18, p. 55.
25 Ibid.
26 Ibid., p. 53.
27 Ricevemmo dal signor Plantard la fotocopia
di una deposizione autenticata di un membro della Legion d'Onore, ufficiale
della Resistenza francese durante la Seconda guerra mondiale. La dichiarazione
afferma che Pierre Plantard realizzò clandestinamente il giornale della
resistenza, « Vaincre », a partire dal 1941. Afferma inoltre che Plantard fu
imprigionato dalla Gestapo a Fresne dall'ottobre 1943 alla fine del 1944. La
deposizione porta la data dell'll maggio 1953.
Non fu molto semplice
controllare queste affermazioni. Innanzitutto, durante la guerra vi furono
molti giornali con la testata « Vaincre », pubblicati da vari gruppi di
resistenti durante la guerra. Tuttavia, sembra si tratti di quello pubblicato
dal Comité locai du Front nationale de lutte pour l'indépendence de la France;
una copia si trova nella Bibliothéque Nationale a Parigi e porta la data
dell'aprile 1943. Fu stampato a Saint-Cloud, Parigi.
Scrivemmo al servizio
storico dell'esercito francese, chiedendo particolari sulle attività
resistenziali di Pierre Plantard. Ricevemmo una lettera del ministero della
Difesa francese, che ci comunicava che tali informazioni erano personali e
riservate.
28 Cfr. Vazart, Abrégé de l'histoire des
Francs, pp. 271,272, note 1 e 2. La seconda nota contiene il
testo della lettera del generale de Gaulle.
248
29 Questa informazione ci venne da Jean-Lue
Chaumeil, in una conversazione privata. Cercammo di controllare, incominciando
dalla televisione svizzera, poiché sapevamo che Paoli aveva lavorato là al
tempo in cui stava scrivendo il suo libro. Il direttore amministrativo della
Radio-Télévision Suisse Romande ci disse che Paoli si era dimesso nel 1971.
Sembra che si fosse trasferito in Israele e che lavorasse per la TV israeliana
a Tei Aviv. Purtroppo, la pista finiva lì.
30 Paoli, Le Dessous, p. 86.
31 Le copie di « Circuit », alcune delle quali
sono accessibili nella sede di Versail-les, sono un esempio tipico del modo
oscuro in cui vengono diffuse queste informazioni.
La prima serie di « Circuit
» ha inizio il 27 maggio 1956, e continua con cadenza settimanale fino a
un'edizione speciale che segue il numero Ile porta la data 2 settembre 1956. Le
riviste sono ciclostilate, e di solito hanno da due a quattro pagine. Escono a
Sous-Cassan, Annemasse, e ognuna ha un'introduzione di Pierre Plantard. Molte
contengono i verbali delle riunioni svoltesi per discutere la stesura e la
registrazione dello statuto del Priorato di Sion presso la sottoprefettura di
Annemasse, sebbene il nome del Priorato non venga menzionato neppure una volta.
In effetti, il principale interesse della rivista, ufficialmente, è l'edilizia
popolare. L'organizzazione che sta dietro alla rivista non viene chiamata
Priorato di Sion, bensì Organizzazione per la difesa dei diritti e la libertà
dell'edilizia popolare! (Va notato che un certo sense of humour caratterizza
molti documenti ■ del Priorato.) Nel contempo, tuttavia, in questi numeri
di « Circuit » figurano nomi che appaiono nello statuto di Sion. C'è comunque
il numero 8 del 22 luglio 1956 che contiene un articolo di un certo Defago (il
quale compare nello Statuto di Sion come Tesoriere) sull'astrologia: spiega un
sistema che riconosce tredici segni zodiacali anziché dodici. Il tredicesimo
segno è Ophiucus, il Serpentario, situato tra lo Scorpione e il Sagittario.
La seconda serie di «
Circuit » apparve nel 1959; reca la dicitura Perìodico culturale della
Federazione delle forze francesi. Molti numeri sono scomparsi. Noi trovammo
i numeri 2 (agosto 1959), 3 (settembre 1959), 5 (novembre 1959) e 6 (dicembre
1959). Mathieu Paoli registra l'esistenza di un numero 1 (luglio 1959) e di un
numero 4. Inoltre, un numero 8 è ricordato in « Le Charivari ». Sembrerebbe,
quindi, che qualcuno abbia fatto sparire certi numeri.
Le riviste contengono
articoli su temi che vanno dalPAtlantide all'astrologia. Alcune pubblicano
predizioni politiche per gli anni futuri, compilate astrologica-mente da Pierre
Plantard. A tergo, tutte le riviste portano il simbolo dell'organizzazione e
il timbro « Plantard ».
32 Vazart, Abrégé de l'Histoire des Francs, p.
271.
33 Paoli, Les Dessous, p. 94.
34 Ibid.
35 Ibid., pp. 94 sgg.
36 Ibid., p. 102.
37 Ibid.,p. 103.
38 Ibid., p. 112.
249
IX
I sovrani lungichiomati
Nel frattempo, naturalmente, avevamo già fatto ricerche sulla
dinastia merovingia. Ci eravamo mossi a tentoni in una nebbia di fantasie e di
oscurità ancora più fitta di quella che circonda i Catari e i Cavalieri
Templari. Avevamo impiegato mesi sforzandoci di districare intrichi
complicatissimi tra la storia e la favola. Nonostante i nostri sforzi, però, i
Merovingi restavano in gran parte avvolti nel mistero.
La dinastia merovingia era venuta dai Sicambri, una tribù di quel
popolo germanico conosciuto sotto il nome collettivo di Franchi. Tra il V e il
VII secolo i Merovingi avevano regnato su vaste parti della Francia e della
Germania odierne. Il periodo della loro ascesa al trono coincide con l'epoca di
re Artù, un'epoca che costituisce lo sfondo dei romanzi del Santo Graal.
Probabilmente è il periodo più impenetrabile di quella che viene chiamata l'Età
oscura, il Medioevo. Ma scoprimmo che l'Età oscura non era stata oscura
veramente. Al contrario, apparve ben presto evidente che qualcuno l'aveva
oscurata di proposito. Poiché la Chiesa di Roma esercitava un vero e proprio
monopolio sulla cultura, e in particolare sull'arte dello scrivere, le
cronache pervenute fino a noi rappresentano certi interessi ben precisi. Quasi
tutto il resto è andato perduto, o è stato censurato. Ma qua e là, di tanto in
tanto, qualcosa sfuggiva alla rete gettata sul passato, e filtrava fino a noi
nonostante il silenzio ufficiale. In base a queste vestigia nebulose era
possibile ricostruire una realtà: una realtà molto interessante e in netto
contrasto con i principi dell'ortodossia.
250
La leggenda e i Merovingi
Incontrammo numerosi enigmi che circondavano le origini della
dinastia merovingia. Ad esempio, di solito si pensa a una dinastia come a una
famiglia regnante che non succede semplicemente a un'altra casa regnante, ma lo
fa spodestando, deponendo o soppiantando i predecessori. In altre parole, si
pensa che le dinastie incomincino con un colpo di stato che spesso comporta
l'estinzione della precedente stirpe reale. La Guerra delle due rose in
Inghilterra, ad esempio, segnò un cambiamento di dinastia. Circa un secolo dopo
gli Stuart salirono al trono inglese solo quando si estinsero i Tudor. E gli
Stuart, a loro volta, furono deposti con la forza dalle case di Orange e
Hannover.
Nel caso dei Merovingi, tuttavia, non c'è una transizione violenta
o brusca, un'usurpazione, uno spodestamento o l'estinzione di una dinastia
precedente. Al contrario, la casa poi chiamata Merovingia regnava già sui
Franchi, a quanto sembra. I Merovingi erano già re legittimi e debitamente
riconosciuti. Ma sembra che uno di loro avesse qualcosa di speciale, tanto che
diede il suo nome a tutta la dinastia.
Il sovrano dal quale i Merovingi presero il nome è molto sfuggente,
e la sua realtà storica è eclissata dalla leggenda, Meroveo (Mérovée o Merovech
o Meroveus) era un personaggio semisovrannaturale degno del mito classico.
Anche il suo nome attesta la sua origine miracolosa: riecheggia la parola
francese che significa « madre » e la parola che, in francese e in latino,
significa « mare ».
Secondo il principale cronista dei Franchi e la tradizione successiva,
Meroveo era figlio di due padri. Quando era già incinta del marito, re Clodio,
la madre di Meroveo andò a nuotare nell'oceano. Si dice che venne sedotta e
violentata da un essere marino non identificato venuto d'oltremare: « bestea
Neptuni Quinotauri si-milis », una « bestia di Nettuno simile a un Quinotauro
», qualunque cosa fosse un Quinotauro. Apparentemente, l'essere ingravidò per
la seconda volta la regina. E quando Meroveo nacque, nelle sue vene scorreva un
miscuglio di due sangui diversi: quello di un sovrano franco e quello di un
misterioso essere marino.
Queste leggende fantastiche, naturalmente, sono molto fre-
251
quenti non solo nel mondo antico ma anche nella tradizione europea
di tempi più tardi. Di solito non sono del tutto immaginarie, bensì simboliche
o allegoriche, e nascondono una realtà storica concreta dietro una facciata
fantastica. Nel caso di Meroveo, la facciata fantastica potrebbe indicare un
matrimonio, un lignaggio trasmesso tramite la madre, come ad esempio nel
giudaismo, oppure un'unione tra stirpi dinastiche grazie alla quale i Franchi
acquisirono legami di sangue con qualcun altro, forse con una stirpe «
d'oltremare », una stirpe che, per qualche ragione, nella leggenda successiva
fu trasformata in un essere marino.
Comunque, grazie al suo sangue duale, Meroveo sarebbe stato dotato
di un impressionante repertorio di poteri sovrumani. E qualunque fosse la
verità storica velata dalla leggenda, la dinastia merovingia continuò a essere
circondata da un alone di magia, di incantesimo e di sovrannaturale. Secondo la
tradizione, i sovrani merovingi erano adepti occulti, iniziati a scienze
arcane, praticanti di arti esoteriche: degni rivali di Merlino, il loro
fiabesco quasi-contemporaneo. Spesso erano chiamati « i re incantatori » o « i
re taumaturghi ». Grazie a qualche proprietà miracolosa del loro sangue
potevano guarire gli infermi mediante l'imposizione delle mani; e secondo un
racconto le nappe che frangiavano le loro vesti avrebbero posseduto prodigiosi
poteri risanatori. Si diceva che fossero chiaroveggenti e capaci di comunicare
telepaticamente con gli animali e il mondo naturale, e che portassero una
potentis-sima collana magica. Si diceva che conoscessero un incantesimo arcano
che li proteggeva e conferiva loro una longevità eccezionale, che la storia,
sia detto per inciso, non sembra confermare. E tutti avevano una « voglia »
caratteristica che li distingueva da tutti gli altri uomini, li rendeva
immediatamente identificabili e attestava il loro sangue sacro o semidivino. Questa
« voglia », si dice, aveva la forma di una croce rossa, situata sul cuore - una
bizzarra anticipazione del blasone dei Templari-o tra le scapole.
I Merovingi spesso erano chiamati anche « i re lungichiomati ».
Come Sansone nell'Antico Testamento, non si tagliavano i capelli. Come quella
di Sansone, la loro chioma conteneva là loro verta: l'essenza e il
segreto del loro potere. Qualunque fosse la base di questa credenza circa il
potere delle chiome dei Merovingi, sembra che venisse presa molto sul serio
ancora nel 754 d.C. Quando
252
Childerico III, quell'anno, fu deposto e imprigionato, gli furono
tagliati i capelli per espresso ordine del papa.
Per quanto siano stravaganti, le leggende che circondano i
Merovingi sembra avessero una base concreta nella posizione porticolare di cui
godevano questi sovrani. Infatti i Merovingi non erano considerati sovrani nel
senso moderno della parola. Erano considerati re-sacerdoti, incarnazione del
divino, in altre parole, non diversamente dagli antichi faraoni egizi. Non
regnavano semplicemente per grazia di Dio. Al contrario, apparentemente erano
considerati incarnazioni viventi della grazia di Dio: una distinzione di
solito riservata soltanto a Gesù. E sembra che si dedicassero a pratiche
rituali che se mai sembrano più tipiche del sacerdozio anziché della regalità.
Ad esempio, i teschi dei monarchi merovingi che sono stati ritrovati
presentano quella che appare come un'incisione rituale, un foro alla sommità
della calotta cranica. Incisioni simili si possono osservare nei teschi dei
sommi sacerdoti vissuti nei primi tempi del buddismo tibetano: venivano
praticate per permettere all'anima di fuggire dopo la morte, e per aprire un
contatto diretto con il divino. C'è motivo di ritenere che la tonsura dei
religiosi cattolici sia un residuo di questa consuetudine merovingia.
Nel 1653 un'importante tomba merovingia fu scoperta nelle Ardenne:
la tomba di re Childerico I, figlio di Meroveo e padre di Clodoveo, il più
famoso e influente di tutti i sovrani di questa stirpe. La tomba conteneva
armi, oggetti preziosi ed emblemi della regalità, come ci si poteva attendere
di trovare nel sepolcro di un monarca. Ma conteneva anche oggetti legati
piuttosto alla magia, agli incantesimi e alla divinazione: una testa mozza di
cavallo, ad esempio, una testa taurina d'oro e una sfera di cristallo.'
Uno dei simboli merovingi più sacri era l'ape; e la tomba di re
Childerico conteneva non meno di trecento minuscole api d'oro massiccio. Con il
resto del materiale trovato nella tomba, le api furono affidate a Leopoldo
Guglielmo d'Asburgo, governatore militare dei Paesi Bassi austriaci, e fratello
dell'imperatore Ferdi-nando III.- In seguito, gran parte del tesoro fu
restituita alla Francia. E quando fu incoronato imperatore nel 1804, Napoleone
pretese che quelle api d'oro fossero fissate alle vesti che indossò per
l'occasione.
253
Questo episodio non è l'unica manifestazione dell'interesse di
Napoleone per i Merovingi. Infatti incaricò un certo abate Pichon di compilare
varie genealogie, per accertare se la stirpe merovingia fosse sopravvissuta o
no alla caduta della dinastia. Era appunto sulle genealogie commissionate da
Napoleone che si basavano in gran parte quelle contenute nei « documenti del
Priorato s.1
L'orso venuto dall'Arcadia
Le leggende che circondano i Merovingi si rivelarono in tutto
degne dell'epoca di Artù e dei romanzi del Graal. Nel contempo, però,
costituivano un temibile ostacolo tra noi e la realtà storica che aspiravamo a
esplorare. Quando finalmente riuscimmo a raggiungere questa realtà storica, o
almeno quel poco che ne rimaneva, constatammo che era alquanto diversa dalle
leggende. Ma non era meno misteriosa, straordinaria ed evocativa.
Potemmo trovare poche notizie accertabili circa le vere origini
dei Merovingi. Loro stessi si vantavano di discendere da Noè, che
consideravano, ancor più di Mosé, come la fonte della sapienza biblica: una
posizione interessante, che mille anni dopo riaffiorò nella massoneria europea.
Inoltre, sostenevano di discendere in linea retta dall'antica Troia; e questo,
sia vero o no, contribuirebbe a spiegare perché in Francia ricorrono nomi
troiani come Troyes e Paris (che in francese significa tanto Parigi quanto Paride).
Diversi autori assai più recenti, inclusi quelli dei « documenti del Priorato
», hanno cercato di far risalire i Merovingi all'antica Grecia, e precisamente
alla regione chiamata Arcadia. Secondo questi documenti, gli antenati dei
Merovingi erano imparentati con la casa reale d'Arcadia. A una data
imprecisabile, verso l'inizio dell'era cristiana, avrebbero intrapreso
una'migrazione, risalendo dapprima il Danubio e poi il Reno, e si sarebbero
stabiliti nel territorio che oggi è l'attuale Germania occidentale.
Oggi può apparire del tutto accademico che i Merovingi discendessero
da Troia o piuttosto dall'Arcadia, e del resto le due affermazioni non sono
inevitabilmente in conflitto. Secondo Omero, un numeroso contingente di Arcadi
partecipò all'assedio di Troia. Secondo gli antichi storici greci, Troia
sarebbe stata addirittura fondata da coloni provenienti dall'Arcadia. È
inoltre il caso di
254
ricordare che l'orso, nell'Arcadia antica, era un animale sacro,
un totem oggetto di culti misterici al quale venivano fatti sacrifìci rituali.4
Anzi, lo stesso nome « Arcadia » deriva da Arkades, che significa» il
Popolo dell'Orso ». Gli antichi Arcadi sostenevano di discendere da Arkas
(Arcade), il dio eponimo del territorio, il cui nome significa anche « orso ».
Secondo la mitologia greca, Arcade era figlio di Callisto, una ninfa seguace
di Artemide la Caccia-trice. I moderni conoscono Callisto come la costellazione
dell'Orsa Maggiore.
Presso i Franchi Sicambri, dai quali provennero i Merovingi,
l'orso era egualmente tenuto in grande onore. Come gli antichi Arcadi,
veneravano l'orso quale forma di Artemide, o più precisamente della sua
equivalente gallica, Arduina, dea eponima delle Ardenne. Il culto misterico di
Arduina perdurò fin nel Medioevo; uno dei centri era la città di Lunéville, non
lontana da altre due località che ricorrono spesso nella nostra indagine,
Stenay e Or-vai. Ancora nel 1304 la Chiesa promulgava statuti per vietare il
culto della dea pagana.5
Data la posizione magica, mitica e totemica dell'orso nel territorio
merovingio delle Ardenne, non è sorprendente che il nome Ursus, « orso
», venisse associato alla stirpe regale merovingia dai « documenti del Priorato
». Alquanto più sorprendente è il fatto che in gallese la parola che significa
orso sia arth, da cui deriva il nome Arthur. Anche se a questo punto
rinunciammo ad approfondire, la coincidenza ci affascinò: non soltanto Artù
era contemporaneo dei Merovingi, ma come loro era in qualche modo associato
all'orso.
I Sicambri entrano in Gallia
All'inizio del V secolo, l'invasione degli Unni causò grandi migrazioni
di quasi tutte le tribù europee. Fu a quell'epoca che i Merovingi, o più
esattamente i loro antenati Sicambri, attraversarono il Reno e si trasferirono
in massa nella Gallia, stabilendosi nel territorio oggi corrispondente al
Belgio e alla Francia del nord, nei pressi delle Ardenne. Un secolo dopo,
questa regione venne chiamata regno d'Austrasia. E il nucleo del regno
d'Austrasia era l'attuale Lorena.
255
I Sicambri che affluirono in Gallia non erano un'orda di barbari
feroci e sporchi venuti a invadere tumultuosamente il territorio. Invece, tutto
si svolse in modo placido e civile. I Sicambri avevano mantenuto per secoli
stretti contatti con i Romani; e anche se erano pagani, non erano selvaggi. Al
contrario, conoscevano bene le usanze e i sistemi amministrativi dei Romani, e
ne seguivano le mode. Alcuni Sicambri erano diventati alti ufficiali
dell'esercito imperiale, altri addirittura consoli. Quindi l'afflusso dei
Sicambri portò non tanto a un'invasione cruenta quanto a una pacifica
assimilazione. E quando verso la fine del V secolo l'Impero romano si sfasciò,
i Sicambri colmarono il vuoto che era venuto a formarsi. Non lo fecero con la
violenza e con la forza. Mantennero in vigore le vecchie consuetudini e
apportarono poche innovazioni. Senza sconvolgimenti, assunsero il controllo
dell'apparato amministrativo rimasto vacante. Il regime dei primi Merovingi si
mantenne quindi piuttosto conforme al modello dell'Impero romano.
Meroveo e i suoi discendenti
Le nostre ricerche ci permisero di scoprire notizie di almeno due
personaggi storici che avevano portato il nome di Meroveo, e non è possibile
stabilire con chiarezza a quale dei due la leggenda attribuisca come padre un
essere marino. Vi fu un Meroveo, capotribù sicambro, che era vivo nel 417, combattè
agli ordini dei Romani e morì nel 438. Almeno un esperto moderno ritiene che
questo Meroveo si recasse a Roma causando grande sensazione.
Indiscutibilmente,-si ha notizia della visita di un imponente capo franco,
dalla fluente chioma bionda.
Nel 448 il figlio del primo Meroveo, omonimo del padre, fu
proclamato re dei Franchi a Tournai, e regnò fino alla morte, avvenuta dieci
anni più tardi. Probabilmente fu il primo re ufficiale di tutti i Franchi.
Forse fu per questo, o forse in ricordo dell'evento simboleggiato dalla sua
nascita favolosa, la dinastia da lui fondata venne chiamata Merovingia.
Il regno dei Franchi prosperò sotto i successori di Meroveo. Non
era quella cultura rozza e barbarica che si crede solitamente. Al contrario,
sotto molti aspetti può reggere il confronto con la
256
grande civiltà di Bisanzio. Vi era incoraggiata anche l'istruzione
laica. Sotto i Merovingi, l'alfabetismo era più diffuso tra i laici di quanto
Io sarebbe stato dopo due dinastie e cinquecento anni. Gli stessi sovrani erano
istruiti, e questo è un fatto sorprendente, se si pensa ai monarchi medievali
di epoche successive, rozzi, ignoranti e analfabeti. Ad esempio, re Chilperico,
che regnò nel VI secolo, non soltanto fece costruire splendidi anfiteatri
secondo il modello romano a Parigi e Soissons, ma fu anche un poeta raffinato
che andava molto fiero della sua arte. Esistono inoltre trascrizioni di certe
sue discussioni con autorità ecclesiastiche, che rispecchiano una straordinaria
sottigliezza e una notevole erudizione, qualità inaspettate in un re di quei
tempi. In molte di queste discussioni, Chilperico si dimostra più che
all'altezza degli ecclesiastici suoi interlocutori.6
Durante il regno merovingio i Franchi si comportarono spesso in
modo brutale; ma non erano un popolo veramente bellicoso per natura. Non erano
come i Vichinghi, ad esempio, o i Vandali, i Visigoti e gli Unni. Le loro
attività principali erano l'agricoltura e il commercio. Si occupavano anche di
commercio marittimo, soprattutto nel Mediterraneo. E i manufatti del periodo
merovingio mostrano un livello artigianale e artistico sorprendente, come
attesta la nave del tesoro di Sutton Hoo.
La ricchezza accumulata dai re merovingi era enorme, anche
valutandola secondo criteri moderni. In gran parte, questa ricchezza era
costituita da monete d'oro di qualità superba, coniate dalle zecche reali in
alcune località importanti, inclusa l'attuale Sion in Svizzera. Alcune di
queste monete furono ritrovate nella nave del tesoro di Sutton Hoo, e oggi si
possono vedere nel British Museum. Molte-portano la caratteristica croce greca,
a bracci eguali, identica a quella adottata successivamente, durante le
Crociate, dal regno franco di Gerusalemme.
Sangue reale
Sebbene la cultura merovingia fosse moderata e sorprendentemente
moderna, i sovrani erano diversi. Non erano tipici neppure dei loro tempi
perché già in vita erano circondati da un'atmosfera di mistero e di leggenda,
di magia e di sovrannaturale. Se i costumi
257
e l'economia del mondo merovingio non erano troppo diversi da
quelli di altri popoli dell'epoca, l'aureola che alonava il trono e la stirpe
reale era assolutamente unica.
I figli della stirpe merovingia non venivano « creati » re. Al
contrario, venivano considerati tali automaticamente quando compivano i dodici
anni. Non c'erano cerimonie pubbliche, unzioni o incoronazioni. Il potere
veniva semplicemente assunto come un sacro diritto. Ma sebbene il re fosse
l'autorità suprema, non era mai obbligato a sporcarsi le mani con i compiti
terreni del governo. Era una figura essenzialmente ritualizzata, un
re-sacerdote, e il suo ruolo non era fare, bensì essere. Insomma,
il re regnava ma non governava. Sotto questo aspetto, la sua posizione era
simile a quella dell'attuale famiglia reale britannica. Il governo e l'amministrazione
venivano lasciati nelle mani di un funzionario non di stirpe reale, che portava
il titolo di « maestro di palazzo » e aveva in pratica mansioni di cancelliere.
Nel complesso, la struttura del regime merovingio aveva molto in comune con le
monarchie costituzionali moderne.
Anche dopo la conversione al cristianesimo i sovrani merovingi,
come i patriarchi dell'Antico Testamento, continuarono a praticare la
poligamia. Qualche volta avevano harem degni di un potentato orientale. Anche
quando gli aristocratici, in seguito alle pressioni della Chiesa, diventarono
monogami, la monarchia rimase esente dalla regola. E la Chiesa, abbastanza
stranamente, sembra accettasse senza troppe proteste tale prerogativa. Secondo
un commentatore moderno:
Perché la [poligamia] era tacitamente approvata dagli stessi
Franchi? Forse ci troviamo di fronte a un'antica tradizione di poligamia in una
famiglia reale: una-famiglia di rango tanto elevato che il suo
sangue non poteva venire nobilitato da nessuna unione, per quanto vantaggiosa,
né degradato dal sangue degli schiavi... Non aveva importanza che una regina
provenisse da una casa reale o dal novero delle cortigiane... La fortuna della
dinastia era fondata sul suo sangue, ed era condivisa da tutti coloro che avevano
questo sangue nelle vene7
E ancora: « È possibile che nei Merovingi abbiamo una dinastia di Heerkónige
germanici, discesa da un'antica famiglia reale del periodo della migrazione
».8
Ma quante famiglie che godevano di questa posizione straordinaria
potevano essere esistite in tutta la storia del mondo? Perché
258
proprio i Merovingi? Perché al loro sangue era attribuito un
potere tanto immenso? Questi interrogativi continuavano a sconcertarci.
Clodoveo e il patto con la Chiesa
II più famoso di tutti i sovrani merovingi fu il nipote di
Meroveo, Clodoveo I, che regnò tra il 481 e il 511. Il nome di Clodoveo
(Clovis) è ben noto a tutti gli scolari francesi, perché fu sotto di lui che i
Franchi si convertirono al cristianesimo. E fu per mezzo di Clodoveo che Roma
incominciò a stabilire una supremazia indiscussa nell'Europa occidentale, una
supremazia destinata a restare incontestata per un millennio.
Nel 496, la Chiesa di Roma era in una situazione precaria. Durante
il V secolo la sua stessa esistenza era stata gravemente minacciata. Fra il 384
e il 399 il vescovo di Roma aveva già incominciato a chiamarsi « papa », ma la
sua posizione ufficiale non era superiore a quella di ogni altro vescovo, ed
era molto ' diversa da quella dei pontefici di oggi. Non era, in nessun senso,
il capo spirituale e supremo della cristianità. Rappresentava semplicemente
certi interessi, una delle tante forme divergenti di cristianesimo, che
lottava disperatamente per sopravvivere tra una torma di scismi e di
concezioni teologiche contrastanti. Ufficialmente la Chiesa romana non aveva
autorità maggiore, poniamo, di quella celtica, con la quale era continuamente
in conflitto. Non aveva autorità maggiore di certe eresie come l'arianesimo,
che negava la divinità di Gesù e insisteva sulla sua umanità. Per gran parte
del V secolo, anzi, tutte o quasi tutte le diocesi dell'Europa occidentale
furono ariane o vacanti.
Se la Chiesa di Roma voleva sopravvivere e affermare la propria
autorità, le era necessario l'appoggio di un campione, un potentis-simo
personaggio laico che la rappresentasse. Se il cristianesimo doveva evolversi
secondo la dottrina romana, questa dottrina doveva venire diffusa e imposta da
una forza secolare, abbastanza potente da contrastare ed estirpare la sfida costituita
da ogni altro credo cristiano rivale. Non è sorprendente che la Chiesa di Roma,
in quei momenti di disperata necessità, si rivolgesse a Clodoveo.
Nel 486 Clodoveo aveva già esteso notevolmente i domìni mero-
259
vingi, partendo dalle Ardenne per annettersi numerosi regni e
principati confinanti e per sconfiggere parecchie tribù rivali. Molte città
importanti - ad esempio Troyes, Reims e Amiens - furono così incorporate nel
suo regno. In meno di un decennio apparve evidente che Clodoveo era ormai avviato
a diventare il sovrano più potente dell'Europa occidentale.
La conversione e il battesimo di Clodoveo si rivelarono di
un'importanza fondamentale per la nostra indagine. Ne era stata compilata una
cronaca, in tutti i particolari, più o meno all'epoca in cui avvenne il fatto.
Due secoli più tardi la cronaca, La vita di san Rémy (o Remigio), fu
distrutta, e si salvarono soltanto poche e sparse pagine manoscritte. Tutto
indica che fu distrutta di proposito. Ma i frammenti pervenuti fino a noi
attestano l'importanza di ciò che accadde.
Secondo la tradizione, la conversione di Clodoveo fu improvvisa e
inaspettata, e si compì grazie alla moglie del re, Clotilde, fervida devota di
Roma, che sembra assillasse il marito fino a quando questi accettò la sua fede
e che in seguito fu canonizzata per questi meriti. È detto che nell'impresa
Clotilde fu guidata e assistita dal suo confessore, san Remigio. Ma dietro
queste tradizioni si cela una verità storica molto più pratica e terrena.
Quando Clodoveo si convertì al cristianesimo di Roma e divenne il primo re
cattolico dei Franchi, si guadagnò ben più dell'approvazione della moglie, un
regno assai più sostanzioso di quello dei Cieli.
Si sa che nel 496 vi furono numerosi incontri segreti tra Clodoveo
e san Remigio. Subito dopo, fu ratificato un accordo tra il re e la Chiesa di
Roma. Per quest'ultima, l'accordo rappresentava un grande trionfo politico.
Avrebbe assicurato la sua sopravvivenza e la posizione di suprema autorità
spirituale dell'Occidente. Avrebbe consolidato la posizione di Roma, alla pari
con quella di Co-stantinopoli. Avrebbe offerto prospettive egemoniche e mezzi
efficienti per sradicare le innumerevoli eresie. E Clodoveo sarebbe stato
colui che avrebbe realizzato tutto questo, la spada della Chiesa di Roma, lo
strumento che le avrebbe permesso d'imporre il suo dominio spirituale, il
braccio secolare e la manifestazione concreta della sua potenza.
In cambio, Clodoveo ricevette il titolo di « Novus Costantinus ».
In altre parole, doveva presiedere un impero unificato, un « Sa-
260
ero romano impero » destinato a succedere a quello diviso, creato
da Costantino, e più tardi distrutto dai Visigoti e dai Vandali. Secondo un
esperto moderno, prima del battesimo Clo-doveo fu « fortificato... da visioni
di un impero, successore di quello di Roma, che sarebbe stato patrimonio della
razza merovingia ».9
Secondo un altro autore moderno, « Clodoveo doveva diventare così
una specie di imperatore dell'Occidente, patriarca dei Germani occidentali, e
pur non governando, avrebbe regnato su tutti i popoli e tutti i re ».10
II patto tra Clodoveo e la Chiesa, insomma, ebbe conseguenze
enormi per la cristianità. E non solo per la cristianità di quel tempo, ma per
tutto il millennio successivo. Il battesimo di Clodoveo segnò la nascita di un
nuovo impero romano: un impero cristiano basato sulla Chiesa di Roma e
amministrato, a livello laico, dalla stirpe merovingia. In altre parole, venne
stretto un vincolo indissolubile tra Chiesa e Stato, ognuno dei quali giurava
all'altro fedeltà perpetua. A ratifica di questo vincolo, nel 496 Clodoveo si
fece battezzare da san Remigio a Reims. Al momento culminante della cerimonia,
san Remigio pronunciò le famose parole:
Mitis depone colla,
Sicamber, adora quod meendisti, incendi quod adorasti.
(China umilmente la testa, o
Sicambro, adora ciò che bruciavi, e brucia ciò che adoravi.)
È importante notare che il battesimo di Clodoveo non fu un'incoronazione,
contrariamente a quanto talvolta sostengono gli storici. La Chiesa non nominò
re Clodoveo. Clodoveo era già re, e la Chiesa non poteva far altro che
riconoscerlo. E così facendo, si legò ufficialmente non soltanto a Clodoveo, ma
anche ai suoi successori: non a un individuo, ma a una stirpe. Sotto questo
aspetto, il patto ricorda l'alleanza che, nell'Antico Testamento, Dio stringe
con re Davide: un patto che può venire modificato, come nel caso di Salomone,
ma non revocato, infranto o tradito. E i Merovingi non persero mai di vista
questo parallelo.
Per il resto della sua vita, Clodoveo realizzò quanto la Chiesa si
attendeva da lui. Con efficienza irresistibile, la fede fu imposta con
la spada; e con la sanzione, e il mandato spirituale della Chiesa,
il regno franco estese i suoi domìni a est e a sud, abbracciando gran parte
dell'odierna Francia e dell'odierna Germania. Fra i numerosi avversari di
Clodoveo i più importanti furono i Visigoti, che avevano abbracciato l'eresia
ariana. Contro l'Impero visigoto, situato a cavallo dei Pirenei ed esteso a
nord fino a Tolosa, Clodoveo condusse le sue campagne più assidue e
organizzate. Nel 507 inflisse ai Visigoti una sconfìtta decisiva nella
battaglia di Vouillé. Poco più tardi l'Aquitania e Tolosa caddero in mano ai
Franchi. L'Impero visigoto a nord dei Pirenei si sfasciò sotto l'incalzare delle
forze di Clodoveo. Da Tolosa, i Visigoti ripiegarono su Carcassonne. Poi,
cacciati anche da Carcassonne, insediarono la loro capitale, il loro ultimo
bastione, nel Razès, a Rhédae che oggi si chiama Rennes-le-Chàteau.
Dagoberto II
Nel 511 Clodoveo morì, e l'impero da lui creato venne diviso,
secondo le consuetudini merovinge, tra i quattro figli maschi. Poi, per più di
un secolo, la monarchia merovingia presiedette numerosi regni, spesso in
guerra tra loro, mentre le linee della successione si aggrovigliavano sempre di
più e le pretese ai troni creavano enormi confusioni. L'autorità che un tempo
era stata nelle mani di Clodoveo si frammentò, divenne sempre più fiacca, e
l'ordine civile si disgregò. Gli intrighi, le macchinazioni, i sequestri di persona
e gli assassinii politici diventarono sempre più frequenti. E i cancellieri di
corte, i maestri di palazzo accumularono un potere sempre più grande: un
fattore che avrebbe finito per contribuire alla caduta della dinastia.
Privati progressivamente dell'autorità, i sovrani merovingi del
più tardo periodo dinastico sono stati chiamati spesso les rois fainéant, «
i re fannulloni ». I posteri li hanno sprezzantemente stigmatizzati come
monarchi deboli, inetti, effeminati, docili strumenti nelle mani di astuti
consiglieri. Le nostre ricerche rivelarono però che non sempre questo ritratto
era fedele alla realtà. È vero che le continue guerre, faide e lotte intestine
portarono sul trono parecchi principi merovingi giovanissimi, e che quindi i
loro consiglieri non ebbero mai troppo difficoltà a condizionarli. Ma quelli
262
NEUSTRIA
AUSTRASIA
BURGUNDIA
Carta 7 I regni
merovingi.
che diventarono adulti si dimostrarono energici e decisi quanto i
loro predecessori. Senza dubbio fu così nel caso di Dagoberto IL
Dagoberto, erede al trono d'Austrasia, nacque nel 651. Quando nel
656 morì suo padre, furono messi in atto tentativi romanzeschi per impedirgli
di salire al trono. L'infanzia e la giovinezza di Dagoberto sembrano uscite da
una leggenda medievale o da una favola. Invece è storia documentata."
Alla morte del padre, Dagoberto fu fatto rapire dal maestro di
palazzo in carica, Grimoaldo. Tutte le ricerche risulteranno vane, e non fu
difficile convincere la corte che il bambino era morto. Grimoaldo concertò allora
l'ascesa al trono del proprio figlio, affermando che quella era stata la
volontà espressa dal precedente sovrano, il padre di Dagoberto. Il trucco
riuscì. Persino la madre di Dagoberto, convinta che il bambino fosse morto,
accettò l'autorità dell'ambizioso maestro di palazzo.
Grimoaldo, tuttavia, non aveva avuto il coraggio di andare fino in
fondo e di fare uccidere il giovanissimo principe. Dagoberto era stato
segretamente affidato al vescovo di Poitiers. Anche il vescovo, sembra, non
osò far assassinare il bambino. Perciò Dagoberto fu relegato in Manda, in
esilio perpetuo. Crebbe nel monastero irlandese di Slane,12 non
lontano da Dublino; e nella scuola annessa al chiostro ricevette un'istruzione
di gran lunga superiore a quella che avrebbe potuto conseguire nella Francia di
quei tempi. Sembra che durante questo periodo frequentasse la corte del Sommo
re di Tara. Inoltre fece amicizia con tre principi della Northumbria che
studiavano anch'essi a Slane. Nel 666, probabilmente quando viveva ancora in
Manda, Dagoberto sposò Matil-de, una principessa di stirpe celtica. Poco tempo
dopo si trasferì dall'Irlanda in Inghilterra e si stabilì a York, nel regno di
Northumbria. Qui si legò di stretta amicizia con san Wilfrid, vescovo di York,
che divenne il suo mentore.
Durante questo periodo persisteva tutt'ora il dissidio tra la
Chiesa di Roma e la Chiesa celtica, che rifiutava di riconoscerne l'autorità.
Wilfrid, in nome dell'unità del cristianesimo, si era prodigato per ricondurre
la Chiesa celtica nella sfera di Roma, e c'era riuscito nel famoso Concilio di
Whitby, nel 664. Ma forse la sua successiva amicizia con Dagoberto II non era
immune da altre motivazioni. Al tempo di Dagoberto la devozione dei Merovingi
264
Seguivano II cullo
pagano di "Diana
delle Ardenne
dal nove luochl"
MEROVEO -Capo (ranco
MEHOVEO
«11 Giovane» Rq del Franchi di Yss
CHILDERICOI Re dal Franchi di Vasai
CLODIONE VI
Re d! Cambra!
43B 4B
EVOCHILDE (pagana)
THIERRY I
Re d Auslrasla
511 34
SIGISHERTOI Re d Au5trasla
5B1 75 sp Brunehaul I del re visigoto
Sllrpe | visigota TULCA
1° Conia di Razes
Re del Visigoti
m 642
GISLICA = sorella di Wamba re del Visigoti dal 672
- CLODOVEOI
Ballezzato = CLOTILDE
45G 511 da San
Remi (cristiana)
Rq del Franchi 24 12 436 nipote del re di Burgundia
CLODOMIRO
Re d Orleans
511 24
CHILDEBERTO
Re di Parigi
511 sa
CLOTILDE
sp Amalrlco Re del Visigoti
I
CLOTARIOI = Re di Solssons
S11 SB Radei Franchi
CHILPERICO 561 B4
RediSalsaona = FREDEGONDA
GALESWINTME (sorella di Bmnehaut)
SIQONIO
Preletta delle Gallie
Re del Franchi
I DAGOBERTO I
=
602 38
Re d Au stragi a 622 Re del Franchi 630
= SIGISBERTOIII
Re d Aualrasla 632 629 SG
GISÈLLE DE RAZÈS
I DAGOBERTO
II
651 79 = Ra d Auslrasla 674
Assassinalo per ordine ^^
di Pipino il Grosso
S1GISBERTOIV
676 758 Conte di Razès
i
La discendenza continua
CHILDERICOHI
Deposio nel 751 da Pipino il Breve
che usurpò II trono
con i appoggio del papa
(nipote di Chimerico II)
Ultimo merovingio conosciuto
Tavola 2
La dinastia merovingia,
i re.
[Dall'opera di Henri
Lobineau (Henri de Lenoncourt) ]
nei confronti di Roma, promessa nel patto stretto fra Clodoveo e
la Chiesa un secolo e mezzo prima, non era molto fervida. Fedele sostenitore di
Roma, Wilfrid aspirava a consolidare la supremazia del papato, non soltanto in
Gran Bretagna ma anche sul continente. Nell'eventualità che Dagoberto
ritornasse in Francia e rivendicasse il trono d'Austrasia, era consigliabile
assicurarsi la sua fedeltà. Molto probabilmente Wilfrid vedeva nel re in
esilio il futuro braccio armato della Chiesa.
Nel 670 Matilde, la consorte celtica di Dagoberto, morì nel dare
alla luce la terza figlia. Wilfrid si affrettò a combinare un nuovo matrimonio
per il vedovo, e nel 671 Dagoberto si risposò. Se le sue prime nozze avevano
avuto una potenziale importanza dinastica, le seconde l'ebbero ancora di più.
La seconda moglie di Dagoberto era infatti Giselle de Razès, figlia del conte
di Razès e nipote del re dei Visigoti.11 In altre parole, ora la
stirpe reale merovingia era imparentata con la stirpe reale visigota. In
questa unione c'erano i semi di un impero embrionale che avrebbe unito gran
parte della Francia moderna e si sarebbe esteso dai Pireneì alle Ardenne.
Inoltre questo impero avrebbe portato sotto l'influenza di Roma i Visigoti che
avevano ancora forti tendenze ariane.
Quando Dagoberto sposò Giselle, era già ritornato sul continente.
Secondo la documentazione pervenuta fino a noi, le nozze furono celebrate nella
residenza ufficiale della sposa, a Rhédae, l'odierno Rennes-le-Chàteau. Anzi,
sembra che si svolgessero nella chiesa di Saint Madeleine, l'edificio sul quale
venne successivamente eretta la chiesa di Bérenger Saunière.
Dal primo matrimonio di Dagoberto erano nate tre figlie, ma non un
erede maschio. Da Giselle, ebbe altre due figlie e finalmente, nel 676, un
figlio, il futuro Sigisberto IV. E quando nacque Sigisberto, Dagoberto era re.
Per circa tre anni, sembra, era rimasto a Rennes-le-Chàteau,
seguendo da lontano le vicissitudini del suo regno al nord. Finalmente, nel
674, si era presentata l'occasione favorevole. Con l'appoggio di sua madre e
dei consiglieri di questa, il monarca esule si proclamò re d'Austrasia. Wilfrid
di York diede un importante contributo al suo reinsediamento. Secondo Gerard
de Sède, vi contribuì anche un personaggio molto più sfuggente e misterio-
266
so, sul quale si hanno pochissime notizie storiche: sant'Amatus,
vescovo di Sion in Svizzera.14
Dagoberto, reinsediato sul trono dei suoi avi, non fu affatto un «
re fannullone ». Anzi, si dimostrò un degno successore di Clo-doveo. Si accinse
immediatamente a imporre e a consolidare la sua autorità, reprimendo l'anarchia
che imperversava in Austrasia e ristabilendo l'ordine. Regnò con fermezza,
piegando vari nobili ribelli che disponevano di una potenza militare ed
economica sufficiente per sfidare il trono. E si dice che avesse ammassato un
considerevole tesoro a Rennes-le-Chàteau: queste ricchezze dovevano venire
usate per finanziare la riconquista dell'Aquitania,15 che una
quarantina d'anni prima si era staccata dal regno merovingio e si era
proclamata indipendente.
Nel contempo, Dagoberto dovette costituire una grossa delusione
per Wilfrid di York. Se il vescovo aveva sperato di fare di lui il braccio armato
della Chiesa, si trovò di fronte a un grave disappunto. Anzi, sembra certo che
il re frenasse i tentativi di espansione della Chiesa nei suoi domini, e
incorresse quindi nella collera delle gerarchie ecclesiastiche. Esiste una
lettera inviata a Wilfrid da uno sdegnatissimo prelato franco, il quale si
scaglia contro Dagoberto, colpevole di imporre tasse e di « tenere in dispregio
le chiese di Dio e i loro vescovi ».I6
A quanto sembra, questi non furono i soli motivi di dissidio fra
Dagoberto e Roma. Grazie al matrimonio con una principessa visigota, il re
aveva acquisito vasti territori nell'attuale Linguado-ca. E forse aveva
acquisito anche qualcosa d'altro. I Visigoti erano fedeli alla Chiesa di Roma
soltanto nominalmente. Anzi, la loro devozione al papato era molto evanescente,
e nella famiglia reale predominavano ancora le tendenze ariane. Secondo vari
indizi, Dagoberto avrebbe assimilato queste tendenze.
Nel 679, quando era sul trono da tre anni, Dagoberto s'era già
fatto molti nemici influenti, sia laici che religiosi. Frenando le loro ribelli
aspirazioni autonomistiche, aveva destato il rancore di certi nobili
vendicativi. Osteggiando i suoi tentativi di espansione, si era attirato
l'antipatia della Chiesa. Creando un regime centralizzato ed efficiente, aveva
acceso l'invidia e la preoccupazione di altri potentati franchi, sovrani dei
regni confinanti. E alcuni di questi sovrani avevano alleati e agenti nel regno
di Dagoberto.
267
Uno di questi era il maestro di palazzo del re, Pipino il Grosso.
E Pipino, schierandosi clandestinamente con gli avversari politici di
Dagoberto, non indietreggiò di fronte al tradimento e all'assassinio.
Come quasi tutti i sovrani merovingi, Dagoberto aveva almeno due
capitali. La più importante era Stenay,17 al limitare delle Ardenne.
Presso il palazzo reale di Stenay si estendeva un grande bosco, considerato
sacro da tempo immemorabile e chiamato Foresta di Woévres. Il 23 dicembre 679,
Dagoberto andò a caccia in questa foresta. Considerando la data, è possibile
che la caccia costituisse una specie di occasione rituale. Comunque, ciò che
avvenne ricorda moltissimi echi leggendari, incluso l'assassinio di Sigfrido
nel Nibelungenlied.
Verso mezzogiorno, sopraffatto dalla stanchzza, il re si adagiò
per riposare in riva a un ruscello, ai piedi di un albero. Mentre dormiva, uno
dei suoi servitori - che, sembra, era anche suo figlioccio - gli si accostò
furtivamente ed eseguendo gli ordini di Pipino gli conficcò una lancia in un
occhio. Gli assassini fecero ritorno a Stenay, decisi a sterminare il resto
della famiglia reale. Non si sa di preciso fino a che punto riuscirono nel loro
intento. Ma è certo che per il regno di Dagoberto e la sua famiglia fu la fine,
improvvisa e violenta. La Chiesa non si disperò. Anzi, si affrettò ad avallare
l'operato degli assassini del re. Esiste addirittura una lettera inviata da un
prelato franco a Wilfrid di York, che cerca di razionalizzare e giustificare il
regicidio.18
Il corpo di Dagoberto e la sua sorte postuma ebbero vicissitudini
piuttosto strane. Subito dopo la sua morte, fu sepolto a Stenay, nella cappella
reale di Saint Rémy. Nell'872, quasi due secoli dopo, fu esumato a trasportato
in un'altra chiesa. La nuova chiesa divenne Saint Dagobert, perché lo stesso
anno il re fu canonizzato: non dal papa (i pontefici si sarebbero arrogati
questo privilegio esclusivo soltanto nel 1159), bensì da un smodo
metropolitano. Non è chiaro perché Dagoberto venisse canonizzato. Secondo una
fonte ciò avvenne perché si credeva che le sue reliquie avrebbero salvato la
zona di Stenay dalle scorrerie dei Vichinghi; ma questa spiegazione non è molto
illuminante, poiché non si capisce perché le reliquie dovessero avere un potere
miracoloso. Le autorità ecclesiastiche sembrano dimostrare al riguardo
un'ignoranza im-
268
barazzante. Ammettono che Dagoberto, per qualche ragione imprecisata,
era divenuto l'oggetto di un culto in piena regola e aveva un suo giorno
festivo, il 23 dicembre, anniversario della sua morte.19 Tuttavia,
non sono assolutamente in grado di precisare perché tutto questo fosse
avvenuto. È possibile, certo, che la Chiesa si fosse pentita della parte che
aveva avuto nell'assassinio del re. Quindi la canonizzazione di Dagoberto
potrebbe essere stata una sorta di riparazione. Tuttavia, se questo è vero, non
viene spiegato perché fosse ritenuto necessario un gesto del genere, e neppure
perché fosse compiuto ben due secoli dopo.
Stenay, la chiesa di Saint Dagobert e forse anche le reliquie che
conteneva furono tenute in grande considerazione da molti personaggi illustri
nei secoli successivi. Nel 1069, ad esempio, il duca di Lorena, nonno di
Goffredo di Buglione, accordò alla chiesa speciale protezione e la pose sotto
gli auspici della vicina abbazia di Gorze. Qualche anno dopo, della chiesa si
appropriò un nobile locale. Nel 1093 Goffredo di Buglione mobilitò un esercito
e sottopose Stenay a un assedio in piena regola, con l'unico scopo, sembra, di
riconquistare la chiesa e di restituirla all'abbazia di Gorze.
Durante la Rivoluzione francese, la chiesa fu distrutta e le
reliquie di san Dagoberto, come tante altre in tutto il paese, andarono
perdute. Oggi un cranio che presenta l'incisione rituale e che si dice sia di
Dagoberto è custodito in un convento, a Mons. Tutte le altre reliquie del re
sono scomparse. Ma intorno alla metà del XIX secolo venne alla luce un
documento curiosissimo; una poesia, una litania in ventun versetti, intitolata
« De sancto Dagoberto martyre prose ». Il titolo sottintende quindi che
Dagoberto fu un martire. Si ritiene che la poesia risalga al Medioevo, forse a
tempi anteriori all'anno 1000. Un particolare significativo: fu rinvenuta
nell'abbazia di Orval.20
Gli usurpatoti Carolingi
A stretto rigore, Dagoberto non fu l'ultimo sovrano della dinastia
merovingia. Anzi, i sovrani merovingi conservarono il trono, almeno
nominalmente, per altri tre quarti di secolo. Ma gli ultimi Merovingi
meritarono davvero l'epiteto di « re fannulloni ». Mol-
269
ti erano estremamente giovani, e quindi spesso erano deboli e
indifese pedine nelle mani dei maestri di palazzo, non potevano imporre la
propria autorità e prendere decisioni. Erano poco più che vittime; e molti di
loro vennero uccisi.
Inoltre, i Merovingi di questo tardo periodo dinastico appartenevano
a rami cadetti, non al ceppo principale disceso da Clodo-veo e Meroveo. Questo
ceppo era stato eliminato con Dagoberto II. Perciò, a tutti i fini pratici,
l'assassinio di Dagoberto può essere considerato come la fine della dinastia
merovingia. Quando nel 754 morì Childerico III, fu soltanto una formalità per
quanto riguardava il potere dinastico. Quali sovrani dei Franchi, i Merovingi
avevano cessato di esistere da molto tempo.
Il potere, sfuggito alle mani dei Merovingi, passò in quelle dei
maestri di palazzo, un processo che era già incominciato prima del regno di
Dagoberto. Fu un maestro di palazzo, Pipino d'Héristal, a ordinare l'uccisione
di Dagoberto. Dopo Pipino d'Héristal venne suo figlio, il famoso Carlo
Martello, nonno di Carlomagno.
Per i posteri, Carlo Martello è uno dei personaggi più eroici
della storia francese, e senza dubbio non demeritò la gloria che lo circonda.
Fu Carlo a bloccare i Mori invasori nella battaglia di Poitiers, nel 732; e
grazie a questa vittoria Carlo divenne, in un certo senso, « difensore della
Fede » e « salvatore della cristianità ». La cosa strana è che Carlo Martello,
nonostante la sua potenza, non s'impadronì del trono, anche se avrebbe potuto
farlo facilmente. Al contrario, sembra che tenesse il trono in superstizioso
timore e, con ogni probabilità, che lo considerasse una prerogativa
esclusivamente merovingia. E certamente i successori di Carlo, che in effetti
si impadronirono del trono, si preoccuparono di autolegittimarsi sposando
principesse merovinge.
Carlo Martello morì nel 741. Dieci anni più tardi suo figlio
Pipino III il Breve, maestro di palazzo del re Childerico III, si assicurò
l'appoggio della Chiesa per rivendicare ufficialmente il trono. « Chi dovrebbe
essere re? » chiesero al papa gli ambasciatori di Pipino. « L'uomo che detiene
veramente il potere oppure colui che, pur essendo chiamato re, non ha potere
alcuno? » II papa si pronunciò in favore di Pipino il Breve. In nome della sua
autorità apostolica ordinò che Pipino venisse creato re dei Fran-
270
chi, in aperta violazione del patto ratificato con Clodoveo due
secoli e mezzo prima. Con l'avallo di Roma, Pipino depose Chil-derico III, lo
relegò in un monastero e - per umiliarlo o per privarlo dei « poteri magici » o
per entrambe le ragioni - gli fece tagliare la sacra chioma. Childerico morì
quattro anni dopo, e nessuno contestò l'ascesa al trono di Pipino.21
Un anno prima era opportunamente apparso un documento
fondamentale, destinato a cambiare il corso della storia. Il documento veniva
chiamato la « Donazione di Costantino ». Oggi non esistono dubbi in proposito:
si trattava di un falso perpetrato, e in modo neppure troppo abile, dalla
cancelleria pontificia. A quel tempo, tuttavia, fu creduto autentico, ed ebbe
un'influenza enorme.
La « Donazione di Costantino » veniva presentata come un atto che
risaliva alla presunta conversione dell'imperatore al cristianesimo nel 312
d.C. Secondo la « Donazione », Costantino aveva ufficialmente ceduto al vescovo
di Roma i suoi simboli imperiali, che erano divenuti così proprietà della Chiesa.
Inoltre, la « Donazione » asseriva che Costantino, per la prima volta, aveva
dichiarato che il vescovo di Roma era il « Vicario di Cristo », e gli aveva
offerto lo Status d'imperatore. Nella sua qualità di « Vicario di Cristo », il
vescovo aveva reso le insegne imperiali a Costantino, che da quel momento le
aveva portate con la sanzione e l'autorizzazione della Chiesa: più o meno come
un prestito.
Le implicazioni di questo documento sono piuttosto evidenti.
Secondo la « Donazione di Costantino », il vescovo di Roma esercitava sulla
cristianità la suprema autorità secolare, oltre alla suprema autorità
religiosa. In pratica era un papa-imperatore, che poteva disporre come meglio
credeva della corona imperiale e poteva delegare il potere nella misura e nel
modo da lui ritenuti più opportuni. In altre parole possedeva, tramite Cristo,
il diritto incontestabile di creare e di deporre i sovrani. È appunto dalla «
Donazione di Costantino » che derivò il successivo potere del Vaticano negli
affari secolari.
Appellandosi all'autorità che le veniva dalla « Donazione », la
Chiesa usò tutta la sua influenza in favore di Pipino il Breve. Inventò una
cerimonia per mezzo della quale il sangue degli usurpatori - o di chiunque
altro, del resto - veniva reso sacro. La
271
cerimonia fu conosciuta come incoronazione e unzione, nel senso in
cui questi termini furono intesi durante il Medioevo fino al Rinascimento.
All'incoronazione di Pipino i vescovi furono per la prima volta autorizzati a
presenziare con un rango eguale a quello dei nobili laici. E l'incoronazione
non rappresentava più il riconoscimento di un re, o un patto con un re. Adesso
era addirittura la creazione di un re.
Anche il rito dell'unzione fu trasformato. In passato, quando
veniva praticato, era un atto cerimoniale di riconoscimento e di ratifica. Ma
ora assumeva un significato nuovo. Adesso l'unzione aveva la precedenza sul
sangue, e poteva « magicamente » santificarlo. L'unzione diventava qualcosa di
più di un gesto simbolico: diventava l'atto mediante il quale veniva conferita
a un sovrano la grazia divina. E il papa, compiendo questo atto, diveniva il
mediatore supremo tra Dio e i re. Tramite il rito dell'unzione, la Chiesa si
arrogava il diritto di fare i re. Il sangue, adesso, era subordinato all'olio
santo. E tutti i monarchi venivano subordinati e sottomessi al pontefice.
Nel 754 Pipino il Breve venne ufficialmente unto a Ponthion,
inaugurando così la dinastia carolingia. Il nome deriva da Carlo Martello,
sebbene in genere sia associato al più famoso sovrano carolingio, Carlomagno,
figlio di Pipino il Breve. E nell'800 Carlo-magno fu proclamato Sacro romano
imperatore:* un titolo che, in forza del patto concluso con Clodoveo tre secoli
prima, avrebbe •dovuto essere riservato esclusivamente alla stirpe merovingia.
Roma divenne così la sede di un impero che abbracciava tutta l'Europa
occidentale, i cui sovrani regnavano solo grazie alla sanzione papale.
Nel 496 la Chiesa si era legata in perpetuo alla stirpe merovingia.
Approvando l'assassinio di Dagoberto, ideando le cerimonie dell'incoronazione e
dell'unzione, avallando le pretese di Pipino, aveva tradito clandestinamente il
patto. Incoronando Carlomagno aveva reso pubblico il tradimento con fati
accompli. Nelle parole di un autore moderno: Non possiamo quindi avere la
certezza che l'unzione dei Carolingi inten-
*La consacrazione ufficiale
è avvenuta a Roma nel Natale dell'800 a opera di papa Leone III. [N.d.R.]
272
desse compensare la perdita delle proprietà magiche del sangue,
simboleggiate dalle lunghe chiome. Se compensava qualcosa, probabilmente era
il tradimento dell'impegno, perpetrato violando un giuramento di fedeltà in
modo particolarmente scandaloso.22
E ancora: « Roma mostrò la strada, introducendo l'unzione come
rito che "faceva i re"... e che in un certo senso alleggeriva la
coscienza di "tutti i Franchi" ».23
Ma non tutte le coscienze. Si direbbe che gli stessi usurpatori
sentissero, se non rimorso, almeno la necessità di provare la loro legittimità.
Per questo scopo Pipino il Breve, immediatamente prima dell'unzione, aveva
sposato con grande ostentazione una principessa merovingia. E Carlomagno fece
altrettanto.
Sembra inoltre che Carlomagno fosse dolorosamente consapevole del
tradimento implicito nella sua incoronazione. Secondo le cronache
contemporanee, l'incoronazione fu un'accurata messa in scena, predisposta dal
papa all'insaputa del monarca franco; e sembra che Carlomagno fosse sorpreso e
profondamente imbarazzato. Era già stata preparata di nascosto una corona.
Carlomagno era stato attirato a Roma e indotto ad assistere a una messa
solenne. Quando prese posto in chiesa, il papa, senza preavviso, gli posò sulla
testa il diadema, mentre il popolo lo acclamava « Carlo, Augusto, incoronato da
Dio, grande e pacifico imperatore dei Romani ». Per ripetere le parole di un
cronista del tempo, Carlomagno « disse chiaramente che non sarebbe entrato
nella cattedrale quel giorno, sebbene fosse la più grande di tutte le festività
della Chiesa, se avesse saputo in anticipo ciò che intendeva fare il papa ».24
Ma, qualunque fosse la responsabilità di Carlomagno nell'intera
vicenda, il patto con Clodoveo e la dinastia merovingia era stato
vergognosamente tradito. E tutte le nostre indagini indicavano che questo
tradimento, per quanto avvenuto oltre 1100 anni prima, continuava a essere
come una ferita aperta per il Priorato di Sion. Mathieu Paoli, il ricercatore
indipendente citato nel capitolo Vili, era pervenuto alla stessa conclusione:
Per loro [il Priorato di Sion] l'unica nobiltà autentica è la
nobiltà d'origine visigota-merovingia. I Carolingi e rutti gli altri non sono
altro che usurpatori. In effetti, erano soltanto funzionari del re, incaricati
di amministrarne le terre, che dopo aver trasmesso ereditariamente il diritto
di governare quelle terre, s'impadronirono del potere. Consacrando Carlomagno
nel-
273
l'anno 800, la Chiesa
commise uno spergiuro perché, al battesimo di Clodoveo, aveva concluso con i
Merovingi un'alleanza che aveva fatto della Francia la figlia primogenita della
Chiesa.25
L'esclusione di Dagoberto II dalla storia
Nel 679, con l'assassinio di Dagoberto II, la dinastia merovingia
praticamente finì. Con la morte di Childerico III, nel 755, i Merovingi
parvero svanire del tutto dalla scena della storia mondiale. Secondo i «
documenti del Priorato », tuttavia, la stirpe merovingia era sopravvissuta e
si era perpetuata fino ai giorni nostri, partendo da Sigisberto IV, figlio di
Dagoberto e della sua seconda moglie, Giselle de Razès.
Non c'è dubbio: Sigisberto esistette ed era l'erede di Dagoberto.
Secondo tutte le fonti diverse dai « documenti del Priorato », però, la sua
sorte non è chiara. Certi cronisti hanno presunto tacitamente che venisse
assassinato insieme al padre e ad altri membri della famiglia reale. Un racconto
molto dubbio afferma che morì in un incidente di caccia un anno o due prima del
padre. Se questo è vero, Sigisberto doveva essere un cacciatore molto precoce,
perché a quel tempo non poteva avere più di tre anni.
Non c'è una sola notizia documentata circa la morte di Sigisberto.
E a parte i « documenti del Priorato », nulla conferma la sua sopravvivenza. La
sua storia sembra perduta nelle nebbie del tempo, e nessuno se ne è mai dato
pensiero - eccettuato, naturalmente, il Priorato di Sion. In ogni caso, Sion
sembrava essere a conoscenza di certe notizie che non erano accessibili
altrove, o erano considerate troppo trascurabili per meritare indagini approfondite,
o erano state soppresse volutamente.
Non ci sorprende che non sia giunta fino a noi nessuna notizia
circa la sorte di Sigisberto. Persino su Dagoberto, nessuna notizia divenne
pubblicamente accessibile prima del XVII secolo. Durante il Medioevo, si
direbbe, fu compiuto un tentativo sistematico per cancellare Dagoberto dalla
storia, per negare addirittura che fosse esistito. Oggi Dagoberto II figura
nelle enciclopedie. Ma fino al 1646 non si aveva neppure la certezza che fosse
mai vissuto.26 Tutti gli elenchi e le genealogie dei sovrani
franchi, compilati prima del 1646, lo omettono e saltano (nonostante la
clamorosa incoerenza) da Dagoberto I a Dagoberto III, uno degli ultimi
274
sovrani merovingi, morto nel 715. E soltanto nel 1655 Dagoberto II
fu reintegrato negli elenchi accreditati dei re franchi. Tenuto conto di questo
processo di eliminazione, non ci sbalordì troppo la scarsità di notizie sul
conto di Sigisberto. E non potevamo fare a meno di sospettare che le eventuali
notizie fossero state soppresse di proposito.
Ma perché mai, ci chiedemmo, Dagoberto II era stato espunto dalla
storia? Che cosa nascondeva questa eliminazione? Perché qualcuno doveva mirare
a negare l'esistenza stessa di un uomo? Una possibile spiegazione, ovviamente,
era che così facendo si negava l'esistenza dei suoi eredi. Se Dagoberto non era
mai vissuto, non poteva essere vissuto neppure Sigisberto. Ma perché doveva
essere tanto importante, ancora nel XVII secolo, negare che fosse vissuto
Sigisberto? A meno che fosse veramente sopravvissuto e che i suoi discendenti
venissero tuttora considerati come una minaccia.
Avevamo la sensazione di trovarci alle prese con un'operazione di
insabbiamento. Evidentemente c'erano interessi che avrebbero avuto qualcosa da
perdere se la sopravvivenza di Sigisberto fosse diventata di dominio pubblico.
Nel IX secolo, e forse ancora al tempo delle Crociate, questi interessi
potevano essere la Chiesa e la casa regnante francese. Ma perché la cosa era
ancora importante ai tempi di Luigi XIV? Ormai doveva sicuramente trattarsi di
una questione accademica, perché in Francia si erano succedute tre dinastie, e
il protestantesimo aveva spezzato l'egemonia di Roma. A meno che il sangue
merovingio avesse veramente qualcosa di eccezionale. Non già « proprietà
magiche », ma qualcosa d'altro: qualcosa che conservava la potenziale
esplosività anche quando le superstizioni sul sangue magico erano state dimenticate.
II principe Guillem de Celione, conte di Razès
Secondo i « documenti del Priorato » Sigisberto IV, alla morte del
padre, fu salvato da una sorella e portato clandestinamente a sud, nei domini
della madre, la principessa visigota Giselle di Razès. Si dice che arrivasse in
Linguadoca nel 681 e, poco tempo dopo, adottasse - o ereditasse - i titoli
dello zio, duca di Razès e conte di
275
Rhédae. Si dice inoltre che assumesse il cognome o soprannome di «
Plant-Ard » (divenuto in seguito Plantard), da réjeton ardent, « ardente
virgulto » della vite merovingia. Con questo nonìe e i titoli ereditati dallo
zio, si dice, perpetuò la sua stirpe. E nell'886 un ramo di questa stirpe
culminò in Bernard Plantavelu - un nome derivato apparentemente da Plant-Ard o
Plantard - il cui figlio divenne il primo duca d'Aquitania.
A quanto potemmo accertare, nessuno storico indipendente
confermava o smentiva queste asserzioni. L'intera questione veniva semplicemente
ignorata. Ma gli indizi circostanziali facevano ritenere che Sigisberto fosse
veramente sopravvissuto e avesse perpetuato la sua schiatta. L'ostinata
cancellazione di Dagoberto dalla storia conferisce credibilità a questa
conclusione. Negando la sua esistenza, si veniva a invalidare ogni eventuale
stirpe discesa da lui. E questo costituisce un buon movente per un'operazione
altrimenti inspiegabile. Fra gli altri indizi frammentari c'è un atto datato
718, riguardante la fondazione di un monastero, a pochi chilometri da Rennes-le
Chàteau, a opera di « Sigisberto, conte di Rhédae, e sua moglie, Magdala ».27
Se si esclude questo atto, per un altro secolo non si ha alcuna notizia dei
titoli di Rhédae e di Razès. Tuttavia, quando uno dei due ricompare, si riaffaccia
in un contesto di estremo intersse.
Nel 742 c'era, nella Francia meridionale, uno Stato completamente
autonomo: un principato, secondo alcuni resoconti, un regno vero e proprio,
secondo altri. La documentazione è scarsa e la storia si tiene nel vago - anzi
moltissimi storici ne ignorano l'esistenza - ma non c'è dubbio che questo Stato
esistesse. Fu riconosciuto ufficialmente da Carlomagno e dai suoi successori,
dal califfo di Baghdad e dal mondo islamico. Era riconosciuto malvolentieri
anche dalla Chiesa, alla quale confiscò alcune terre. E sopravvisse fin verso
la fine del IX secolo.
Tra il 759 e il 768 il signore di questo Stato - che includeva il
Razès e Rennes-le-Chàteau - venne ufficialmente proclamato re. Nonostante la
disapprovazione di Roma, fu riconosciuto dai Carolingi, dei quali si dichiarò
vassallo. Nelle cronache pervenute fino a noi figura più di frequente con il
nome di Teodorico, o Thierry. E in maggioranza, gli studiosi moderni lo
ritengono di discendenza merovingia.28 Non si sa con certezza da
dove derivasse questa
276
discendenza. Potrebbe derivare da Sigisberto. Comunque, non vi è
dubbio che nel 790 il figlio di Teodorico, Guillem di Gellone, portasse il
titolo di conte di RazèS, lo stesso che Sigisberto avrebbe portato e trasmesso
ai suoi discendenti.
Guillem de Gellone fu uno degli uomini più famosi del suo tempo,
al punto che la sua realtà storica, come nel caso di Carlo-magno e di Goffredo
di Buglione, è stata oscurata dalla leggenda. Prima delle Crociate furono
composti su di lui non meno di sei poemi epici, chansons de geste simili
alla famosa Chanson de Roland. Nella Divina Commedia, Dante ne
parla con grande considerazione.v Ma anche prima di Dante,
Guillem era nuovamente divenuto oggetto di un interesse letterario. All'inizio
del XIII secolo figurò come protagonista di Willehalm, un romanzo epico
incompiuto composto da Wolfram von Eschenbach, la cui opera più famosa, Parzival,
è probabilmente il più importante di tutti i romanzi dedicati ai misteri
del Santo Graal. In un primo momento ci sembrò piuttosto curioso che Wolfram -
il quale in tutte le altre opere parla del Graal, della « famiglia del Graal »
e della stirpe della « famiglia del Graal » - all'improvviso si fosse dedicato
a un tema radicalmente diverso, come Guillem de Gellone. D'altra parte, in un
altro romanzo Wolfram affermava che il « castello del Graal », dimora della «
famiglia del Graal », era situato nei Pirenei: in quello che, all'inizio del IX
secolo, era il dominio di Guillem de Gellone.
Guillem ebbe stretti rapporti con Carlomagno. Sua sorella, anzi,
sposò uno dei figli di Carlomagno, stabilendo così un legame dinastico con il
sangue imperiale. E lo stesso Guillem fu uno dei principali comandanti
imperiali nelle continue guerre contro i Mori. Nell'803, pochi anni dopo
l'incoronazione di Carlomagno come Sacro romano imperatore, Guillem conquistò
Barcellona, raddoppiando i propri territori ed estendendo la sua influenza al
di là dei Pirenei. Carlomagno gli era così grato per i suoi servigi che
confermò come istituzione permanente il suo principato. L'atto di ratifica è
andato perduto o distrutto, ma vi sono abbondanti testimonianze della sua
esistenza.
'Dante lo ricorda,
chiamandolo « Guiglielmo », nel canto XVIII del Paradiso, vs. 46. [N.d.T.]
277
Autori indipendenti e inoppugnabili hanno compilato genealogie
dettagliate della stirpe di Guillem de Gellone, della sua famiglia e dei suoi
discendenti.29 Tuttavia queste fonti non danno alcuna indicazione
circa gli antecedenti di Guillem, eccettuato suo padre Teodorico. Insomma, le
vere origini della famiglia erano avvolte nel mistero. E gli storici
contemporanei considerano con una certa perplessità, in genere, l'apparizione
enigmatica e improvvisa, di un casato tanto influente. Una cosa, comunque, è
certa: nell'886 la stirpe di Guillem de Gellone culminò in Bernard Plantavelu,
che fondò il ducato d'Aquitania. In altre parole, la discendenza di Guillem
culminò esattamente nello stesso personaggio in cui culminò, secondo i «
documenti del Priorato », la schiatta di Sigisberto IV e dei suoi discendenti.
Naturalmente, eravamo tentati di balzare a una conclusione, e di
servirci delle genealogie contenute nei « documenti del Priorato » per colmare
la lacuna che appare nella storia ufficiale. Eravamo tentati di concludere che
gli enigmatici progenitori di Guillem de Gellone fossero Dagoberto II e
Sigisberto IV, insomma la linea principale della deposta dinastia merovingia,
la linea citata nei « documenti del Priorato » con il nome di Plant-Ard o
Plantard.
Purtroppo, non potevamo farlo. Data la confusione esistente nelle
cronache pervenute fino a noi, non potemmo accertare definitivamente la
connessione precisa tra la famiglia Plantard e la linea di Guillem de Gellone.
È possibile che fossero la stessa cosa. D'altra parte, poteva darsi che a un
certo punto si fossero imparentate per matrimonio. Rimaneva certo, tuttavia,
che entrambe le linee, nell'886, erano culminate in Bernard Plantavelu e nei
duchi d'Aquitania.
Anche se non sempre corrispondevano esattamente nelle date e nelle
trascrizioni dei nomi, le genealogie connesse a Guillem de Gellone costituivano
in un certo senso una conferma indipendente delle genealogie incluse nei «
documenti del Priorato ». Potevamo quindi accettare, in via provvisoria e in
assenza di prove contrarie, che la stirpe merovingia fosse continuata più o
meno come asserivano i « documenti del Priorato ». Potevamo provvisoriamente
accettare che Sigisberto fosse sopravvissuto all'assassinio del padre, avesse
adottato il cognome Plantard e, come conte di Razès, avesse perpetuato la
schiatta paterna.
278
Stirpe merovingia
Sllrpa visigota
= GISÉLLE DE RAZÉS
figlioccia di san Willrid di York Vissuta a Rliédna
(Ronnos la Chatoau)
StaiSBERTOIV ■
676 750
Conio di Razòa
«Virgulto ardente»
2 matrimoni
SIQISBERTOV =
695/698-763/768 Conto di Razès
OLBA : (Àlda?)
715 70 /
Conia di Razès
Chiamali -I Principi eremiti- perché
cercarono rifugio nella grotta
di una montagna nel pressi di Rhòdao
durante I invasione saracena
La lapido della loro tomba comune
si trova oggi nel Museo
di Rannes lo Chatoau
!
ODE
Conto di Razòs Fondatola
dell abbazia dì Alet
= ROTAUDE
m 055
Ebbe In dota
Blanchelort 795
ARDILA = 775-B36 Conte di
Razòs
ACFREO
Conte di Razès BB1/070/B77 m906
AUREOL
capostipite della famiglia Blanchelort
Stirpe carolingia
BERAV 794 860
HILDERICI -Conto di Hazès
— SIGISBERTOVI
-Principe Ursus-
m B84/8B5
Ultimo conta di Razòs
di discendenza merovingia
I
BERNARD -Pianta vallici -Pianta Pilus» Conte di Razès
m 877
Fondò il ducato di Aquitania
Unea esula In Brelagna dopo il tentativo di rivolta contro
Ludovico il nell 681
Tavola 3 La dinastia merovingia:
I conti di
Razès.
{Dall'opera di Henn Lobineau, basata sulle ricerche dell'abate
Ptchon e de! dottor Herré ]
II principe Ursus
Nell'886, naturalmente, il « virgulto fiorente della vite merovingia
» era ormai sbocciato in un complicato albero genealogico. Un ramo era
costituito da Bernard Plantavelu e dai duchi d'Aquita-nia. E c'erano altri
rami. I « documenti del Priorato » affermano che il nipote di Sigisberto IV,
Sigisberto VI, era conosciuto con il nome di « principe Ursus ». Tra l'877 e
l'879 il « principe Ursus » sarebbe stato proclamato ufficialmente « re Ursus
». Con l'aiuto di due nobili, Bernard d'Auvergne e il marchese di Gothie, avrebbe
scatenato un'insurrezione contro Lodovico II di Francia per riconquistare ciò
che gli spettava di diritto.
Gli storici indipendenti confermano che l'insurrezione vi fu
veramente tra l'877 e 1*879. Il capo, l'istigatore, non viene nominato come
Sigisberto VI. Ma vi sono riferimenti a un personaggio chiamato « principe
Ursus ». Si sa inoltre che il « principe Ursus » partecipò a una strana e
complessa cerimonia a Nfmes, nella quale cinquecento ecclesiastici cantarono il
Te Deum.30 In base a tutti i resoconti, si direbbe che la
cerimonia fosse un'incoronazione. Forse fu l'incoronazione cui alludono i «
documenti del Priorato »: la proclamazione a re del « principe Ursus ».
Ancora una volta, i « documenti del Priorato » trovavano una conferma
indipendente. Ancora una volta, sembravano attingere a notizie non ottenibili
altrove, notizie che a volte contribuivano a spiegare certe cesure nella storia
accettata. In questo caso, ci avevano apparentemente detto che l'enigmatico «
principe Ursus » era in realtà il discendente diretto, tramite Sigisberto IV,
dell'assassinato Dagoberto II. E l'insurrezione, che gli storici non sapevano
come spiegare, ora poteva venire interpretata come il tentativo perfettamente
comprensibile compiuto dalla deposta dinastia merovingia per riconquistare
l'eredità che le spettava: l'eredità conferita da Roma mediante il patto con
Clodoveo, in seguito tradito.
Secondo i « documenti del Priorato » e le fonti indipendenti,
l'insurrezione fallì; il « principe Ursus » e i suoi sostenitori furono
sconfitti in una battaglia presso Poitiers nell'881. A causa di questo
insuccesso, la famiglia Plantard avrebbe perduto i possedimenti nella Francia
meridionale, sebbene conservasse ancora i titoli
280
ormai soltanto nominali di duca di Rhédae e conte di Razès. Il «
principe Ursus » sarebbe morto in Bretagna, mentre la sua famiglia si legava
per matrimonio con la casa ducale bretone. Prima della fine del IX secolo,
quindi, il sangue merovingio era affluito nei ducati di Bretagna e di Aquitania.
Negli anni che seguirono, la famiglia - incluso Alain, in seguito
duca di Bretagna - avrebbe cercato rifugio in Inghilterra, dove formò un ramo
chiamato « Pianta ». Ancora una volta, autori indipendenti confermano che
Alain, con i familiari e il seguito, fuggì in Inghilterra per sottrarsi ai
Vichinghi. Secondo i « documenti del Priorato », un membro del ramo inglese
della famiglia, elencato come Bera VI, sarebbe stato soprannominato « l'Architetto
». Si dice che lui e i suoi discendenti, dopo aver trovato ricetto in
Inghilterra al tempo di re Athelstan, praticassero « l'arte della costruzione
»: un accenno apparentemente enigmatico. È interessante ricordare che le fonti
massoniche fanno risalire l'origine della massoneria in Inghilterra al regno
di Athelstan.31 Era possibile che la stirpe merovingia, ci
chiedemmo, oltre a rivendicare il trono francese, fosse collegata in un modo o
nell'altro a qualcosa che costituiva il nucleo della massoneria?
La famiglia del Graal
II Medioevo è caratterizzato da una mitologia ricca e sonante come
quelle dell'antica Grecia e di Roma. In parte, questa mitologia si riferisce,
sia pure in modo molto esagerato, a personaggi storici: Artù, Rolando (Orlando)
e Carlomagno, Rodrigo Diaz di Vivar, più conosciuto come El Cid. Altri miti, ad
esempio quelli del Graal, sembrerebbero a prima vista avere una base più inconsistente.
Tra i miti medievali più popolari e suggestivi c'è quello di
Lohengrin, il « Cavaliere del Cigno ». Da una parte, è strettamente legato ai
favolosi romanzi delGraal; dall'altra cita vari personaggi storici, e forse è
unico, in questa sua mescolanza di realtà e di fantasia. E grazie a opere come
quella di Wagner, continua ancora oggi a esercitare il suo fascino.
Secondo le leggende medievali, Lohengrin - chiamato talvolta
Helias, un nome che lo associa al sole - apparteneva all'elusiva e
28!
misteriosa « famiglia del Graal ». Nel romanzo di Wolfram von
Eschenbach, è figlio di Parzival, il supremo « Cavaliere del Graal ». Un
giorno, nel sacro tempio o castello del Graal a Mun-salvaesche, Lohengrin
avrebbe udito la campana della cappella suonare senza che nessuno la toccasse:
era il segnale che il suo aiuto veniva disperatamente richiesto altrove.
Abbastanza prevedibilmente, chi lo richiedeva era una damigella in angustie:
la duchessa di Brabante32 secondo alcune fonti, la duchessa di Buglione
secondo altre. La dama aveva bisogno disperato di un campione, e Lohengrin si
affrettò a raggiungerla su una navicella trainata da cigni araldici. In
singoiar tenzone, Lohengrin sconfisse il persecutore della duchessa e la sposò.
Al momento delle nozze, tuttavia, pronunciò un monito. La consorte non doveva
mai chiedergli quali fossero la sua origine, la sua stirpe e il luogo da cui
era venuto. Per alcuni anni, la dama obbedì alla volontà del marito. Ma alla
fine, spinta dalle insinuazioni scurrili di alcuni invidiosi, osò rivolgergli
la domanda proibita. Lohengrin fu quindi costretto ad andarsene, e svanì nel
tramonto a bordo della navicella trainata dai cigni. E lasciò alla moglie un
figlio di discendenza incerta. Secondo vari racconti, il bambino divenne in
seguito il padre o il nonno di Goffredo di Buglione.
Per la mentalità moderna è difficile valutare l'enorme importanza
che ebbe nella coscienza popolare Goffredo di Buglione, non soltanto ai suoi
tempi ma fino al XVI secolo. Oggi, quando si pensa alle Crociate, si pensa a
Riccardo Cuor di Leone, re Giovanni, magari Luigi IX (san Luigi), o Federico
Barbarossa. Ma fino a tempi relativamente recenti, nessuno di questi personaggi
godette del prestigio e della gloria di Goffredo. Goffredo, comandante della
Prima Crociata, era l'eroe popolare supremo, l'eroe per eccellenza. Fu Goffredo
a inaugurare le Crociate. Fu Goffredo a strappare Gerusalemme ai Saraceni. Fu Goffredo
a togliere il sepolcro di Cristo agli infedeli. E fu Goffredo, più di tutti gli
altri, a conciliare agli occhi della fantasia popolare gliddeali della cavalleria
e la fervida pietà cristiana. Perciò non è sorprendente che Goffredo diventasse
oggetto di una venerazione che persistette per molto tempo dopo la sua morte.
Di conseguenza, si può comprendere perché a Goffredo venissero
attribuiti illustri antenati mitici. Si può comprendere perché
282
I Sllipe I meroving
nerovingla
QUILLAUMEII ' IDOINE
m914 |
Fuggito In Inghilterra nelfll4 q
causa d| un incursione vichinga in Bretagna
Isilrpe celtfca|
ALAIN «11 Orando»
m 9Q7
g
e I suoi discendenti praticarono
i «aria della costruzione-
m 97S
GEMEGE :
ARNAUD Ramo dal "Plani-Amori
f 916 I
,J
MATHUEDOI ^^= HAVOI | B97-?
^-Conle di Poltlers
ALAINIV "Barbaforte*
917 52 Duca di Breiagna 937
= UGO II I dlLusignano
GOZELON
Duca dell'Alta Lorena m 1044
____L
= ERNICULE
Conte di Boulogne m 1041
FEDERICO Papa Stefano IX
La linea Planlard continua ancora oggi
| Stirpo I I scozzese!
\
MATILDE
Contessa di Toscana
(Dndatrìce dell abbazia
diOrvalnol1070
IDEDARDENNES -
«Sanlo tda»
m 1113
= EUSTACHIOIII Conte di Boulogns
MATILDE = STEFANO
d'Inghilterra
I
GOFFHEDO
1061-1100
Conte di Buglione
Duca dalla Bassa Lorena
Re di Gerusalemme
Fondatore dell'Ordine
dlSIon,1099
I
BALDOVINO
Re di Gerusalemm
GM dell'Ordine
di Slon
m 1118
= EUSTACHIOII Conte di Baulogng
Accompagnò Guglielmo il Conquistatore in Inghilterra
ALEX — ENRICO IV
imperatore
Tavola 4 La dinastia merovingia:! «re perduti».
[Dall'opera di H Lobineau (H de Lénoncourt) ]
Wolfram von Eschenbach e altri romancìers medievali lo
collegassero direttamente al Graal e lo presentassero come discendente diretto
della misteriosa « famiglia del Graal ». E queste genealogie fantastiche
appaiono ancora più comprensibili se si pensa che la vera genealogia di
Goffredo permane tuttora oscura. La storia non è in grado di stabilire con
certezza chi fossero i suoi antenati.-13
I « documenti del Priorato » ci fornivano la più plausibile -forse
la prima veramente plausibile - tra le genealogie di Goffredo di Buglione
venute alla luce sino a ora. Fin dove era possibile controllarla, tale
genealogia risultava esatta. Non trovammo indizi che la smentissero, ma ne
trovammo molti che la suffragavano; e colmava in modo convincente numerose e
sconcertanti lacune storiche.
Secondo la genealogia contenuta nei « documenti del Priorato »,
Goffredo di Buglione, tramite la bisnonna che sposò Hu-gues de Plantard nel
1009, era discendente diretto della famiglia Plantard. In altre parole,
Goffredo era di sangue merovingio, e discendeva direttamente da Dagoberto II,
Sigisberto IV e dai « re perduti », les rois perdus. Per quattro secoli,
sembra, il sangue reale merovingio scorse in numerosi alberi genealogici. E
alla fine, con un processo analogo all'innesto dei vitigni nella viticoltura,
avrebbe dato come frutto Goffredo di Buglione, duca di Lorena. E nella casa di
Lorena istituì una nuova eredità.
Questa rivelazione gettava una luce nuova e significativa sulle
Crociate. Ora potevamo inquadrare le Crociate in una prospettiva diversa, e
scorgervi qualcosa di più del gesto simbolico di strappare ai Saraceni il
sepolcro di Cristo.
Ai propri occhi e agli occhi dei suoi fedeli, Goffredo sarebbe
stato ben più che il duca di Lorena. Sarebbe stato, in effetti, un re
legittimo, esponente a buon diritto della dinastia deposta con Dagoberto II nel
679. Ma se Goffredo era un re legittimo, era anche un re senza regno, e la
dinastia dei Capetingi, appoggiata dalla Chiesa di Roma, ormai era insediata
troppo saldamente in Francia perché fosse possibile detronizzarla.
Che cosa può fare un re senza regno? Forse trovarlo. Oppure
crearlo. Il regno più prezioso del mondo intero: la Palestina, la Terrasanta,
dove era vissuto Gesù. Il sovrano di questo regno non sarebbe stato uguale a
tutti i monarchi d'Europa? E presiedendo
284
sul più sacro tra tutti i luoghi della terra, non avrebbe ottenuto
vendetta contro la Chiesa che quattro secoli prima aveva tradito i suoi avi.
Il mistero che ci sfuggiva
Poco a poco, certi pezzi del rompicapo cominciavano ad andare a
posto. Se Goff redo discendeva dai Merovingi, molti frammenti in apparenza
sconnessi assumevano una continuità coerente. Potevano spiegare, così, il
risalto attribuito a elementi apparentemente disparati come la dinastia
merovingia e le Crociate, Dagoberto II e Goffredo, Rennes-le-Chàteau, i
Cavalieri Templari, la casa di Lorena, il Priorato di Sion. Potevamo
addirittura seguire le stirpi merovinge fino ai giorni nostri, fino ad Alain
Poher, Henri de Montpézat (consorte dell'attuale regina di Danimarca), Pierre
Plantard de Saint-Clair, Otto d'Asburgo, titolare del ducato di Lorena e del
regno di Gerusalemme.
Tuttavia, la questione veramente fondamentale continuava a
sfuggirci. Non riuscivamo ancora a capire perché la stirpe merovingia dovesse
avere tanta importanza ancora oggi. Non capivamo perché le sue rivendicazioni dovessero
avere qualche influenza sulla realtà contemporanea, e perché avessero ricevuto
l'appoggio di tanti personaggi illustri nel corso dei secoli. Non capivamo
ancora perché una moderna monarchia merovingia, per quanto legittima,
giustificasse un simile appoggio. Evidentemente, ci era sfuggito qualcosa.
Note
1 Cochet, Le Tombeau de Childeric Ier; Dumas,
Le Tombeau de Childeric.
2 Secondo Cochet, Le
Tombeau de Childeric Ier, p. 25, Leopoldo Guglielmo (che era anche Gran
maestro dei Cavalieri Teutonici) tenne per sé ventisette api e consegnò le
altre. Forse sarà un sospetto eccessivo, ma è interessante notare che a quel
tempo il Priorato di Sion aveva ventisette commanderies.
3 II primo sospetto che Napoleone avesse
qualche legame con questa vicenda l'avemmo notando le citazioni contenute nelle
genealogie dei Dossiers, che elencavano tra le fonti l'opera di un
certo abate Pichon. Tra il 1805 e il 1814, Pichon completò uno studio dei
discendenti Merovingi da Dagoberto II fino al 20 novembre 1809, quando Jean
XXII de Plantard nacque a Semelay (Nièvre). Le sue fonti
2X5
sarebbero stati dei
documenti scoperti dopo la Rivoluzione francese. Altre notizie erano contenute
nella pubblicazione di Madeleine Blancasall, edita dall'Alpina, dove si
affermava (p. 1) che l'abate Pichon aveva ricevuto l'incarico da Sieyès (membro
del Direttorio, 1795-9) e Napoleone. Una cospicua massa di materiale è
contenuta in L'Or de Rennes pour un Napoléon, di Philippe de Chérisey,
ora in microfiche presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. Chérisey
riferisce brevemente che l'abate Sieyès, grazie alle ricerche effettuate da
Pichon tra il materiale degli archivi reali, era al corrente della
sopravvivenza dei Merovingi. Riferì la cosa a Napoleone, e lo esortò a sposare
Giuseppina, vedova di un discendente merovingio, Alexandre de Beauharnais.
Napoleone successivamente adottò i due figli di Giuseppina, che avevano nelle
vene il « sangue reale ».
Più tardi, lo stesso
Napoleone incaricò l'abate Pichon (il cui vero nome sarebbe stato Francois
Dron) di completare una genealogia definitiva. Tra le altre cose, a Napoleone
interessava accertare che la dinastia dei Borbone era illegittima. E quando si
incoronò imperatore dei Francesi (non di Francia) la cerimonia, che ebbe
significative sfumature merovinge, a quanto viene detto sarebbe stata il
risultato degli studi di Sieyès e di Pichon. Se è vero, Napoleone indendeva
gettare le fondamenta di un nuovo impero merovingio. Non avendo figli da
Giuseppina, sposò Maria Luigia,, figlia dell'imperatore d'Austria, una Asburgo
di discendenza merovingia. Maria Luigia gli diede un figlio, Napoleone II, che
aveva nelle vene il « sangue reale » dei Merovingi. Tuttavia Napoleone II morì
senza eredi. Ma il futuro Napoleone III, figlio di Luigi Bonaparte e di Ortensia
di Beauharnais (figlia di primo letto di Giuseppina) era anch'egli portatore
del « sangue reale ».
Chérisey, inoltre, insinua
che l'arciduca Carlo, fratello della seconda moglie di Napoleone, si lasciò
convincere a perdere la battaglia di Wagram, nel 1HIW, in cambio di una parte
del tesoro merovingio che Napoleone aveva trovato nel Razès. Questo tesoro fu
successivamente scoperto nel 1837 a Petroassa, che allora era un dominio
asburgico. Dato che gli Asburgo discendevano dai Merovingi, si può capire
perché attribuissero tanto valore al tesoro.
4 Carpenter, Folktale, Fiction and Saga, pp.
112 sgg.
5 II nome dato dai Romani ad Artemide era
Diana, e un'altra designazione di Arduina era « Diana delle Ardenne ».
Un'enorme statua della dea rimase fino a quando fu distrutta da san Vulfilau
nel VI secolo. Il suo culto era lunare, e le sue immagini portavano la falce di
luna. Era considerata inoltre protettrice delle fontane e delle sorgenti. La
fondazione dell'abbazia di Orval, che la leggenda collega a una fonte mistica,
potrebbe indicare un vestigio del culto di Diana-Arduina. Cfr. Calmet, « Des Divinités », pp. 25 sgg.
6 Cfr. ad esempio Gregorio di Tours, Storia
dei Franchi, libro V, cap. 44.
7 Wallace-Hadrill, The Long-haired Kings, pp.
203 sgg.
8 Ibid. p. 158.
9 Dill, Roman Society in Gaul, p.
88.
10 Wallace-Hadrill, The Long-haired Kìngs,p. 171.
1 ' Le
principali fonti per la vita di Dagoberto II sono Digot, Histoire de royaume
286
d'Austrasie, voi.
3, pp. 220 sgg., e pp. 249 sgg. (cap.
XV) e pp. 364 sgg.; Folz, <t Tradition hagiographique »; e Vincent, Histoire
fidelle de St Sigisbert.
12 Lanigan, An Ecclesiastic History, voi.
3, p. 101.
13 Henry Lobineau, Dossierssecrels, pianelle
n. 1,600-900; Blancasall, Lesdescen-dants, p. 8 e tableau n. 1.
'4 L'affermazione di de Sède
trova una certa conferma in ciò che si sa della vita di sant'Amatus. Incorse
nell'ostilità dello stesso Ebroin, maestro di palazzo di re Thierry III, che
era stato il mandante dell'assassinio di Dagpberto II. Fu privato' della sua
diocesi più o meno quando Dagoberto ritornò sul trono. La coincidenza delle
date potrebbe indicare che si era adoperato per favorire il ritorno di Dagoberto.
È probabile che Dagoberto rientrasse nel suo regno passando dalla diocesi di
sant'Amatus. Se avesse compiuto il viaggio direttamente dal Razès avrebbe
dovuto attraversare il territorio di Thierry III, e senza dubbio preferì
evitarlo.
15 Henry
Lobineau, Dossieri secrets, planche n. 2, 1500-1650. Blancasall, Les
descendants, p. 8. Questo tesoro si aggiunge all'elenco degli altri che si trovavano
o che si trovano tuttora nella zona di Rennes-le-Chàteau.
'6
Wallace-Hadrill, The Long-haired Kings, p. 238.
17 Chiamata Satanicum nei documenti
latini; il nome derivava da un tempio di Saturno che vi sorgeva anticamente.
18 Cfr. nota 16 di questo capitolo.
19 Per un'indagine sul culto, cfr. Folz, «
Tradition hagiographique ».
20 Digot, A., Histoire du royaume
d'Austrasie, voi. 3, pp. 370 sgg.
2 ' È
interessante notare che Jules Doinel, creatore della Chiesa cattolica gnostica
e bibliotecario a Carcassonne, pubblicò nel 1899 un breve libro che deplorava
lo spodestamento dei Merovingi a opera dei Carolingi. Cfr. Doinel, Note sur le Roi HildériklII.
22 Wallace-Hadrill, The Long-haired Kings, p.
246.
23 Ibid., p. 248.
24 Eginardo, Vita di Carlomagno (nella
versione inglese, Einhard, Life ofCharle-magne, p. 81).
25 Paoli, Les Dessous, p. 111.
26 Dagoberto II fu « riscoperto » nel 1646 da
Adrien de Valois. Fu reintegrato nelle genealogie dei Merovingi dal gesuita
bollandista Henschenius, in Diatriba de tribus Dagobertus, nel 1655. Cfr. Folz « Tradition hagiographique », p.33.
È interessante, dato che a quel tempo Dagoberto II era
sconosciuto, il fatto che Robert Denyau lo menzioni nel Martirologio del
calendario, allegato alla sua Histoire... de Gisorsdatata 1629.
27 Delaude, Cercle d'Ulysse, p. 4. Il
documento proverrebbe da Villas Capitana-rias, che prese poi il nome di
Trapas, e si riferisce alla fondazione del monastero di Saint Martin
d'Albières. Cercammo, invano, di rintracciare questo atto. Gli archivi di
Capitanarias sono conservati negli Archives de l'Aude, serie H. Ma l'atto non
287
vi figura. Perciò notammo
con interesse una lettera inviata a Jean Delaude per chiedere quale fosse la
sua fonte d'informazione sul documento. L'autore della lettera era un docente
dell'Università di Lillà. Jean Delaude rispose che l'atto era conservato negli
archivi nazionali francesi, non era catalogato, e che anche con l'aiuto di un
archivista aveva impiegato due mesi per rintracciarlo. Sebbene quelle
collezioni contengano quantità enormi di materiale non catalogato, Delaude non
fornì indicazioni che permettessero di rintracciare il documento. Cfr.
Chérisey, L'enigme de Rennes, lettere numero 4 e 5, 1977. 2K
Ponsich, « Le conflent », p. 244.
29 Ibid., fig. 1. Cfr. inoltre Vaissete, Histoire
generale de Langitedoc, voi. 2 (notes), p. 276.
30 Vaissete, Histoire generale de Langitedoc,
voi. 3, pp. 4 sgg.
31 Della leggenda si ha notizia per la prima
volta nel 1686, quando la riferisce il dottor Plot nella sua Naturai History
of Staffordshire, pp. 316, parlando della massoneria.
12 II
titolo del ducato di Goffredo di Buglione, Bassa-Lorena, fu abbandonato nel
1190, e i suoi signori presero il titolo di duchi di Brabante. Quindi la
duchessa di Brabante è senza dubbio una variante della duchessa di Buglione.
33
L'opera classica della genealogia francese è Anselm, Histoire généalogique
et chronologique, che espone dettagliatamente la storia della casa di
Boulogne nel voi. VI, pp. 247 sgg. La confusione incomincia con il nonno
Goffredo, il conte Eustachio I di Boulogne. Il padre non è registrato; c'è solo
il nome della madre, Adeline, e del suo secondo marito Ernicule, conte di
Boulogne. Ernicule adottò il giovane Eustachio, nominandolo proprio erede. Il
vero padre è quindi sconosciuto alla storia.
I Dossiers secrets (planche
n. 2, 900-1200) registrano il suo vero padre come Hugues des Plantard (« Naso
lungo »), che secondo l'abate Pichon fu assassinato nel 1015.
2SS
X
La tribù esule
Era possibile che vi fosse qualcosa di eccezionale nella stirpe
merovingia, qualcosa di più importante di una legittimità accademica? Poteva
trattarsi di qualcosa che, in un modo o nell'altro, starebbe a cuore alla gente
di oggi? Poteva essere qualcosa in grado di condizionare e forse persino di
modificare le istituzioni sociali, politiche e religiose esistenti? Questi
interrogativi continuavano ad assillarci. Ma al momento sembravano, non avere
risposta.
Ancora una volta setacciammo i « documenti del Priorato »,
soprattutto gli importantissimi Dossiers segreti. Rileggemmo passi che,
prima, non avevano avuto significato ai nostri occhi. Ora avevano un senso, ma
non servivano a spiegare il mistero, né a rispondere a quelli che erano ormai
divenuti gli interrogativi più critici. D'altra parte, c'erano altri passi la
cui pertinenza non ci appariva ancora chiara. Quei passi non risolvevano
affatto l'enigma; ma se non altro ci indussero a pensare secondo certe
direttrici che alla fine si dimostrarono supremamente importanti.
Come avevamo già scoperto, gli stessi Merovingi, secondo i loro
cronisti, affermavano di discendere dall'antica Troia. Ma secondo alcuni «
documenti del Priorato » la stirpe merovingia risaliva a tempi ancora più
antichi dell'assedio di Troia; secondo questi documenti, risaliva al Vecchio
Testamento.
Tra le genealogie incluse nei Dossiers segreti, ad esempio,
c'erano numerose annotazioni. Molte si riferivano specificatamente a una delle
dodici tribù di Israele, la tribù di Beniamino. Uno di questi riferimenti cita
con notevole rilievo tre passi biblici: Deuteronomio 33, Giosué 18 e Giudici
20 e 21.
289
Il capitolo 33 del Deuteronomio contiene le benedizioni impartite
da Mosé ai patriarchi delle dodici tribù. Per Beniamino, Mosè dice: « II
prediletto del Signore abita tranquillo presso di lui; e il Signore lo
proteggerà per tutto il giorno, e dimorerà tra le sue spalle » (32:12). In
altre parole, Beniamino e i suoi discendenti furono destinatari di una
speciale, altissima benedizione. Questo, almeno, era chiaro. Naturalmente, ci
sconcertava la promessa secondo la quale il Signore avrebbe dimorato « tra le
spalle di Beniamino ». Dovevamo associarla alla leggendaria « voglia »
distintiva dei Merovingi, la croce rossa tra le scapole? Il nesso ci sembrava
piuttosto stiracchiato. D'altra parte, c'erano altre similarità, più chiare,
tra Beniamino e l'oggetto della nostra indagine. Secondo Robert Graves, ad
esempio, il giorno consacrato a Beniamino era il 23 dicembre,1 la
festa di san Dagoberto. Fra i tre clan che formavano la tribù di Beniamino,
c'era il clan di Ahiram che in qualche modo oscuro .potrebbe essere collegato a
Hiram, costruttore del Tempio di Salomone e personaggio centrale della
tradizione massonica. Inoltre, il discepolo più devoto di Hiram si chiamava
Benoni; e Benoni, particolare piuttosto interessante, era il nome dato a
Beniamino neonato dalla madre, Rachele, prima di morire.
La seconda citazione biblica (Giosué 18) dei Dossiers segreti è
più chiara. Parla dell'arrivo del popolo di Mosé nella Terra Promessa e
dell'assegnazione dei territori a ognuna delle dodici tribù. Secondo tale
divisione, il territorio della tribù di Beniamino include quella che divenne
poi la città santa di Gerusalemme. In altre parole, Gerusalemme, prima ancora
di diventare la capitale di Davide e di Salomone, era stata assegnata alla
tribù di Beniamino. Secondo Giosué (18:28), la parte spettante ai Beniaminiti
comprendeva « Zelah, Elef, Iebus, cioè Gerusalemme, Gabaa, Kiriat-Iearim;
quattordici città e i loro villaggi. Questo fu il possesso dei figli di
Beniamino, secondo le loro famiglie ».
Il terzo passo biblico citato dai Dossiers riguarda una
successione di eventi piuttosto complessa. Un Levita, mentre attraversa il
territorio dei Beniaminiti, viene aggredito, e la sua concubina viene
violentata da adoratori di Belial, una variante della Dea Madre dei Sumeri,
chiamata Ishtar dai Babilonesi e Astarte dai Fenici. Il Levita convoca i
rappresentanti delle dodici tribù e
290
chiede vendetta; e nell'assemblea
viene conferito ai Beniaminiti il compito di consegnare i malfattori alla
giustizia. Ci si aspetterebbe che i Beniaminiti si affrettassero a obbedire. Ma
per una ragione inspiegata, invece, prendono le armi per proteggere i « figli
di Belial ». Il risultato è una guerra accanita e cruenta fra i Beniaminiti e
le altre undici tribù. Nel corso delle ostilità, queste undici tribù scagliano
una maledizione contro chiunque darà una figlia in sposa a un Beniaminita.
Quando la guerra finisce e i Beniaminiti sono stati virtualmente sterminati,
tuttavia, gli Israeliti vittoriosi si pentono della maledizione che però non
può essere revocata:
Gli Israeliti avevano
giurato a Mizpa: « Nessuno di noi darà la figlia in moglie a un Beniaminita ».
Il popolo venne a Betel, dove rimase fino alla sera davanti a Dio, alzò la voce
prorompendo in pianto e disse: « Signore, Dio d'Israele, perché è avvenuto
questo in Israele, che oggi in Israele sia venuta meno una delle sue tribù? »
(Giudici 21:1-3).
Qualche versetto più avanti,
il lamento si ripete:
Gli Israeliti si pentivano
di quello che avevano fatto a Beniamino loro fratello e dicevano: « Oggi è
stata soppressa una tribù d'Israele. Come faremo per le donne dei superstiti,
perché abbiamo giurato per il Signore di non dar loro in moglie nessuna delle
nostre figlie? » (Giudici 21:6-7).
E ancora:
II popolo dunque si era
pentito di quello che aveva fatto a Beniamino, perché il Signore aveva aperto
una breccia nelle tribù d'Israele. Gli anziani della comunità dissero: « Come
procureremo donne ai superstiti, poiché le donne beniaminite sono state
distrutte? » Soggiunsero: « Le proprietà dei superstiti devono appartenere a
Beniamino perché non sia soppressa una tribù in Israele. Ma noi non possiamo
dar loro in moglie le nostre figlie, perché gli Israeliti hanno giurato:
Maledetto Chi darà una moglie a Beniamino! » (Giudici 21: 15-18).
Di fronte al pericolo
d'estinzione che minaccia un'intera tribù, gli anziani si affrettano a trovare
una soluzione. A Shiloh, in Betel, tra breve vi sarà una festa; e le donne di
Shiloh, i cui uomini erano rimasti neutrali durante la guerra, devono essere
considerate prede disponibili. Ai Beniaminiti superstiti viene detto di
recarsi a Shiloh e di tendere un'imboscata nelle vigne. Quando le donne della
città si raduneranno per danzare, i Beniaminiti dovranno rapirle e prenderle in
moglie.
Non è affatto chiaro perché
i Dossiers segreti insistano nel richiamare l'attenzione su questo
passo. Ma qualunque ne sia la
291
ragione, i Beniaminiti, nella storia biblica, sono evidentemente
molto importanti. Nonostante le devastazioni causate dalla guerra, recuperano
in fretta almeno il prestigio, se non la consistenza numerica. Anzi, lo
recuperano al punto da dare a Israele il suo primo re, Saul.
Nonostante la rinascita dei Beniaminiti, i Dossiers fanno
capire che la guerra contro i seguaci di Belial segnò una svolta decisiva.
Sembrerebbe che in seguito al conflitto molti Beniaminiti andassero in esilio.
Nei Dossiers c'è una nota sensazionale, in lettere maiuscole:
UN GIORNO I DISCENDENTI DI
BENIAMINO LASCIARONO LA LORO TERRA; CERTI RIMASERO, DUEMILA ANNI PIÙ TARDI
GOFFREDO VI [DI BUGLIONE] DIVENNE RE DI GERUSALEMME E FONDÒ L'OR-DREDESION.2
A prima vista sembrava che non ci fosse un nesso tra i due fatti.
Ma quando radunammo i riferimenti frammentari contenuti nei Dossiers segreti
cominciò a emergere una storia coerente. Secondo questa storia, molti
Beniaminiti andarono in esilio. A quanto pare si trasferirono in Grecia, nel
Peloponneso centrale: in Arcadia, dove si sarebbero imparentati con la locale
famiglia regnante. Verso l'inizio dell'era cristiana, avrebbero risalito il
Danubio e il Reno, imparentandosi per matrimonio con certe tribù teutoniche e
generando i Franchi Sicambri: gli antenati dei Merovingi.
Secondo i « documenti del Priorato », quindi, i Merovingi discendevano,
attraverso l'Arcadia, dalla tribù di Beniamino. In altre parole i Merovingi e i
loro discendenti, ad esempio le famiglie dei Plantard e dei Lorena, erano di
origine semitica o israelita. E se Gerusalemme faceva parte dell'eredità dei
Beniaminiti, Gof-fredo di Buglione marciando sulla Città Santa, avfebbe in
pratica rivendicato la sua antica, legittima eredità. È significativo il fatto
che Goffredo, unico tra i principi d'Occidente che intrapresero la Prima
Crociata, cedesse tutte le sue proprietà prima della partenza, indicando così
che non intendeva ritornare in Europa.
È superfluo aggiungere che non avevamo nessuna possibilità di
accertare se i Merovingi fossero o no d'origine beniaminita. Le notizie dei «
documenti del Priorato » si riferivano a un passato troppo oscuro e remoto, che
non poteva trovare conferma documentale. Ma le affermazioni non erano né
uniche né nuove. Al
292
MANASSE ORIENT.
S/%o,
Carta 8 La Giudea mostra
l'unica possibile via di fuga per la tribù di Beniamino.
contrario, erano in circolazione da molto tempo, nella forma di
vaghe dicerie e di tradizioni nebulose. Per citare un solo esempio, Proust vi
attinge nella sua opera; e più recentemente il romanziere Jean d'Ormesson
ipotizza che certe nobili famiglie francesi siano d'origine ebraica. E nel 1965
Roger Peyrefitte, che sembra divertirsi molto a scandalizzare i suoi
compatrioti, ci riuscì benissimo in un romanzo affermando che tutta la nobiltà
francese e gran parte della nobiltà europea erano ebree.
L'affermazione, anche se indimostrabile, non è del tutto implausibile,
come non lo sono l'esilio e la migrazione attribuiti alla tribù di Beniamino
dai « documenti del Priorato ». La tribù di Beniamino prese le armi in difesa
dei seguaci di Belial, una forma della Dea Madre spesso associata alle immagini
di un toro o di un vitello. C'è un motivo di credere che anche i Beniaminiti
venerassero la stessa divinità. Anzi è possibile che l'adorazione del Vitello
d'Oro di cui parla l'Esodo - e che, cosa piuttosto significativa, è il tema di
uno dei quadri più famosi di Poussin - fosse un rito tipicamente beniaminita.
Dopo la guerra contro le altre undici tribù d'Israele, i Beniaminiti,
andando in esilio, dovettero necessariamente dirigersi verso occidente, verso
la costa fenicia. I Fenici avevano navi in grado di trasportare un gran numero
di profughi. E sarebbero stati disposti ad aiutare i Beniaminiti fuggiaschi,
poiché anche loro adoravano la Dea Madre sotto il nome di Astarte, Regina del
Cielo.
Se vi fu veramente un esodo dei Beniaminiti dalla Palestina, si
potrebbe sperare di trovarne qualche traccia. E la si incontra nel i mito
greco. C'è la leggenda del figlio di re Belo, Danao, che giunge in Grecia per
nave, insieme alle figlie. Le figlie avrebbero introdotto il culto della Dea
Madre, che divenne il principale culto degli Arcadi. Secondo Robert Graves, il
mito di Danao ricorda l'arrivo nel Peloponneso dì « coloni provenienti dalla
Palestina » -1 Graves sostiene che re Belo è in realtà Baal o Bel, o
forse Belial dell'Antico Testamento. È inoltre il caso di osservare che una
delle famiglie della tribù di Beniamino era la famiglia di Bela.
In Arcadia, il culto della Dea Madre non soltanto prosperò, ma
sopravvisse più a lungo che in ogni altra parte della Grecia. Fu associato al
culto di Demetra, poi a quello di Artemide (la Diana dei Romani). Con il nome
locale di Arduina, Artemide divenne la
294
divinità tutelare delle Ardenne: e dalle Ardenne vennero i Franchi
Sicambri per stabilirsi nell'attuale Francia. L'animale totemico di Artemide
era l'orsa, Callisto, il cui figlio era Arcade, l'Orso, nume eponimo
dell'Arcadia. E Callisto, collocata in cielo da Artemide, divenne la
costellazione dell'Orsa Maggiore. Quindi, potrebbe esservi qualcosa di più di
una coincidenza nell'appellativo « Ur-sus », riferito ripetutamente alla stirpe
Merovingia.
Vi sono comunque altri indizi, al di fuori della mitologia, che
fanno pensare a una migrazione ebrea in Arcadia. Nei tempi classici, l'Arcadia
era dominata dal potente Stato militarista di Sparta. Gli Spartani assimilarono
in gran parte la più antica cultura degli Arcadi; anzi il leggendario arcade
Liceo può essere identificato con Licurgo, il legislatore spartano. Quando
diventavano adulti, gli Spartani, come i Merovingi, attribuivano uno speciale
significato magico alle loro chiome, che erano egualmente lunghissime. Secondo
un autore, « la lunghezza dei capelli denotava il loro vigore fisico ed era un
simbolo sacro ».4 E c'è di più: i due libri dei Maccabei, nella
Bibbia, sottolineano il legame tra gli Spartani e gli Ebrei. Maccabei 2 parla
di certi Ebrei che « si erano recati presso Spartani, nella speranza di
trovarvi protezione in nome della comunanza di stirpe ».5 E Maccabei
1 afferma esplicitamente: « Si è trovato in una scrittura, riguardante gli
Spartani e i Giudei, che essi sono fratelli e che discendono dalla stirpe di
Abramo ».6
Potevamo quindi riconoscere almeno la possibilità di una migrazione
di Ebrei in Arcadia: e anche se era impossibile provare la fondatezza dei «
documenti del Priorato », era egualmente impossibile confutarla. In quanto
all'influenza semitica sulla cultura franca, c'erano concrete testimonianze
archeologiche. Le « vie » commerciali fenicie o semite attraversavano tutta la
Francia meridionale, da Bordeaux a Marsiglia e Narbona si estendevano lungo il
Rodano. Già nel VII-VI secolo a.C. c'erano insediamenti fenici non soltanto
lungo la costa francese ma anche nell'entroterra, in località come Carcassonne
e Tolosa. Tra i manufatti trovati in questi siti, molti erano d'origine
semitica. Non è sorprendente. Nel IX secolo a.C i re fenici di Tiro avevano
contratto alleanze matrimoniali con i regni di Israele e di Giuda, stabilendo
così legami destinati a produrre stretti contatti tra i rispettivi popoli.
295
Nel 70 d.C. il sacco di Gerusalemme e la distruzione del Tempio
provocarono un massiccio esodo di Ebrei dalla Terrasanta. E perciò la città di
Pompei, sepolta dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C, contava una comunità
ebraica. Certe città della Francia meridionale, ad esempio Arles, Lunel e
Narbona, offrirono un rifugio ai profughi ebrei più o meno negli stessi anni.
Tuttavia l'afflusso di popolazioni ebraiche in Europa, e soprattutto in Francia,
è anteriore alla caduta di Gerusalemme del I secolo. Anzi, era in atto già da
prima dell'era cristiana. Tra il 106 e il 48 a.C. si formò a Roma una comunità
ebraica. Non molto tempo dopo ne venne fondata un'altra sul Reno, a Colonia.
Certe legioni romane comprendevano contingenti di schiavi ebrei che
accompagnarono i loro padroni in tutta l'Europa. Molti di questi schiavi in
seguito si riscattarono od ottennero comunque la libertà, e formarono varie
colonie.
Perciò vi sono molti toponimi tipicamente ebraici sparsi in tutta
la Francia. Alcune di queste località sono situate proprio nel cuore del
vecchio territorio merovingio. A pochi chilometri da Stenay, ad esempio, al
limitare della Foresta di Woévres dove fu assassinato Dagoberto, c'è un
villaggio che si chiama Baalon. Tra Stenay e Orval c'è una cittadina che si
chiama Avioth. E il monte Sion in Lorena, « la colline inspirée », in origine
era Monte Semita.7
Ancora una volta, sebbene non potessimo convalidare le affermazioni
dei « documenti del Priorato », non potevamo neppure scartarle. Senza dubbio,
l'evidenza bastava a renderle quanto meno plausibili. Eravamo quindi costretti
a riconoscere che i « documenti del Priorato » potevano avere ragione: i
Merovingi e le varie famiglie nobili loro discendenti potevano provenire da
ceppi semitici.
Ma, ci chiedemmo, era possibile che fosse tutto qui? Poteva essere
quello lo straordinario segreto che aveva causato tanti intrighi e misteri,
tante macchinazioni e preoccupazioni, tante controversie e tanti conflitti nel corso
dei secoli? Solo un'ennesima leggenda su una tribù perduta? E anche se non era
una leggenda ma la verità, poteva spiegare veramente le motivazioni del Priorato
di Sion e le rivendicazioni della dinastia merovingia? Poteva spiegare
l'adesione di uomini come Leonardo e Newton o le attività delle case di Guisa e
Lorena, le iniziative clandestine della
296
Compagnia del Santo Sacramento, i segreti della massoneria di «
Rito scozzese »? No, evidentemente. Perché la discendenza dalla tribù di
Beniamino doveva costituire un segreto tanto esplo-sivo? E cosa ancora più
importante, perché la discendenza dalla tribù di Beniamino doveva contare
tanto, al giorno d'oggi? Come poteva chiarire le attività e gli obiettivi
odierni del Priorato di Sion?
Se la nostra indagine riguardava interessi tipicamente semitici o
giudaici, inoltre, perché coinvolgeva tante componenti di carattere
tipicamente, anzi fervidamente cristiano? Il patto tra Clodoveo e la Chiesa di
Roma, ad esempio; il cristianesimo militante di Goffredo di Buglione e la
conquista di Gerusalemme; il pensiero ereticale, ma tuttavia cristiano, dei
Catari e dei Cavalieri Templari; istituzioni pie come la Compagnia del Santo
Sacramento; la massoneria che era « ermetica, aristocratica e cristiana»; e il
coinvolgimento di tanti ecclesiastici cristiani, da eminenti principi della
Chiesa a curati di campagna come Boudet e Saunière?
Poteva darsi che i Merovingi fossero di origine ebraica, ma ci
sembrava in sostanza una cosa incidentale. Qualunque fosse il vero segreto
della base della nostra indagine, sembrava inestricabilmente legato non
soltanto al mondo ebraico dell'Antico Testamento, ma anche al cristianesimo.
Insomma, la tribù di Beniamino, almeno per il momento, sembrava un « serpente
di mare ». Anche se era importante, c'era sotto qualcosa più importante ancora.
Qualcosa che continuava a sfuggirci.
Note
1 Graves, White Goddess, p. 271.
2 II testo integrale è il seguente:
UN
JOUR LES DESCENDANTS DE BENJAMIN OUITTÈRENTLEUR PAYS, CER-TAINS RESTÈRENT, DEUX
MILLE ANS APRÈS GODEFROY VI. DEVIENT ROI DE JÉRUSALEM ET FONDE L'ORDRE DE SION
- De cette legende merveilleuse qui orne l'histoire, ainsi que l'aryhitecture
d'un temple dont le sommet se perd dans Pimmensité de l'espace et des temps,
dont POUSSIN à voulu exprimer le mystère dans ses deux tableaux, les « Bergers
d'Arcadie » se trouve sans doute le secret du trésor devant lequel, les
descendants paysans et bergers du fier sicambre, méditent sur « et in arcadia
ego », X^Xet le Roi « Midas ». Avant 1200 a notre ère-Un fait
297
important
est, l'arrivée des Hébreux dans la terre promise et leur lente installation en
Caanan. Dans la Bible, au Deuteronome 33; il est dit sur BENJAMIN: C'est le
bien aimé de l'Eternai, il habitera en sécurité auprès de lui, l'Eternai le
couvrira toujours, et résidera entre ses épaules. —*J^— II est encore dit à
Josué 18 que la sort donna pour héritage aux fils de BENJAMIN parmi Ics
quatorze villes et leur villages: JEBUS, de nos jours JERUSALEM avec ses trois
points d'un triangle: GOLGHOTA, SION et BETHANIE. £? Et enfin il est écrit, aux
Juges 20 et 21: « Aucun de nous ne donnera sa fille pour femme à un
Benjamite... O Eternel, Dieu d'Israel, pourquoi est-il arrivé en Israel qu'il
manque aujourd'hui une tribù d'Israèl »^ MK la grande énigme de
l'Arcadie VIRGILE qui était dans le secret des dieux, lève le voile aux
Bucoliques X-46/50: « Tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum).
Alpinas, a, dura, nives et frigora Rheni me sine sola vides. A, te ne frigora
laedant! A tibi ne teneras glacies secet aspera piantasi ».
«
SIX PORTES ou le sceau de l'Etoile, voici les secrets des parchemins de l'Abbé
SAUNIÈRE, Cure de Rennes-le-Chàteau er qu'avant lui le grand initié POUSSIN
connaissait lorsqu'il réalisa son oeuvre à la demande du PAPE, l'inscription
sur la tombe est la méme. »
' -Lobineau, Dossiers secrets, planche
no. 1,4(10-600.
3 Graves, Greek Myths, voi. 1, p. 203,
n. 1.
4 Micheli, Sparta, p. 173. Gli Spartani
adoravano Artemide e Afrodite come dee guerriere. La seconda è la forma spesso
assunta da Ishtar e Astarte, e indica una probabile influenza semita.
5 2 Maccabei, 5:9.
« 1 Maccabei, 12:21.
7 II
termine « semitico » fu coniato nel 1781 da Schlozer, uno studioso tedesco, per
indicare un gruppo di lingue strettamente imparentate. Coloro che parlavano
tali lingue finirono per essere chiamati « semiti ». La parola deriva da Shem
(Sem), figlio di Noè. Se il monte in questione ospitava una colonia di
Ebrei, avrebbe dovuto chiamarsi « Monte di Shem ». Ma c'è anche un'altra
possibilità. La parola latina semita significa sentiero o via, e bisogna
tener conto di questa alternativa.
298
Parte terza
La stirpe
XI
II Santo Graal
Che cosa ci era sfuggito? O che cosa avevamo cercato nel posto
sbagliato? C'era forse qualche frammento che avevamo sempre avuto sotto gli
occhi e che, per una ragione o per l'altra, non avevamo notato? Per quanto
potevamo accertare, non avevamo trascurato nessun dato storico riconosciuto. Ma
poteva esserci qualcosa d'altro; qualcosa che sta al di là della storia documentata,
dei fatti concreti ai quali ci eravamo sforzati di attenerci?
Indubbiamente c'era un motivo, per quanto favoloso, che aveva
continuato a ricorrere nelle nostre ricerche, con insistente e sconcertante
coerenza. Era il misterioso oggetto conosciuto come Santo Graal. Ad esempio, i
loro contemporanei avevano creduto che i Catari fossero in possesso del Graal.
Spesso anche i Templari venivano considerati i guardiani del Graal; i romanzi
del Graal erano usciti inizialmente dalla corte del conte di Champagne,
strettamente associato alla fondazione dell'Ordine del Tempio. Inoltre, quando
i Templari erano stati soppressi, le strane teste che si diceva fossero oggetto
della loro venerazione presentavano, secondo i verbali dell'Inquisizione, molti
degli attributi tradizionalmente ascritti al Graal: ad esempio, il dono
miracoloso di fornire nutrimento e di rendere fertile la terra.
Nella nostra indagine ci eravamo imbattuti nel Graal anche in
numerosi altri contesti. Alcuni erano relativamente recenti, come i circoli
occultisti di Joséphin Péladan e di Claude Debussy alla fine del secolo XIX.
Altri erano molto più antichi. Goffredo di Buglione, ad esempio, secondo la
leggenda medievale e la tradizione popolare discendeva da Lohengrin, il
Cavaliere del Cigno; e nei
301
romanzi Lohengrin era il figlio di Perceval o Parzival,
protagonista di tutte le più antiche vicende del Graal. Inoltre Guillem de
Gellone, signore di un principato medievale nel sud della Francia durante il
regno di Carlomagno, era protagonista di un'opera di Wolfram von Eschenbach, il
maggiore dei cronisti del Graal. Anzi, nel poema di Wolfram, Guillem veniva
associato alla misteriosa « famiglia del Graal ».
Queste apparizioni del Graal nella nostra indagine erano del tutto
casuali, pure e semplici coincidenze? Oppure c'era una continuità che le
collegava, una continuità che, in modo impensabile, legava la nostra indagine
al Graal, qualunque cosa fosse in realtà? A questo punto, ci trovammo alle
prese con un interrogativo inquietante. Il Graal poteva essere qualcosa di più
di una fantasia? Poteva essere esistito veramente, in un senso o nell'altro?
Poteva esserci stato davvero qualcosa chiamato Santo Graal? O almeno qualcosa
di concreto di cui il Santo Graal era un simbolo?
Erano indubbiamente interrogativi provocatori e sconvolgenti, a
dir poco. Nel contempo, minacciavano di condurci troppo lontano, nelle sfere
di una speculazione spuria. Tuttavia, servirono a orientare la nostra
attenzione sui romanzi del Graal. E a loro volta i romanzi del Graal
proponevano un gran numero di enigmi sconcertanti e pertinenti.
Si ritiene in genere che il Santo Graal sia in qualche modo relato
a Gesù. Secondo certe tradizioni, era il calice in cui Gesù e i suoi discepoli
avevano bevuto durante l'Ultima Cena. Secondo altre, era la coppa in cui
Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso. Secondo altre
ancora, il Graal era l'uno e l'altro. Ma se era così strettamente legato a
Gesù, e se davvero esisteva, perché, non se ne trovava la minima traccia per
più di mille anni? Dov'era finito, in tutto quel tempo? Perché non figurava
nella letteratura, nel folklore o nella tradizione del periodo più antico?
Perché un oggetto così importante per la cristianità era rimasto sepolto tanto
a lungo?
E soprattutto, perché il Graal era riapparso proprio al culmine
delle Crociate? Era una coincidenza, il,fatto che questo oggetto enigmatico,
che per dieci secoli non era virtualmente esistito, avesse assunto tanta
importanza proprio in quel tempo: quando il regno franco di Gerusalemme era
all'apice della gloria, quando i
302
Templari avevano raggiunto il massimo della loro potenza, quando
l'eresia catara stava acquistando uno slancio tale da minacciare di sostituirsi
al credo di Roma? Tutte queste circostanze convergevano per puro caso? Oppure
c'era qualche legame?
Sommersi e un po' ossessionati da questi interrogativi, dedicammo
la nostra attenzione ai romanzi del Graal. Solo esaminando scrupolosamente
quelle « fantasie » potevamo sperare di scoprire se ricorrevano nella nostra
indagine solo per una coincidenza, o se era la manifestazione di un disegno: un
disegno che in un modo o nell'altro poteva risultare significativo.
La leggenda del Santo Graal
In maggioranza, gli studiosi del XX secolo concordano nel ritenere
che i romanzi del Graal poggino, in ultima analisi, su fondamenta pagane: un
rito connesso al ciclo delle stagioni, la morte e la rinascita dell'anno. Nelle
sue origini più primordiali, questo rito sembrerebbe comportare un culto della
vegetazione, strettamente relato nella forma a quelli medio-orientali di
Tammuz, Atti, Adone e Osiride, se non direttamente derivato da questi. Ad
esempio, tanto nella mitologia irlandese quanto in quella gallese vi sono
ripetuti richiami alla morte, alla rinascita e al rinnovamento e a un analogo
processo rigenerativo della terra: sterilità e fertilità. Il tema ha un ruolo
centrale nell'anonimo poema inglese del secolo XIV, Sir Gawain e il
Cavaliere Verde. E nel Mabinogion, una compilazione di leggende
gallesi approssimativamente contemporanee dei romanzi del Graal anche se
attingono chiaramente a materiale assai anteriore, c'è un misterioso «
calderone della rinascita » : i guerrieri morti che vi vengono gettati al
cader della notte l'indomani mattina risorgono. Il calderone è spesso associato
a un eroe gigantesco, Bran. Bran possedeva anche un piatto straordinario e «
qualunque cibo si desiderasse, subito lo si otteneva », una proprietà che
talvolta viene attribuita al Graal. Inoltre, alla fine della sua esistenza,
Bran fu decapitato, e la sua testa venne custodita a Londra come talismano. E
là, si dice, svolgeva numerose funzioni magiche, e non soltanto assicurava la
fertilità della terra, ma grazie a un potere occulto respingeva gli invasori.
Molti di questi motivi furono incorporati in seguito nei romanzi
303
del Graal. Senza alcun dubbio Bran, con il suo calderone e il suo
piatto, diede un certo contributo alle concezioni più tarde del Graal. E la
testa di Bran ha diversi attributi in comune non soltanto col Graal, ma anche
con le teste che i Templari avrebbero adorato.
Le fondamenta pagane dei romanzi del Graal sono state esplorate
in modo esauriente da molti studiosi, da Sir James Frazer nel Ramo d'oro fino
ai giorni nostri. Ma nella seconda metà del secolo XII la base originariamente
pagana dei romanzi del Graal subì una trasformazione curiosa e di straordinaria
importanza. In un modo oscuro che finora ha eluso le indagini dei ricercatori,
il Graal fu associato esclusivamente e specificatamente al cristianesimo, anzi
a una forma di cristianesimo non molto ortodossa. Con un enigmatico processo
di fusione, il Graal venne collegato inestricabilmente a Gesù. E sembra che non
si trattasse soltanto di un facile e disinvolto innesto di tradizioni pagane e
cristiane.
Quale reliquia misticamente relata a Gesù, il Graal diede origine
a una quantità di romanzi, o lunghi poemi narrativi che ancora oggi accendono
la fantasia. Nonostante la disapprovazione della Chiesa, questi romanzi
fiorirono per quasi un secolo e diedero origine a un vero e proprio culto, un
culto la cui durata fu parallela a quella dell'Ordine del Tempio dopo la
separazione dal Priorato di Sion nel 1188. Con la caduta della Terrasanta nel
1291, lo scioglimento dei Templari tra il 1307 e il 1314, anche i romanzi del
Graal sparirono dalla scena della storia, almeno per un paio di secoli. Poi,
nel 1470, il tema venne ripreso da SirThomas Malory nel famoso La morte
d'Arthur; e da allora ha sempre avuto un posto più o meno rilevante nella
cultura occidentale. E il suo contesto non è interamente letterario. Sembra vi
siano abbondanti prove documentali che certi gerarchi nazisti tedeschi
credessero veramente nell'esistenza fisica del Graal; e durante la guerra
vennero effettuati scavi per ritrovarlo, nella Francia meridionale.1
Al tempo di Malory, il misterioso oggetto chiamato Graal aveva
assunto l'identità più o meno chiara che oggi gli viene attribuito. Si riteneva
che fosse la coppa dell'Ultima Cena, nella quale Giuseppe di Arimatea aveva
poi raccolto il sangue di Gesù. Secondo certi testi, Giuseppe d'Arimatea portò
il Graal in Inghilterra, e più precisamente a Glastonbury. Varie leggende che
risalgono addi-
304
rittura al IV secolo narrano che la Maddalena fuggì dalla
Terra-santa e sbarcò presso Marsiglia, dove del resto sono tuttora venerate le
sue presunte reliquie. Secondo le leggende medievali, la Maddalena portò con sé
a Marsiglia il Santo Graal. Nel secolo XV questa tradizione aveva già assunto
chiaramente un'importanza enorme per personaggi come Renato d'Angiò, che faceva
collezione di « coppe Graal ».
Ma le leggende più antiche narrano che la Maddalena portò in
Francia il Graal, non una coppa. In altre parole, l'associazione tra Graal e
coppa fu uno sviluppo relativamente tardo. Malory la perpetuò, e da allora è
diventata un luogo comune. Malory, però, si prese molte libertà nei confronti
delle sue fonti originali. In queste fonti originali, il Graal è più di una
coppa. E i suoi aspetti mistici sono di gran lunga più importanti di quelli
cavaliereschi esaltati da Malory.
Secondo molti studiosi, il primo vero romanzo del Graal risale
alla fine del XII secolo, intorno al 1188, l'anno cruciale che vide la caduta
di Gerusalemme e la presunta rottura tra l'Ordine del Tempio e il Priorato di
Sion. Il romanzo è intitolato Le roman de Perceval o Le conte del
Graal, e fu composto da Chrétien de Troyes, che sembra avesse un ruolo
imprecisato alla corte del conte di Champagne.
Della vita di Chrétien si sa pochissimo. Che avesse legami con la
corte di Champagne appare evidente da numerose opere composte prima del
romanzo del Graal e dedicate a Maria, contessa di Champagne. Grazie a questi
romanzi cavaliereschi - incluso uno che parla di Lancillotto ma non fa menzione
di qualcosa che possa somigliare al Graal - verso il 1180 Chrétien si era
guadagnato una grande fama. E date le sue opere precedenti, c'era da attendersi
che continuasse sulla stessa vena. Invece, verso la fine della sua esistenza,
Chrétien si occupò di un tema nuovo, fino a quel momento trascurato; e il
Santo Graal, così come è pervenuto fino a noi, fece la sua apparizione
ufficiale nella cultura e nella coscienza dell'Occidente.
Il romanzo del Graal di Chrétien non fu dedicato a Maria di
Champagne, bensì a Filippo d'Alsazia, conte delle Fiandre.2 All'inizio
del poema, Chrétien dichiara che l'opera è stata composta su espressa richiesta
del conte, e che lui stesso ha appreso per la
305
prima volta la vicenda appunto da Filippo. L'opera costituisce il
prototipo e il modello dei successivi romanzi del Graal. Il protagonista è
Perceval, che viene presentato come « il Figlio della Vedova ». Questo
appellativo è significativo ed enigmatico. Era stato usato a lungo da certe
eresie dualiste e gnostiche, talora per indicare i profeti delle eresie stesse,
talora per indicare Gesù. In seguito divenne una designazione usata nella
massoneria.
Perceval lascia la madre vedova per conquistarsi il rango di
cavaliere. Nei suoi viaggi, incontra un enigmatico pescatore - il famoso « Re
Pescatore » - che gli offre rifugio per la notte nel suo castello. Quella sera
appare il Graal. Né in questo punto né in altri passi del poema il Graal è
collegato a Gesù. Anzi, sul suo conto viene detto pochissimo. Ma, qualunque
cosa sia, è portato da una damigella, è d'oro e tempestato di gemme. Perceval
non sa che deve fare una domanda su questo misterioso oggetto: dovrebbe
chiedere « chi si serve con esso ». È una domanda ovviamente ambigua. Se il
Graal è una coppa o un piatto, potrebbe significare « chi deve mangiarvi? ».
Alternativamente, la domanda potrebbe venire formulata così: « Chi si serve (in
un senso cavalieresco) servendo il Graal? ». Qualunque sia il significato della
domanda, Perceval non la fa; e l'indomani mattina, al suo risveglio, scopre che
il castello è vuoto. La sua omissione, come apprende in seguito, causa nel
territorio una disastrosa sterilità. Più tardi, viene a sapere che lui stesso
appartiene alla « famiglia del Graal » e che il misterioso « Re Pescatore », «
sostentato » dal Graal, è suo zio. A questo punto, Perceval fa una bizzarra
confessione. Dopo la sua infelice esperienza con il Graal, dichiara, ha smesso
di credere in Dio e di amarlo.
Il poema di Chrétien è ancora più sconcertante perché incompiuto.
Chrétien morì intorno al 1188, probabilmente prima di poter ultimare l'opera; e
anche se la completò, non ne è rimasta neppure una copia. Se mai esistette, può
darsi che venisse distrutta a Troyes da un incendio nel 1188. È inutile cercare
di approfondire, ma alcuni studiosi giudicano molto sospetto questo incendio,
che coincise con la morte del poeta.
Comunque, il poema contenente la versione della vicenda del Graal
data da Chrétien è meno importante del suo ruolo di precursore. Durante il
cinquantennio successivo, il tema per la prima
306
volta introdotto alla corte di Troyes si diffuse rapidamente nell'Europa
occidentale. Tuttavia, gli esperti moderni ritengono che i successivi romanzi
del Graal non derivano interamente da Chré-tien, ma attingono almeno a un'altra
fonte: una fonte con ogni probabilità preesistente. E durante questa
proliferazione, la storia del Graal venne collegata molto più strettamente a re
Artù, che nella versione di Chrétien era un personaggio marginale. Inoltre,
venne collegata con Gesù.
Tra i numerosi romanzi del Graal successivi a quello di Chrétien,
tre risultarono particolarmente interessanti. Uno, il Roman de l'estoire dou
Saint Graal, fu composto tra il 1190 e il 1199 da Robert de Boron. A
ragione o a torto, spesso si afferma che fu Robert a fare del Graal un simbolo
specificatamente cristiano. Robert dichiara di attingere a una fonte
precedente, diversa da Chrétien. Parlando del proprio poema, e soprattutto del
suo carattere cristiano, allude a un « gran libro », i cui segreti gli sono
stati rivelati.1
Non si sa quindi con certezza se fu Robert a cristianizzare il
Graal, o se fu qualcun altro prima di lui. Quasi tutti gli esperti, oggi,
propendono per la seconda possibilità. Tuttavia, senza dubbio il poema di
Robert de Boron è il primo che narra una storia del Graal. Il Graal, egli
spiega, era la coppa dell'Ultima Cena, passata a Giuseppe d'Arimatea, il quale,
quando Gesù fu deposto dalla croce, la riempì con il sangue del Salvatore: ed è
questo sangue sacro a conferire al Graal poteri magici. Dopo la Crocifissione,
continua Robert, la famiglia di Giuseppe divenne custode del Graal. E per
Robert i romanzi del Graal riguardano le avventure e le vicissitudini di questa
famiglia. Galahad viene presentato come il figlio di Giuseppe d'Arimatea. E il
Graal passa al cognato di Giuseppe, Brons, il quale lo porta in Inghilterra e
diviene il Re Pescatore. Come nel poema di Chrétien, Perceval è il « Figlio'
della Vedova », ma il Re Pescatore è suo nonno.
La versione di Robert, quindi, si distacca da quella di Chrétien
in molti dettagli importanti. In entrambe Perceval è « Figlio della Vedova »,
ma in quella di Robert il Re Pescatore è suo nonno e non suo zio, e quindi
Perceval è relato ancora più direttamente alla famiglia del Graal. E mentre la
narrazione di Chrétien ha una cronologia molto vaga ed è ambientata nell'epoca
arturiana,
307
quella di Robert è molto precisa. Per lui, la vicenda del Graal si
svolge in Inghilterra, e non all'epoca di Artù bensì a quella di Giuseppe
d'Arimatea.
C'è un altro romanzo del Graal che ha molto in comune con quello
di Robert. Si direbbe anzi che attinga alle stesse fonti, ma le utilizza in
modo molto diverso e decisamente più interessante. Il romanzo è conosciuto come
il Perlesvaus. Fu scritto nello stesso periodo del poema di Robert, tra
il 1190 e il 1212, da un autore che, contrariamente alle consuetudini del
tempo, preferì restare anonimo. È strano che lo facesse, data la grande
considerazione in cui erano tenuti i poeti: a meno che facesse parte di
un'organizzazione come un ordine monastico o cavalieresco, ad esempio, il che
avrebbe fatto apparire inopportuna o poco decorosa la composizione di opere
del genere. Infatti, l'evidenza testuale induce a ritenere che fosse appunto
così. Secondo un esperto moderno, il Perlesvaus potrebbe essere stato
scritto da un Templare.4 Non mancano certamente indizi a sostegno di
questa congettura. È noto, ad esempio, che i Cavalieri Teutonici incoraggiavano
i poeti anonimi appartenenti ai loro ranghi, ed è possibile che questo
precedente fosse stato istituito dai Templari. Inoltre, nel poema l'autore del Perlesvaus
da prova di una conoscenza straordinariamente particolareggiata delle
realtà del combattimento: armature ed equipaggiamento, strategia e tattica, le
armi e i loro effetti. La descrizione delle ferite, ad esempio, sembra
attestare un'esperienza diretta acquisita sui campi di battaglia,
un'esperienza realistica e non idealizzata che non si riscontra in nessun altro
romanzo del Graal.
Anche se il Perlesvaus non fu scritto da un Templare, offre
tuttavia una solida base per collegare i Templari al Graal. Sebbene l'Ordine
non sia menzionato per nome, sembra figurare inequivocabilmente nel poema.
Durante i suoi vagabondaggi, Perceval giunge a un castello. Il castello non
custodisce il Graal, ma ospita un gruppo di « iniziati » che hanno un'evidente
familiarità con lo stesso Graal. Perceval viene ricevuto da due « maestri »;
questi battono le mani e subito sopraggiungono altri trentatrè uomini. « Erano
abbigliati di bianco, e ognuno di loro aveva una croce rossa sul petto, e
sembravano aver tutti la stessa età. »5 Uno dei misteriosi « maestri
» afferma di aver veduto personalmente il
308
Graal: un'esperienza concessa solo a pochi eletti. Inoltre,
dichiara di conoscere il lignaggio di Perceval.
Come i poemi di Chrétien e di Robert, il Perlesvaus attribuisce
un'importanza enorme al lignaggio. Spesso, quello di Perceval è detto «
santissimo ». Altrove, si afferma esplicitamente che Perceval» era del
lignaggio di Giuseppe d'Arimatea »,eche« questo Giuseppe era zio della madre di
Perceval, ed era stato per sette anni soldato di Pilato ».6
La vicenda del Perlesvaus, tuttavia, non è ambientata
durante la vita di Giuseppe. Al contrario, come nella versione di Chrétien, si
svolge al tempo di Artù. La cronologia viene ancora più complicata dal fatto
che la Terrasanta è già caduta nelle mani degli « infedeli », mentre questo
avvenne quasi due secoli dopo Artù; e dal fatto che la Terrasanta viene
apparentemente a essere identificata con Camelot.
Assai più dei poemi di Chrétien e di Robert, il Perlesvaus ha
carattere magico. Oltre a conoscere molto bene i campi di battaglia, l'anonimo
autore dimostra una conoscenza, molto sorprendente per quei tempi,
dell'evocazione e dell'invocazione. Inoltre, vi sono numerosi riferimenti alchemici:
ad esempio, si parla di due uomini « fatti di rame mediante l'arte della
necromanzia ».7 E alcuni di questi riferimenti magici e alchemici
echeggiano il mistero che circonda i Templari. Uno dei « maestri » del gruppo
biancovestito dice a Perceval: « Vi sono le teste suggellate in argento, e le
teste suggellate in piombo, e i corpi cui appartennero tali teste; io ti dico
che devi far giungere colà la testa del Re e della Regina ».8
Se abbonda di allusioni magiche, il Perlesvaus abbonda
anche di altre allusioni, eretiche e pagane. Anche qui, Perceval è designato
con l'appellativo dualista « Figlio della Vedova ». Ci sono riferimenti a un
rito del sacrificio del re, che stride in un poema dichiaratamente cristiano.
Ci sono riferimenti alla pratica di arrostire e divorare i bambini... un
delitto che la fantasia popolare imputava ai Templari. E a un certo punto c'è
un rito singolare, che evoca di nuovo il ricordo dei processi contro i
Templari. Davanti a una croce rossa eretta in una foresta, un bellissimo
animale candido, di specie imprecisata, viene sbranato dai segugi. Mentre Perceval
sta a guardare, sopraggiungono un cavaliere e una damigella
309
che recano recipienti d'oro;
raccolgono i brani di carne, baciano la croce e si dileguano tra gli alberi.
Perceval s'inginocchia davanti alla croce e la bacia:
e gli giunse un olezzo tanto
soave della croce e del luogo, che nessuna dolcezza può esserle paragonata.
Egli guardò e vide arrivare dalla foresta due sacerdoti a piedi; e il primo gli
gridò: « Ser Cavaliere, allontanati dalla croce, poiché non hai diritto alcuno
di appressarti ». Perceval si ritrasse, e il sacerdote si inginocchiò davanti
alla croce e l'adorò e si prosternò e la baciò più di venti volte, e manifestò
la più gran gioia del mondo. Quindi sopraggiunse l'altro sacerdote che portava
una gran verga, e scostò con la forza il primo sacerdote, e percosse la croce
con la verga in ogni parte, e pianse con grande angoscia.
Perceval lo contemplò con
immenso stupore e gli disse: « Signore, invero tu non sembri un sacerdote!
Perché compì un atto tanto vergognoso? ». « Signore », disse il sacerdote,»
ciò che noi facciamo non ti concerne, e da noi non ne saprai nulla! » Se non
fosse stato un sacerdote, Perceval si sarebbe grandemente incollerito con lui,
ma non voleva fargli male alcuno.9
Questo dispregio per la croce richiama echi precisi delle accuse
rivolte ai Templari. Ma non soltanto ai Templari. Potrebbe rispecchiare anche
una varietà del pensiero dualista o gnostico: ad esempio il pensiero dei Catari,
che ripudiavano anch'essi la croce.
Nel Perlesvaus questo tipo di pensiero dualista o gnostico
si estende in un certo senso allo stesso Graal. Per Chrétien, il Graal era
qualcosa d'imprecisato, fatto d'oro e incrostato di gemme. Per Robert de Boron,
si identificava con la coppa usata nell'Ultima Cena e successivamente per
raccogliere il sangue di Gesù. Nel Perlesvaus, invece, il Graal assume
una dimensione molto strana e significativa. A un certo punto, Sir Gawain
(Galvano) viene ammonito da un sacerdote « perché non è lecito scoprire i
segreti del Salvatore, e coloro ai quali sono affidati devono tenerli nascosti
».10 Quindi il Graal comporta un segreto legato in qualche modo a
Gesù; e tale segreto è affidato a un gruppo di eletti.
Quando alla fine Gawain vede il Graal, « gli parve di scorgere al
centro del Graal la figura di un bimbo... levò gli occhi e gli parve che il
Graal fosse tutto di carne, e vide, pensò, un Re incoronato, inchiodato a una
croce »." E più avanti, il Graal
apparve alla consacrazione della messa, in cinque maniere diverse
che nessuno dovrebbe rivelare, poiché i segreti dal sacramento nessuno deve
310
dirli apertamente, eccettuato colui al quale Dio lo ha affidato.
Re Artù vide tutti i mutamenti, e l'ultimo fu la trasformazione in un calice.12
Insomma, nel Perlesvaus il Graal è una sequenza mutevole
d'immagini o dì visioni. La prima è un re coronato e crocifisso. La seconda è
un bimbo. La terza è un uomo che porta una corona di spine, e sanguina dalla
fronte, dai piedi, dalle palme delle mani e dal costato.n La quarta
manifestazione non è specificata. La quinta è un calice. Ogni volta, la
manifestazione è accompagnata da una fragranza celestiale e da una grande luce.
A giudicare da questa descrizione contenuta nel Perlesvaus, sembrerebbe
che il Graal sia contemporaneamente parecchie cose, oppure qualcosa che può
essere interpretato su parecchi livelli diversi. Su quello terreno, potrebbe
essere in effetti un oggetto, come una coppa, una ciotola o un calice. In senso
metaforico sembra essere un lignaggio, o forse gli individui che formano tale
lignaggio. Inoltre, evidentemente, il Graal è anche un'esperienza, con ogni
probabilità un'illuminazione gnostica, come quella esaltata dai Catari e da
altre sette dualiste di quei tempi.
La storia di Wolfram von Eschenbach
Tra tutti i romanzi del Graal il più famoso, e il più ricco di
valori artistici, è Parzival, composto tra il 1195 e 1216. L'autore è
Wolfram von Eschenbach, un cavaliere d'origine bavarese. In un primo momento,
noi pensammo che questo creasse una notevole distanza tra l'autore e il tema, e
rendesse il suo racconto meno attendibile di altri. Ben presto, però, ci
convincemmo che se c'era qualcuno che poteva parlare del Graal con
autorevolezza, era appunto Wolfram.
All'inizio del Parzival, Wolfram afferma con grande
sicurezza che la versione della storia del Graal data da Chrétien è errata,
mentre la sua è fedele perché basata su informazioni privilegiate. Tali
informazioni, come spiega più avanti, le ha avute da un certo Kyot de Provence:
il quale a sua volta le avrebbe ricevute da un certo Flegetanis. Val la pena di
citare integralmente le parole di Wolfram:
Chiunque mi chiedeva del Graal, in passato, e mi rimproverava
perché
311
non glielo dicevo, aveva
torto. Kyot mi ingiunse di non rivelarlo, perché Avventura gli aveva comandato
di non darsene pensiero finché ella stessa, Avventura, non invitasse a
parlarne, e allora se ne doveva parlare.
Kyot, il famoso maestro,
trovò a Toledo, dimenticata e redatta in scrittura pagana, la prima fonte di
questa avventura. Per prima cosa egli dovette imparare Tabe, ma senza l'arte
della magia nera...
Un pagano, Flegetanis, aveva
conseguito grande rinomanza per il suo sapere. Questo studioso della natura
discendeva da Salomone ed era nato da una famiglia che era stata per lungo
tempo israelita prima che il battesimo divenisse il nostro scudo contro il
fuoco dell'Inferno. Egli scrisse l'avventura del Graal. Per parte di padre,
Flegetanis era pagano, e adorava un vitello...
Il pagano Flegetanis sapeva
dirci come tutte le stelle tramontano e quindi sorgono di nuovo... Al corso
circolare delle stelle sono legati il destino e le vicende dell'uomo.
Flegetanis il pagano vide con 1 suoi occhi, nelle costellazioni, cose di cui
preferiva non parlare, misteri arcani. Diceva che vi era una cosa chiamata
Graal, il cui nome aveva letto chiaramente nelle costellazioni. Una schiera
d'angeli l'aveva lasciato sulla terra.
Da quel tempo, uomini
battezzati hanno avuto il compito di custodirlo, e con tale casta disciplina
che quanti sono chiamati al servizio del Graal sono sempre nobili. Così
scriveva Flegetanis di queste cose.
Kyot, il sapiente maestro,
si accinse a ricercare nei libri latini, per scoprire se mai vi era stato un
popolo votato alla purezza e degno di custodire il Graal. Lesse le cronache di
molte terre, in Britannia e altrove, in Francia e in Manda, e in Angiò egli
trovò la storia. Là lesse la vera storia di Mazadan, e là era scritta la
cronaca di tutta la sua famiglia.M
Tra le molte cose che in questo brano richiedono un commento, è
importante notarne almeno quattro. Innanzitutto, la storia del Graal riguarda
apparentemente la famiglia di un personaggio chiamato Mazadan. In secondo
luogo, la casa d'Angiò ha, in qualche modo, un'importanza suprema. In terzo
luogo, la versione originale della vicenda sembrerebbe giunta in Europa
occidentale attraverso i Pirenei, dalla Spagna musulmana: un'affermazione del
tutto plausibile, poiché Toledo era un rinomato centro di studi esoterici,
tanto musulmani quanto giudaici. Ma il fattore più sorprendente dell'intero
brano è che la storia del Graal, secondo la derivazione esposta da Wolfram,
sembrerebbe in ultima analisi d'origine ebraica. Se il Graal è un mistero
cristiano tanto grande, perché il suo segreto doveva venire trasmesso da
iniziati giudaici? E del resto, perché mai scrittori giudaici dovevano avere
accesso a materiale specificamente cristiano di cui la cristianità ignorava
l'esistenza?
312
Gli studiosi hanno dedicato molto tempo e molte energie per discutere
se Kyot e Flegetanis sono personaggi veri o fittizi. In effetti, come avevamo
appreso studiando i Templari, l'identità di Kyot può essere accertata con
discreta sicurezza. Kyot de Proven-ce sembra essere Guiot de Provins, un
trovatore, monaco e portavoce dei Templari, che visse in Provenza e scrisse
poesie d'amore, attacchi contro la Chiesa, peani in lode del Tempio e versi
satirici. Si sa che nel 1184 Guiot si recò a Mayence, in Germania, in occasione
della festività cavalieresca di Pentecoste, quando il Sacro romano imperatore
Federico Barbarossa conferì l'investitura ai suoi figli. Ovviamente, alla
cerimonia assistettero poeti e trovatori giunti da ogni parte della
cristianità. Poiché era cavaliere del Sacro romano impero, quasi sicuramente
era presente anche Wolfram; e senza dubbio è ragionevole supporre che si
incontrasse con Guiot. A quel tempo i dotti non erano molto numerosi, e
inevitabilmente facevano gruppo, si cercavano e si frequentavano; ed è
possibile che Guiot scoprisse di avere un'affinità spirituale con Wolfram, al
quale forse confidò certe rivelazioni, sia pure in forma soltanto simbolica. E
se l'esistenza di Guiot conferisce autenticità a Kyot, è almeno plausibile
ritenere che anche Flegetanis fosse veramente esistito. In caso contrario,
Wolfram e Guiot dovevano avere una speciale ragione per inventarlo, e per attribuirgli
i precedenti e la discendenza che gli sono attribuiti.
Oltre alla storia del Graal, è possibile che Wolfram prendesse da
Guiot anche un vivissimo interesse per i Templari. Si sa comunque che Wolfram
questo interesse l'aveva davvero. Come Guiot, compì un pellegrinaggio in
Terrasanta, dove potè vedere i Templari in azione. E nel Parzival sottolinea
che i guardiani del Graal e della famiglia del Graal sono Templari.
Naturalmente, potrebbe trattarsi di un'inesattezza cronologica e dello
sfacciato anacronismo della licenza poetica, come se ne trovano in alcuni
altri romanzi del Graal. Ma in queste cose Wolfram è molto più scrupoloso di
altri scrittori del suo tempo. Inoltre, nel Perlesvaus s'incontrano
chiare allusioni al Tempio. È possibile che Wolfram e l'autore anonimo del Perlesvaus
si siano macchiati dello stesso clamoroso anacronismo? Certo, è possibile.
Ma è anche possibile che questi ostentati collegamenti fra i Templari e il
Graal sottintendano qualcosa. E se i Templari sono davvero i guardiani del
Graal,
313
c'è una chiara implicazione; il Graal esisteva non soltanto nel
periodo arturiano, ma anche durante le Crociate, quando furono stesi i romanzi
che ne parlano. Introducendo i Templari, Wolfram e l'autore del Perlesvaus intendono
forse indicare che il Graal non era semplicemente qualcosa che apparteneva al
passato, ma aveva per loro un'importanza grandissima nel contesto
contemporaneo.
Lo sfondo del poema di Wolfram è perciò importante, in qualche
modo poco chiaro, quanto il testo stesso. Il ruolo dei Templari, come
l'identità di Kyot e di Flegetanis, sembrerebbe fondamentale; e forse questi
fattori sono la chiave del mistero che circonda il Graal. Purtroppo, il testo
del Parzivàl contribuisce ben poco a rispondere a questi interrogativi,
e ne pone per contro molti altri.
Innanzitutto, Wolfram non si limita ad affermare che la sua
versione della vicenda del Graal è fedele alla verità, a differenza di quella
di Chrétien. Egli sostiene che il racconto di Chrétien è solo una favola
fantastica, mentre il suo è in pratica una sorta di « documento iniziatico ».
In altre parole, come dichiara apertamente Wolfram, nel mistero del Graal c'è
ben più di ciò che appare a prima vista. E precisa, con numerosi riferimenti
sparsi nel poema, che il Graal non è un oggetto fantastico, bensì un mezzo per
nascondere qualcosa d'immensamente importante. Più volte, Wolfram consiglia al
suo pubblico di leggere tra le righe, e lascia cadere qua e là accenni
allusivi. Nel contempo, insiste sulla necessità della segretezza. « Perché
nessun uomo può mai conquistare il Graal se non è conosciuto in cielp, e
chiamato per nome al Graal. »I5E« il Graal è sconosciuto a tutti,
esclusi coloro che sono stati chiamati per nome... a far parte della schiera
del Graal ».16
Wolfram è nel contempo preciso e sfuggente, quando deve
identificare il Graal. Quando appare per la prima volta, durante il soggiorno
di Parzivàl al castello del Re Pescatore, non viene indicato che cosa sia.
Sembrerebbe avere tuttavia qualcosa in comune con la vaga descrizione fattane
da Chrétien:
Ella [la Regina della famiglia del Graal] indossava una veste di
seta araba. Sopra un achmardi verdescuro portava la Perfezione del Paradiso,
radice e ramo. Questa era una cosa chiamata Graal, che supera ogni perfezione
terrena. Repanse de Schoye era il nome di colei alla quale il Graal concedeva
d'essere la sua portatrice. Tale era la natura del Graal che colei che lo
custodiva doveva serbare la purezza e ripudiare ogni falsità.17
314
Tra l'altro, a questo punto
il Graal appare come una storia di magica cornucopia o corno dell'abbondanza:
Cento Cavalieri, avendone
ricevuto l'ordine, con reverenza presero il pane in salviette bianche davanti
al Graal, arretrarono in gruppo e, separandosi, distribuirono il pane a tutte
le tavole. Mi fu detto, e lo riferisco a voi, ma sulla vostra parola e non
sulla mia - quindi, se io v'inganno, siamo tutti mentitori - che se qualcuno
tendeva la mano per ottenere qualunque cosa, la trovava pronta, davanti al
Graal, vivande calde o vivande fredde, piatti nuovi o vecchi, carne di animali
domestici o cacciagione. « Non vi fu mai una cosa simile », diranno molti. Ma
sbaglie-rebbero se protestassero irosamente, perché il Graal era il frutto
della beatitudine, una tale abbondanza delle dolcezze del mondo che le sue
delizie erano pari a quelle che ci vengon descritte del regno dei cieli.l8
Tutto ciò è a modo suo
piuttosto terreno o addirittura pedestre, e il Graal sembrerebbe piuttosto
innocuo. Ma più tardi, quando lo zio eremita di Parzival ne parla, ecco che il
Graal diviene decisamente più potente. Dopo una lunga disquisizione che
contiene concezioni clamorosamente gnostiche, l'eremita così descrive il Graal:
Io so bene che molti valenti
cavalieri dimorano con il Graal a Munsalvae-sche. Quando ne escono a cavallo,
come spesso avviene, vanno sempre in cerca di avventure. Lo fanno per i loro
peccati, questi templari, sia vittoria o sconfitta la loro ricompensa. Là vive
una schiera di valorosi, ed io ti dirò come si sostentano. Essi vivono grazie a
una pietra della specie più pura. Se tu non la conosci, ora te la nominerò. È
chiamata lapsit exillis. Grazie al potere di quella pietra, la fenice
arde e si riduce in cenere, ma la cenere le ridona vita. Così la fenice muta e
cambia il piumaggio, che dopo è fulgido e splendente e bellissimo come prima.
Non vi fu mai un umano tanto gravemente malato che, se un giorno vede la
pietra, possa morire entro la settimana che segue. E il suo aspetto non diverrà
smunto. Il suo aspetto rimarrà lo stesso, sia una fanciulla o un uomo, come nel
giorno in cui vide la pietra, come quando incominciarono gli anni migliori
della sua vita, e se vedesse la pietra per duecento anni, il suo aspetto non
cambierà mai, eccetto che forse i suoi capelli diverranno grigi. Tale forza la
pietra conferisce a un uomo che la carne e le ossa subito ridivengono giovani.
La pietra è chiamata anche Graal.19
Secondo Wolfram, quindi, il
Graal è una pietra. Ma è una definizione più provocatoria che soddisfacente.
Gli studiosi hanno proposto numerose interpretazioni per la frase « lapsit
exillis », tutte più o meno plausibili. « Lapsit exillis » potrebbe essere una
forma corrotta di « lapis ex caelis », « pietra venuta dai cieli ».
315
Potrebbe anche essere una corruzione di « lapsit ex caelis », «
cadde dai cieli », oppure di « lapis lapsus ex caelis », « una pietra caduta
dai cieli », o infine « lapis elixir », la favolosa Pietra Filosofale degli
alchimisti.20 Certamente il brano citato, come del resto l'intero
poema di Wolfram, è impregnato di simbolismo alchemico. La fenice, ad esempio,
è il simbolo alchemico della resurrezione o della rinascita; e inoltre,
nell'iconografia medievale, è un emblema di Gesù morto e risorto.
Se la fenice rappresenta davvero Gesù, Wolfram la associa
implicitamente alla pietra. Naturalmente, non si tratta di un'associazione
unica nel suo genere. C'è Pietro (Pierre o « pietra » in francese), la « pietra
» su cui Gesù fonda la sua chiesa. E come avevamo scoperto, nel Nuovo
Testamento Gesù si paragona alla « pietra angolare scartata dai costruttori »,
la pietra del Tempio, la Pietra di Sion. Poiché era « fondata » su questa
pietra, c'era una tradizione regale discesa da Goffredo di Buglione ed eguale
alle dinastie regnanti d'Europa.
Nel passo che segue immediatamente quello citato, Wolfram collega
specificatamente il Graal alla Crocifissione e, tramite il simbolo della
colomba, alla Maddalena:
In questo giorno, giunge a esso [il Graal] un messaggio che
racchiude il suo potere più grande. Oggi è Venerdì Santo, e là essi attendono
una colomba che discende dal cielo. Essa porta una piccola ostia candida, e la
posa sulla pietra. Quindi, candida e fulgida, la colomba riascende al Cielo. Sempre,
il Venerdì Santo, essa porta alla pietra ciò che ti ho appena detto, e da ciò
la pietra trae tutte le buone fragranze delle bevande e dei cibi che vi sono
sulla terra, simili alla perfezione del Paradiso. Intendo tutte le cose che la
terra può produrre. Inoltre la pietra fornisce ogni selvaggina che vive sotto
il cielo, sia che voli o corra o nuoti. In tal modo il potere del Graal da
sostentamento alla confraternita dei cavalieri.21
Oltre a questi altri attributi straordinari, nel poema di Wolfram,
il Graal sembrerebbe quasi possedere un certa capacità senziente. Può chiamare
gli individui al proprio servizio... e chiamarli in senso attivo:
Ascolta ora come vengono resi noti coloro che sono chiamati al
Graal. Sulla pietra, intorno all'orlo, appaiono lettere che indicano il nome e
il lignaggio di ognuno, fanciulla o fanciullo, che deve intraprendere questo
viaggio benedetto. Né è necessario cancellare le iscrizioni, poiché quando egli
ha letto il nome, questo svanisce davanti ai suoi occhi. Tutti coloro che
316
ora sono giunti alla maturità vi andarono bambini. Beata la madre
che ha partorito un figlio destinato a prestare servizio colà. Poveri e ricchi
si rallegrano egualmente se il loro figlio è chiamato a unirsi alla schiera. Vi
vengono condotti da molte terre. Sono protetti dalla vergogna del peccato più
di tutti gli altri, e ricevono buona ricompensa in cielo. Quando per loro la
vita muore qui, là essi ricevono la perfezione.22
Se i guardiani del Graal sono i Templari, i suoi custodi nel vero
senso della parola sembrano essere i componenti di una certa famiglia. Questa,
pare, ha numerosi rami collaterali, alcuni dei quali ignorano la propria
identità, e che sono sparsi in tutto il mondo. Altri membri della famiglia,
invece, abitano nel castello del Graal a Munsalvaesche, ovviamente connesso al
leggendario castello cataro di Montsalvat, e identificato da almeno un autore
con Montségur.23 A Munsalvaesche dimora un certo numero di
personaggi enigmatici. C'è la custode e portatrice del Graal, Re-panse de Schoye
(« Réponse de Choix » o « Risposta della Scelta »). E naturalmente c'è
Anfortas, il Re Pescatore, signore del castello del Graal, che è ferito ai
genitali e non può procreare o, alternativamente, morire. Come nel romanzo di
Chrétien, anche per Wolfram Anfortas è lo zio di Parzival. E quando, alla
conclusione del poema, la maledizione ha fine e Anfortas può finalmente morire,
Parzival diviene l'erede del castello del Graal.
Il Graal, o la famiglia del Graal, chiama al suo servizio certi
individui appartenenti al mondo esterno, che devono essere iniziati a una
sorta di mistero. Nel contempo, invia nel mondo i suoi servitori a compiere
varie imprese: e talvolta a occupare un trono. Infatti il Graal possiede, a
quanto pare, il potere di creare i re:
Vengono prescelte certe fanciulle per servire il Graal... Questo
fu il volere di Dio, e le vergini compivano il loro servizio dinanzi a esso. II
Graal sceglie soltanto nobili. Cavalieri buoni e devoti sono prescelti come
suoi guardiani. L'avvento delle alte stelle arreca grande dolore a costoro, ai
giovani come ai vecchi. La collera di Dio contro di loro è durata troppo a
lungo. Quando diranno sì alla gioia?... E ti dirò altro, che tu puoi ben
credere vero. Spesso essi hanno una doppia sorte; danno e ricevono profitto.
Colà accolgono bimbi di nobile lignaggio e di grande bellezza. E se in qualche
luogo una terra perde il suo signore, e se il suo popolo riconosce la Mano di
Dio e cerca un nuovo signore, gliene viene concesso uno della schiera del
Graal. Essi devono trattarlo con cortesia, poiché lo protegge la benedizione di
Dio.24
317
Questo passo induce a supporre che, in passato, la famiglia del
Graal sia incorsa nella collera di Dio. L'allusione « la collera di Dio contro
di loro » riecheggia innumerevoli affermazioni medievali relative agli Ebrei.
E riecheggia anche il titolo di un libro misterioso associato a Nicolas Flamel,
// libro sacro di Abraham l'Ebreo, principe, sacerdote, levita, astrologo e
filosofo di quella tribù ebrea che dalla Collera di Dio fu dispersa tra i
Galli. E Flegetanis, che secondo Wolfram scrìsse la prima storia del Graal,
sarebbe disceso da Salomone. Possibile che la famiglia del Graal fosse
d'origine ebraica?
Qualunque fosse la maledizione che pesava un tempo sulla famiglia
del Graal, questa, al tempo di Parzival, gode indiscutibilmente del favore
divino: e anche di un grande potere. Tuttavia è rigorosamente tenuta, almeno
sotto certi aspetti, a mantenere segreta la propria identità.
Gli uomini [della famiglia del Graal] Dio li invia segretamente;
le fanciulle vanno apertamente... Così le fanciulle vengono inviate apertamente
dal Graal, e gli uomini in segreto, affinchè possano avere figli che a loro
volta entreranno un giorno al servizio del Graal e, servendolo, ne
illustreranno la schiera. Dio può loro insegnare come riuscirvi.25
Le donne della famiglia del Graal, dunque, quando sposano qualcuno
appartenente al mondo esterno possono rivelare la loro identità e il loro
lignaggio. Gli uomini, invece, devono tenerli scrupolosamente nascosti, al
punto che non possono permettere domande circa le loro origini. A quanto pare,
è una questione d'importanza cruciale, perché Wolfram torna a insistervi con
enfasi proprio alla conclusione del poema.
Sul Graal si trovò ora scritto che ogni templare posto dalla mano
di Dio a signoreggiare popoli stranieri doveva vietare che gli si chiedesse il
suo nome e la sua razza, e doveva aiutarli nel sostenere i loro diritti. Se la
domanda gli veniva rivolta, essiìion avrebbero più avuto il suo aiuto.26
Da questo, naturalmente, nasce il dilemma di Lohengrin, figlio di
Parzival che, quando viene interrogato sulla sua origine, deve abbandonare la
moglie e i figli e ritornare nell'isolamento dal quale è uscito. Ma perché era
necessaria una segretezza tanto rigorosa? Quale « scheletro nell'armadio », per
così dire, poteva imporla? Se la famiglia del Graal era effettivamente
d'origine ebraica, questo poteva costituire una spiegazione, al tempo in cui
318
scriveva Wolfram. E la spiegazione trae una certa credibilità
dalla vicenda di Lohengrin. Vi sono infatti molte varianti della storia di
Lohengrin, e non sempre questi è identificato con lo stesso nome. In alcune
versioni è chiamato Elie o Eli,27 un nome inequivocabilmente
ebraico.
Nel romanzo di Robert de Boron e nel Perlesvaus, Perceval è
di discendenza ebraica, del « sacro lignaggio » di Giuseppe d'Arima-tea. Nel
poema di Wolfram questo lignaggio, per quanto riguarda Parzival, sembra essere
incidentale. È vero che Parzival è nipote del sofferente Re Pescatore e quindi
è imparentato con la famiglia del Graal. E sebbene non sposi una dama della
famiglia - anzi, è già sposato - eredita comunque il castello del Graal e ne
diviene il nuovo signore. Ma per Wolfram il lignaggio del protagonista sembra
essere meno importante del modo in cui egli dimostra di esserne degno. Insomma,
Parzival deve adeguarsi a certi criteri imposti dal sangue che gli scorre nelle
vene. E questo indica chiaramente l'importanza attribuita da Wolfram a quel
sangue.
Non c'è dubbio che Wolfram ascriva un significato enorme a una
particolare stirpe. Se c'è un tema dominante che pervade non soltanto il Parzival
ma anche le altre sue opere, non è tanto il Graal quanto la famiglia del
Graal. In effetti, la famiglia del Graal sembra dominare la mente di Wolfram in
modo quasi ossessivo; e il poeta dedica ai suoi componenti e alla loro
genealogia un'attenzione assai più grande che al misterioso oggetto del quale
sono i custodi.
La genealogia della famiglia del Graal può essere ricostruita da
un'attenta lettura del Parzival. Lo stesso Parzival è nipote di
Anfortas, il Re Pescatore menomato, signore del castello del Graal. Anfortas è
figlio di un certo Frimutel, e Frimutel è figlio di Titurel. A questo punto, la
genealogia diventa più aggrovigliata. Alla fine, comunque, risale a un certo
Laziliez, che potrebbe essere una derivazione di Lazzaro, fratello di Maria e
di Marta nel Nuovo Testamento. E i genitori di Laziliez, i capostipiti della
famiglia del Graal, si chiamano Mazadan e Terdelaschoye. Quest'ultimo è
chiaramente una versione germanizzata di una frase francese, « Terra de la
Choix », « Terra della scelta » o « Terra Prescelta ». Mazadan è più oscuro.
Potrebbe forse derivare dal zoroastriano Ahura Mazda, il principio dualista
della Luce. Nel
319
contempo, benché solo foneticamente, ricorda Masada, uno dei
principali bastioni della rivolta degli Ebrei contro l'occupazione romana nel
68 d.C.
I nomi che Wolfram assegna ai membri della famiglia del Graal,
quindi, sono spesso indicativi. Allo stesso tempo, però, non ci dicono nulla
che abbia un'utilità storica. Se speravamo di trovare un autentico prototipo
storico per la famiglia del Graal, dovevamo cercarlo altrove. Gli indizi erano
piuttosto scarsi. Sapevamo, ad esempio, che la famiglia del Graal sarebbe culminata
in Goff redo di Buglione; ma questo non gettava molta luce sui mitici predecessori
di Goff redo: indicava soltanto che questi (come i suoi veri antenati) avevano
tenuto scrupolosamente segreta la loro identità. Ma secondo Wolfram, Kyot
aveva trovato una cronaca della vicenda del Graal negli annali della casa
d'Angiò, e lo stesso Parzival è di sangue angioino. Questo era estremamente
interessante, perché la casa d'Angiò aveva stretti legami con i Templari e la
Terrasanta. Lo stesso Fulques, conte d'Angiò, divenne per così dire Templare «
onorario » o « part-time ». Nel 1131, inoltre, sposò la nipote di Goffredo di
Buglione, la leggendaria Melusina, e divenne re di Gerusalemme. Secondo i «
documenti del Priorato », i signori d'Angiò - la famiglia dei Plantageneti -
erano quindi imparentati con la stirpe merovingia. Ed è addirittura possibile
che il nome Plantagenet riecheggiasse « Plant-Ard » o Plantard.
Questi collegamenti erano tenui e frammentari. Ma c'erano altri
indizi, forniti dall'ambientazione geografica del poema di Wolfram. Quasi tutta
l'azione si svolge in Francia. Contrariamente ai successivi cronisti del
Graal, Wolfram afferma persino che la corte di Artù, Camelot, è situata in
Francia, e precisamente a Nantes. Nantes, nell'attuale Bretagna, segnava
l'estremo confine occidentale del vecchio regno merovingio all'apice della sua
potenza.28
In un manoscritto della versione di Chrétien della vicenda del
Graal, Perceval dichiara di essere nato a « Scaudone » o « Sina-don », una
località che appare in numerose varianti ortografiche ; e questa regione, viene
detto, è montuosa. Secondo Wolfram, Parzival viene dal « Waleis ». Molti
studiosi hanno concluso che Waleis sia Wales, il Galles, e Sinadon, nelle varie
versioni, sia Snowdon o Snowdonia. Se è così, però, sorgono alcuni problemi in-
320
sormontabili e, come osserva un commentatore moderno, « le carte
geografiche ci abbandonano ». Infatti, i personaggi si spostano continuamente
tra il Waleis e la corte di Arni a Nantes ed altre località francesi, senza
attraversare il mare! Insomma, si spostano per via di terra, e per giunta in
regioni i cui abitanti parlano francese. La geografia di Wolfram era
semplicemente sbagliata? Era possibile che fosse tanto inesatta? Oppure il
Waleis poteva non essere affatto il Galles? Due studiosi hanno avanzato
l'ipotesi che fosse il Valois, la regione francese a nord-est di Parigi: ma nel
Valois non vi sono montagne, e il resto del panorama non corrisponde minimamente
alla descrizione di Wolfram. Tuttavia, c'è un'altra possibile identificazione
per il Waleis: una regione montuosa, che corrisponde esattamente alle
descrizioni topografiche di Wolfram, e i cui abitanti parlano francese. È il
Valais (Vallese), in Svizzera, sulle rive del lago Lemano a est di Ginevra.
Insomma, si direbbe che la patria di Parzival non sia né il Galles né il
Valois, bensì il Vallese. E il suo luogo di nascita, Sinadon, non sarebbe
Snowdon o Snowdonia, bensì Sidonensis, la capitale del Vallese. E il nome
moderno di Sidonensis è Sion.
Dunque, secondo Wolfram, la corte di Artù è in Bretagna. Parzival
sembrerebbe nato in Svizzera. E la famiglia del Graal? E il castello del Graal?
Wolfram da una risposta nella sua opera più ambiziosa, rimasta incompiuta alla
sua morte e intitolata Der Junge Titurel. In questo frammento
suggestivo, Wolfram si occupa della vita di Titurel, padre di Anfortas e
costruttore del castello del Graal. Der Junge Titurel è molto preciso
non soltanto per quanto riguarda i dettagli genealogici, ma anche per quanto
riguarda le dimensioni, i componenti, i materiali, la configurazione del castello
del Graal: la sua "cappella, ad esempio, è circolare come quelle dei
Templari. E il castello è situato nei Pirenei.
Oltre a Der Junge Titurel, alla sua morte Wolfram lasciò
incompiuta un'altra opera, il poema conosciuto come Willehalm, che ha
per protagonista Guillem de Gellone, sovrano merovingio del principato che, nel
IX secolo, si estendeva attraverso i Pirenei. Guillem viene presentato come
imparentato con la famiglia del Graal.29 Sembra essere, quindi,
l'unico personaggio delle opere di Wolfram del quale è possibile accertare
l'identità storica. Tuttavia, anche quando parla dei personaggi
inidentificabili, Wolfram
321
da prova di una sorprendente, meticolosa precisione. Più lo si
studia, e più sembra verosimile che si riferisca a un gruppo di persone
veramente esistite; non già a una famiglia mitica o inventata, bensì a una che
ebbe esistenza storica e che forse includeva Guillem de Gellone. Questa
conclusione diviene ancora più plausibile quando Wolfram ammette che sta
nascondendo qualcosa, che Parzival e le altre sue opere non sono
soltanto romanzi ma anche documenti iniziatici, repertori di segreti.
Il Graal e il cabalismo
Come suggerisce il Perlesvaus, il Graal sembra essere,
almeno in parte, una sorta di esperienza. Nella sua dissertazione sulle proprietà
risanatrici del Graal e il suo dono di conferire la longevità, Wolfram, a sua
volta, sembra sottintendere qualcosa di esperien-ziale, oltre che simbolico: un
stato della mente o uno stato dell'essere. Pare non vi siano dubbi che su un
certo livello il Graal è un'esperienza iniziatica descrivibile, nella
terminologia moderna, come una « trasformazione »ouno« stato alterato di
coscienza ». Alternativamente, potrebbe essere descritto come « esperienza
gnostica », « esperienza mistica », « illumuiazione » o « unione con Dio ». È
possibile essere ancora più precisi, e collocare l'aspetto esperienziale del
Graal in un contesto specifico. Questo contesto è dato dalla cabala e dal
pensiero cabalistico. Senza dubbio, questo pensiero era « nell'aria » al tempo
in cui furono composti i romanzi del Graal. Ad esempio, c'era una famosa scuola
cabalista a Toledo, dove Kyot avrebbe appreso l'esistenza del Graal. C'erano
altre scuole a Gerona, e Montpellier e in altre località della Francia
meridionale. Difficilmente può apparire come una semplice coincidenza il fatto
che anche a Troyes ci fosse una di queste scuole. Risale al 1070, al tempo di
Goffredo di Buglione, ed era diretta da Rashi, uno dei più famosi cabalisti
medievali.
Ovviamente è impossibile, in questa sede, rendere giustizia alla
cabala e al pensiero cabalista. Tuttavia sono necessarie alcune precisazioni,
per poter stabilire il collegamento tra il cabalismo e i romanzi del Graal. In
poche parole, il cabalismo potrebbe essere chiamato « giudaismo esoterico »,
una metodologia psicologica
322
pratica di origine esclusivamente giudaica, ideata per indurre una
straordinaria trasformazione della coscienza. Sotto tale aspetto, può essere
considerata l'equivalente giudaico di simili metodologie o discipline
appartenenti alla tradizione induista, buddista e taoista, ad esempio certe
forme di yoga o di Zen.
Come i suoi equivalenti orientali, il cabalismo comporta una serie
di riti, una sequenza strutturata di esperienze iniziatiche in successione che
conducono il praticante a modifiche sempre più radicali della coscienza e della
cognizione. E sebbene il significato di tali modifiche sia soggetto a
interpretazioni disparate, la loro realtà, quali fenomeni psicologici, è
indiscussa. Uno degli « stadi » dell'iniziazione cabalistica, e uno dei più
importanti, è quello chiamato Tiferei. Nell'esperienza di Tiferet, si
dice che l'individuo passi dal mondo della forma a quello della non-forma o,
per dirla in termini moderni, « trascenda il proprio ego ». Simbolicamente,
consiste di una specie di « morte » sacrificale: la morte dell'ego, del senso
di individualità, e dell'isolamento che tale individualità comporta; e
ovviamente è anche una rinascita, o resurrezione, in un'altra dimensione, di
armonia e di unità che abbraccia tutte le cose. Negli adattamenti cristiani del
cabalismo, quindi, Tiferet veniva associata a Gesù.
Per i cabalisti medievali l'iniziazione a Tiferet era
associata a certi simboli specifici, che includevano un eremita, o una guida, o
un vecchio saggio, un re maestoso, un bimbo, un dio sacrificato.30 Con
l'andar del tempo si aggiunsero anche altri simboli, ad esempio una piramide
tronca, un cubo e una croce rosa. La relazione tra questi simboli e i romanzi
del Graal è abbastanza evidente. In ogni storia del Graal c'è un vecchio,
saggio eremita, che spesso è lo zio di Perceval o Parzival, e che funge da
guida spirituale. Nel poema di Wolfram, il Graal - come « pietra » - potrebbe
corrispondere al cubo. E nel Perlesvaus le varie manifestazioni del
Graal corrispondono quasi esattamente ai simboli di Tiferet. Anzi, il Perlesvaus,
in se stesso, costituisce un nesso fondamentale tra l'esperienza di Tiferet
e il Graal.31
II gioco di parole
Potevamo così identificare l'aspetto esperienziale del Graal e
col-
323
legarlo con precisione al cabalismo. E questo conferiva un altro
elemento giudaico, apparentemente incongruo, al presunto carattere cristiano
del Graal. Ma, quali che fossero gli aspetti esperien-ziali del Graal, ve
n'erano anche altri: aspetti che non potevamo ignorare e che avevano
un'importanza fondamentale per la nostra indagine. Erano gli aspetti storici e
genealogici.
I romanzi del Graal ci avevano più volte posti di fronte a un
disegno di carattere chiaramente terreno, non mistico. C'era un cavaliere
imberbe che, dopo essersi dimostrato « degno » attraverso certe prove, veniva
iniziato a uno straordinario segreto. Questo segreto era rigorosamente
custodito da un ordine cavalieresco. E in qualche modo era associato a una
certa famiglia. Il protagonista, sposando una donna di questa famiglia, oppure
grazie al lignaggio, diveniva signore del castello del Graal e di tutto ciò che
a esso era collegato. Almeno su questo livello, sembrava che fossimo alle prese
con qualcosa che aveva un concreto carattere storico. Un individuo può
diventare signore di un castello o di un gruppo di persone. Può ereditare certe
terre o un certo patrimonio. Ma non può diventare signore o erede di un'esperienza.
Aveva un significato preciso, ci chiedevamo, il fatto che i romanzi
del Graal, sottoposti a un attento esame, risultassero basati in modo tanto
cruciale su questioni di lignaggio e di genealogia, di discendenza, di eredità
e di ereditarietà? Aveva un significato preciso il fatto che il lignaggio e la
genealogia in questione si sovrapponesse in certi punti chiave a quelli che
avevano avuto una parte tanto saliente nella nostra indagine, ad esempio la
casa d'Angiò, Guillem de Gellone e Goffredo di Buglione? Era possibile che il
mistero legato a Rennes-le-Chàteau e al Priorato di Sion fosse relato, in
qualche modo ancora oscuro, al misterioso oggetto chiamato Santo Graal?
Insomma, avevamo seguito le orme di Parzival conducendo una moderna cerca del
Graal?
L'evidenza indicava che tale possibilità esisteva. Anzi, c'era un
altro indizio decisivo che faceva pendere la bilancia in favore di questa
conclusione. In molti dei manoscritti più antichi, il Graal è chiamato «
Sangraal » ; e anche nella più tarda versione di Malory è chiamato « Sangreal
». È probabile che una di queste torme, « Sangraal » o « Sangreal », fosse
l'originale. E altrettanto pro-
324
babile che la parola venisse in seguito divisa in modo errato.
Insomma, « Sangraal » o « Sangreal » forse non doveva venire diviso in « San
Graal » o « San Greal », bensì in « Sang Raal » o « Sang Réal ». O meglio, per
usare l'ortografia moderna, « Sang Royal ». Sangue reale.
In se stesso, questo gioco di parole poteva essere suggestivo, ma
non conclusivo. Tuttavia, se lo si considerava insieme all'importanza
attribuita alla genealogia e al lignaggio, non lasciava spazi a molti dubbi. E
del resto l'associazione tradizionale, la coppa che aveva raccolto il sangue di
Gesù, sembrava rafforzare tale supposizione. Chiaramente, il Graal pareva
riferirsi in un modo o nell'altro al sangue e a un lignaggio.
Naturalmente, questo solleva certi interrogativi ovvi. Il sangue
di chi? Il lignaggio di chi?
I « re
perduti » e il Graal
I romanzi del Graal non furono i soli poemi che trovarono un
pubblico attento alla fine del XII secolo e all'inizio del XIII. Ve ne furono
molti altri, Tristan e Isolde, ad esempio, ed Eric edEnide, composti
in certi casi dallo stesso Chrétien de Troyes, in altri casi da contemporanei e
compatrioti di Wolfram, come Hartmann von Aue e Gottfried di Strasburgo. Questi
romanzi non menzionano in alcun modo il Graal. Ma sono evidentemente ambientati
nello stesso periodo mitico-storico dei romanzi del Graal, perché sono
imperniati in modo più o meno diretto su Artù. Per quanto è possibile
assegnargli una data, Artù sembra essere vissuto verso la fine del V o
l'inizio, del VI secolo. In altre parole, Artù visse al culmine della potenza
merovingia in Francia, e anzi fu contemporaneo di Clodoveo. Se il termine «
Ursus », « orso », fu usato per la stirpe reale dei Merovingi, il nome « Arthur
», che egualmente significa « orso » potrebbe rappresentare un tentativo di
conferire un'eguale dignità a un capo bretone.
Per gli autori del periodo delle Crociate, l'era merovingia sembra
aver avuto un'importanza eccezionale, al punto che fornì lo sfondo per romanzi
che non avevano nulla a che spartire con Artù o il Graal. Uno è l'epica
nazionale tedesca, il Nibelungenlied o Canto dei Nibelunghi; dal
quale, nel secolo XIX, Wagner attinse a
325
piene mani per la sua monumentale tetralogia, L'anello
delNibe-lungo. La tetralogia e il poema da cui deriva sono considerati
solitamente frutto della fantasia. Ma i Nibelunghi erano un popolo esistito
realmente, una tribù germanica presente nel tardo periodo merovingio. Inoltre,
molti dei personaggi del Nìbelungenlied, ad esempio Sigmundo, Sigfrido,
Siglinda, Brunilde e Crimilde, portano nomi chiaramente merovingi. Molti
episodi del poema sono paralleli a eventi specifici dei tempi merovingi, e
potrebbero persi-no richiamarsi a essi.
Benché non abbia nulla a che vedere con Artù e il Graal, il Nibelungenlied
attesta ancora una volta che l'epoca merovingia esercitò un fascino
irresistibile sull'immaginazione dei poeti del XII e del XIII secolo, come se
essi avessero saputo qualcosa di fondamentale su quel periodo, qualcosa che gli
scrittori e gli storici più tardi non conoscevano. Comunque, gli studiosi
moderni sono concordi nel ritenere che i romanzi del Graal, come il Nibelungenlied,
si riferiscono all'epoca merovingia. In parte, certo, questa conclusione
appare scontata, data la parte preminente assegnata ad Artù. Ma poggia anche su
indicazioni specifiche, fornite dagli stessi romanzi del Graal. La Queste
del Saint Graal, ad esempio, composta tra il 1215 e il 1230, dichiara
esplicitamente che gli eventi della vicenda del Graal accaddero 454 anni dopo
la resurrezione di Gesù.32 Presumendo che Gesù fosse morto nel 33
d.C., la saga del Graal si sarebbe quindi svolta nel 487 d.C., durante il primo
fiorire della potenza merovingia e soltanto cinque anni prima del battesimo di
Clodoveo.
Quindi non era un'idea rivoluzionaria o assurda collegare i
romanzi del Graal all'epoca merovingia. Tuttavia, avevamo la sensazione che
fosse stato trascurato qualcosa. In sostanza, era una questione di risalto, un
risalto dato soprattutto alla Britannia a causa di Artù. In seguito a questo
risalto, noi non avevamo associato automaticamente il Graal alla dinastia
merovingia. Tuttavia, Wolfram afferma che la corte di Artù è a Nantes, e che il
suo poema è ambientato in Francia. La stessa affermazione è ripetuta da altri
romanzi del Graal, la Queste del Saint Graal, ad esempio. E certe
tradizioni medievali sostengono che il Graal non fu portato in Britannia da
Giuseppe d'Arimatea, bensì in Francia dalla Maddalena.
326
Ormai incominciavamo a chiederci se la preminenza assegnata alla
Britannia dai commentatori dei romanzi del Graal non fosse frutto di un errore,33
e se i romanzi non si riferissero principalmente a eventi svoltisi sul
continente, e soprattutto in Francia. E incominciammo a sospettare che lo
stesso Graal, il « sangue reale », fosse il sangue reale della dinastia
merovingia, il sangue che era considerato sacro e dotato di proprietà magiche e
miracolose.
Forse i romanzi del Graal costituivano, almeno in parte, un'esposizione
simbolica o allegorica di certi eventi del periodo merovingio. E forse noi
avevamo già incontrato alcuni tali eventi nel corso della nostra indagine.
Un'alleanza matrimoniale con una certa famiglia, ad esempio che, velata dalle
nebbie del tempo, aveva prodotto le leggende sulla doppia paternità di Meroveo.
O forse, nella famiglia del Graal, una raffigurazione del perpetuarsi
clandestino della stirpe merovingia- les roisperdus- tra le montagne e
nelle grotte del Razès. O forse l'esilio di tale stirpe in Inghilterra tra la
fine del IX secolo e l'inizio del X. E le segrete ma ■illustri alleanze
dinastiche grazie alle quali la vite merovingia, come la famiglia del Graal,
diede finalmente il suo frutto in Gof-fredo di Buglione e nella casa di Lorena.
Forse lo stesso Artù -« l'orso » - era relato soltanto in modo incidentale al
capotribù celtico o gallo-romano. Forse PArtù dei romanzi del Graal era in
realtà « Ursus ». Forse il leggendario Artù delle cronache di Gof-fredo di
Monmouth era stato « annesso » dagli scrittori del Graal e volutamente
trasformato nel veicolo di una tradizione diversa e segreta. Se ciò era vero,
poteva spiegare perché i Templari, istituiti dal Priorato di Sion quali
custodi della stirpe merovingia, venivano presentati come guardiani del Graal
e della famiglia del Graal. Se la famiglia del Graal e la stirpe merovingia
erano una cosa sola, i Templari erano veramente i guardiani del Graal, più o
meno al tempo in cui furono composti i famosi romanzi. La loro presenza in
questi romanzi, perciò, non sarebbe stata anacronistica.
Era un'ipotesi affascinante, ma poneva un interrogativo cruciale.
I romanzi sono ambientati nel periodo merovingio, ma collegano esplicitamente
il Graal alle origini del cristianesimo, a Gesù, a Giuseppe d'Arimatea, alla
Maddalena. Alcuni, anzi, si spingono
327
addirittura oltre. Nel poema di Robert de Boron, Galahad è
presentato come il figlio di Giuseppe di Arimatea, anche se non è chiara
l'identità della madre del cavaliere. E la Queste del Saint Graal chiama
Galahad figlio della casa di Davide, come Gesù, e lo identifica con lo stesso
Gesù. Anzi lo stesso nome Galahad, secondo gli studiosi moderni, deriva da
Gilead, che era considerato una designazione mistica di Gesù.34
Se il Graal si poteva identificare con la stirpe merovingia, che
collegamenti aveva con Gesù? Perché una cosa strettamente associata a Gesù
doveva essere associata anche all'epoca merovingia? Come potevamo spiegare la
discrepanza cronologica, il legame tra qualcosa di relato a Gesù e gli eventi
accaduti almeno quattro secoli più tardi? Com'era possibile che il Graal si
riferisse da una parte all'epoca merovingia e dall'altra a qualcosa che era
stato portato in Inghilterra da Giuseppe d'Arimatea o in Francia dalla
Maddalena?
Anche su un piano simbolico, questi interrogativi si imponevano.
Il Graal, ad esempio, era in qualche modo collegato al sangue. E anche senza
dividere « Sangraal » in « Sang raal », restava il fatto che veniva presentato
come il ricettacolo del sangue di Gesù. In che modo ciò poteva essere relato ai
Merovingi? E perché doveva essere collegato a loro esattamente in quel tempo,
durante le Crociate, quando i Merovingi portavano la corona del regno di
Gerusalemme, protetti dall'Ordine del Tempio e dal Priorato di Sion?
I romanzi del Graal esaltano l'importanza del sangue di Gesù. Ed
esaltano anche un lignaggio. E tenendo presenti fattori come il culmine della
famiglia del Graal in Goffredo di Buglione, sembra che si tratti del lignaggio
merovingio.
Poteva esistere qualche nesso tra questi due elementi in apparenza
discordanti? Il sangue di Gesù poteva essere relato in qualche modo al sangue
reale dei Merovingi? Il lignaggio connesso al Graal, portato nell'Europa
occidentale poco dopo la Crocifissione, poteva essere intrecciato al lignaggio
dei Merovingi?
Necessità di una sintesi
A questo punto riconsiderammo gli indizi che avevamo a disposi-
328
zione. E ci stavano avviando in una direzione sorprendente e
tuttavia inequivocabile. Ma perché, ci chiedemmo, questi indizi non erano mai
stati sottoposti dagli studiosi a un vaglio rigoroso? Erano certamente
accessibili da secoli. Perché nessuno, a quanto ne sapevamo, aveva mai fatto
una sintesi, traendone quelle che apparivano come conclusioni piuttosto ovvie,
anche se ipotetiche? D'accordo: qualche secolo fa tali conclusioni sarebbero
state rigorosamente proibite e, se pubblicate, sarebbero state punite severamente.
Ma almeno da duecento anni, il pericolo non esisteva più. E allora, perché i
frammenti del rompicapo non erano stati mai composti, finora, in un mosaico
coerente?
Le risposte a questi interrogativi, ce ne rendemmo conto, stavano
nella nostra epoca e nelle abitudini di pensiero che la caratterizzano. A
partire dal cosiddetto « Illuminismo » del secolo XVIII, l'orientamento della
cultura e della coscienza dell'Occidente è stato rivolto all'analisi più che
alla sintesi. Di conseguenza, la nostra è un'epoca di crescente specializzazione.
In armonia con questa tendenza, la cultura moderna attribuisce un'importanza
esagerata alla specializzazione, che, come dimostra l'università moderna,
comporta la segregazione della conoscenza in « discipline » distinte. Quindi
le diverse sfere esplorate dalla nostra indagine sono per tradizione suddivise
in compartimenti separati. In ognuno di questi compartimenti il materiale
pertinente è stato debitamente esplorato e valutato da specialisti o « esperti
» del campo. Ma ben pochi di questi « esperti » hanno cercato di stabilire il
loro particolare campo e gli altri che possono incrociarsi con quello. Anzi, in
genere questi esperti tendono a guardare gli altri campi con occhi sospettosi,
e a considerarli spuri nel peggiore dei casi, e non pertinenti nel caso
migliore. E la ricerca eclettica o « interdisciplinare » spesso viene
energicamente scoraggiata perché è ritenuta, tra l'altro, troppo speculativa.
Sono stati scritti numerosi trattati sui romanzi del Graal, le
loro origini e i loro sviluppi, i loro effetti culturali, il loro valore
letterario. E ci sono stati numerosi studi, validi e meno validi, sui Templari
e le Crociate. Ma pochi esperti dei romanzi del Graal erano storici, e meno
ancora numerosi sono stati quelli che hanno mostrato molto interesse per la
storia complessa, spesso sordida e non molto romantica, che sta dietro i
Templari e le Crociate. E
329
così pure gli storici dei Templari e delle Crociate, come tutti i
loro colleghi, si sono attenuti strettamente alla documentazione concreta. I
romanzi del Graal sono stati considerati come invenzioni, un « fenomeno
culturale », una specie di « sottoprodotto » dell'« immaginazione dell'epoca ».
Suggerire a uno storico che i romanzi del Graal potrebbero contenere un
nocciolo di verità sarebbe un'eresia: anche se Schliemann, più di un secolo fa,
scoprì le rovine di Troia basandosi sulle indicazioni di Omero.
Certo, vari scrittori occultisti, procedendo soprattutto in base
ai loro desideri, hanno creduto alla lettera nelle leggende, affermando che
misticamente i Templari erano i custodi del Graal: qualunque cosa fosse il
Graal. Ma non c'è mai stato uno studio storico serio che abbia cercato di
stabilire un vero collegamento, I Templari sono considerati una realtà
storica, il Graal una leggenda. E se i romanzi del Graal sono stati quindi
trascurati dagli storici e dagli specialisti del periodo nel quale furono
scritti, non è sorprendente che siano stati ignorati dagli studiosi la cui
specializzazione riguardava epoche precedenti. Molto semplicemente, uno specialista
dell'epoca merovingia non sognerebbe neppure di sospettare che i romanzi del
Graal potrebbero gettare qualche luce sulla materia dei suoi studi, anche
ammettendo che conoscesse i romanzi del Graal. Ma non è forse un'omissione
seria, il fatto che nessuno studioso del periodo merovingio accenni alle
leggende arturiane che, da un punto di vista cronologico, riguardano la stessa
epoca? i
,
Se gli storici non sono disposti a stabilire simili collegamenti,
gli specialisti biblici lo sono ancora meno. Negli ultimi decenni sono usciti
moltissimi libri, secondo i quali Gesù sarebbe stato un pacifista, un esseno,
un mistico, un buddista, un mago, un rivoluzionario, un omosessuale e persino
un fungo. Ma nonostante questa pletora di materiale su Gesù e il contesto
storico del Nuovo Testamento, neppure un autore, a quanto ne sappiamo, ha
affrontato la questione del Graal. E perché avrebbe dovuto farlo? Perché un
esperto di storia biblica doveva dimostrare conoscenza o interesse per una
torma di fantastici poemi romanzeschi composti nell'Europa occidentale più di
mille anni dopo? Sembrerebbe inconcepibile che i romanzi del Graal possano
illuminare in un modo o nell'altro i misteri che circondano il Nuovo
Testamento.
"530
Ma la realtà, la storia e la conoscenza non possono venire
segmentate e suddivise in compartimenti stagni secondo l'arbitrario sistema di
schedatura adottato dall'intelletto umano. E sebbene sia diffìcile trovare prove
documentali, è evidente che le tradizioni possono sopravvivere per un
millennio per riaffiorare in una forma scritta che getta luce su eventi molto
più antichi. Certe saghe irlandesi, ad esempio, possono rivelare molte cose
circa la transizione dalla società matriarcale a quella patriarcale nell'antica
Manda. Senza l'opera di Omero, composta molto tempo dopo l'evento, nessuno
avrebbe mai sentito parlare dell'assedio di Troia. E Guerra e pace, benché
scritto più di mezzo secolo dopo, può dirci molto più di tanti testi di storia,
addirittura più di tanti documenti ufficiali, sulla Russia del periodo
napoleonico.
Un ricercatore serio e responsabile deve, come un investigatore,
seguire tutti gli indizi che gli capitano, anche se in apparenza sono inverosimili.
Non si deve scartare il materiale a priori solo perché minaccia di condurre in
un territorio improbabile o sconosciuto. Gli eventi dello scandalo Watergate,
ad esempio, furono ricostruiti all'inizio sulla base di una quantità di
frammenti disparati, ognuno insignificante in se stesso, e in apparenza privi
di collegamenti tra loro. Anzi, alcuni degli « sporchi trucchi », spesso
puerili, dovettero sembrare agli investigatori distanti dalle questioni più
generali quanto i romanzi del Graal possono sembrare distanti dal Nuovo
Testamento. Eppure lo scandalo Watergate era circoscritto a un unico paese e a
un lasso di tempo di pochi anni. La materia della nostra indagine abbraccia
invece tutta la cultura occidentale e un periodo di due millenni.
È necessaria una metodologia interdisciplinare nei confronti del
materiale prescelto, una metodologia agile e flessibile che permetta di
muoversi liberamente tra discipline disparate, nello spazio e nel tempo. È
necessario essere in grado di connettere i dati e di stabilire collegamenti tra
personaggi, eventi e fenomeni molto distanti tra loro. È necessario essere in
grado di passare, a seconda delle esigenze, dal III secolo al XII e al VII e al
XVIII, attingendo a una vasta gamma di fonti: antichi testi ecclesiastici, i
romanzi del Graal, documenti e cronache del periodo merovingio, gli scritti
della massoneria. Insomma, è necessaria una sintesi, perché solo mediante la
sintesi sì può scoprire la continuità di base, il tessuto
331
unificato e coerente che sta al centro di ogni problema storico.
Questa metodologia non è particolarmente rivoluzionaria, in linea di principio,
e neppure particolarmente polemica. Piuttosto, è come prendere un dogma della
Chiesa contemporanea - ad esempio l'Immacolata Concezione o il celibato dei
preti - e servirsene per illuminare il cristianesimo dei primi tempi. Più o
meno allo stesso modo, i romanzi del Graal si possono utilizzare per gettare
una luce significativa sul Nuovo Testamento: e sulla vita e l'identità di
Gesù.
Infine, non basta attenersi esclusivamente ai fatti. È necessario
anche discernere le ripercussioni e le ramificazioni dei fatti che si irradiano
attraverso i secoli, spesso sotto forma di miti e leggende. È vero, i fatti
possono risultare modificati e distorti, come un'eco che riverbera tra i
burroni. Ma se non è possibile localizzare la voce, l'eco, per quanto alterata,
può indicare la via per trovarla. I fatti, insomma, sono come sassi lanciati
nello stagno della storia. Spariscono presto, spesso senza lasciare tracce. Ma
creano increspature che, a chi possiede una prospettiva abbastanza ampia,
permettono di individuare il punto dove è caduto il sasso. Guidati dalle
increspature allora ci si può immergere, o dragare il fondo, o adottare la
metodologia che si preferisce. L'importante è che le increspature permettono di
localizzare ciò che altrimenti potrebbe rimanere irrecuperabile.
Per noi era ormai evidente che tutto ciò che avevamo studiato
durante la nostra indagine era soltanto un'increspatura e che questa increspatura,
osservata nel modo giusto, poteva guidarci a ritrovare una pietra gettata nello
stagno della storia duemila anni prima.
La nostra ipotesi
La Maddalena aveva avuto una parte preminente in tutta la nostra
indagine. Secondo certe leggende medievali, la Maddalena portò in Francia il
Santo Graal, o « Sangue reale ». Il Graal è strettamente associato a Gesù. E
il Graal, almeno su un livello, è relato al sangue o, più precisamente, a una
stirpe o lignaggio. I romanzi del Graal, tuttavia, sono quasi tutti ambientati
in epoca merovingia. Ma furono composti soltanto dopo che Goff redo di
Buglione,
332
presunto discendente della famiglia del Graal e discendente autentico
dei Merovingi, fu insediato, di fatto se non di nome, come re di Gerusalemme.
Se avessimo avuto a che fare con chiunque altro che non fosse
Gesù, se avessimo avuto a che fare, ad esempio, con un personaggio come
Alessandro o Giulio Cesare, questi indizi frammentari sarebbero bastati, da
soli, a condurre quasi ineluttabilmente a una conclusione clamorosa ed
evidente. E noi traemmo questa conclusione, per quanto fosse polemica ed
esplosiva. Incominciammo a metterla alla prova, almeno come ipotesi
provvisoria.
Forse la Maddalena, l'elusiva donna dei Vangeli, era in realtà la
moglie di Gesù. Forse dalla loro unione erano nati dei figli. Dopo la
Crocifissione, forse, la Maddalena, insieme a un figlio almeno, fu portata
clandestinamente in Gallia, dove già esistevano comunità ebree e dove, di
conseguenza, avrebbe potuto trovare rifugio. Forse c'era, insomma, una stirpe
ereditaria discesa direttamente da Gesù. Forse questa stirpe, il supremo sang
réal, si era perpetuata, intatta e in incognito, per circa quattrocento
anni - che dopotutto non sono troppi per una schiatta importante. Forse vi
furono matrimoni dinastici non soltanto con le altre famiglie ebree, ma anche
con famiglie romane e visigote. E forse nel V secolo la stirpe di Gesù si alleò
per matrimonio con la casa reale dei Franchi, fondando così la dinastia
merovingia.
Se questa ipotesi appena abbozzata era vera, avrebbe contribuito
a spiegare moltissimi elementi della nostra indagine. Avrebbe spiegato
l'eccezionale importanza attribuita alla Maddalena, e il significato culturale
che raggiunse durante le Crociate. Spiegherebbe la sacralità attribuita ai
Merovingi. Spiegherebbe la nascita leggendaria di Meroveo, figlio di due padri,
uno dei quali era un simbolico essere marino giunto d'oltremare, un essere
marino che, come Gesù, potrebbe venire identificato con il mistico pesce.
Spiegherebbe il patto tra la Chiesa di Roma e la stirpe di Clodo-veo. Un patto
con i discendenti diretti di Gesù non doveva forse essere il patto più logico
per una Chiesa fondata in suo nome? Spiegherebbe il risalto apparentemente
eccessivo dato all'assassinio di Dagoberto II, perché la Chiesa, complice o
consenziente, si sarebbe resa colpevole non soltanto di regicidio ma anche,
secondo il suo stesso credo, di una forma di deicidio. Spiegherebbe il
333
tentativo di cancellare Dagoberto dalla storia. Spiegherebbe l'impegno
ossessivo con il quale i Carolingi, divenuti Sacri romani imperatori, cercarono
di legittimarsi vantando una discendenza merovingia.
Una stirpe discesa da Gesù attraverso Dagoberto spiegherebbe anche
la famiglia del Graal nei romanzi, la segretezza che la circonda, la sua
posizione elevatissima, l'impotente Re Pescatore che non può regnare, il
processo mediante il quale Parzival o Perceval diviene erede del castello del
Graal. Infine, spiegherebbe il mistico lignaggio di Goffredo di Buglione, figlio
o nipote di Lohengrin, nipote o pronipote di Parzival, rampollo della famiglia
del Graal. E se Goffredo era disceso da Gesù, la trionfale conquista di
Gerusalemme nel 1099 avrebbe comportato ben più della liberazione del Santo
Sepolcro dalle mani degli infedeli. Goffredo avrebbe riacquistato l'eredità che
gli spettava.*
Avevamo già intuito che le allusioni alla viticoltura incontrate
nel corso della nostra indagine simboleggiavano alleanze matrimoniali
dinastiche. In base alla nostra ipotesi, ora la viticoltura sembrava
simboleggiare il processo mediante il quale Gesù, che più volte si identifica
con la vite, perpetuò il suo lignaggio. E come per una conferma, scoprimmo una
porta scolpita che raffigura Gesù come un grappolo d'uva. La porta si trovava a
Sion, in Svizzera.
Il nostro ipotetico « scenario » era coerente dal punto di vista
logico e affascinante. Ma per il momento era anche assurdo. Per quanto
avvincente, era ancora troppo approssimativo e aveva basi troppo fragili.
Benché spiegasse molte cose, così com'era non poteva reggersi. C'erano ancora
troppe lacune, troppe contraddizioni e anomalie, troppi fili slegati. Prima di
poterlo prendere seriamente in considerazione, avremmo dovuto accertare se
c'era qualche indizio concreto che lo suffragasse. Nel tentativo di trovare
questi indizi cominciammo a esplorare i Vangeli, il contesto storico del Nuovo
Testamento e gli scritti dei primi padri della Chiesa.
334
Note
1 Molto probabilmente avevano qualche
connessione con Otto Rahn; cfr. capitolo II, nota 9.
2 Filippo di Fiandra si recava spesso nello
Champagne e nel 1182 cercò invano di ottenere in moglie Maria di Champagne
(figlia di Eleonora d'Aquitania) che era rimasta vedova l'anno prima. Le
Conte del Graal risale probabilmente a quel periodo.
C'è un legame tra la casa di
Alsazia e quella di Lorena. Gerard d'Alsazia, alla morte del fratello avvenuta
nel 1048, divenne il primo duca ereditario dell'Alta Lorena, oggi semplicemente
Lorena. Tutti i successivi duchi di Lorena si proclamarono suoi discendenti.
3 Sembra che esistesse, forse, qualche «
documento » sul Graal, che Filippo di Fiandra ebbe modo di consultare e che
divenne la base dei romanzi di Chrétien e di Robert de Boron. Il professor
Loomis afferma che è inevitabile presumere che l'opera di Chrétien e il romanzo
di Robert de Boron avessero una fonte comune. Ritiene che Robert de Boron
dicesse la verità, quando parlava di libro contenente i segreti del Graal, dal
quale aveva tratto le notizie principali. Cfr. Loomis, The Grail, pp. 233 sgg.
4 Un'argomentazione a sostegno di questa
ipotesi è esposta da Barber, R., Knight and Chivalry, p. 126.
5 Perlesvaus (nella traduzione inglese),
p. 359.
6 Ibid.,p.2.
7 Ibid.,p. 214.
8 /6/d.,p.36O.
9 Ibid.,p. 199 sgg.
10 Ibid.,p. 82. » Ibid., p. 89.
12 /Wd.,p.268.
13 Ibid., p. 12.
14 Wolfram von Eschenbach, Parzival (nella
traduzione inglese), pp. 243 sgg.
15 Ibid.,p.251. 1(5 Ibid.,
p. 253. 17 Ibid., p. 129. is Ibid., p. UQ.
19 /Wd.,pp.251sgg.
20 Ibid.,p. 251, n. 11.
21 Ibid., p. 252.
22 Ibid., p. 252.
335
23 Rahn, Croisade cantre le Graal, pp.
77 sgg. e La cour de Lucifer, p. 69.
24 Wolfram von Eschenbach, Parzival (nella
traduzione inglese), pp. 263 sgg.
25 Ibid.,p. 264.
26 /òW.,p.426.
27 Barrai, Légendes Capétiennes, p. 64.
28 È interessante che la città francese di
Avallon risalga a tempi merovingi. Fu capitale di una regione, poi divenuta
contea, che fece parte del regno d'Aquitania. Diede il suo nome all'intera
regione, l'Avallonnais.
29 Greub, « The Pre-Christian GraalTradition »,
p. 68.
30 Halevi, Adam and thè Kabbaìistic Tree, pp.
194, 201. Fortune, Mystical Qaba-lah, p, 188.
31 A volte viene affermato che le tradizioni
cristiane e cabalistiche non entrarono in contatto se non nel XV secolo ad
opera di Giovanni Pico della Mirandola. Tuttavia, il Perlesvaus sembra
provare che si erano giù fuse prima dell'inizio del XIII secolo. È un campo che
richiede studi più approfonditi. Le immagini contenute nel Perlesvaus sono
quelle normalmente associate alla « Cabala pratica », cioè a quella forma della
Cabala usata per scopi magici.
32 Queste delSaint Graal, p. 34 (nella
traduzione inglese).
33 Può essere un'eco del fatto che re Dagoberto
trascorse la sua fanciullezza in Bretagna.
34 Queste del Saint Graal, introduzione,
pp. 16 sgg.
336
XII
II re-sacerdote che non
regnò
Oggi tutti parlano del « cristianesimo » come se fosse un'entità
coerente, omogenea e unificata. È superfluo aggiungere che il « cristianesimo »
non Io è affatto. Come tutti sanno, vi sono numerose forme di « cristianesimo
»: il cattolicesimo romano, ad esempio, o la Chiesa d'Inghilterra fondata da
Enrico Vili. Vi sono poi le altre varie denominazioni del protestantesimo, dal
luteranesimo e dal calvinismo del secolo XVI fino a sviluppi relativamente
recenti come l'unitarianismo. C'è una quantità di congregazioni « marginali »,
ed « evangeliche » come gli avventisti del settimo giorno e i testimoni di
Geova. E vi sono le varie sette contemporanee, come i Bambini di Dio e la
Chiesa dell'unificazione del reverendo Moon. Se si esamina questa sconcertante
gamma di « fedi », da quelle più rigorosamente dogmatiche e conservatrici a
quelle radicali ed estatiche, è molto difficile determinare che cosa
costituisca esattamente il « cristianesimo ».
Se c'è un unico fattore che permette di parlare di « cristianesimo
», un unico fattore che lega i credi « cristiani » altrimenti diversi e
divergenti, è il Nuovo Testamento, e in particolare l'eccezionale status
attribuito dal Nuovo Testamento a Gesù, alla Crocifissione e alla
Resurrezione. Anche se una persona non sottoscrive in pieno la verità
letterale o storica di questi eventi, generalmente basta che accetti il loro
significato simbolico per essere considerata cristiana.
Se vi è quindi un'unità nel fenomeno diffuso chiamato cristianesimo,
questa unità risiede nel Nuovo Testamento, e più precisamente nelle cronache
della vita di Gesù conosciute come i Quattro
337
Vangeli. Queste cronache sono considerate generalmente come le più
autorevoli; e per molti cristiani sono coerenti e inoppugnabili. Fin
dall'infanzia si viene indotti a credere che la « storia » di Gesù, così com'è
tramandata nei Quattro Vangeli, sia se non proprio ispirata da Dio, almeno
definitiva. I quattro evangelisti, presunti autori dei Vangeli, sono ritenuti
testimoni impeccabili che rafforzano e confermano l'uno la testimonianza
dell'altro. Tra tutti coloro che oggi si dicono cristiani, ben pochi si rendono
conto che i Quattro Vangeli non solo si contraddicono l'un l'altro, ma a volte
sono in violento dissidio.
Per la tradizione popolare, l'origine e la nascita di Gesù sono
piuttosto note. Ma in realtà i Vangeli, sui quali si basa la tradizione, sono
considerevolmente più vaghi al riguardo. Solo due dei Quattro Vangeli, quello
di Matteo e quello di Luca, parlano dell'origine e della nascita di Gesù, e
sono in netto contrasto tra loro. Secondo Matteo, ad esempio, Gesù era un
aristocratico, se non addirittura un legittimo re, disceso da Davide e da
Salomone. Secondo Luca, invece, la famiglia di Gesù, benché discesa dalla casa
di Davide, era un po' meno illustre; ed è sulla base del racconto di Marco che
è nata la leggenda del « povero falegname ». Insomma, le due genealogie sono
così nettamente discordi che potrebbero riferirsi addirittura a due personaggi
diversi.
Le discrepanze tra i Vangeli non sono circoscritte alla genealogia
di Gesù. Secondo Luca, Gesù appena nato ricevette la visita di alcuni pastori.
Secondo Matteo, ricevette l'omaggio di tre re. Secondo Luca, la famiglia di
Gesù viveva a Nazareth; e di qui i suoi genitori, a causa di un censimento che
la storia indica come mai avvenuto, si sarebbero recati a Betlemme, dove Gesù
nacque in un'umile mangiatoia. Ma secondo Matteo i genitori di Gesù erano
piuttosto benestanti e risiedevano a Betlemme; e Gesù nacque in una casa. Nella
versione di Matteo, la strage degli innocenti ordinata da Erode costringe la
famiglia a fuggire in Egitto, e solo al suo ritorno si stabilisce a Nazareth.
Le notizie contenute in ognuna di queste cronache sono specifiche
- e presumendo che il censimento avvenisse veramente - del tutto plausibili.
Tuttavia queste notizie non collimano. È una contraddizione che non trova una
spiegazione razionale. Non c'è assolutamente modo di correggere i due racconti
contrastanti, e
338
non c'è assolutamente modo di conciliarli. Piaccia o no, si deve
ammettere che uno di questi due Vangeli ha torto, o che hanno torto tutti e
due. Di fronte a una conclusione così clamorosa e inevitabile, non è possibile
considerare inoppugnabili i,Vangeli. Come possono essere inoppugnabili, quando
si smentiscono l'un l'altro?
Più si studiano i Vangeli, e più appaiono evidenti le contraddizioni
tra loro. Infatti non concordano neppure sul giorno della Crocifissione.
Secondo Giovanni, la Crocifissione avvenne il giorno prima della Pasqua
ebraica. Secondo Marco, Luca e Matteo, avvenne il giorno dopo. I Vangeli non
sono d'accordo neppure sulla personalità e il carattere di Gesù. Ognuno dipinge
una figura in netto contrasto con la figura rappresentata da altri: in Luca, ad
esempio, Gesù è un salvatore mite come un agnello, in Matteo è un potente e
maestoso sovrano che viene a portare « non la pace ma una spada ». E vi sono
altre discrepanze circa le ultime parole pronunciate da Gesù sulla croce. In
Matteo e Marco, queste parole sono: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai
abbandonato? ». In Luca: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno
». In Giovanni, le ultime parole di Gesù sono semplicemente: « Tutto è
compiuto ».
Date queste discrepanze, i Vangeli possono essere accettati solo
come un'autorità molto discutibile, certo non definitiva. Non rappresentano la
parola perfetta di un Dio; oppure le parole di Dio sono state abbondantemente
censurate, rivedute, corrette e riscritte da mani umane. La Bibbia, dobbiamo
ricordarlo - e questo vale tanto per l'Antico quanto per il Nuovo Testamento -
è soltanto una selezione di opere, sotto molti aspetti piuttosto arbitraria.
Infatti, potrebbe benissimo includere assai più libri e scritti di quanti ne
includa in realtà. E non si può neppure sostenere che i libri mancanti siano
andati « perduti ». Al contrario, furono esclusi di proposito. Nel 367 d.C. il
vescovo Atanasio d'Alessandria compilò un elenco delle opere da includere nel
Nuovo Testamento. L'elenco fu ratificato dal Concilio di Ippona nel 393 e
successivamente dal Concilio di Cartagine, svoltosi quattro anni dopo. In
questi concili fu scelta una selezione di opere. Certe furono raccolte per
formare il Nuovo Testamento quale lo conosciamo oggi, mentre altre furono
sprezzantemente ignorate. Come si può consi-
339
derare definitivo un simile processo di selezione? Come poteva
un'assise di ecclesiastici decidere infallibilmente che certi libri «
appartenevano » alla Bibbia e altri no? Soprattutto quando alcuni dei libri
esclusi hanno una pretesa di veridicità storica perfettamente valida?
Inoltre, così com'è oggi, la Bibbia non è soltanto il prodotto di
un processo selettivo più o meno arbitrario. È stata anche sottoposta a
correzioni, censure e revisioni piuttosto drastiche. Nel 1958, ad esempio, il
professor Morton Smith della Columbia University scoprì, in un monastero presso
Gerusalemme, una lettera contenente un frammento mancante del Vangelo di
Marco. Il frammento non era andato perduto. Al contrario, sembrava fosse stato
volutamente soppresso per istigazione, se non addirittura per ordine diretto,
del vescovo Clemente d'Alessandria, uno dei padri della Chiesa più venerati.
Clemente, a quanto pare, aveva ricevuto una lettera da un certo
Teodoro, il quale si lamentava di una setta gnostica, quella dei carpocraziani.
I carpocraziani, sembra, interpretavano certi passi del Vangelo di Marco
secondo i loro princìpi: princìpi che non callimavano con la posizione assunta
da Clemente e Teodoro. Per questo Teodoro li attaccò, e ne riferì a Clemente.
Nella lettera trovata dal professor Smith, Clemente così risponde al suo discepolo:
Bene hai fatto a ridurre al
silenzio gli innominabili insegnamenti dei carpocraziani. Perché essi sono le «
stelle vagabonde » di cui parla la profezia, che si allontanano dalla stretta
via dei comandamenti e sprofondano nell'abisso sconfinato dei peccati della
carne e del corpo. Perché, gloriandosi della conoscenza, come essi dicono,
delle « cose profonde di Satana », essi non sanno che così si gettano nel «
mondo infero delle tenebre » della falsità e, vantandosi di essere liberi, sono
divenuti schiavi di desideri servili. A costoro ci si deve opporre in ogni modo
e interamente. Perché, anche se dicessero qualcosa di vero, chi ama la verità
non deve, neppure in tal caso, essere d'accordo con loro. Perché non tutte le
cose vere sono la verità, e la verità che sembra vera secondo le opinioni umane
non dev'essere preferita alla verità vera, quella in armonia con la fede.1
È un'affermazione straordinaria, per un padre della Chiesa. In
effetti, Clemente proclama: « Se per caso i tuoi awersari dicono la verità,
devi negarla e mentire per confutarli ». Ma non è tutto. Nel
340
brano seguente, la lettera
di Clemente discute il Vangelo di Marco e l'« abuso » che secondo lui ne fanno
i carpocraziani:
In quanto a Marco, dunque,
durante il soggiorno di Pietro a Roma, scrisse una cronaca dei fatti del
Signore, non già, tuttavia, narrandoli tutti, e neppure accennando a quelli
segreti, bensì scegliendo quelli che giudicava più utili per accrescere la fede
di coloro che venivano istruiti. Ma quando Pietro morì martire, Marco venne ad
Alessandria, portando i suoi scritti e quelli di Pietro, e da essi trasferì nel
suo libro preesistente le cose adatte a favorire il progresso verso la
conoscenza [gnosis]. Egli perciò compose un Vangelo più spirituale a uso di
coloro che venivano perfezionati. Tuttavia, non divulgò ancora le cose che non
dovevano essere dette, né mise per iscritto gli insegnamenti gerofantici del
Signore; ma alle storie già scritte altre ne aggiunse e inoltre introdusse
certi detti dei quali, come mistagogo, sapeva che l'interpretazione avrebbe
guidato gli ascoltatori nell'intimo santuario della verità celata dai sette
[veli]. Così, insomma, egli preordinò le cose, né malvolentieri né
incautamente, secondo il mio giudizio, e morendo lasciò la sua composizione
alla chiesa d'Alessandria, dove è tuttora scrupolosamente custodita, e viene
letta soltanto a coloro che vengono iniziati ai grandi misteri.
Ma poiché i demoni immondi
tramano sempre la distruzione della razza degli uomini, Carpocrate, da loro
istruito e usando arti ingannevoli, a tal punto asservì un certo presbyter della
chiesa d'Alessandria che ottenne da lui una copia del Vangelo segreto, e lo
interpretò secondo la sua dottrina blasfema e carnale e inoltre lo inquinò,
mescolando alle parole immacolate e sante menzogne spudorate.2
Quindi, Clemente ammette che
esiste un segreto, autentico Vangelo di Marco. Poi ordina a Teodoro di negarlo:
Perciò, come ho detto più
sopra, non si deve cedere a loro [i carpocraziani], e quando propugnano le
loro falsificazioni non si deve ammettere che il Vangelo segreto è di Marco,
bensì lo si deve negare per giuramento. Perché « non tutto il vero dev'essere
detto a tutti gli uomini ».3
Che cos'era questo « Vangelo
segreto », che Clemente ordinò al suo discepolo di ripudiare e che i
carpocraziani stavano « interpretando falsamente »? Clemente risponde alla
domanda includendo nella sua lettera una trascrizione del testo, parola per
parola:
A te, quindi, non esiterò a
rispondere a ciò che hai chiesto, confutando le falsificazioni mediante le
stesse parole del Vangelo. Ad esempio, dopo « Ed essi erano per via, diretti a
Gerusalemme » e ciò che segue, fino a « Dopo tre giorni egli risorgerà », [il
Vangelo segreto] contiene quanto segue, parola per parola:
341
« Ed essi giunsero a
Betania, dov'era una certa donna, il cui fratello era morto. Ed ella venne, si
prosternò davanti a Gesù e gli disse: "Figlio di Davide, abbi pietà di
me". Ma i discepoli la rimproverarono. E Gesù, incollerito, andò con lei
nel giardino dov'era la tomba, e subito dalla tomba si udì giungere un grande
grido. E avvicinandosi,, Gesù rimosse la pietra che chiudeva la porta del sepolcro.
E subito, andando dove giaceva il giovane, tese la mano e lo fece levare,
prendendolo per mano. Ma il giovane, vedendolo, subito lo amò e gli chiese di
poter rimanere con lui. E uscendo dalla tomba entrarono nella casa del giovane,
poiché egli era ricco. E dopo sei giorni, Gesù gli disse ciò che doveva fare, e
la sera il giovane venne a lui, portando un drappo di lino sulle sue nudità. E
quella notte rimase con lui, perché Gesù gli insegnò il mistero del regno di
Dio. E lasciato quel luogo, ritornò sull'altra sponda del Giordano ».4
'
L'episodio non appare in nessuna versione esistente del Vangelo
di Marco. Nelle linee generali, tuttavia, è abbastanza familiare. Ovviamente, è
la resurrezione di Lazzaro, narrata nel Quarto Vangelo, attribuito a Giovanni.
Nella versione citata, però, vi sono alcune variazioni significative.
Innanzitutto c'è un « grande grido » che scaturisce dalla tomba prima che Gesù
rimuova la pietra o comandi al giovane di uscire. Questo indica che il giovane
non era morto e smentisce l'idea di un miracolo. In secondo luogo, sembra
chiaro che si tratta di qualcosa di più di quanto inducano a credere le
versioni accettate dell'episodio di ~Lazza.ro. Certamente, il passo
attesta uno speciale rapporto tra l'uomo nella tomba e l'uomo che lo «
risuscita ». Un lettore moderno, forse, potrebbe essere tentato di vedervi
un'allusione all'omosessualità. È possibile che i carpocraziani, una setta che
aspirava a trascendere i sensi mediante la soddisfazione dei sensi, vi
scorgessero appunto un'allusione del genere. Ma, come afferma il professor
Smith, in realtà è assai più verosimile che l'intero episodio si riferisca a
una tipica iniziazione misterica: una morte e una rinascita ritualizzate e
simboliche, piuttosto comuni a quel tempo nel Medio Oriente.
L'importante, comunque, è che l'episodio e il passo citato più
sopra non compaiono in nessuna versione moderna o accettata di Marco. Anzi, i
soli riferimenti a Lazzaro o a un personaggio come Lazzaro, nel Nuovo
Testamento, sono contenuti nel Vangelo attribuito a Giovanni. Appare perciò
chiaro che il consiglio di Clemente fu accolto non soltanto da Teodoro, ma
anche dalle autorità successive. Molto semplicemente, l'intero episodio di
Lazzaro fu espunto dal Vangelo di Marco,
i
342
Se il Vangelo di Marco venne epurato in modo tanto drastico, venne
anche oberato di aggiunte spurie. Nella versione originale si conclude con la
Crocifissione, il seppellimento e la tomba vuota. Non c'è la Resurrezione, non
c'è l'incontro con i discepoli. Certo, vi sono alcune Bibbie moderne che
contengono un finale più convenzionale del Vangelo di Marco, un finale che
include la Resurrezione. Ma virtualmente tutti i moderni specialisti di filologia
biblica concordano nell'affermare che questo finale ampliato è un'aggiunta più
tarda, risalente agli ultimi anni del II secolo e accodata al documento
originale.5
Il Vangelo di Marco offre così due esempi di un documento sacro -
presentato come ispirato da Dio - che è stato manomesso, modificato, censurato,
riveduto e corretto da mani umane. E non si tratta di casi ipotetici. Al
contrario, oggi sono accettati dagli studiosi, che li considerano dimostrabili
e provati. Si può supporre, allora, che solo il Vangelo di Marco subisse
alterazioni? Evidentemente, se il Vangelo di Marco venne manipolato, è ragionevole
presumere che anche gli altri Vangeli abbiano subito lo stesso trattamento.
Ai fini della nostra indagine, quindi, non potevamo accettare i
Vangeli come un'autorità definitiva e inoppugnabile; ma nel contempo non potevamo
scartarli. Senza dubbio, non erano stati interamente « fabbricati », e
fornivano alcuni dei pochi indizi accessibili circa gli eventi che accaddero in
Terrasanta duemila anni fa. Perciò incominciammo a esaminarli più attentamente,
a vagliarli, a dividere i fatti dalle favole, a separare la verità dalla
matrice spuria nella quale tale verità era spesso incorporata. E per riuscire,
innanzitutto dovemmo familiarizzarci con la realtà storica e la situazione
della Terrasanta all'inizio dell'era cristiana. I Vangeli, infatti, non sono
entità autonome, scaturite dal vuoto per aleggiare, eterne e universali,
attraverso i secoli. Sono documenti storici come tutti gli altri: come i Rotoli
del Mar Morto, le epiche di Omero e Virgilio, i romanzi del Graal. Sono
prodotti di un dato luogo, di un dato tempo, di un dato popolo e di particolari
fattori storici.
343
La Palestina al tempo di Gesù
Nel I secolo, la Palestina era una terra molto inquieta.
Per lungo tempo la Terrasanta era stata straziata da dissidi dinastici, lotte
intestine e, qualche volta, vere e proprie guerre. Durante il II secolo a.C.
era stato creato un regno giudaico più o meno unificato, come narrano i due
libri dei Maccabei. Ma nel 63 a.C. la Palestina era di nuovo in pieno tumulto,
e matura per venire occupata.
Oltre mezzo secolo prima della nascita di Gesù, la Palestina si
arrese alle armate di Pompeo, che imposero la dominazione romana. Ma a quel
tempo Roma era troppo estesa e troppo presa dai propri problemi, per insediare
l'apparato amministrativo necessario a un potere diretto. Creò quindi una
dinastia di re-fantocci perché regnassero sotto la sua egida: la dinastia
erodiana, che non era ebrea ma araba. Il primo della dinastia fu Antipatro, che
salì al trono nel 63 a.C. Quando morì nel 37 a.C, gli successe il figlio, Erode
il Grande, che regnò fino al 4 a.C. Si deve quindi immaginare una situazione
analoga a quella esistita in Francia tra il 1940 e il 1944 sotto il governo di
Vichy. Si deve immaginare una terra conquistata e un popolo vinto,, governati
da un regime fantoccio mantenuto al potere dai militari. La popolazione poteva
conservare la sua religione e i suoi costumi. Ma l'autorità suprema era Roma.
E questa autorità era imposta secondo la legge romana e dalle truppe romane,
come avvenne in Britannia non molto tempo dopo.
Nel 6 d.C. la situazione divenne più critica. Quell'anno il paese
fu diviso amministrativamente in due province, la Giudea e la Galilea. Erode
Aritipa divenne re di quest'ultima. Ma la Giudea, dove era situata la capitale
spirituale e civile, divenne soggetta al diretto dominio romano, e venne
amministrata da un governatore romano insediato a Cesarea. Il regime romano era
brutale e autocratico. Quando assunse il controllo diretto sulla Giudea, più di
tremila ribelli furono sommariamente giustiziati. Il Tempio fu profanato e
depredato. Furono imposte tasse pesantissime. La tortura era usata di
frequente; e molti Ebrei si suicidarono. La situazione non migliorò sotto
Ponzio Pilato, che governò la Giudea dal 26 al 36 d. C. In contrasto con il
ritratto che ne fa la Bibbia, i
344
Carta 9 La Palestina al
tempo di Gesù.
documenti pervenuti fino a noi indicano che Pilato era un uomo
crudele e corrotto, e che perpetuò e aggravò gli abusi commessi dal
predecessore. Perciò è tanto più sorprendente - almeno a prima vista - che i
Vangeli non Critichino Roma, non accennino neppure al peso del giogo romano.
Anzi, i Vangeli lasciano intendere che gli abitanti della Giudea se ne stavano
tranquilli, soddisfatti della loro sorte. •,
In realtà, pochi erano soddisfatti, e molti non stavano tranquilli
affatto. Gli Ebrei di Terrasanta, a quel tempo, erano divisi in una quantità di
sette e sottosette. Per esempio, c'erano i sadducei, una classe di proprietari
terrieri, poco numerosi ma ricchi, che con grande indignazione dei loro
compatrioti collaboravano con i Romani. C'erano i farisei, che formavano un
gruppo « progressista »: introdussero molte riforme nel giudaismo e,
nonostante il ritratto che ne fanno i Vangeli, conducevano nei confronti di
Roma un'opposizione ferma, anche se soprattutto passiva. C'erano gli esseni,
una setta austera e mistica, i cui insegnamenti erano assai più diffusi e
influenti di quanto in generale si ammetta o si presuma. Tra le sette più
piccole, ce n'erano molte il cui carattere preciso è andato perduto da molto
tempo, e che quindi sono difficili da definire. È comunque il caso di ricordare
i nazirei, ai quali secoli prima era appartenuto Sansone, e che esistevano
ancora ai tempi di Gesù. È il caso di ricordare anche i nazorei o nazareni, un
termine che sembra venisse usato per indicare anche Gesù e i suoi seguaci.
Infatti, la versione originale greca del Nuovo Testamento chiama Gesù « il
nazareno », un termine che viene tradotto erroneamente « Gesù di Nazareth ». «
Nazareno », insomma, è una parola che indica l'appartenenza a una setta, e non
ha relazioni con Nazareth.
C'erano anche numerosi altri gruppi e sette, una delle quali
risultò di particolare importanza per la nostra indagine. Nell'anno 6 d. C.,
quando Roma assunse il diretto controllo della Giudea, un rabbi fariseo,
chiamato Giuda di Galilea, aveva creato un gruppo rivoluzionario militante,
composto a quanto sembra sia da farisei che di esseni. I suoi seguaci passarono
alla storia con il nome di zeloti. Gli zeloti, a stretto rigore, non erano una
setta. Erano un movimento, i cui aderenti provenivano da sette diverse. Al
tempo della missione di Gesù, gli zeloti avevano assunto un ruolo rilevan-
346
te nelle vicende della Terrasanta. Le loro attività formavano
forse il più importante sfondo politico sul quale si svolse il dramma di Gesù.
Molto tempo dopo la Crocifissione, l'attività degli zeloti continuava ancora.
Nel 44 d.C si'era intensificata al punto che già sembrava inevitabile la lotta
armata. Nel 66 d.C. scoppiò la rivolta; la Giudea insorse contro Roma. Fu un
conflitto disperato, accanito ma in fondo vano, che sotto certi aspetti
ricorda, poniamo l'insurrezione ungherese del 1956. Nella sola Cesarea, 20.000
Ebrei furono massacrati dai Romani. Quattro anni dopo le legioni romane
occuparono Gerusalemme, la raserò al suolo e saccheggiarono il Tempio. Ma la
fortezza di Masada, arroccata su una montagna, resistette ancora tre anni, al
comando di un discendente diretto di Giuda di Galilea.
Dopo la fine della rivolta in Giudea, vi fu un esodo massiccio di
Ebrei dalla Terrasanta. Ne rimasero tuttavia abbastanza per fomentare un'altra
insurrezione sessant'anni più tardi, nel 132 d.C. Finalmente, nel 135,
l'imperatore Adriano ordinò che tutti gli Ebrei venissero espulsi dalla Giudea,
e Gerusalemme diventò sostanzialmente una città romana, con il nome di Elia
Capitolina.
La vita di Gesù si svolse approssimativamente durante i primi
trentacinque anni di una fase di inquietudini, disordini e rivolte che si
estese per centoquaranta anni. I disordini non finirono con la sua morte, anzi
continuarono per un altro secolo, e generarono il clima psicologico e culturale
che accompagna inevitabilmente una sfida prolungata contro un oppressore. Di
questo clima psicologico faceva parte la speranza dell'avvento • di un
Messia che liberasse il suo popolo dal giogo tirannico. Solo per una coincidenza
storica e semantica questo termine finì per venire riferito specificatamente
ed esclusivamente a Gesù. > •
Agli occhi dei contemporanei di'Gesù, un Messia non sarebbe
apparso divino. Per loro, anzi, l'idea di un Messia divino sarebbe stata
assurda, se non impensabile. La parola greca per Messia è Christos, «
Cristo ». Il termine, sia in greco che in ebraico, significava semplicemente «
l'unto », e in genere si riferiva a un re. Quindi Davide, quando fu unto re
come narra l'Antico Testamento, divenne esplicitamente un « Messia » o un «
Cristo ». E ogni successivo re ebreo della casa di Davide venne chiamato con lo
stesso appellativo. Persine sótto l'occupazione romana della Giu-
147
dea, il sommo sacerdote nominato dai Romani era chiamato « il
Messia Sacerdote » o « il Cristo Sacerdote ».6
Per gli zeloti e per gli altri avversari di Roma, tuttavia, questo
sacerdote-fantoccio era inevitabilmente un « falso Messia ». Per loro il « vero
Messia » era qualcosa di ben diverso: il legittimo roi perda, il
discendente ignoto della casa di Davide che avrebbe liberato il suo popolo
dall'oppressione romana. Durante la vita di Gesù, l'attesa di questo Messia
aveva raggiunto un culmine che sconfinava nell'isteria collettiva. E l'attesa
continuò anche dopo la morte di Gesù. Anzi, l'insurrezione del 66 d.C. fu
istigata in gran parte dalla propaganda degli zeloti, imperniata su un Messia
il cui avvento veniva annunciato come imminente.
Il termine « Messia », perciò, non comportava la divinità dell'individuo
così designato. A stretto rigore, non significava altro che un re unto o
consacrato; per il popolo passò a significare un re consacrato che sarebbe
stato anche il liberatore. In altre parole, era un termine tipicamente
politico, ben diverso dalla successiva idea cristiana di un « Figlio di Dio ».
E questo termine terreno e politico venne riferito a Gesù, che era chiamato «
Gesù il Messia » o, in greco, « Gesù il Cristo ». Solo più tardi questa
designazione divenne « Gesù Cristo », e un titolo che si riferiva
esclusivamente a una funzione fu trasformato in nome proprio.
La storia dei Vangeli
I Vangeli scaturirono da una realtà storica riconoscibile e concreta.
Era una realtà fatta di oppressione, di malcontento civico e sociale, di
persecuzioni incessanti e di ribellioni intermittenti. Era anche una realtà
pervasa da continui e allettanti sogni, promesse e speranze: la speranza
dell'avvento di un re legittimo, un capo spirituale e secolare che avrebbe
liberato il popolo. Per quanto riguardava la libertà politica, queste
aspirazioni furono stroncate brutalmente dalla tremenda guerra combattuta tra
il 66 e il 74 d.C. Trasposte in forma interamente religiosa, invece, le
aspirazioni non soltanto furono perpetuate dai Vangeli, ma ricevettero un nuovo
slancio.
Gli studiosi moderni concordano all'unanimità nel ritenere che i
Vangeli non furono scritti durante la vita di Gesù. Per la maggior
348
parte, datano dal periodo tra le due principali insurrezioni in
Giudea, 66-74 e 132-135 d.C, benché siano quasi certamente basati su narrazioni
precedenti. Queste narrazioni includevano forse documenti scritti andati poi
perduti, dato che vi fu una totale distruzione degli archivi dopo la prima
rivolta. Ma senza dubbio c'erano anche le tradizioni orali. Alcune erano con
sicurezza grossolanamente esagerate e alterate, ricevute di seconda, terza e
quarta mano. Altre, tuttavia, potevano derivare da contemporanei di Gesù e che
forse l'avevano conosciuto personalmente. Un uomo che al tempo della
Crocifissione era giovane poteva benissimo essere ancora vivo quando furono
scritti i Vangeli.
In generale, il Vangelo più antico è ritenuto quello di Marco,
composto durante l'insurrezione del 66-74 o poco più tardi, se si esclude la
parte relativa alla Resurrezione che è aggiunta spuria e più tarda. Sebbene non
fosse stato uno dei discepoli di Gesù, sembra che Marco provenisse da
Gerusalemme. Pare che fosse uno dei compagni di san Paolo, e il suo Vangelo
mostra tracce inequivocabili del pensiero paolino. Ma se Marco era nato a
Gerusalemme, il suo Vangelo, come afferma Clemente d'AIes-sandria, fu scritto a
Roma per un pubblico greco-romano. E questo, in sé, spiega molte cose. Nel
tempo in cui fu scritto il Vangelo di Marco, la Giudea era in aperta rivolta -
o Io era stata di recente - e migliaia di Ebrei venivano crocifissi per essersi
ribellati al dominio romano. Se Marco voleva che il suo Vangelo sopravvivesse
e si imponesse a un pubblico romano, non poteva assolutamente presentare Gesù
come antiromano. Anzi, non poteva neppure attribuire a Gesù un orientamento
politico. Perché il suo messaggio sopravvivesse, Marco era obbligato a
scagionare i Romani da ogni responsabilità circa la morte di Gesù, ad
assolvere il regime esistente e a scaricare la morte del Messia su certi Ebrei.
Questo sistema fu adottato non soltanto dagli autori degli altri Vangeli, ma
anche dalla Chiesa cristiana degli albori. Senza questo « trucco » né i
Vangeli né la Chiesa sarebbero sopravvissuti.
I filologi datano il Vangelo di Luca intorno all'80 d.C. Sembra
che Luca fosse un medico greco, che scrisse la sua opera per un alto
funzionario di Cesarea, la capitale romana della Palestina. Anche Luca, quindi,
si sarebbe trovato nella necessità di ingraziarsi i Romani e di attribuire ad
altri la responsabilità. Quando fu
scritto il Vangelo di Matteo, intorno all'85 d.C, pare che questo
trasferimento'di responsabilità fosse ormai accettato come un fatto indiscusso.
Più della metà del Vangelo di Matteo, infatti, deriva direttamente da quello di
Marco, benché venisse scritto originariamente in greco e rispecchiasse precise
caratteristiche greche. L'autore sembra essere un Ebreo, molto probabilmente
profugo dalla Palestina. Non dev'essere confuso con il discepolo omonimo, che
doveva essere vissuto-molto tempo prima e probabilmente aveva conosciuto
soltanto l'aramaico.
I Vangeli di Marco, Luca e Matteo sono conosciuti collettivamente
come « i Vangeli Sinottici »; l'espressione significa che presentano la stessa
visione dei fatti, anche se naturalmente non è affatto così. Tuttavia
coincidono tra loro quanto basta per indicare che sono derivati da una fonte
comune, forse una tradizione orale, forse un altro documento successivamente
perduto. Questo li distingue dal Vangelo di Giovanni, che tradisce origini
significativamente diverse. ■
Dell'autore del Quarto Vangelo non si sa assolutamente nulla.
Anzi, non c'è neppure ragione di presumere che si chiamasse Giovanni. Escluso
il Battista, lo stesso Vangelo non menziona mai un Giovanni, e la sua
attribuzione a un uomo di questo nome viene generalmente riconosciuta come una
tradizione più tarda. Il Quarto Vangelo, in ordine di tempo, è il più recente
di quelli inclusi nel Nuovo Testamento: fu composto intorno all'anno 100 d.C.
nei pressi di Efeso, in Asia Minore. Presenta numerose caratteristiche
distintive. Ad esempio, non contiene la scena della Natività di Gesù, e
l'inizio ha quasi un carattere gnostico. Il testo è decisamente più mistico di
quello degli altri Vangeli, e anche il contenuto ne differisce. Ad esempio,
gli altri Vangeli parlano soprattutto delle attività di Gesù nella provincia
settentrionale di Galilea, e rispecchiano quella che sembra essere soltanto una
conoscenza di seconda o di terza mano per quanto riguarda gli eventi accaduti
al sud, in Giudea e a Gerusalemme, inclusa la Crocifissione. Per contro, il
Quarto Vangelo dice relativamente poco della Galilea. Indugia ampiamente sugli
eventi in Giudea e Gerusalemme, che conclusero l'esistenza di Gesù, ed è
possibile che il suo racconto della Crocifissione sia basato su una
testimonianza diretta, di prima mano. Inoltre, contiene un certo numero di
episodi che non
350
figurano negli altri Vangeli: le nozze di Cana, il ruolo di
Nicodemo e di Giuseppe d'Arimatea, e la resurrezione di Lazzaro (benché questa,
un tempo, fosse inclusa nel Vangelo di Marco). In base a questi fattori, vari
studiosi moderni hanno espresso l'opinione che il Vangelo di Giovanni,
nonostante la composizione tarda, possa essere il più attendibile e
storicamente esatto tra i quattro. Più degli altri Vangeli, sembra attingere a
tradizioni vive tra i contemporanei di Gesù, e ad altro materiale sconosciuto
a Marco, Luca e Matteo. Un ricercatore moderno fa notare che rispecchia una
conoscenza topografica apparentemente diretta di Gerusalemme, così com'era la città
prima dell'insurrezione del 66 d.C. E lo stesso autore conclude: « Alla base
del Quarto Vangelo sta un'autentica tradizione, indipendente dagli altri
Vangeli ».7Non è un'opinione isolata. Anzi, prevale nella moderna
filologia biblica. Secondo un altro autore, « II Vangelo di Giovanni, sebbene
non aderisca alla struttura cronologica marciana e sia di data molto più tarda,
sembra conoscere, sul conto di Gesù, una tradizione che dev'essere primitiva e
autentica ».8
In base alle nostre ricerche, anche noi concludemmo che il Quarto
Vangelo era il più attendibile dei libri del Nuovo Testamento, sebbene
anch'esso fosse stato sottoposto a modifiche, revisioni, epurazioni e
correzioni. Nella nostra indagine avemmo il modo di attingere a tutti e quattro
i Vangeli, e anche a molto materiale collaterale. Ma fu nel Quarto Vangelo che
trovammo le conferme più convincenti della nostra ipotesi ancora provvisoria.
Lo stato civile di Gesù
Non avevamo intenzione di screditare i Vangeli. Cercavamo soltanto
di spigolare, di individuare certi frammenti di possibile o probabile verità e
di estradi dalla matrice di abbellimenti che li circondava. Cercavamo in
particolare frammenti di carattere ben preciso: frammenti che attestassero un
matrimonio tra Gesù e la donna conosciuta come la Maddalena. È superfluo
aggiungere che tali attestazioni non potevano essere esplicite. Per trovarle,
ce ne rendevamo conto, avremmo dovuto leggere tra le righe, colmare certe
lacune, capire certe cesure e certe ellissi. Avremmo avuto a che fare con
omissioni e allusioni, con riferimenti come minimo
351
obliqui. E non avremmo dovuto cercare soltanto gli indizi relativi
a un matrimonio. Avremmo dovuto anche cercare le tracce delle circostanze che
potevano aver portato a un matrimonio. Quindi la nostra indagine avrebbe dovuto
includere vari interrogativi, diversi ma strettamente relati. Incominciammo
dal più ovvio.
1) Nei Vangeli vi sono indizi, diretti o indiretti, che facciano
pensare che Gesù era sposato?
Naturalmente, non,vi è mai affermato esplicitamente che lo fosse.
D'altra parte, non è mai affermato esplicitamente che non lo fosse: e questo è
più curioso e significativo di quanto potrebbe apparire a prima vista. Come
osserva il dottor Geza Vermes dell'Università di Oxford: « Nei Vangeli c'è un
silenzio totale per quanto riguarda la stato civile di Gesù... E questo è
abbastanza insolito, nell'antico mondo ebraico, per suggerire indagini più
approfondite ».9
I Vangeli dicono che molti dei discepoli, ad esempio Pietro, erano
sposati. E Gesù non predica mai il celibato. Al contrario, nel Vangelo di
Matteo egli dichiara: « Non avete letto che il Creatore da principio li creò
maschio e femmina... Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà
a sua moglie e i due saranno una carne sola? » (19:4-5). Difficilmente questa
affermazione si può conciliare con l'imposizione del celibato. E se Gesù non
predicava il celibato, non vi è neppure motivo di supporre che lo praticasse.
Secondo il costume ebraico del tempo, era non soltanto usuale, ma quasi
obbligatorio, che un uomo si sposasse. Se si escludono certe comunità essene,
il celibato era vigorosamente riprovato da tutti. Verso la fine del I secolo,
un autore ebreo paragonò addirittura il celibato volontario all'omicidio; e
sembra che non fosse il solo a sostenere tale punto di vista. Per un padre
ebreo, trovare una moglie al proprio figlio era obbligatorio quanto provvedere
a farlo circoncidere.
Se Gesù non fosse stato sposato, questo fatto avrebbe suscitato un
notevole scalpore. Avrebbe attirato l'attenzione, e sarebbe stato usato per
caratterizzarlo e identificarlo. Lo avrebbe distinto, in modo significativo,
dai suoi contemporanei. Se fosse stato così, sicuramente almeno uno dei Vangeli
avrebbe fatto cenno a una deviazione tanto netta dalla normale consuetudine. Se
Gesù era davvero celibe come sostiene la tradizione successiva, è straordi-
352
nario che non vi siano accenni alla cosa. L'assenza di riferimenti
in proposito indicherebbe che Gesù, per quanto riguardava il celibato,
seguisse le convenzioni dei suoi tempi e della sua cultura: indicherebbe,
insomma, che era sposato. Solo questo potrebbe spiegare in modo soddisfacente
il silenzio dei Vangeli al riguardo. L'argomentazione viene riassunta da uno
stimato studioso contemporaneo:
Tenuto conto del panorama culturale attestato... è estremamente
improbabile che Gesù non si fosse sposato molto prima' dell'inizio del suo
magistero pubblico. Se si fosse ostinato a rimanere celibe, la cosa avrebbe
destato scalpore, una reazione che avrebbe lasciato qualche traccia. Perciò il
fatto che nei Vangeli non si parli del matrimonio di Gesù è un valido
argomento, non già contro l'ipotesi del matrimonio, bensì a suo favore, poiché
la pratica o la propugnazione del celibato volontario, nel contesto del mondo
ebraico di quel tempo, sarebbe stata tanto eccezionale da attirare l'attenzione
e suscitare commenti.10
L'ipotesi del matrimonio diviene ancora più sostenibile grazie al
titolo di « Rabbi », « Maestro », che nei Vangeli viene spesso dato a Gesù. È possibile,
naturalmente, che questo termine sia impiegato nel senso più ampio, e indichi
semplicemente un maestro autonominatosi tale. Ma la cultura dimostrata da
Gesù, ad esempio nel dibattito con i dottori nel Tempio, indica che fosse ben
più di un sedicente maestro; indica che ebbe una regolare istruzione rabbinica
e che era riconosciuto ufficialmente come rabbi. E questo sarebbe conforme alla
tradizione, che presenta Gesù come rabbi nel senso più completo della parola.
Ma se Gesù era un rabbi in questo senso completo, il suo matrimonio sarebbe non
soltanto verosimile, ma virtualamente certo. La Legge Mishnaica degli Ebrei è
esplicita in proposito: « Un uomo non sposato non può essere un maestro
»."
Nel Quarto Vangelo c'è un episodio relato a un matrimonio che
potrebbe essere appunto quello di Gesù. È l'episodio delle nozze di Cana,
decisamente molto noto. Tuttavia, pone certi problemi salienti che meritano
un'attenta considerazione.
Secondo il racconto del Quarto Vangelo, le nozze di Cana
sembrerebbero una modesta cerimonia locale, un tipico matrimonio di paese, e
la sposa e lo sposo restano anonimi. A queste nozze Gesù è specificatamente «
invitato », il che è un po' strano, forse, perché non aveva ancora iniziato il
suo magistero. Ancora più
353
strano, però, è il fatto che c'era anche sua madre; e la presenza
della madre sembra data per scontata. Di certo, non viene spiegata in nessun
modo.
Ma c'è di più. È Maria che non soltanto suggerisce al figlio di
provvedere ad altro vino ma praticamente glielo, ordina. Si comporta
esattamente come se fosse la padrona di casa: « Nel frattempo, venuto a
mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino". E
Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia
ora" » (Giovanni 2:3-4). Maria, però, per nulla turbata, non bada alla
protesta del figlio: « La madre dice ai servi:"Fate quello che vi
dirà" » (5). I servitori obbediscono prontamente, come se fossero
abituati a ricevere ordini da Maria e Gesù.
Sebbene Gesù cerchi di eludere la sua richiesta, Maria ottiene ciò
che desidera: Gesù compie il suo primo grande miracolo, la trasmutazione
dell'acqua in vino. A quanto ci fanno sapere i Vangeli, in precedenza non ha
mai mostrato i suoi poteri; e Maria non avrebbe neppure motivo di presumere che
li possieda. Ma anche se lo sapesse, perché quei doni, unici e sacri,
dovrebbero venire usati per uno scopo tanto banale? Perché Maria dovrebbe
rivolgere al figlio una richiesta del genere? E soprattutto perché due « ospiti
» invitati a un matrimonio dovrebbero assumersi la responsabilità di provvedere
al necessario, una responsabilità che per tradizione spetta ai padroni di casa?
A meno che, naturalmente, le nozze di Cana siano le nozze di Gesù. In tal
caso, sarebbe stato suo compito fornire il vino.
C'è un altro indizio che induce a pensare che le nozze di Cana
siano le nozze di Gesù. Subito dopo il miracolo, « il maestro di tavola chiamò
la sposo e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e,
quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato
fino ad ora il vino buono ». (Giovanni 2:9-10; il corsivo l'abbiamo messo noi.)
Queste parole sembrerebbero chiaramente rivolte a Gesù. Secondo il Vangelo,
tuttavia, sono rivolte allo « sposo ». Una conclusione ovvia è che Gesù e Io «
sposo » siano la stessa persona.
354
La moglie di Gesù
2) Se Gesù era sposato, nei Vangeli c'è qualche indicazione circa
l'identità di sua moglie?
A un primo esame sembrerebbe che vi siano due possibili candidate:
le due donne che, oltre a sua madre, sono ricordate più volte nei Vangeli come
appartenenti alla cerchia di Gesù. La prima è la Maddalena o più esattamente
Maria del villaggio di Migdal, o Magdala, in Galilea. In tutti i quattro
Vangeli il ruolo di questa donna è stranamente ambiguo, e ha tutta l'aria di
essere stato volutamente oscurato. Nelle versioni di Marco e Matteo, la Maddalena
viene menzionata per nome solo verso la fine. Compare in Giudea, al momento
della Crocifissione, e figura tra i seguaci di Gesù. Nel Vangelo di Luca,
invece, appare relativamente presto nel magistero di Gesù, quando questi sta
ancora predicando in Galilea; quindi, sembra che lo accompagni dalla Galilea
alla Giudea, o che almeno si sposti da una provincia all'altra come fa Gesù.
Già questo indica che la Maddalena doveva essere sposata con qualcuno. Nella
Palestina dei tempi di Gesù sarebbe stato impensabile che una donna non
sposata viaggiasse senza accompagnatori ufficiali, e soprattutto che
viaggiasse insieme a un capo religioso e ai suoi seguaci. Diverse tradizioni
sembrano consapevoli di questa situazione potenzialmente imbarazzante. Perciò a
volte viene detto che la Maddalena era la moglie di uno dei discepoli di Gesù.
Se era così, però, il suo speciale rapporto con Gesù li avrebbe esposti entrambi
a sospetti o persino ad accuse di adulterio.
Nonostante la tradizione popolare, nessuno dei Vangeli dice che la
Maddalena sia una prostituta. Quando viene menzionata per la prima volta nel
Vangelo di Luca, è presentata come una donna « dalla quale erano usciti sette
demoni ». In genere si presume che questa frase alluda a un esorcismo compiuto
da Gesù, e sottintenda che la Maddalena era stata vittima di una « possessione
diabolica ». Ma la frase può riferirsi anche a una specie di conversione o
d'iniziazione rituale. Il culto di Ishtar o Astarte - la Dea Madre e « Regina
del Cielo » - comportava ad esempio un'iniziazione in sette fasi. Prima di
legarsi a Gesù in un modo o nell'altro, la Maddalena poteva essere stata
associata a un
355
culto di questo tipo. Migdal, o Magdala, era il « Villaggio delle
Colombe », e vi sono prove che venissero allevate colombe destinate al
sacrificio. E la colomba era sacra ad Astarte.
Nel capitolo precedente a quello dove parla della Maddalena, Luca
allude a una donna che unse Gesù. Nel Vangelo di Marco c'è una simile unzione a
opera di una donna innominata. Né Luca né Marco identificano esplicitamente
questa donna con la Maddale-■ na. Ma Luca riferisce che si trattava di
una « donna caduta », una « peccatrice ». I commentatori hanno desunto che la
Maddalena, poiché da lei erano usciti sette diavoli, dovesse essere stata una
peccatrice. Di conseguenza la donna che unge Gesù e la Maddalena finirono per
venire identificate come una sola persona. In effetti, può darsi che fosse
vero. Se la Maddalena era associata a un culto pagano, questo avrebbe
sicuramente fatto di lei una « peccatrice » non soltanto agli occhi di Luca, ma
anche di autori più tardi.
Se la Maddalena era una « peccatrice », era anche, evidentemente,
ben più della « comune prostituta » della tradizione popolare. Appare chiaro
che fosse benestante o ricca. Luca riferisce, ad esempio, che tra le sue amiche
figurava la moglie di un alto funzionario della corte di Erode, e che le due
donne, insieme ad altre, aiutavano finanziariamente Gesù e i suoi discepoli.
Anche la donna che unse Gesù era benestante; il Vangelo di Marco parla con
insistenza della preziosità dell'unguento di nardo con cui fu compiuto il rito.
L'episodio dell'unzione di Gesù sembrerebbe avere un'importanza
notevole. Altrimenti, perché sarebbe sottolineato dai Vangeli? Dato il rilievo
che gli viene accordato, sembra trattarsi di ben più di un gesto impulsivo e
spontaneo. Sembra un rito meticolosamente preordinato. Si deve ricordare che
l'unzione era la prerogativa tradizionale dei re: e del « legittimo Messia »,
che significa « l'unto ». Ne consegue che Gesù diviene un Messia autentico in
virtù dell'unzione. E la donna che lo consacra in questo ruolo augusto
difficilmente può avere un'importanza trascurabile.
In ogni caso, è evidente che la Maddalena, prima della fine del
magistero di Gesù, era divenuta una figura immensamente significativa. Nei tre
Vangeli Sinottici il suo nome apre l'elenco delle donne che seguirono Gesù,
come il nome di Simon Pietro apre
356
l'elenco dei discepoli. E naturalmente, fu la prima a trovare la
tomba vuota dopo la Crocifissione. Tra tutti i suoi seguaci, fu la Maddalena
che Gesù prescelse per rivelare la propria Resurrezione.
In tutti i Vangeli, Gesù tratta la Maddalena in modo unico,
preferenziale. È possibile che questo trattamento possa aver suscitato la
gelosia di altri discepoli. Sembra piuttosto evidente che la tradizione
successiva si adoperò per colorare in nero i precedenti della Maddalena, se non
addirittura il suo nome. La trasformazione in prostituta può essere la
reazione esagerata di seguaci vendicativi, decisi a macchiare la reputazione
di una donna il cui legame con Gesù era più stretto del loro, e quindi ispirava
un'invidia molto umana. Se altri « cristiani », quando Gesù era in vita o più
tardi, nutrivano rancore nei confronti della Maddalena per il suo eccezionale
legame con il loro capo spirituale, si può capire che cercassero di sminuirla
agli occhi dei posteri. E non c'è dubbio che venne sminuita. Ancora oggi molti
credono che fosse una cortigiana, e nel Medioevo gli ospizi per le prostitute
redente erano intitolati alla Maddalena. Ma i Vangeli attestano che la donna
che diede il nome a tali istituzioni non meritava affatto quella nomea.
Quale che sia la posizione della Maddalena nei Vangeli, non è la
sola candidata possibile al ruolo di moglie di Gesù. Ce n'è un'altra, che ha
una parte di spicco nel Quarto Vangelo, e che può essere identificata come
Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro. Maria e i suoi familiari
appaiono chiaramente in stretti rapporti . con Gesù. Si tratta di gente ricca:
hanno una casa, in un sobborgo elegante di Gerusalemme, abbastanza grande per
ospitare Gesù e tutto il suo seguito. E c'è di più: l'episodio di Lazzaro
rivela che la casa comprende una tomba privata: un lusso eccezionale ai tempi
di Gesù, un segno non soltanto di opulenza, ma, anche di una posizione sociale
elevata. Nella Gerusalemme biblica, come in ogni città moderna, i terreni
costavano carissimi; e ben pochi potevano permettersi il lusso di una tomba
privata.
Quando, nel Quarto Vangelo, Lazzaro si ammala, Gesù ha lasciato
Betania da qualche giorno e si trova in riva al Giordano insieme ai discepoli.
Quando viene informato dell'accaduto, indugia per due giorni - una reazione
piuttosto curiosa - e quindi torna a Betania, dove Lazzaro giace nella tomba.
Gesù si avvicina e
Marta gli va incontro e grida: « Signore, se tu fossi stato qui,
mio fratello non sarebbe morto! » (Giovanni 11:21). È un'affermazione
sconcertante: perché la presenza fìsica di Gesù avrebbe necessariamente
evitato la morte di Lazzaro? Ma l'episodio è significativo perché Marta,
quando va incontro a Gesù, è sola. Ci si aspetterebbe che sua sorella Maria
vada con lei. Invece Maria sta seduta in casa... e non esce fino a quando Gesù
le ordina esplicitamente di farlo. Il particolare diviene più chiaro nel
Vangelo « segreto » di Marco, scoperto dal professor Morton Smith e citato più
sopra in questo capitolo. Nel racconto soppresso, sembrerebbe che Maria esca
dalla casa prima che Gesù glielo comandi. E viene prontamente rimproverata dai
discepoli, che Gesù è costretto a far tacere.
Sarebbe piuttosto plausibile che Maria se ne resti seduta in casa
quando Gesù giunge a Befania. Secondo la consuetudine ebraica, doveva « sedere
in Shiveh »: sedere in lutto. Ma perché non accompagna Marta, perché non si
precipita incontro a Gesù che ritorna? C'è una sola spiegazione ovvia. Secondo
i dettami della legge ebraica di quel tempo, una donna che « sedeva in Shiveh »
non poteva uscire di casa se non per ordine espresso del marito. In questo
episodio il comportamento di Gesù e di Maria di Befania corrisponde in modo
esatto al comportamento tradizionale di un Ebreo e di sua moglie.
C'è un altro indizio a favore di un possibile matrimonio tra Gesù
e Maria di Befania. Appare, più o meno come un non sequitur, nel Vangelo
di Luca: , „
Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna
di nome Marta lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella di nome Maria,
la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era
tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti disse: « Signore, non
ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi
aiuti ». Ma Gesù le rispose: « Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte
cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte
migliore, che non le sarà tolta » (Luca 10: 38-42).
A giudicare dalle parole di Marta, sembra evidente che Gesù
eserciti su Maria una sorta di autorità. Ancora più importante, tuttavia, è la
risposta di Gesù. In qualunque altro contesto, non si esiterebbe a
interpretarla come un'allusione a un matrimonio. E
358
comunque attesta chiaramente
che Maria di Betania era una discepola ardente quanto la Maddalena.
Vi sono buone ragioni per
identificare la Maddalena con la donna che unge Gesù. È possibile, ci
chiedemmo, che fosse iden-tificabile anche con Maria di Betania, sorella di
Lazzaro e di Marta? È possibile che queste donne, presentate nei Vangeli in tre
contesti diversi, siano in realtà un'unica persona? La Chiesa medievale
certamente le vedeva così, non diversamente dalla tradizione popolare. Oggi,
molti studiosi biblici sono d'accordo. Vi sono abbondanti indizi che confermano
questa conclusione,
I Vangeli di Matteo, Marco e
Giovanni, ad esempio, dicono tutti che la Maddalena era presente alla
Crocifissione. Nessuno, invece, cita Maria di Betania. Ma se Maria di Betania
era una discepola tanto devota, la sua assenza sembrerebbe a dir poco strana. È
credibile che lei, per non parlare di suo fratello Lazzaro, non assistesse al
momento culminale della vita di Gesù? L'omissione sarebbe inspiegabile e
reprensibile, a meno che fosse presente e venisse' citata dai Vangeli sotto il
nome di Maddalena. Se la Maddalena e Maria di Betania sono la stessa persona,
allora la seconda non figura più come assente alla Crocifissione.
- La Maddalena può essere
identificata con Maria di Betania. E può essere identificata anche con la
donna'che unge Gesù. Il Quarto Vangelo identifica con Maria di Betania la donna
che unge Gesù. Anzi, l'autore del Quarto Vangelo è molto esplicito:
Era allora malato un certo
Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era
quella che aveva cosparso d'olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i
piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato (Giovanni 11:1-2).
E di nuovo, nel capitolo
successivo:
Sei giorni prima della
Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva
risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era
uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero
nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi
capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento (Giovanni 12:
1-3).
' È dunque chiaro che Maria
di Betania e la donna che cosparge d'unguento Gesù sono la stessa donna. Se non
è altrettanto chiaro, è certo probabile che questa donna sia anche la
Maddalena. Se
359
Gesù era veramente sposato, a quanto sembra c'è una sola candidata
al ruolo di sua moglie: una donna che apparve più volte nei Vangeli sotto nomi
diversi.
Il discepolo prediletto
3) Se la Maddalena e Maria di Betania sono la stessa donna, e se
questa donna era la moglie di Gesù, Lazzaro sarebbe stato cognato di Gesù. Nei
Vangeli c'è qualcosa che indica che Lazzaro avesse veramente questa posizione
speciale?
Lazzaro non figura nei Vangeli di Luca, Matteo e Marco, anche se
la sua « resurrezione dai morti » era contenuta in origine nel testo marciano,
e fu espunta in seguito. Perciò Lazzaro è conosciuto dai posteri solo tramite
il Quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni. Ma qui è chiaro che gode di un
trattamento preferenziale, non circoscritto alla sua resurrezione. Sotto questo
e molti altri aspetti, Lazzaro sembra, se mai, più vicino a Gesù degli stessi
discepoli. Eppure, piuttosto stranamente, i Vangeli non lo enumerano neppure
tra questi discepoli.
A differenza di costoro, Lazzaro viene minacciato. Secondo il
Quarto Vangelo, i sommi sacerdoti, quando decidono di eliminare Gesù, decidono
di uccidere anche Lazzaro (Giovanni 12:10). Quindi Lazzaro, a quanto sembra,
avrebbe operato in qualche modo nell'interesse di Gesù, mentre non si può dire
altrettanto di certi discepoli. In teoria, questo dovrebbe qualificarlo come
discepolo; tuttavia, non viene citato come tale. Non figura neppure presente
alla Crocifissione: una dimostrazione d'ingratitudine apparentemente
vergognosa, da parte di un uomo che doveva la vita a Gesù nel senso più
completo della parola. Certo, è possibile che si fosse nascosto, dato il
pericolo che lo minacciava. Ma è molto strano che nei Vangeli non si accenni
più a lui. Sembra sparito, e non viene più nominato. Ma è davvero così?
Cercammo di esaminare più attentamente il problema.
Dopo aver soggiornato a Betania per tre mesi, Gesù si ritira con i
discepoli sulle rive del Giordano, a non più di un giorno di cammino da quella
località. Un messaggero lo raggiunge portando la notizia che Lazzaro è malato.
Ma il messaggèro non allude a Lazzaro chiamandolo per nome. Al contrario, parla
del malato
360
come di un uomo che ha una speciale importanza: « Signore, ecco,
colui che tu ami è malato » (Giovanni 11:3). La reazione di Gesù alla notizia è
decisamente strana. Anziché affrettarsi a tornare per soccorrere l'uomo che gli
è caro, accantona con disinvoltura il problema: « All'udire questo, Gesù disse:
"Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per
essa il Figlio di Dio verrà glorificato" » (11:4). E se le sue parole sono
sconcertanti, le sue azioni lo sono ancora di più: « Quand'ebbe dunque sentito
che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava » (11:6).
Insomma, Gesù continua a indugiare sulle rive del Giordano, nonostante la
notizia allarmante che ha ricevuto. Alla fine, decide di ritornare a Betania.
Poi contraddice in modo clamoroso la sua affermazione precedente, dicendo ai
discepoli che Lazzaro è morto. Tuttavia, rimane imperturbato. Anzi, afferma
con chiarezza che la « morte » di Lazzaro è servita a qualche scopo: « II
nostro amico Lazzaro s'è addormentato; ma io vado a svegliarlo » (11:11). E
quattro versetti più avanti ammette che l'intero episodio è stato meticolosamente
preparato e disposto in anticipo: « E io sono contento per voi di non essere
stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui » (11:15). Se questo
comportamento è sconcertante, la reazione dei discepoli non lo è meno: « Allora
Tommaso, chiamato Didimo, disse ai condiscepoli: "Andiamo anche noi a
morire con lui!" » (11:16). Che cosa significa? Se Lazzaro è letteralmente
morto, senza dubbio i discepoli non intendono seguirlo con un suicidio
collettivo! E come si può spiegare la noncuranza di Gesù, l'indifferenza con
cui riceve l'annuncio della malattia di Lazzaro e il suo ritardo nel ritornare
a Betania?
La spiegazione sembra consistere, come suggerisce il professor
Morton Smith, in una iniziazione più o meno tipica di una « scuola misterica ».
Come dimostra il professor Smith, queste iniziazioni e i relativi riti erano
abbastanza comuni in Palestina ai tempi di Gesù. Spesso comportavano una morte
e una rinascita simboliche, che venivano chiamate appunto con questi nomi; la
reclusione in una tomba, che diveniva il grembo della rinascita dell'accolito;
un rito, che oggi è chiamato battesimo, e che era una simbolica immersione
nell'acqua; e una coppa di vino, identificato con il sangue del profeta o del
mago che presiedeva alla cerimonia.
361
Bevendo dalla coppa, il discepolo consumava un'unione simbolica
con il maestro, diventava misticamente « una cosa sola » con lui. È
significativo che san Paolo spieghi appunto in questi termini lo scopo del
battesimo. E lo stesso Gesù usa gli stessi termini durante l'Ultima Cena.
Come osserva il professor Smith, la carriera di Gesù è molto
simile a quella di altri quattro maghi, guaritori e taumaturghi dell'epoca.12
Nei Quattro Vangèli, ad esempio, incontra in segreto coloro che si accinge a
guarire, e parla con loro, da solo. Poi, spesso li invita a non divulgare ciò
che è accaduto. E quando si trova a contatto con il grosso pubblico, Gesù parla
abitualmente per allegorie e parabole.
Sembrerebbe quindi che Lazzaro, mentre Gesù soggiorna lungo il
Giordano, abbia intrapreso un tipico rito di iniziazione, che come di consueto
porta a una simbolica resurrezione. In questa luce, il desiderio di « morire
con lui » espresso dai discepoli diviene perfettamente comprensibile, come
diviene comprensibile il comportamento di Gesù. Certo, Maria e Marta sembrano
sinceramente afflitte, e come loro molte altre persone. Ma è possibile che
avessero frainteso o male interpretato il significato dell'atto. O forse
qualcosa era andato male nell'iniziazione, come accadeva non di rado. Oppure
era tutto un dramma inscenato, il cui vero carattere e il cui scopo erano noti
a pochissimi.
Se l'episodio di Lazzaro si riferisce a un'iniziazione rituale, è
evidente che Lazzaro riceve un trattamento preferenziale. Tra l'altro, viene
apparentemente iniziato prima di tutti gli altri discepoli che anzi sembrano
invidiosi del suo privilegio. Ma perché l'uomo di Betania, fino a quel momento
sconosciuto, dovrebbe ricevere un simile onore? Perché subisce un'esperienza
che i discepoli sono tanto ansiosi di condividere? Perché in seguito tanti «
eretici » dalle tendenze mistiche, cornei carpocraziani, avrebbero attribuito
tanta importanza alla cosa? E perché l'intero episodio fu espunto dal Vangelo
di Marco? Forse perché Lazzaro era « colui che Gesù amava » più degli altri
discepoli. Forse perché Lazzaro aveva un legame speciale con Gesù: era suo
cognato. Forse per entrambe le ragioni. È possibile che Gesù conoscesse e
amasse Lazzaro appunto perché era suo cognato. Comunque, questo affetto viene
sottolineato più volte. Quando Gesù ritorna a
362
Betania e piange, o finge di piangere, per la morte di Lazzaro,
gli astanti riecheggiano le parole del messaggero: « Vedi come lo amava! »
(Giovanni 11:36).
L'autore del Vangelo di Giovanni - il Vangelo che narra l'episodio
di Lazzaro - non si identifica mai come « Giovanni ». Anzi, non dice mai il
proprio nome. Tuttavia, allude a se stesso con un appellativo che lo distingue.
Chiama costantemente se stesso « il discepolo prediletto », « colui che Gesù
amava » e fa capire in modo chiaro che gode di una posizione eccezionale,
privilegiata rispetto ai suoi compagni. All'Ultima Cena, ad esempio, mostra
apertamente la sua personale vicinanza a Gesù; e a lui solo Gesù confida come
avverrà il tradimento:
Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola
a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: « Di' chi è colui
a cui si riferisce? » Ed egli reclinandosi sul petto di Gesù gli disse: «
Signore, chi è? ». Rispose allora Gesù: « È colui per il quale intingerò un
boccone e glielo darò ». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda
Iscariota, figlio di Simone (Giovanni 13: 23-6).
. Chi è il « discepolo prediletto », sulla cui testimonianza si
basa il Quarto Vangelo? Tutto indica che sia in effetti Lazzaro, « colui che
Gesù amava ». Sembrerebbe, quindi, che Lazzaro e il « discepolo prediletto »
siano la stessa persona, e che Lazzaro sia la vera identità di « Giovanni ».
Questa conclusione appare quasi inevitabile. E non fummo noi i soli a raggiungerla.
Secondo William Brownlee, illustre filologo biblico, uno dei maggiori esperti
per quanto riguarda i Rotoli del Mar Morto, « in base all'evidenza interna
contenuta nel Quarto Vangelo... la conclusione è che il discepolo prediletto è
Lazzaro di Betania ».13 . Se Lazzaro e « il discepolo prediletto »
sono la stessa persona, questo spiegherebbe parecchie anomalie. Spiegherebbe la
misteriosa sparizione di Lazzaro dal racconto delle Scritture, e la sua
apparente assenza durante la Crocifissione. Infatti, se Lazzaro e il «
discepolo prediletto » erano la stessa persona, alla Crocifissione Lazzaro era
presente. E sarebbe stato a Lazzaro che Gesù affidò la madre. Le parole con cui
lo fece potrebbero essere quelle di un uomo che si rivolge al cognato:
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo
che.egli amava, disse alla madre: « Donna, ecco il tuo figlio! ». Poi disse al
discepolo:
3(i3
« Ecco la tua madre! ». E da quel momento il discepolo la prese
nella sua casa (Giovanni 19: 26-7).
L'ultima parola del brano citato è particolarmente rivelatrice.
Infatti gli altri discepoli hanno abbandonato le loro case in Galilea e, a
tutti i fini pratici, non hanno casa. Lazzaro, invece, ce l'ha: la casa di
Betania, dove lo stesso Gesù soggiornava.
Dopo che i sacerdoti decidono di farlo uccidere, Lazzaro non viene
più menzionato per nome. Sembra sparire completamente. Ma se è veramente il «
discepolo prediletto », dopotutto non sparisce affatto, e i suoi movimenti e la
sua attività si possono seguire fino alla conclusione del Quarto Vangelo. E
anche qui c'è un episodio curioso che merita un attento esame. Al termine del
Quarto Vangelo, Gesù predice la morte di Pietro e gli ordina di « seguirlo »:
Pietro allora, voltandosi, vide che li seguiva quel discepolo che
Gesù amava, quello che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva
domandato: « Signore, chi è che ti tradisce? ». Pietro dunque, vedutolo, disse
a Gesù: « Signore, e lui? ». Gesù gli rispose: « Se voglio che egli rimanga
finché io venga, che importa a te? Tu seguimi ». Si diffuse perciò tra i
fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva
detto che non sarebbe morto, ma: « Se voglio che egli rimanga finché io venga,
che importa a te? ».
Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li
ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera (Giovanni 21:
20-24).
Nonostante la fraseologia ambigua, il significato del passo sembrerebbe
chiaro. Il « discepolo prediletto » ha ricevuto l'ordine esplicito di attendere
il ritorno di Gesù. E il testo sottolinea con enfasi che questo ritorno non
deve essere inteso simbolicamente nel senso di un « secondo avvento ». Al
contrario, implica qualcosa di più terreno. Implica che Gesù, dopo aver
mandato per il mondo gli altri suoi seguaci, deve ritornare presto per
conferire un compito speciale al « discepolo prediletto ». Si direbbe quasi
che abbiano accordi precisi e concreti da concludere, piani da approntare.
Se il « discepolo prediletto » è Lazzaro, questa collusione di cui
gli altri discepoli non sanno nulla sembra avere un precedente. Durante la
settimana che precede la Crocifissione, Gesù si accinge
364
a compiere il suo trionfale ingresso in Gerusalemme; e per farlo
in armonia con le profezie dell'Antico Testamento che parlano di un Messia,
deve entrare nella città in groppa a un asino (Zaccaria 9:9-10). Perciò è
necessario procurarsi un asino. Nel Vangelo di Luca, Gesù manda due discepoli a
Betania dove, dice loro, troveranno un asino. Hanno l'ordine di dire al
padrone dell'asino.che « il Maestro ne ha bisogno ». Quando tutto si svolge
esattamente come Gesù ha preannunciato, la cosa viene considerata come una
specie di miracolo. Ma c'è davvero qualcosa di straordinario? Non indica
semplicemente l'esistenza di piani meticolosamente preparati? E l'uomo di
Betania che fornisce l'asino al momento giusto non sembra Lazzaro?
Questa è certamente la conclusione del professor Hugh Schon-field.14
Egli sostiene in modo convincente che l'organizzazione dell'ingresso trionfale
di Gesù in Gerusalemme fu affidata a Lazzaro, e che gli altri discepoli non ne
sapevano nulla. Se era davvero così, questo attesta l'esistenza di una cerchia
intima di seguaci di Gesù, un gruppo di collaboratori o di familiari, i soli
che godevano della confidenza del maestro. Il professor Schonfield ritiene che
Lazzaro facesse parte di questa cerchia. E la sua convinzione concorda con
l'insistenza del professor Smith sul trattamento preferenziale che Lazzaro
riceve in virtù della sua iniziazione, o morte simbolica, a Betania. È
possibile che Betania fosse un centro culturale, un luogo riservato ai riti
presieduti da Gesù. Questo potrebbe spiegare perché Betania ricorreva
enigmaticamente altrove, nella nostra indagine. Il Priorato di Sion aveva
chiamato « Béthanie » la sua « arca » a Rennes-le-Chàteau. E Saunière,
apparentemente su richiesta del Priorato di Sion, aveva battezzato Villa
Bethania la sua villa.
In ogni caso, la collusione che sembra portare alla consegna di un
asino da parte deIP« uomo di Betania » può riapparire nel misterioso finale del
Quarto Vangelo: quando Gesù ordina al suo « discepolo prediletto » di rimanere
fino al suo ritorno. Si direbbe che lui e il « discepolo prediletto » abbiano
piani da preparare. E non è irragionevole presumere che tali piani
riguardassero la famiglia di Gesù. Sulla croce, Gesù aveva già affidato la
madre al « discepolo prediletto ». Se aveva moglie e figli, presumibilmente
anche loro sarebbero stati affidati allo stesso discepolo. E questo,
365
naturalmente, sarebbe stato ancora più plausibile se il «
discepolo prediletto » di Gesù era suo cognato.
Secondo una tradizione molto più tarda, la madre di Gesù morì in
esilio a Efeso, da dove giunse successivamente il Quarto Vangelo. Nulla indica,
tuttavia, che il « discepolo prediletto » si prendesse cura della madre di
Gesù finché ella visse. Secondo il profes-sor Schonfield, il Quarto Vangelo
probabilmente non fu composto a Efeso, ma solo rielaborato, riveduto e corretto
da un anziano greco di quella città che lo modificò in modo da adeguarlo alle
proprie idee.15
Se il « discepolo prediletto » non andò a Efeso, che ne fu di lui?
Se era Lazzaro, è possibile rispondere alla domanda, perché la tradizione è
esplicita. Secondo la tradizione e secondo certi autori della Chiesa
appartenenti al periodo protocristiano, Lazzaro, la Maddalena, Marta, Giuseppe
d'Arimatea e alcuni altri giunsero per nave a Marsiglia.l6 Lì
Giuseppe sarebbe stato consacrato da san Filippo e inviato in Inghilterra, dove
avrebbe fondato una chiesa a Glastonbury. Tuttavia, Lazzaro e la Maddalena
sarebbero rimasti in Gallia. La tradizione vuole che la Maddalena morisse ad
Aix-en-Provence o a Saint Baume, e Lazzaro a Marsiglia, dopo avervi fondato la
prima diocesi. Uno dei loro compagni, san Massimiliano, avrebbe fondato invece
la prima diocesi di Narbo-na.
Se Lazzaro e il « discepolo prediletto » erano una sola persona,
vi sarebbe una spiegazione per la loro duplice scomparsa. Lazzaro, il vero «
discepolo prediletto » avrebbe preso terra a Marsiglia, insieme alla sorella
che, come afferma la tradizione successiva, portava con sé il Santo Graal, il «
sangue reale ». E le disposizioni per la fuga e l'esilio sembrerebbero
organizzate dallo stesso Gesù, insieme al « discepolo prediletto », al termine
del Quarto Vangelo.
La dinastia di Gesù
4) Se Gesù aveva veramente sposato Maddalena, questo matrimonio
poteva avere uno scopo specifico? In altre parole, poteva essere qualcosa di
più di un matrimonio convenzionale? Poteva essere un'alleanza dinastica, con
significati e ripercussioni di carat-
366
tere politico? Una stirpe uscita da tale matrimonio, insomma,
avrebbe giustificato del tutto l'appellativo di « sangue reale »?
Il Vangelo di Matteo dichiara esplicitamente che Gesù era di sangue
reale: un re autentico, discendente diretto di Salomone e di Davide. Se questo
è vero, avrebbe avuto un diritto legittimo sul trono della Palestina unita:
forse l'unico diritto legittimo. E l'iscrizione affissa sulla croce
sarebbe stata qualcosa di più di una beffa sadica, perché Gesù sarebbe stato
veramente il « Re dei Giudei ». La sua posizione, sotto molti aspetti, sarebbe
stata analoga a quella, poniamo, del « Bonnie Prince Charlie », lo Stuart
pretendente al trono d'Inghilterra, nel 1745. E quindi avrebbe suscitato
l'opposizione che suscitò appunto a causa del suo ruolo: il ruolo di un
re-sacerdote che forse avrebbe potuto unificare il suo paese e il popolo ebreo,
e che quindi costituiva una grave minaccia per Erode e per Roma.
Certi studiosi biblici moderni hanno sostenuto che la famosa «
strage degli innocenti » perpetrata da Erode non avvenne mai. E anche se
avvenne, non ebbe probabilmente le dimensioni sensazionali e spaventose che le
attribuiscono i Vangeli e la tradizione più tarda. Tuttavia, il fatto stesso
che l'episodio sia stato tramandato sembra attestare qualcosa: un timore
autentico da parte di Erode, la paura di venire spodestato. Certo, Erode era un
sovrano estremamente insicuro, odiato dai sudditi e tenuto al potere soltanto
dalle coorti romane. Ma per quanto fosse precaria la sua posizione, non poteva
essere realisticamente minacciata dalle voci sull'avvento di un salvatore
mistico o spirituale: voci che del resto a quel tempo circolavano già in
Terrasanta. Se Erode era veramente preoccupato, poteva solo esserlo a causa di
una minaccia politica concreta: la minaccia rappresentata da un uomo che aveva
pretese al trono più legittime delle sue, e che poteva assicurarsi un vasto
appoggio popolare. Forse la « strage degli innocenti » non avvenne, ma le
tradizioni che ne parlano rispecchiano una preoccupazione da parte di Erode,
un timore nei confronti di una pretesa, una rivendicazione e con ogni
probabilità anche un'azione che mirava a prevenirla o a precluderla. La
pretesa poteva avere soltanto un carattere politico. E in tal caso doveva
essere presa sul serio.
Suggerire che Gesù avesse questa pretesa legittima, natural-
367
mente, significa contrastare l'immagine popolare del « povero
falegname di Nazareth ». Ma vi sono motivi convincenti per farlo. Innanzitutto,
non è sicuramente certo che Gesù fosse di Nazareth. « Gesù di Nazareth » è
infatti una forma corrotta o una traduzione errata di « Gesù il Nazorita », «
Gesù il Nazireo » o forse « Gesù di Genesareth ». In secondo luogo, è molto
dubbio che il villaggio di Nazareth esistesse ai tempi di Gesù. Non figura
nelle mappe e nei documenti romani. Non è menzionato nel Talmud. Non è
menzionato, e tanto meno è associato a Gesù, negli scritti di San Paolo che
dopotutto furono composti prima dei Vangeli. E Giuseppe Flavio, il più
importante cronista di quel periodo, che comandò contingenti di truppe in
Galilea ed elencò ì centri della provincia, non parla di Nazareth. Sembra,
quindi, che Nazareth abbia incominciato a esistere dopo l'insurrezione del
68-74 d.C., e che il nome di Gesù vi sia stato associato in seguito alla
confusione semantica, casuale o voluta, che caratterizza gran parte del Nuovo
Testamento.
Indipendentemente dal fatto che fosse o no « di Nazareth », niente
indica che Gesù fosse « un povero falegname ».17 Non è certo così
che ce lo presentano i Vangeli. Anzi, la loro testimonianza fa pensare il
contrario. Gesù ci appare istruito; si direbbe che abbia studiato per
diventare rabbi, e che abbia frequentato personaggi ricchi e influenti non
meno della povera gente: basta ricordare ad esempio Giuseppe d'Arimatea e
Nicodemo. E le nozze di Cana sembrano confermare la posizione sociale di Gesù.
Le nozze non appaiono affatto come una festa umile e modesta di«
gente comune ». Al contrario, presentano tutte le caratteristiche di un
sontuoso matrimonio aristocratico in grande stile, al quale sono invitati
ospiti a centinaia. Ad esempio, vi sono molti servitori che si affrettano ad
obbedire a Maria e a Gesù. C'è un « maestro di tavola » o « maestro di
cerimonia », che nel contesto sarebbe stato una specie di sovrintendente o capo
maggiordomo o forse addirittura un aristocratico. Chiaramente, il vino scorre a
fiumi. Quando Gesù « trasmuta » l'acqua in vino, produce - secondo la « Bibbia
della Buona Novella » - non meno di seicento litri, più di ottocento bottiglie!
E questo va ad aggiungersi a tutto il vino che è già stato bevuto.
368
Tutto considerato, le nozze di Cana appaiono come una sontuosa
cerimonia della piccola nobiltà o dell'aristocrazia. Anche se non furono le
nozze di Gesù, la sua presenza e quella di sua madre indicherebbero che
appartenevano alla stessa casta. Soltanto questo può spiegare perché i servi
obbediscono ai loro ordini.
Se Gesù era aristocratico e se era sposato con la Maddalena, è
probabile che anche lei fosse di elevata estrazione sociale. E infatti sembra
esserlo. Come abbiamo visto, tra le sue amiche figurava la moglie di un alto
funzionario della corte di Erode. Ma è possibile che la Maddalena fosse ancora
più importante.
Come avevamo scoperto seguendo le indicazioni dei « documenti del
Priorato », Gerusalemme, Città Santa e capitale della Giudea, in origine era
appartenuta alla tribù di Beniamino. In seguito i Beniaminiti erano stati
decimati nella guerra con le altre tribù d'Israele, e molti di loro andarono in
esilio, anche se, come affermano i « documenti del Priorato », « alcuni di loro
rimasero ». Un discendente di coloro che rimasero fu san Paolo, che dichiara
esplicitamente di essere Beniaminita (Romani 11:1). • Nonostante il conflitto
con le altre tribù d'Israele, quella di Beniamino sembrava godere di una
posizione speciale. Tra l'altro, diede a Israele il primo re, Saul, unto dal
profeta Samuele, e la prima casa reale. Ma Saul fu deposto da Davide, della
tribù di Giuda. E Davide non si limitò a togliere ai Beniaminiti il trono.
Scegliendo come capitale Gerusalemme, tolse loro anche la legittima eredità.
Secondo tutte le genealogie del Nuovo Testamento, Gesù era
discendente di Davide, e quindi apparteneva anch'egli alla tribù di Giuda. Agli
occhi dei Beniaminiti ciò poteva fare di lui, almeno in un certo senso, un
usurpatore. Ma queste obiezioni sarebbero state superate se avesse sposato una
donna beniaminita. Il matrimonio sarebbe stato un'importante alleanza
dinastica, ricca di conseguenze politiche. Non avrebbe soltanto dato a Israele
un potente re-sacerdote; avrebbe avuto anche la funzione simbolica di
restituire Gerusalemme ai legittimi proprietari. Quindi avrebbe contribuito a
incoraggiare l'unità e l'appoggio del popolo, e a consolidare le pretese al
trono di Gesù.
Il Nuovo Testamento non dice a quale tribù appartenesse la
Maddalena. Nelle leggende più tarde, però, viene detto che è di
369
stirpe reale. E altre tradizioni affermano che apparteneva alla
tribù di Beniamino.
A questo punto incominciava a diventare visibile l'abbozzo di uno
« scenario » storico coerente. E a quanto potevamo capire, politicamente aveva
un senso. Gesù sarebbe stato un re-sacerdote della stirpe di Davide, legittimo pretendente
al trono. Avrebbe consolidato la sua posizione con un matrimonio dinastico
simbolicamente importante. Poi si sarebbe accinto a unificare il suo paese,
mobilitare la popolazione, scacciare gli oppressori, deporre l'abbietto sovrano
fantoccio e restaurare la gloria della monar-chia, com'era stata al tempo di
Salomone. E un tale uomo sarebbe stato veramente « Re dei Giudei ».
La Crocifissione
5) Come dimostra la vita di Gandhi, un capo spirituale, s&ha
un appoggio popolare sufficiente, può costituire una minaccia per un regime
esistente. Ma un uomo sposato, con legittime pretese al trono, e figli
destinati a formare una dinastia, rappresenta una minaccia decisamente ancora
più grave. C'è qualcosa, nei Vangeli, che indichi che Gesù venisse considerato
dai Romani un pericolo di questo genere?
Durante l'incontro con Pilato, Gesù viene chiamato più volte « Re
dei Giudei ». Per ordine dello stesso Pilato, sulla croce viene affissa
un'iscrizione con questo titolo. Come sostiene S.G.F. Brandon dell'Università
di Manchester, l'iscrizione affissa alla croce deve essere considerata
autentica: uno dei particolari più autentici dell'intero Nuovo Testamento.
Innanzitutto figura, virtualmente senza variazioni, in tutti i quattro
Vangeli. In secondo luogo è un episodio troppo compromettente e imbarazzante
perché l'abbiano inventato i revisori più tardi.
Nel Vangelo di Marco, Pilato, dopo aver interrogato Gesù, chiede
ai dignitari: « Che farò dunque di quello che voi chiamate Re dei Giudei? »
(Marco 15:12). Questo parrebbe indicare che almeno alcuni Giudei considerano
veramente Gesù come il loro re. Nel contempo, però, in tutti i quattro Vangeli
anche Pilato accorda questo titolo a Gesù. Non c'è ragione di supporre che lo
faccia per ironizzare o per deriderlo. Nel Quarto Vangelo insiste a
370
farlo in tono serio, nonostante il coro di proteste. Nei tre
Vangeli Sinottici, inoltre, lo stesso Gesù ammette di rivendicare il titolo: «
Allora Pilato prese a interrogarlo: "Sei tu il Re dei Giudei?" Ed
egli rispose: "Tu lo dici" » (Marco 15:2). Nella traduzione, la
risposta può suonare ambivalente - forse di proposito. Nel testo originale
greco, però, il suo significato è inequivocabile. Può essere interpretata solo
come « Tu hai parlato giustamente ». E la frase è interpretata nello stesso
modo ogni volta che appare altrove nella Bibbia.
I Vangeli furono composti durante e dopo l'insurrezione del 68-74
d.C, quando il giudaismo aveva finito di esistere come una forza sociale,
politica e militare organizzata. E soprattutto, i Vangeli furono composti per
un pubblico greco-romano, e dovevano risultare accettabili. Roma aveva appena
finito di combattere contro gli Ebrei una guerra feroce e dispendiosa. Quindi
era del tutto naturale presentare i Giudei come malvagi. Inoltre, dopo la
rivolta giudaica, Gesù non poteva venire dipinto come un personaggio politico,
legato in un modo o nell'altro alle inquietudini che sfociarono nella guerra.
Infine, la parte avuta dai Romani nel processo e nell'esecuzione di Gesù doveva
essere riveduta e corretta e presentata nel miglior modo possibile. Perciò nei
Vangeli Pilato figura come un uomo onesto, serio e tollerante, che consente
con grande riluttanza alla Crocifissione.18 Ma nonostante questa
libertà che gli evangelisti si presero con la storia, si può ricostruire quale
fu la vera posizione di Roma nella vicenda.
Secondo i Vangeli, Gesù viene inizialmente condannato dal
sinedrio, il consiglio degli anziani giudei, i quali lo portano davanti a
Pilato e chiedono al governatore di pronunciarsi contro di lui. Da un punto di
vista storico, questo non ha senso. Nei tre Vangeli Sinottici, Gesù viene
arrestato e condannato dal sinedrio la notte di Pasqua. Ma secondo la legge
giudaica, il sinedrio non poteva riunirsi per Pasqua.19 Nei Vangeli
l'arresto di Gesù e il suo processo davanti al sinedrio hanno luogo di notte.
Secondo la legge giudaica, il sinedrio non poteva riunirsi di notte, in case
private o in qualunque luogo che non fosse all'interno del recinto del Tempio.
Nei Vangeli, il sinedrio sembra non avere l'autorità di pronunciare una
condanna a morte e sarebbe per questa ragione che Gesù viene condotto davanti a
Pilato. Ma il sinedrio aveva l'auto-
371
rità di emettere condanne a morte: per lapidazione, se non per
crocifissione. Perciò, se il sinedrio avesse voluto eliminare Gesù, avrebbe
avuto l'autorità di condannarlo alla lapidazione. L'intervento di Pilato non
sarebbe stato necessario.
Gli autori dei Vangeli compiono altri numerosi tentativi per
scagionare Roma da ogni responsabilità. Uno è rappresentato dall'offerta di
grazia fatta da Pilato, il quale si dichiara disposto a liberare un prigioniero
a scelta della folla. Secondo i Vangeli di Marco e Matteo, questa era «
un'usanza della festa di Pasqua ».In realtà, tale consuetudine non esisteva.2"
Gli autori moderni concordano che i Romani non adottarono mai tale politica, e
che l'offerta di liberare Gesù o Barabba è un'invenzione. Anche la riluttanza
di Pilato di fronte alla prospettiva di condannare Gesù, e la sua irritata
rassegnazione alla pressione della folla sembrano altrettanto fittizie. In
realtà, sarebbe stato impensabile che un governatore romano, per giunta
implacabile come Pilato, si piegasse al volere della folla. Lo scopo di queste
alterazioni è piuttosto chiaro: scagionare i Romani, attribuire tutta la colpa
agli Ebrei e rendere così Gesù accettabile a un pubblico romano.
È possibile, naturalmente, che non tutti i Giudei fossero innocenti.
Anche se l'amministrazione romana aveva paura di un resacerdote pretendente al
trono, non poteva compiere apertamente atti provocatori che avrebbero portato
torse a una rivolta. Senza dubbio, a Roma avrebbe fatto comodo che il
re-sacerdote venisse tradito ufficialmente dal suo popolo. È quindi concepibile
che i Romani si servissero di certi Sadducei come agenti provocatori. Ma anche
così, rimane il fatto incontrovertibile che Gesù fu vittima di
un'amministrazione romana, di un tribunale romano, di una condanna romana, dei
militari romani e di un'esecuzione romana: un'esecuzione la cui forma era
riservata esclusivamente ai nemici di Roma. Gesù non fu crocifìsso per le sue
colpe nei confronti del giudaismo, ma per le colpe nei confronti dell'impero.21
Chi era Barabba?
6) Nei Vangeli c'è qualche indizio che Gesù avesse avuto figli?
Non vi è nulla di esplicito. Ma era normale e doveroso che i rabbi
avessero figli; e se Gesù era un rabbi, sarebbe stata una cosa
molto insolita se non ne avesse avuti. Anzi, sarebbe stato
insolito che non avesse figli, fosse un rabbi o no. Certo, da soli questi
argomenti non costituiscono una prova positiva. Ma c'è una prova più concreta
e specifica. Consiste nello sfuggente personaggio che nei Vangeli figura come
Barabba o, per essere più precisi, come Gesù Barabba. In una prima versione del
Vangelo di Mat-teo viene identificato infatti con questo nome. Se non altro, la
coincidenza è sorprendente.
I filologi moderni sono incerti circa la derivazione e il
significato di « Barabba ». « Gesù Barabba » può essere una forma corrotta di «
Gesù Berabbi ». « Berabbi » era un titolo riservato ai rabbi più stimati, e
seguiva il loro nome proprio.22 « Gesù Berabbi » potrebbe perciò
riferirsi allo stesso Gesù. Alternativamente, « Gesù Barabba » poteva essere
stato in origine « Gesù bar Rabbi »: « Gesù figlio del Rabbi ». Nei Vangeli
nulla indica che il padre di Gesù fosse un rabbi. Ma se Gesù aveva un figlio
che portava il suo stesso nome, quel figlio poteva essere « Gesù bar Rabbi ». E
c'è anche un'altra possibilità. « Gesù Barabba » potrebbe derivare da « Gesù
bar Abba », e poiché in ebraico « Ab-ba » significa « padre », « Barabba »
significherebbe allora « figlio del padre »: una designazione priva di senso, a
meno che il « padre » fosse qualcosa di eccezionale. Se il « padre » era veramente
il « Padre Celeste », allora « Barabba » potrebbe ancora una volta riferirsi
allo stesso Gesù. Invece, se il « padre » è Gesù, « Barabba » indicherebbe
ancora una volta suo figlio.
Quale che sia il significato e la derivazione del nome, il personaggio
Barabba è estremamente curioso. E più si considera l'episodio che lo riguarda,
e più diviene evidente che sta succedendo qualcosa di irregolare e che qualcuno
sta cercando di nascondere una realtà. Innanzitutto il nome di Barabba, come
quello della Maddalena, sembra aver subito una sistematica campagna diffamatoria.
Come la tradizione popolare fa della Maddalena una prostituta, così dipinge
Barabba come un « ladrone ». Ma se Barabba era ciò che fa pensare il suo nome,
non è molto probabile che fosse un comune ladro. Allora, perché insudiciare il
suo nome? A meno che in realtà fosse qualcosa d'altro, qualcosa che i revisori
dei Vangeli non volevano far sapere ai posteri.
A stretto rigore, i Vangeli non descrivono Barabba come un
373
ladro. Secondo Marco e Luca, è un prigioniero politico, un ribelle
accusato d'omicidio e di insurrezione. Nel Vangelo di Matteo, tuttavia, Barabba
è descritto come « un prigioniero famoso ». E nel Quarto Vangelo, Barabba è
chiamato (nell'originale greco) un lestes (Giovanni 18:40). La parola
può essere tradotta come « ladro » o « bandito ». Nel suo contesto storico,
però, significava qualcosa di ben diverso. Lestes era infatti il termine
abitualmente usato dai Romani per indicare gli zeloti,23 i
rivoluzionari nazionalisti che da tempo fomentavano disordini. Poiché Marco e
Luca dicono concordemente che Barabba è colpevole d'insurrezione, e poiché
Matteo non contraddice questa affermazione, si può concludere con sicurezza che
Barabba era uno zelota.
Ma queste non sono le sole notizie esistenti su Barabba. Secondo
Luca, era stato coinvolto recentemente in « disordini » o in una « sedizione »
avvenuta in città. La storia non parla di disordini accaduti a Gerusalemme in
quel tempo. Ma i Vangeli sì. Secondo i Vangeli, a Gerusalemme c'erano stati
disordini solo pochi giorni prima: quando Gesù e i suoi seguaci avevano
rovesciato i tavoli degli usurai nel Tempio. Barabba aveva partecipato
all'episodio, e per questo era stato imprigionato? Senza dubbio sembra probabile.
E in tal caso, la conclusione ovvia è una sola: Barabba faceva parte del
seguito di Gesù.
Secondo gli studiosi moderni, l'« usanza » di liberare un prigioniero
in occasione della Pasqua non esisteva. Ma, anche se fosse esistita, la
preferenza accordata a Barabba rispetto a Gesù non avrebbe senso. Se Barabba
era davvero un delinquente comune, colpevole di omicidio, perché il popolo
decise di salvargli la vita? E se invece era uno zelota, un rivoluzionario, è
poco verosimile che Pilato rilasciasse un personaggio potenzialmente tanto
pericoloso, anziché un innocuo visionario che era dispostissimo, come dicono i
Vangeli, a « dare a Cesare ciò che è di Cesare ». Tra tutte le discrepanze, le
improbabilità e le incongruenze contenute nei Vangeli, la scelta di Barabba è
la più sorprendente e inspiegabile. Sembra evidente che debba esserci qualcosa,
dietro a questa invenzione tanto goffa e sconcertante.
Un autore moderno ha proposto una spiegazione affascinante e
plausibile. Ipotizza che Barabba fosse il figlio di Gesù, e che Gesù fosse un
re legittimo.24 In questo caso, la scelta diBarabba assume-
374
rebbe subito un senso. Si immagini una popolazione oppressa, di
fronte all'imminente eliminazione del suo capo spirituale e politico, quel
Messia il cui avvento aveva destato tante speranze. In una situazione del
genere, la dinastia non sarebbe stata più importante dell'individuo? La
conservazione della stirpe non sarebbe stata l'aspirazione suprema, non avrebbe
avuto precedenza su tutto? Un popolo, di fronte alla scelta terribile, non
avrebbe preferito veder sacrificato il re perché suo figlio e la sua schiatta
potessero sopravvivere? Se la schiatta fosse sopravvissuta, vi sarebbe stata
almeno una speranza per il futuro.
Non è certo impossibile che Barabba fosse figlio di Gesù. In
genere, si ritiene che Gesù fosse nato intorno all'anno 6 a.C. La Crocifissione
avvenne non più tardi del 36 d.C, quando Gesù aveva, al massimo, quarantadue
anni. Ma anche se ne avesse avuto soltanto trentatrè quando morì, poteva
comunque aver generato un figlio. Secondo le consuetudini del suo tempo, poteva
essersi sposato a sedici o diciassette anni. Ma anche se si fosse sposato
soltanto verso i vent'anni, avrebbe potuto comunque avere un figlio tredicenne
che, secondo le usanze giudaiche, sarebbe stato considerato un uomo. E
naturalmente, poteva avere anche altri figli. Questi figli potevano essere
stati concepiti fino a pochi giorni prima della Crocifissione.
I particolari della
Crocifissione
7) Gesù poteva aver generato vari figli prima della Crocifissione.
Ma se sopravvisse alla Crocifissione, la probabilità che avesse discendenti
aumenterebbe ancora. C'è qualche indizio che Gesù sopravvisse davvero alla
Crocifissione, o che la Crocifissione fosse una messinscena?
Se si considera il ritratto che danno di lui i Vangeli, è
inspiegabile che Gesù venisse crocifisso. Secondo i Vangeli, i suoi nemici
erano in certi ambienti giudaici di Gerusalemme. Ma questi nemici, se
esistevano veramente, avrebbero potuto lapidarlo di loro iniziativa e in nome
della loro autorità, senza coinvolgere Roma nella questione. Secondo i Vangeli,
Gesù non aveva nessun motivo di dissidio con Roma, e non violava la legge
romana. Tuttavia venne punito dai Romani, secondo la legge e le procedure roma-
375
ne. Fu crocifisso: una pena riservata esclusivamente a coloro che
erano colpevoli di delitti contro l'impero. Se Gesù fu davvero crocifisso, non
poteva essere apolitico come lo rappresentano i Vangeli. Al contrario, doveva
necessariamente aver fatto qualcosa per attirarsi la collera dei Romani.
Quali che fossero le imputazioni per le quali fu crocifisso Gesù,
la sua apparente morte sulla croce è piena d'incongruenze. Molto semplicemente,
non c'è ragione perché la sua Crocifissione, come la raccontano i Vangeli,
dovesse essere fatale. L'affermazione secondo la quale lo fu merita un attento
esame.
Presso i Romani, vigeva una procedura molto precisa per la
Crocifissione.25 Dopo la sentenza, il condannato veniva flagellato,
e di conseguenza la perdita di sangue l'indeboliva. Poi le sue braccia venivano
fissate, di solito per mezzo di cinghie, ma qualche volta con i chiodi, a una
pesante trave lignea caricata sulle spalle. Portando la trave, veniva condotto
sul luogo dell'esecuzione. Lì la trave, con il condannato appeso, veniva
sollevata e fissata a un palo verticale.
Il condannato, appeso per le mani, non avrebbe potuto respirare,
a meno che anche i piedi fossero fissati alla croce. Questo gli avrebbe
permesso di esercitare una pressione sui piedi, alleviando quella sul torace.
Ma nonostante la sofferenza, un uomo così appeso con i piedi fissati -
soprattutto se era sano e robusto - di solito sopravviveva almeno per un giorno
o due. Qualche volta, anzi, ci metteva una settimana a morire: di sfinimento,
di sete o, se venivano usati i chiodi, di setticemia. A questa sofferenza
prolungata si poteva mettere fine più rapidamente spezzando le gambe o le
ginocchia del condannato: ed è quanto stanno per fare nei Vangeli i carnefici
di Gesù, prima di venire trattenuti. Spezzare le gambe o le ginocchia non era
un tormento in più, aggiunto per sadismo. Al contrario era un atto di
misericordia, un colpo di grazia che causava una morte molto rapida. Quando non
c'era più nulla che lo sostenesse, la pressione sul torace del condannato
diventava intollerabile, ed egli moriva rapidamente per asfissia.
Gli studiosi moderni concordano nel ritenere che solo il Quarto
Vangelo sia basato su un racconto della Crocifissione fatto da un testimone
oculare. Secondo il Quarto Vangelo, i piedi di Gesù furono fissati alla croce,
alleviando così la pressione sui muscoli
376
pettorali; e le sue gambe non furono spezzate. Quindi, almeno in
teoria, avrebbe dovuto sopravvivere per due o tre giorni. Tuttavia, Gesù è
sulla croce da poche ore soltanto quando viene dichiarato morto. Nel Vangelo
di Marco, lo stesso Pilato si stupisce della rapidità con cui sopravviene la
morte (Marco 15:44).
Quale può essere stata la causa della morte? Non il colpo di
lancia nel costato, poiché il Quarto Vangelo afferma che Gesù era già morto
quando gli fu inferta la ferita (Giovanni 19:33). C'è una sola spiegazione:
l'assommarsi dello sfinimento, della stanchezza, della debilitazione generale e
del trauma della flagellazione. Ma neppure questi fattori avrebbero dovuto
essere fatali tanto in fretta. Naturalmente, è possibile che lo fossero;
nonostante le leggi fisiologiche, qualche volta un uomo muore per un solo
colpo, relativamente innocuo. Tuttavia, l'intera vicenda continua ad apparire
sospetta. Secondo il Quarto Vangelo, i carnefici di Gesù si accingono a
spezzargli le gambe per affrettare la morte. Perché farlo, se era già
moribondo? Insomma, non avrebbe avuto senso spezzare le gambe di Gesù, a meno
che la sua morte non fosse apparsa tutt'altro che imminente.
Nei Vangeli, la morte di Gesù sopravviene in un momento quasi troppo
opportuno. Avviene giusto in tempo per evitare che i carnefici gli spezzino le
gambe. E così si può realizzare una profezia dell'Antico Testamento. Gli
studiosi moderni ammettono che Gesù modellò senza troppe remore le propria vita
su quelle profezie che annunciavano la venuta di un Messia. Fu per questa
ragione che gli sembrò necessario procurarsi un asino a Betania per fare il suo
ingresso trionfale a Gerusalemme. E anche i dettagli della Crocifissione sono
congegnati in modo da realizzare le profezie dell'Antico Testamento.26
Insomma, l'apparente e opportuna « morte » di Gesù - che lo salva
appena in tempo da una fine certa e gli permette di realizzare una profezia - è
a dir poco sospetta. È troppo perfetta, troppo precisa per essere una coincidenza.
Può trattarsi di un'interpola-zione successiva, a posteriori; oppure doveva far
parte di un piano meticolosamente preparato. Vi sono molti altri indizi che
fanno pensare a quest'ultima possibilità.
Nel Quarto Vangelo Gesù, appeso alla croce, dice di aver sete. Gli
viene allora offerta una spugna che, è detto, era stata intrisa
377
d'aceto: e questo episodio compare anche negli altri Vangeli. In
generale, la spugna viene interpretata come un altro gesto di sadica irrisione.
Ma lo era veramente? L'aceto- o il vino inacidito - è uno stimolante, e ha
effetti non dissimili da quelli dei sali da fiuto. A quel tempo veniva usato
per rianimare gli schiavi infiacchiti a bordo delle galere. In un uomo ferito
ed esausto, l'aceto -fiutato o bevuto - causerebbe una temporanea ripresa
dell'energia. Invece, nel caso di Gesù, l'effetto è esattamente il contrario.
Appena aspira o assorbe il contenuto della spugna, pronuncia le sue ultime
parole e « rende lo spirito ». Una simile reazione causata dall'aceto è
fisiologicamente inspiegabile. D'altra parte, sarebbe perfettamente
comprensibile se la spugna fosse stata imbevuta di un soporifero, ad esempio
un composto di oppio o di belladonna, sostanze usate comunemente a quel tempo
in Medio Oriente. Ma perché dare a Gesù un soporifero? A meno che l'azione,
come tutti gli altri fattori della Crocifissione, facesse parte di uno
stratagemma complesso e ingegnoso, uno stratagemma ideato per causare una
morte apparente quando il condannato, in effetti, era ancora vivo. Lo stratagemma
avrebbe non soltanto salvato la vita di Gesù, ma avrebbe anche realizzato le
profezie dell'Antico Testamento riguardanti il Messia.
La Crocifissione presenta altri aspetti anomali che fanno pensare
appunto a uno stratagemma del genere. Secondo i Vangeli, Gesù viene crocifisso
in un luogo chiamato Golgota, « il luogo del teschio ». La tradizione più tarda
tenta di identificare il Golgota con una collina spoglia, più o meno a forma di
teschio, situata a nord-ovest di Gerusalemme. Tuttavia i Vangeli chiariscono
che il luogo della Crocifissione era molto diverso da una collina a forma di
teschio. Il Quarto Vangelo è 11 più esplicito: « Ora, nel luogo dove era stato
crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale
nessuno era stato ancora deposto » (Giovanni 19:41). Gesù, dunque, non fu
crocifisso su una collina spoglia a forma di teschio e neppure in un luogo
riservato alle esecuzioni pubbliche. Fu crocifisso in un giardino dove c'era
una tomba privata, o nelle immediate vicinanze. Secondo Matteo (27:60), la
tomba e il giardino erano proprietà di Giuseppe d'Ari-matea, che secondo tutti
i quattro Vangeli, era un ricco seguace segreto di Gesù.
378
La tradizione popolare raffigura la Crocifissione come un evento
pubblico, al quale assistettero migliaia di persone. Eppure i Vangeli indicano
circostanze ben diverse. Secondo Matteo, Marco e Luca, quasi tutti i presenti,
incluse le donne, « assistevano da lontano » alla Crocifissione (Luca 23:49).
Sembrerebbe quindi evidente che la morte di Gesù non fu un avvenimento
pubblico, bensì una crocifissione privata eseguita in una proprietà privata.
Molti studiosi moderni sostengono che il luogo era probabilmente l'Orto di
Getsemani. Se Getsemani era proprietà di uno dei discepoli segreti di Gesù,
questo spiegherebbe perché Gesù, prima della Crocifissione, potesse servirsene
liberamente.27
È superfluo aggiungere che una crocifissione privata in una
proprietà privata lascia considerevole spazio a un eventuale inganno: una
falsa crocifissione, un rito abilmente inscenato. I testimoni oculari sarebbero
stati pochi. Per il popolo, il dramma, come confermano i Vangeli Sinottici,
sarebbe stato visibile solo da una certa distanza e quindi non sarebbe stato
possibile accertare che veniva crocifisso veramente. O se veramente era morto.
Un inganno del genere, ovviamente, avrebbe richiesto la connivenza
di Ponzio Pilato o di un personaggio importante dell'amministrazione romana. E
in effetti, è molto probabile che la connivenza ci fosse. Certo, Pilato era un
individuo crudele e tirannico. Ma era anche corrotto e corruttibile. Il Pilato
storico, ben diverso da come lo presentano i Vangeli, non avrebbe rifiutato di
risparmiare la vita di Gesù, in cambio di una lauta somma e magari della
garanzia che non vi sarebbero state altre agitazioni politiche.
Quale che fosse il suo movente, non c'è comunque dubbio che Pilato
fosse profondamente coinvolto nella faccenda. Riconosce la pretesa di Gesù al
titolo di Re dei Giudei. Esprime stupore, vero o fìnto, perché Gesù muore tanto
presto. E c'è un fattore che forse è il più importante di tutti: permette a
Giuseppe d'Arimatea di portar via il corpo di Gesù.
Secondo la legge romana di quei tempi, a un uomo crocifisso veniva
negata la sepoltura.28 Anzi, di solito venivano messi uomini di
guardia per impedire che parenti o amici portassero via i cadaveri. La vittima
era lasciata sulla croce, abbandonata agli elementi, ai corvi e agli avvoltoi.
Eppure Pilato, violando clamorosamente la procedura, concede subito a Giuseppe
d'Arimatea di portar
379
via il corpo di Gesù. Questo attesta un'evidente complicità da
parte di Pilato. E potrebbe attestare anche altre cose.
Nelle traduzioni del Vangelo di Marco, Giuseppe chiede a Pilato il
corpo di Gesù. Pilato si meraviglia che Gesù sia già morto, interpella un
centurione e poi accoglie la richiesta di Giuseppe. A prima vista sembra
abbastanza semplice e chiaro; ma nella versione originale greca del Vangelo di
Marco la vicenda è più complicata. Nella versione greca, quando Giuseppe
chiede il corpo di Gesù, usa la parola soma, una parola che indica
esclusivamente un corpo vivo. Pilato, nell'acconsentire, usa la parola ptoma,
che significa « cadavere ».2'J Secondo il testo
greco, quindi, Giuseppe chiede esplicitamente il corpo di un vivo e Pilato gli
concede quello che crede, o finge di credere, un cadavere.
Poiché era vietato seppellire i crocifissi, è egualmente straordinario
che Giuseppe ottenga ciò che ha chiesto. Per quale ragione l'ottiene? Che
diritto aveva di richiedere il corpo di Gesù? Se era un discepolo segreto,
difficilmente poteva avanzare la richiesta senza rivelarsi: a meno che Pilato
sapesse già tutto, o a meno che vi fosse un altro fattore favorevole a
Giuseppe.
Vi sono ben poche notizie su Giuseppe d'Arimatea. I Vangeli
riferiscono soltanto che era segretamente discepolo di Gesù, aveva grandi
ricchezze e faceva parte del sinedrio, il consiglio degli anziani che governava
la comunità di Gerusalemme sotto gli auspici dei Romani. Sembrerebbe quindi
evidente che Giuseppe avesse una notevole influenza. E questa conclusione
riceve conferma dalle sue trattative con Pilato, e dal fatto che sia
proprietario di un appezzamento di terreno con una tomba privata.
La tradizione medievale presenta Giuseppe d'Arimatea come un custode
del Santo Graal; e viene detto che Perceval è suo discendente. Secondo altre
tradizioni più tarde, è in qualche modo relato al sangue di Gesù e alla
famiglia di Gesù. Se era davvero così, questo gli avrebbe almeno dato una
ragione plausibile per richiedere il corpo di Gesù; infatti, se ben
difficilmente Pilato avrebbe concesso a uno sconosciuto di portar via il
cadavere di un criminale giustiziato, avrebbe potuto invece, in cambio di una
somma cospicua, concederlo a un parente del morto. Se Giuseppe, ricco e
influente membro del sinedrio, era parente di Gesù, questo conferma di nuovo
l'appartenenza di Gesù a una stirpe
380
aristocratica. E se era parente di Gesù, la sua associazione con
il Santo Graal, il « sangue reale », diventerebbe ancora molto più spiegabile.
Lo « scenario »
Avevamo già abbozzato un'ipotesi provvisoria che proponeva
l'esistenza di una stirpe discesa da Gesù. Incominciammo ora ad ampliare
l'ipotesi e ad aggiungere numerosi dettagli importanti, benché ancora in via
provvisoria. E poco a poco il quadro complessivo cominciò ad acquisire
coerenza e plausibilità.
Appariva sempre più chiaro che Gesù era un re- sacerdote, un
aristocratico, legittimo pretendente al trono, e aveva intrapreso un tentativo
di riconquistare l'eredità che gli spettava. Era nato in Galilea, tradizionale
fucina d'opposizione alla dominazione romana. Nel contempo, aveva avuto
numerosi sostenitori nobili, ricchi e influenti in tutta la Palestina, inclusa
la capitale, Gerusalemme; e uno di questi sostenitori, un potente membro del
sinedrio, poteva essere addirittura suo parente. Inoltre a Betania, un sobborgo
di Gerusalemme, c'era la casa di sua moglie o dei familiari di sua moglie; e lì
risiedeva l'aspirante re-sacerdote alla vigilia del suo ingresso trionfale nella
capitale. Lì aveva creato il centro del suo culto misterico. Lì aveva
accresciuto il numero dei suoi seguaci eseguendo iniziazioni rituali, inclusa
quella del cognato.
Un aspirante re-sacerdote avrebbe logicamente suscitato una forte
opposizione in certi ambienti: inevitabilmente tra i Romani dominatori e forse
anche tra certi gruppi giudaici, ad esempio di sadducei. L'uno o l'altro di
questi schieramenti, o forse entrambi riuscirono a sventare la sua azione per
arrivare al trono. Ma il tentativo di eliminarlo non riuscì come avevano
sperato. Infatti, a quanto sembra, il re-sacerdote aveva amici altolocati i
quali, in collusione con un corrotto e corruttibile governatore romano,
avrebbero inscenato una falsa crocifissione su un terreno privato, accessibile
solo a pochi eletti. Poi, con il popolo tenuto a debita distanza, fu inscenata
l'esecuzione, nella quale un sostituto prese il posto del re-sacerdote sulla
croce, o in cui lo stesso re-sacerdote non morì veramente. Verso il cader della
notte, quando la visibilità era ancora più scarsa, un « corpo » fu trasportato
in una tomba
381
opportunamente vicina, dalla quale, dopo un giorno o due, scomparve
« miracolosamente ».
Se il nostro « scenario » era esatto, dove andò poi Gesù? Per
quanto riguardava l'ipotesi della sua stirpe, la risposta a questo
interrogativo non aveva particolare importanza. Secondo certe leggende
islamiche e indiane, Gesù morì vecchio, in Oriente: nel Kashmir, come è
affermato più spesso. D'altra parte, un giornalista australiano ha avanzato
l'ipotesi affascinante e persuasiva che Gesù morisse a Masada quando la
fortezza fu espugnata dai Romani nel 74 d.C, quando ormai doveva avvicinarsi
agli ottant'an-ni.30
Secondo la lettera da noi ricevuta, i documenti trovati da
Béren-ger Saunière a Rennes-le-Chàteau contenevano la « prova incontrovertibile
» che Gesù era ancora vivo nel 45 d.C: ma non è indicato dove. Una possibilità
verosimile sarebbe che Gesù fosse riparato in Egitto, e precisamente ad
Alessandria, dove, più o meno nello stesso periodo, il saggio Ormus avrebbe
creato la Rosacroce fondendo il cristianesimo con misteri più antichi, precristiani.
È stato addirittura detto che il corpo mummificato di Gesù potrebbe essere
nascosto nei dintorni di Rennes-le-Chàteau, il che spiegherebbe il messaggio
cifrato contenuto nelle pergamene di Saunière, « ileStlàmort » (Egli è morto là).
Non intendiamo affermare che Gesù accompagnò i suoi familiari a
Marsiglia. Anzi, le circostanze sembrerebbero indicare il contrario. Forse non
era in condizioni di viaggiare, e la sua presenza avrebbe costituito una
minaccia per la sicurezza dei suoi parenti. Forse ritenne più importante
restare in Terrasanta, come suo fratello, san Giacomo, per realizzarvi i suoi
obiettivi. Insomma, come non ne formulano gli stessi Vangeli, anche noi non
siamo in grado di formulare ipotesi sulla sua sorte.
Ai fini della nostra teoria, però, la sorte di Gesù era meno
importante della sorte della sacra famiglia, e soprattutto di suo cognato, sua
moglie e i suoi figli. Se il nostro « scenario » era esatto, questi, insieme a
Giuseppe d'Arimatea e ad altri, furono portati clandestinamente per nave dalla
Terrasanta a Marsiglia. E quando sbarcò, la Maddalena avrebbe veramente portato
in Francia il Sangraal, il « sangue reale », la schiatta della casa di Davide.
382
Note
1 Smith, Secret Gospel, pp. 14 sgg.
2 Ibid., pp. 15 sgg.
3 Ibid., p. 16.
4 Ibid., pp. 16 sgg. Il
giovane nudo, avvolto in un drappo di lino appare più tardi in Marco 14:51-2.
Quando Gesù viene tradito a Getsemani, è accompagnato da « un giovanetto...
rivestito soltanto di un lenzuolo ».
5 I più antichi manoscritti delle Scritture,
incluso il Codex Vaticamts e il Codex Sinaiticus, non contengono
l'attuale finale del Vangelo di Marco. In entrambi il Vangelo di Marco termina
con 16:8. Entrambi risalgono al IV secolo, l'epoca in cui l'intera Bibbia fu
raccolta per la prima volta in un unico volume.
6 Maccoby, Revolutìon in Judaea, p. 99.
7 Dodd, Historical Tradition in thè Fourth
Gospel, p. 423.
8 Brandon, Jesus and thè Zealots, p. 16.
9 Vermes, Jesus thè Jew, p. 99.
10 Charles Davis, dichiarazioni pubblicate
dall'« Observer » (London, 28 marzo 1971), p. 25.
1 ' Phipps,
Sexuality ofJesus, p. 44.
12 Smith, Jesus thè Magician, pp. 81 sgg.
13 Brownlee, « Whence thè Gospel According to
John », p. 192. •4 Schonfield, Passover Plot, pp. 119,134
sgg.
15 Ibid., p. 256.
16 La tradizione più comune è contenuta in
Jacobus de Voragine, The Golden Legend, in Life ofS. Mary Magdalen, pp. 73 sgg. (traduzione inglese
della Leggenda aurea di Jacopo da Varazze). II testo risale al 1270. La
forma scritta più antica di questa tradizione sembrerebbe la « Vita di Maria
Maddalena » di Rabano (776-856), arcivescovo di Mainz. In The Antiquities of
Glastonbury di William di Malmesbury appare per la prima volta l'estensione
della leggenda: l'arrivo di Giuseppe d'Arimatea in Britannia. Spesso è ritenuta
un'aggiunta più tarda all'opera di William.
17 Vermes, Jesus thè Jew, p. 21, ricorda
che in vari detti talmudici il sostantivo aramaico che significa falegname o
artigiano (naggar) sta per dotto o sapiente.
18 Maccoby, Revolutìon in Judaea, pp. 57
sgg., cita Filone d'AIessandria che chiama Pilato « crudele per natura ».
19 Cohn, H., Trial and Death of Jesus, pp.
97 sgg.
20 Tutti gli studiosi sono daccordo
nell'affermare che tale privilegio non esisteva. Lo scopo dell'invenzione è
accrescere la colpa dei Giudei. Cfr.
Brandon, Jesus and Zealots, p. 259; Cohn, H., Trial and Death of
Jesus, pp. 166 sgg. (Haim Cohn è un ex procuratore generale—ministro della Giustizia -
di Israele, membro della Corte
383
suprema, e docente di storia
del diritto); e Winter, P., On thè TrialofJesus, p. 94.
21 Come osserva il professor Brandon (Jesus
and Zealots, p. 328), tutte le indagini sul Gesù storico devono partire dal
fatto che fu giustiziato dai Romani per sedizione. Brandon aggiunge che la
tradizione secondo la quale egli era « Re dei Giudei » dev'essere considerata
autentica. Dato il suo carattere imbarazzante, è inverosimile che il titolo sia
un'invenzione dei primi cristiani.
22 Maccoby, Revolution inJudaea, p. 216.
23 Brandon, Trial of Jesus, p. 34.
24 Joyce, Jesus Scroll, p. 106.
25 Circa i dettagli della crocifissione cfr.
Winter, On thè TrialofJesus, pp. 62 sgg., e Cohn, H., Trial and Death
of Jesus, pp. 230 sgg.
26 Cfr. Schonfield, Passover Plot, pp.
154 sgg., per i dettagli.
27 Un argomento a sostegno di questa
identificazione è esposto da Allegro, The Copper Scroll, pp. 100 sgg.
28 Cohn, H., Trial and Death Jesus, p.
238.
29 Cfr. The Interlinear Greek-English New
Testament, p. 214 (Marco 15:43,45).
30 Joyce, Jesus Scroll. L'autore afferma
che, mentre si trovava in Israele, fu chiesto il suo aiuto per esportare
clandestinamente un rotolo rubato dagli scavi di Masa-da. Sebbene rifiutasse,
sostiene di aver visto il rotolo. Era firmato Yeshua ben Ya'akob ben
Gennesareth, che diceva di avere ottant'anni e aggiungeva di essere
l'ultimo legittimo re d'Israele (p. 22). Il nome, tradotto, diventa Gesù, di
Genezar reth, figlio di Giacobbe. Joyce identifica l'autore con Gesù di
Nazareth.
384
XIII
II segreto proibito dalla
Chiesa
Ci rendevamo perfettamente conto, è ovvio, che il nostro « scenario
» non corrispondeva agli insegnamenti cristiani consolidati. Ma più indagavamo
e più diventava evidente che questi insegnamenti, come sono stati trasmessi
nel corso dei secoli, rappresentano solo una compilazione estremamente
selettiva di frammenti, sottoposta a revisioni ed epurazioni rigorose. In altre
parole, il Nuovo Testamento offre di Gesù e del suo tempo un quadro che si
adegua alle esigenze di certi interessi, di certi gruppi e individui che
avevano in gioco, e hanno ancora oggi, una posta importante. E tutto ciò che
potrebbe compromettere questi interessi - come ad esempio in Vangelo « segreto
» di Marco - è stato diligentemente espunto. Anzi, è stato eliminato tanto
materiale che si è formata una specie di vuoto. In questo vuoto, la
speculazione diventa giustificata e necessaria.
Se Gesù era un legittimo pretendente al trono, è probabile che
fosse sostenuto, almeno all'inizio, da una percentuale relativamente modesta
della popolazione: la sua famiglia venuta dalla Galilea, altri membri
dell'aristocrazia, e alcuni rappresentanti piazzati in posizioni strategiche
nella Giudea e nella capitale, Gerusalemme. Questo seguito, per quanto
illustre, non sarebbe bastato ad assicurare la realizzazione dei suoi
obiettivi: la scalata al trono. Perciò, Gesù sarebbe stato costretto a
reclutare un seguito più numeroso nelle altre classi sociali: come fece nel
1745 il « Bonnie Prince Charlie », per tornare a un'analogia già proposta.
Come si può reclutare un seguito numeroso? Ovviamente, promulgando
un messaggio ideato apposta per assicurarsi appoggio e
385
devozione. Non era necessario che fosse un messaggio cinico quanto
quelli della politica moderna. Al contrario, potrebbe essere stato diffuso in
completa buonafede, con un ardente, nobile idealismo. Ma nonostante il suo
carattere nettamente religioso, l'obiettivo primario sarebbe stato lo stesso
dei messaggi della politica moderna: assicurarsi l'adesione del popolo. Gesù
promulgò un messaggio che cercava di fare proprio questo: offrire speranza
agli angariati, agli afflitti, agli oppressi. Insomma, era un messaggio che
conteneva una promessa. Se il lettore moderno supera pregiudizi e preconcetti,
scoprirà un meccanismo straordinariamente affine a quello che si può vedere
dovunque nel mondo di oggi. Un meccanismo per mezzo del quale il popolo viene
unito in nome di una causa comune, e trasformato in uno strumento per
rovesciare un regime dispotico.
L'importante, è che il messaggio di Gesù era sia etico che
politico. Era rivolto a una certa parte della popolazione, secondo precise
considerazioni politiche. Perché solo tra gli oppressi, gli angariati e gli
afflitti Gesù poteva sperare di reclutare un seguito consistente. I sadducei,
che si erano accordati con i Romani invasori, come tutti i sadducei della
storia non avrebbero voluto saperne di rinunciare a ciò che possedevano, o di
mettere a repentaglio la loro sicurezza e la loro stabilità.
Il messaggio di Gesù, quale appare nei Vangeli, non è interamente
nuovo né unico. È probabile che Gesù fosse un fariseo, e i suoi insegnamenti
contengono numerosi elementi della dottrina farisaica. Come attestano i Rotoli
del Mar Morto, contengono anche diversi aspetti importanti del pensiero degli
esseni. Ma se il messaggio in se stesso non era del tutto originale, lo era
probabilmente il modo di trasmetterlo. Gesù era senza dubbio un personaggio
dotato di uno straordinario carisma. Forse possedeva facoltà di guaritore e
aveva il dono di compiere altri « miracoli ». Senza dubbio, aveva la dote di
comunicare le sue idee permezzo di parabole vivide e suggestive, che non
richiedevano una preparazione raffinata da parte del pubblico ed erano
comprensibili a tutta la popolazione. Inoltre, a differenza dei suoi precursori
esseni, Gesù non doveva limitarsi a predire l'avvento di un Messia. Poteva
affermare di essere il Messia. E naturalmente questo avrebbe
386
conferito alle sue parole un'autorità e una credibilità assai più
grandi.
È chiaro che, al tempo del suo ingresso trionfale in Gerusalemme,
Gesù aveva reclutato un seguito importante. Ma questo seguito doveva essere
composto da due elementi distinti, i cui interessi non coincidevano. Da una
parte doveva esserci un piccolo nucleo di « iniziati »: i familiari, altri
nobili, sostenitori ricchi e influenti, il cui scopo primario era vedere il
loro candidato insediato sul trono. Dall'altra doveva esserci un seguito assai
più numeroso di « gente comune », i « soldati semplici » del movimento, il cui
obiettivo primario era veder realizzato il messaggio, e la promessa che questo
conteneva. È importante riconoscere la distinzione tra queste due fazioni. Il
loro obiettivo politico - porre Gesù sul trono - sarebbe stato identico. Ma
sarebbero state sostanzialmente diverse le loro motivazioni.
Quando l'impresa fallì, come appare evidente, la delicata alleanza
tra le due fazioni - i « seguaci del messaggio » e i seguaci della famiglia - a
quanto sembra si sfasciò. Di fronte alla sconfitta e alla minaccia incombente
di annientamento, la famiglia avrebbe dato la precedenza al fattore che, da
tempo immemorabile, è sempre stato d'importanza suprema per le famiglie nobili e
reali: preservare a ogni costo la stirpe, se necessario anche in esilio. Ma per
i « seguaci del messaggio », il futuro della famiglia sarebbe divenuto
trascurabile. Per loro, la sopravvivenza della stirpe avrebbe avuto un
interesse secondario. Il loro obiettivo principale sarebbe stato perpetuare e
diffondere il messaggio.
Il cristianesimo, come si è evoluto nei primi secoli per giungere
fino a noi, è un prodotto dei « seguaci del messaggio ». La sua diffusione e il
suo sviluppo sono stati esplorati e seguiti fin troppo ampiamente da altri
studiosi per richiedere in questa sede un'attenzione particolare. Basti dire
che, con san Paolo, « il messaggio » aveva già incominciato ad assumere una
forma cristallizzata e definitiva; e questa forma divenne la base sulla quale
fu eretto l'intero edificio teologico del cristianesimo. Già al tempo in cui
furono composti i Vangeli, i princìpi fondamentali della nuova religione erano
virtualmente completi.
La nuova religione si rivolgeva soprattutto a un pubblico romano o
romanizzato. Quindi la parte avuta da Roma nella morte di
387
Gesù venne necessariamente insabbiata, e la colpa fu scaricata sui
Giudei. Ma questa non fu la sola libertà che ci si prese nei confronti degli
eventi, per renderli accettabili al mondo romano. Infatti, il mondo romano era
abituato a divinizzare i suoi sovrani, e Cesare era già stato ufficialmente
riconosciuto dio. Per fargli concorrenza, Gesù - che in precedenza nessuno
aveva considerato divino -doveva essere ugualmente deificato. E lo fu, a opera
di Paolo.
Prima che fosse possibile diffonderla con successo, dalla Palestina
alla Siria, l'Asia Minore, la Grecia, l'Egitto, Roma e l'Europa occidentale, la
nuova religione doveva essere resa accettabile ai popoli di quei territori. E
doveva reggere il confronto con le fedi già consolidate. Il nuovo dio, insomma,
doveva essere, in quanto a potere, maestà e miracoli, all'altezza degli dei che
doveva soppiantare . Se Gesù doveva far presa sul mondo romanizzato del suo
tempo, doveva necessariamente diventare un dio in piena regola. Non un Messia
nel vecchio senso della parola, non un resacerdote, ma Dio incarnato che, come
i suoi equivalenti siriani, fenici, egizi e classici, era passato attraverso
gli inferi ed era risorto, ringiovanito, con la primavera. Fu a questo punto
che l'idea della Resurrezione assunse per la prima volta la sua importanza
cruciale, e per una ragione ovvia: per porre Gesù sullo stesso piano di Tammuz,
Adone, Atti, Osiride e tutti gli altri dèi morti e risorti, che predominavano
nel mondo di quel tempo. Esattamente per la stessa ragione fu promulgata la
dottrina della verginità della madre di Gesù. E la festa di Pasqua, la festa
della morte e della resurrezione, venne fatta coincidere con i riti primaverili
di altri culti e di altre scuole misteriche contemporanee.
Data la necessità di diffondere il mito di un dio, Ja famiglia del
« dio » e i fattori politici e dinastici della sua storia sarebbero diventati
superflui. Legati com'erano a un periodo e a un luogo precisi, avrebbero
sminuito il suo carattere universale. Quindi, per confermare questa
universalità, tutti gli elementi politici e dinastici furono rigorosamente
eliminati dalla biografia di Gesù. E così pure vennero rimossi tutti i
riferimenti agli zeloti e agli esseni. Sarebbero stati imbarazzanti, a dir
poco. Non sarebbe apparso confacente a un dio il suo coinvolgimento in una
cospirazione politica e dinastica complessa e in fondo effimera, che per giunta
era fallita: Alla fine rimase soltanto quanto era contenuto nei
388
Vangeli: un racconto di austera, mitica semplicità, ambientato
incidentalmente nella Palestina del I secolo occupata dai Romani, ma
sostanzialmente nel presente eterno di tutti i miti.
Mentre « il messaggio » si sviluppava in questo modo, la famiglia
e i suoi sostenitori, a quanto sembra, non stavano in ozio. Giulio Africano,
che scrive nel III secolo, riferisce che i parenti superstiti di Gesù
accusavano sdegnosamente i sovrani della casa di Erode di distruggere le
genealogie dei nobili giudei, eliminando così tutto ciò che poteva servire a
contestare il loro diritto al trono. E gli stessi parenti erano « emigrati del
mondo », portando con loro certe genealogie sfuggite alla distruzione dei
documenti durante la ribellione del 66-74 d.C.1
Per i propagatori del nuovo mito, l'esistenza di questa famiglia
dovette diventare ben presto assai più di un dettaglio trascurabile. Dovette
diventare un fattore potenzialmente imbarazzante di proporzioni enormi.
Infatti la famiglia - che poteva testimoniare di prima mano ciò che era
accaduto storicamente - avrebbe costituito una pericolosa minaccia per il
mito. Anzi, in base alla sua conoscenza diretta, la famiglia avrebbe potuto
distruggere il mito nel modo più completo. Quindi nei primi tempi del
cristianesimo ogni menzione di una famiglia nobile o reale, di una stirpe, di
ambizioni politiche e dinastiche avrebbe dovuto venire soppressa. E - poiché è
doveroso riconoscere la cinica realtà della situazione - la famiglia stessa,
che poteva tradire la nuova religione, avrebbe dovuto essere sterminata, se
fosse stato possibile. Ecco quindi la necessità della massima segretezza da
parte della famiglia. Ecco quindi l'intolleranza dei primi padri della Chiesa
nei confronti di ogni deviazione dall'ortodossia che si sforzavano di imporre.
Ecco quindi, forse, anche una delle origini dell'antisemitismo. Infatti i «
seguaci del messaggio », i propagatori del mito, avrebbero realizzato un
duplice scopo incriminando gli Ebrei e scagionando i Romani. Non soltanto
avrebbero reso accettabili il mito e il « messaggio » al pubblico romano;
avrebbero anche impugnato la credibilità della famiglia, perché la famiglia
era ebrea. E il sentimento antisemita che suscitarono avrebbe favorito ancor
più i loro obiettivi. Se la famiglia aveva trovato rifugio presso una comunità
ebraica entro i confini dell'impero, la persecuzione popolare avrebbe potuto
ridurre al silenzio quei testimoni scomodi.
389
Accattivandosi il pubblico romano, deificando Gesù e presentando
gli Ebrei come responsabili della sua morte, si aveva così la certezza del
successo di quella che in seguito divenne l'ortodossia cristiana. La posizione
di questa ortodossia cominciò a consolidarsi definitivamente nel II secolo,
soprattutto per merito di Ireneo, vescovo di Lione intorno al 180 d.C.
Probabilmente più di ogni altro padre della Chiesa, Ireneo riuscì a dare alla
teologia cristiana una forma stabile e coerente. E vi riuscì soprattutto per
mezzo di un'opera voluminosa, Libros quinque adversus haereses (Cinque
libri contro le eresie). In questo scritto meticoloso, Ireneo catalogò tutte
le deviazioni dall'ortodossia che stava allora prendendo forma, e le condannò
con veemenza. Deplorò ogni diversità, e sostenne che poteva esservi una sola
chiesa valida, al di fuori della quale non c'era salvezza. Chiunque sfidava
questa asserzione, dichiarò Ireneo, era un eretico, e doveva essere espulso e
se possibile eliminato.
Tra le numerose forme del protocristianesimo, fu lo gnosticismo*
a incorrere nell'ira più accanita di Ireneo. Lo gnosticismo si basava
sull'esperienza personale, sull'unione personale con il divino. Per Ireneo,
naturalmente, questo minava alla base l'autorità dei preti e dei vescovi, e
quindi ostacolava il tentativo di imporre l'uniformità. Perciò egli s'impegnò
energicamente per sopprimere lo gnosticismo. Per riuscire, si doveva
scoraggiare la speculazione individuale e promuovere una fede indiscussa nel
dogma. Era necessario un sistema teologico, una struttura di dottrine codificate
che non consentissero l'interpretazione individuale. In contrapposizione
all'esperienza personale e alla gnosi [conoscenza], Ireneo propugnava una sola
Chiesa « cattolica » (cioè universale) basata sulla successione apostolica. E
per realizzare la creazione di questa Chiesa, Ireneo riconosceva la necessità
di un canone definitivo, un elenco fisso di scritti autorevoli. Perciò compilò
questo canone definitivo, setacciando le opere disponibili, includendone alcune
ed escludendone altre. Ireneo è il primo autore il cui canone del Nuovo Testamento
è sostanzialmente conforme a quello attuale.
*Cfr. su questo argomento
Elaine Pagels, / vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Milano 1981 [N.d
R.]
390
Naturalmente queste misure non impedirono che le eresie si
diffondessero. Al contrario, continuarono a fiorire. Ma con Ire-neo
l'ortodossia, il tipo di cristianesimo promulgato dai « seguaci del messaggio
», assunse una forma coerente che le assicurò la sopravvivenza e il trionfo
finale. Non è irragionevole affermare che Ireneo spianò la strada a ciò che
avvenne durante e subito dopo il regno di Costantino, sotto i cui auspici
l'Impero romano divenne, in un certo senso, impero cristiano.
Il ruolo di Costantino nella storia e nello sviluppo del
cristianesimo è stato falsificato e frainteso. La spuria « Donazione di Costantino
», dell'VIII secolo, già discussa nel capitolo IX, servì a confondere ancora di
più gli autori del periodo successivo. Comunque, viene spesso attribuita a
Costantino la vittoria decisiva dei « seguaci del messaggio » - e non del tutto
a torto. Quindi, eravamo obbligati a considerarlo più attentamente, e per
riuscirci dovevamo eliminare alcune delle azioni più fantasiose e speciose che
gli venivano ascritte.
Secondo la successiva tradizione della Chiesa, Costantino aveva ereditato
dal padre una certa simpatia per il cristianesimo. In effetti, questa simpatia
sembra fosse dovuta soprattutto a considerazioni pratiche, perché i cristiani
erano ormai numerosi, e Costantino aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile
contro Massenzio, che gli contendeva il trono imperiale. Nel 312 d.C. Massenzio
fu sconfitto a Ponte Milvio, e Costantino restò padrone incontestato
dell'impero. Poco prima di questo scontro decisivo, si racconta che Costantino
avesse una visione, poi confermata da un sogno profetico: gli apparve in cielo
una croce luminosa, con la scritta In hoc signo vinces (In questo segno
vincerai) La tradizione narra che Costantino, obbedendo al portento celeste,
ordinò di dipingere in fretta e furia, sugli scudi dei suoi soldati, il
monogramma cristiano, le lettere greche Chi e Rho, e le prime due
della parola Christos. Perciò la vittoria di Costantino su Massenzio a
Ponte Milvio finì per rappresentare il miracoloso trionfo del cristianesimo
sul paganesimo.
Questa è dunque la tradizione popolare della Chiesa, in base alla
quale spesso si crede che Costantino abbia « convertito l'Impero romano al
cristianesimo ». In realtà, invece, Costantino non
391
fece nulla del genere. Ma per scoprire più esattamente che cosa
fece, dobbiamo esaminare più a fondo l'evidenza.
In primo luogo la « conversione » di Costantino, se questa è la
parola appropriata, non fu affatto cristiana, ma clamorosamente pagana. Sembra
che egli avesse avuto una specie di visione, o di esperienza numinosa, nel
recinto di un tempio pagano consacrato all'Apollo gallico, nei Vosgi o presso
Autun. Secondo un testimone che a quel tempo accompagnava l'esercito di
Costantino, fu una visione del dio Sole, adorato da certe sette con il nome di Sol
Invictus, « Sole Invitto ». E Costantino, poco prima della visione, era
stato iniziato al culto del Sole Invitto. Comunque il Senato romano, dopo la
battaglia di Ponte Milvio, eresse un arco di trionfo nel Colosseo. Secondo
l'iscrizione dell'arco, la vittoria di Costantino fu ottenuta « per ispirazione
della Divinità ». Ma la Divinità in questione non era Gesù. Era il Sole
Invitto, il dio pagano.2
Contrariamente alla tradizione, Costantino non fece del cristianesimo
la religione di Stato dell'Impero. La religione di Stato, sotto Costantino, era
il culto pagano del sole; e per tutta la vita Costantino ne fu il sommo
sacerdote. Anzi, il suo regno veniva chiamato P« impero solare » e il Sole
Invitto figurava dovunque, inclusi gli stendardi imperiali e le monete.
L'immagine di Costantino quale fervente neofita del cristianesimo è
chiaramente infondata. L'imperatore fu battezzato solo nel 337, quando giaceva
sul letto di morte ed era troppo debole o troppo apatico per opporsi. E non si
può attribuire a lui neppure il monogramma Chi Rho. Un'iscrizione con
questo monogramma è stata ritrovata su una tomba di Pompei che risale a due
secoli e mezzo prima.3
Il culto del Sole Invitto era d'origine siriana, e'venne imposto
dagli imperatori romani ai loro sudditi un secolo prima di Costantino. Sebbene
includesse elementi del culto di Baal e di Astarte, era sostanzialmente
monoteistico, e in effetti presentava il dio del sole come la summa degli
attributi di tutti gli altri dei; quindi assorbiva pacificamente in sé i suoi
potenziali rivali. Inoltre, era utilmente armonizzato con il culto di Mitra,
che a quei tempi aveva un posto importante a Roma e nell'impero, e che
comportava anch'esso l'adorazione del sole.
A Costantino il culto del Sole Invitto, molto semplicemente,
392
faceva comodo. Il suo obiettivo principale e assillante era
l'unità: in politica, nella religione e nell'assetto territoriale. Una
religione di Stato che riassumeva in sé tutti gli altri culti favoriva
chiaramente questo obiettivo. E fu sotto gli auspici del culto del Sole Invitto
che il cristianesimo consolidò la sua posizione.
L'ortodossia cristiana aveva molto in comune con il culto del Sole
Invitto, e quindi potè fiorire indisturbata all'ombra dello spirito tollerante
di quest'ultimo. Il culto del Sole Invitto, essendo sostanzialmente
monoteistico, spianò la strada al monoteismo cristiano. Inoltre, era utile
anche sotto altri aspetti; aspetti che modificarono e nel contempo agevolarono
la diffusione del cristianesimo. Con un editto promulgato nel 321 d.C, ad
esempio, Costantino ordinò che i tribunali restassero chiusi nel « venerabile
giorno del sole », e stabilì che quel giorno doveva essere dedicato al riposo.
Fino a quel momento, il cristianesimo aveva considerato sacro il sabbath
ebraico. Obbedendo all'editto costantiniano, scelse come giorno sacro la
domenica. Questo non soltanto lo metteva in armonia con il regime esistente, ma
lo distanziava ancora di più dalle sue origini giudaiche. Fino al IV secolo,
inoltre, la nascita di Gesù era stata celebrata il 6 gennaio. Ma per il culto
del Sole Invitto il giorno più importante dell'anno era il 25 dicembre, la
festa del Natalis Invictus, la nascita (o la rinascita) del sole, quando
le giornate ricominciano ad allungarsi. Anche in questo, il cristianesimo si
allineò con il regime e la religione di Stato.*
Il culto del Sole Invitto si fondeva felicemente con quello di
Mitra, al punto di confondersi con esso.4 Entrambi esaltavano il
sole, entrambi avevano come giorno sacro la domenica. Entrambi celebravano una
festività natale il 25 dicembre. Quindi il cristianesimo poteva trovare una
certa convergenza anche con il mitrai-smo, tanto più che il mitraismo
propugnava l'immortalità dell'anima, un futuro giudizio e la resurrezione dei
morti.
Per favorire l'unità, Costantino sfumò volutamente le distinzio-
*Gli antichi Romani
celebravano anche la settimana del solstizio di inverno (i Saturnali) per
propiziare un ritorno dell'estate con ricche messi e cibo abbondante. I
Saturnali fino all'epoca di Augusto duravano tre giorni, poi furono portati a
sette. Col diffondersi del cristianesimo, i Saturnali vennero assorbiti dalla
nuova religione e poco dopo il 300 il 25 dicembre era diventato il giorno
della nascita di Cristo al posto della nascita del Sole. [N.d.R.]
393
ni fra il cristianesimo, il mitraismo e il culto del Sole Invitto,
e finse che tra essi non vi fossero contraddizioni. Di conseguenza tollerava
il Gesù deificato come una manifestazione terrena del Sole Invitto. Quindi era
capace di erigere una chiesa cristiana e, nel contempo, statue della Dea Madre
Cibele e del Sole Invitto: quest'ultima statua aveva le fattezze dello stesso
imperatore. In questi gesti eclettici ed ecumenici si può scorgere ancora una
volta l'importanza attribuita all'unità. La fede, insomma, per Costanti-no era
una questione politica; e ogni fede che favorisse l'unità veniva trattata con
tolleranza.
Perciò, sebbene Costantino non fosse affatto il « buon cristiano »
dipinto dalla tradizione più tarda, in nome dell'unità e dell'uniformità
consolidò la posizione dell'ortodossia cristiana. Nel 325 d.C., ad esempio,
convocò il Concilio di Nicea. In questo concilio fu fissata la data della
Pasqua. Furono stabilite regole che definivano l'autorità dei vescovi e
spianavano quindi la strada a una concentrazione del potere nelle mani degli
ecclesiastici. E cosa ancora più importante, il Concilio di Nicea decise, con
una votazione,5 che Gesù era un dio e non un profeta mortale. Ancora
una volta, però, si deve ricordare che a Costantino stava a cuore l'unità e non
la pietà religiosa. Come Dio, Gesù poteva venire opportunamente associato al
Sole Invitto. Come profeta mortale, sarebbe stato più difficile dargli una
collocazione. Insomma, l'ortodossia cristiana si prestava a una fusione
politicamente auspicabile con la religione ufficiale di Stato; e per questo
Costantino le diede il suo appoggio.
E fu così che, un anno dopo il Concilio di Nicea, sanzionò la
confisca e la distruzione di tutte le opere che contestavano gli insegnamenti
ortodossi: le opere degli autori pagani che parlavano di Gesù e quelle dei
cristiani « eretici ». Stabilì inoltre che alla Chiesa fosse assegnata una
rendita fissa, e insediò il vescovo di Roma nel palazzo del Laterano.6
Poi, nel 331 d.C. commissionò e finanziò nuove copie della Bibbia. Questo fu uno
dei fattori decisivi nell'intera storia del cristianesimo, e offrì
un'occasione senza precedenti per l'affermazione dell'ortodossia cristiana dei
« seguaci del messaggio ».
Nel 303 d.C., un quarto di secolo prima, l'imperatore pagano
Diocleziano aveva ordinato di distruggere tutti gli scritti cristiani
394
che era possibile trovare. Quindi i documenti cristiani,
soprattutto a Roma, erano quasi spariti. Quando Costantino commissionò nuove
versioni di questi documenti, ciò permise ai custodi dell'ortodossia di
revisionare, modificare e riscrivere il materiale come ritenevano più
opportuno, secondo le loro dottrine. Fu a questo punto che vennero apportate
probabilmente quasi tutte le alterazioni decisive al Nuovo Testamento, e Gesù
assunse la posizione eccezionale che ha avuto da allora. Non si deve
sottovalutare l'importanza della commissione costantiniana. Delle cinquemila
versioni manoscritte più antiche del Nuovo Testamento, nessuna è anteriore al
IV secolo.7 Il Nuovo Testamento, nella sua forma attuale, è
sostanzialmente il prodotto dei revisori e degli scrittori del IV secolo:
custodi dell'ortodossia, « seguaci del messaggio » con precisi interessi da
difendere.
Gli zeloti
Dopo Costantino, il corso dell'ortodossia cristiana è piuttosto
noto e ben documentato. È superfluo aggiungere che culminò con il trionfo
finale dei « seguaci del messaggio ». Ma se « il messaggio » si affermò come
il principio guida della civiltà occidentale, non rimase del tutto
incontestato. A quanto sembra le rivendicazioni e l'esistenza stessa della
famiglia, che pure era esule e in incognito, esercitarono un grande fascino, un
fascino che finì per rappresentare una frequente minaccia per l'ortodossia di
Roma.
L'ortodossia romana si basa essenzialmente sui libri del Nuovo Testamento.
Ma il Nuovo Testamento non è altro che una selezione di documenti
protocristiani risalenti al IV secolo. Vi sono però molte altre opere- più
antiche del Nuovo Testamento nella sua forma attuale, e alcune gettano una
nuova luce, significativa e spesso polemica, sulle versioni accettate.
Vi sono, ad esempio, i vari libri esclusi dalla Bibbia, che formano
la compilazione oggi conosciuta come « gli Apocrifi ». Alcune delle opere
incluse negli Apocrifi sono indubbiamente tarde, e furono composte nel VI
secolo. Altre, però, erano in circolazione già nel II secolo, e potrebbero
rivendicare una veridicità pari a quella degli stessi Vangeli originali.
Una di queste opere è il Vangelo di Pietro, di cui fu trovata una
395
copia in una valle dell'alto Nilo nel 1886, sebbena venga menzionato
dal vescovo di Antiochia nel 180 d.C. Secondo questo Vangelo « apocrifo »,
Giuseppe d'Arimatea era intimo amico di Ponzio Piiate E se questo fosse vero
accrescerebbe la verosimiglianza di una falsa Crocifissione. Il Vangelo di
Pietro riferisce inoltre che la tomba in cui fu sepolto Gesù si trovava in un
luogo chiamato « il giardino di Giuseppe ». E le ultime parole di Gesù sulla
croce sono particolarmente inquietanti: « Mio potere, mio potere, perché mi hai
abbandonato? ».8
Un'altra opera apocrifa interessante è il Vangelo dell'Infanzia di
Gesù Cristo, non posteriore al II secolo e forse ancora più antico. In questo
libro, Gesù è presentato come un bambino geniale ma eminentemente umano. Forse
fin troppo umano, perché è violento e indisciplinato, portato a sconvolgenti
manifestazioni e a un uso piuttosto irresponsabile dei suoi poteri. Anzi, una
volta uccide un altro bambino che lo ha offeso. La stessa sorte tocca a un
mentore troppo autocratico. Si tratta di episodi indubbiamente spuri; ma
mostrano il modo in cui, a quel tempo, doveva venire rappresentato Gesù perché
acquisisse una posizione divina agli occhi dei suoi seguaci.
Oltre al comportamento piuttosto deplorevole di Gesù bambino, nel
Vangelo dell'Infanzia c'è un episodio curioso e forse significativo. Quando
Gesù venne circonciso, della pelle del prepuzio si sarebbe appropriata una
vecchia non meglio identificata, che la conservò in uno scrigno d'alabastro,
usato per l'olio di nardo. E « questo fu lo scrigno d'alabastro che Maria la
peccatrice si procurò e da esso versò l'unguento sulla testa e i piedi di
nostro Signore Gesù Cristo ».9
Anche qui, dunque, come nei Vangeli canonici, incontriamo
un'unzione che evidentemente è più di quel che sembra: un'unzione equivalente
a un rito significativo. E l'episodio implica una connessione, per quanto
oscura e tortuosa, tra la Maddalena e la famiglia di Gesù molto tempo prima che
Gesù iniziasse il suo magistero all'età di trent'anni. È ragionevole presumere
che i genitori di Gesù non avrebbero consegnato la pelle del suo prepuzio alla
prima vecchia che l'avesse domandata, anche se non vi fosse stato nulla di
insolito in una richiesta apparentemente stranissima. Quindi la vecchia doveva
essere una persona importante,
396
o aveva stretti rapporti con i genitori di Gesù. E il fatto che in
seguito la Maddalena risulti in possesso della bizzarra reliquia, o almeno del
suo contenitore, indica qualche legame tra lei e la vecchia. Ancora una volta,
a quanto pare, ci troviamo di fronte alle vestigia nebulose di qualcosa che era
più importante di quanto in genere oggi si creda.
Certi passi dei Vangeli Apocrifi - ad esempio, gli eccessi clamorosi
dell'infanzia di Gesù - erano senza dubbio imbarazzanti per l'ortodossia dei
tempi successivi. Lo sarebbero certamente per quasi tutti i cristiani dei
nostri giorni. Ma dobbiamo ricordare che gli Apocrifi, come i libri canonici
del Nuovo Testamento, furono composti da « seguaci del messaggio » impegnati a
divinizzare Gesù. Quindi, non possiamo attenderci che gli Apocrifi contengano
qualcosa che comprometterebbe il « messaggio » come lo comprometterebbe
evidentemente ogni accenno all'attività politica di Gesù, e ancor più alle sue
possibili ambizioni dinastiche. Eravamo costretti a cercare altrove le
testimonianze su queste vicende tanto controverse.
La Terrasanta, al tempo di Gesù, ospitava un numero sbalorditivo
di gruppi, fazioni, sette e sottosette. Nei Vangeli ne sono citati soltanto
due, i farisei e i sadducei, ed entrambi vengono presentati in modo negativo.
Tuttavia, il ruolo di malvagi sarebbe stato adatto soltanto ai sadducei, che
collaboravano con l'amministrazione romana. I farisei erano fermamente ostili
a Roma, e lo stesso Gesù, se anche non era fariseo, si comportava sostanzialmente
secondo la loro tradizione.10
Per accattivarsi il pubblico romanizzato, i Vangeli erano costretti
a scagionare Roma e ad accusare gli Ebrei. Questo spiega perché i farisei
furono calunniati, e stigmatizzati insieme ai loro compatrioti veramente colpevoli,
i sadducei. Ma perché nei Vangeli non vengono mai nominati gli zeloti, i «
combattenti della libertà » nazionalisti e rivoluzionari che un pubblico romano
avrebbe visto ben volentieri nella parte dei malvagi? Sembrerebbe che non
esista una spiegazione per la loro apparente esclusione dai Vangeli, a meno che
Gesù fosse legato a loro tanto strettamente che il legame non poteva venire
rinnegato ma semplicemente « dimenticato » e quindi nascosto. Come afferma il
professor Brandon: « II silenzio dei Vangeli circa gli zeloti... deve indicare
397
sicuramente una relazione, tra Gesù e questi patrioti, che gli
evangelisti preferirono non rivelare »."
Qualunque fosse il possibile rapporto tra Gesù e gli zeloti, senza
dubbio venne crocifisso come uno di loro. Anzi, i due uomini che furono
crocifìssi con lui sono esplicitamente qualificati come testai: il
termine usato dai Romani per indicare gli zeloti. È dubbio che Gesù fosse
veramente uno zelota. Tuttavia nei Vangeli, in certi momenti, da prova di un
militarismo aggressivo paragonabile al loro. In un passato tanto famoso quanto
imbarazzante, egli annuncia che è venuto « non per portare la pace, bensì una
spada ». Nel Vangelo di Luca, esorta i suoi seguaci che non hanno una spada a
procurarsene una (Luca 22:36); e poi, personalmente, accerta e approva che
siano armati dopo la cena pasquale (Luca 22:38). Nel Quarto Vangelo, Simon
Pietro porta in effetti una spada, quando Gesù viene arrestato. È difficile
conciliare queste indicazioni con l'immagine convenzionale di un salvatore mite
e pacifista. Questo salvatore avrebbe approvato le armi, soprattutto se a
portarle fosse stato uno dei suoi discepoli prediletti, quello sul quale avrebbe
fondato la sua Chiesa?
Se Gesù non era uno zelota, i Vangeli - quasi contro le loro
intenzioni, si direbbe - rivelano e confermano i suoi legami con quella fazione
militante. La testimonianza che associa Barabba a Gesù è convincente; e anche
Barabba viene descritto come un lestes. Giacomo, Giovanni e Simon Pietro
hanno tutti appellativi che potrebbero alludere obliquamente a simpatie per gli
zeloti, se non a una regolare militanza. Secondo vari autori moderni, Giuda
Iscariota deriva da « Giuda il Sicario », e « sicari » era un altro termine
usato per indicare gli zeloti, ed era intercambiabile con testai. Anzi,
sembra che i sicari formassero un'elite nei ranghi degli zeloti, un corpo
d'assalto di professionisti dell'assassinio politico. E c'è il discepolo
conosciuto come Simone. Nella versione greca di Marco, Simone è chiamato Kananaios,
una translitterazione greca della parola aramaica che significa zelota.
Nella versione inglese della Bibbia di re Giacomo, la parola greca è tradotta
in modo errato, e Simone vi appare come « Simone il Cananeo ». Ma il Vangelo di
Luca non lascia adito a dubbi. Simone è chiaramente identificato come uno
zelota, e persino la Bibbia di re Giacomo lo
398
presenta come « Simone lo Zelota ». Sembra quindi incontestabile
che Gesù avesse almeno uno zelota tra i suoi seguaci.
Se l'assenza - o meglio, l'apparente assenza - degli zeloti nei
Vangeli è sorprendente, lo è anche quella degli egseni. Nella Terrasanta del
tempo di Gesù, gli esseni costituivano una setta importante quanto i farisei e
i sadducei, ed è inconcepibile che Gesù non venisse in contatto con loro. Anzi,
a giudicare dal modo in cui viene presentato, Giovanni Battista sembra un
essenoi L'omissione di ogni riferimento agli esseni appare dettata dalle stesse
ragioni che imposero l'omissione di tutti i riferimenti agli zeloti. Insomma, i
legami tra Gesù e gli esseni, come quelli con gli zeloti, erano probabilmente
troppo stretti e troppo noti perché fosse possibile smentirli. Si poteva
soltanto sorvolare e nasconderli.
Dagli storici e dai cronisti che scrissero in quel tempo, apprendiamo
che gli esseni avevano comunità in tutta la Terrasanta, e probabilmente anche
altrove. Cominciarono ad apparire intorno al 150 a.C, e adottavano l'Antico
Testamento, ma lo interpretavano più come un'allegoria che come una verità
storica letterale. Ripudiavano l'ebraismo convenzionale a favore di una forma
di dualismo gnostico che, sembra, includeva elementi del culto solare e del
pensiero pitagorico. Erano guaritori, molto apprezzati per la loro conoscenza
delle tecniche terapeutiche. E infine erano asceti, e si distinguevano
facilmente per i loro semplici abiti bianchi.
Quasi tutti gli specialisti moderni ritengono che i famosi Rotoli
del Mar Morto scoperti a Qumran siano essenzialmente documenti esseni. E senza
alcun dubbio la setta di asceti che viveva a Qumram aveva molte cose in comune
con il pensiero esseno. Come l'insegnamento degli esseni, i Rotoli del Mar
Morto rispecchiano una teologia dualista. Nel contempo, danno un grande
rilievo alla venuta di un Messia - un « unto » - disceso dalla stirpe di
Davide.12 Inoltre seguono uno speciale calendario, secondo il quale
il rito della Pasqua veniva celebrato non già di venerdì, bensì di mercoledì:
il che corrisponde al rito pasquale di cui si parla nel Quarto Vangelo. E
coincidono parola per parola, in molti aspetti significativi, con alcuni degli
insegnamenti di Gesù. Come minimo, si direbbe che Gesù conoscesse gli eremiti
di Qumran e, almeno fino a un certo punto, armonizzasse i suoi insegnamenti
399
con i loro. Un esperto moderno ritiene che i Rotoli del Mar Morto
« offrono altri motivi per credere che molti episodi [del Nuovo Testamento]
siano semplicemente proiezioni, nella storia di Gesù, dei fatti che ci si
attendeva dal Messia ».13
Indipendentemente dal fatto che la setta di Qumran fosse essena o
no, sembra chiaro che Gesù, anche se non ebbe una regolare preparazione essena,
conoscesse molto bene quel pensiero. Anzi, molti dei suoi insegnamenti
echeggiano quelli ascritti agli esseni. E così pure le sue attitudini di
guaritore fanno pensare a un'influenza essena. Ma un esame più attento dei
Vangeli rivela che gli esseni ebbero forse una parte ancora più significativa
nella vita di Gesù.
Gli esseni si identificavano facilmente per le vesti bianche che,
nonostante quanto mostrano la pittura e il cinema, a quel tempo in Terrasanta
erano meno comuni di quanto in genere si creda. Nel Vangelo « segreto » di
Marco, una veste di lino bianco ha un ruolo rituale importante, e più tardi
ricorre anche nella versione canonica. Se Gesù compiva iniziazioni misteriche
a Betania o altro, la veste di lino bianco fa pensare che tali iniziazioni
avessero carattere esseno. E c'è di più: il motivo della veste di lino bianco
riappare più tardi in tutti i Quattro Vangeli. Dopo la Crocifissione, il corpo
di Gesù scompare « miracolosamente » dalla tomba, nella quale viene visto
almeno un personaggio biancovestito. In Matteo è un angelo che porta un «
vestito bianco come la neve » (28:3). In Marco è « un giovane vestito d'una
veste bianca » (16:5). Luca narra che apparvero « due uomini... in vesti
sfolgoranti » (24:4), mentre il Quarto Vangelo parla di « due angeli in bianche
vesti » (20:12). In due versioni su quattro, al personaggio o ai personaggi
visti nella tomba non viene neppure attribuito un rango sovrannaturale.
Presumibilmente sono semplici mortali; tuttavia si direbbe che i discepoli non
li conoscano. È ragionevole supporre che siano esseni. E se ricordiamo che gli
esseni avevano doti di guaritori, c'è una supposizione che diviene ancora più
sostenibile. Se, quando fu deposto dalla croce, Gesù era ancora vivo, è
evidente che sarebbe stato necessario l'intervento di un guaritore. E anche se
era morto, è probabile che un guaritore sarebbe stato presente comunque, se non
altro come « ultima speranza ». E a quel tempo, in Terrasanta non c'erano
guaritori più stimati degli esseni.
Secondo il nostro « scenario », su un terreno privato e con la
400
collusione di Pilato, una Crocifissione simulata fu organizzata da
certi sostenitori di Gesù. Più precisamente, non sarebbe stata orchestrata dai
« seguaci del messaggio », bensì dai seguaci della stirpe: i familiari,
insomma, altri aristocratici e appartenenti alla cerchia più intima. È
possibile che questi personaggi avessero rapporti con gli esseni, o fossero
esseni loro stessi. Tuttavia, lo stratagemma non sarebbe stato rivelato ai «
seguaci del messaggio », i « soldati semplici » del seguito di Gesù, dei quali
Simon Pietro è il tipico rappresentante.
Gesù, trasportato nella tomba di Giuseppe d'Arimatea, avrebbe
avuto necessità di cure mediche, e quindi sarebbe stato presente un guaritore
esseno. E successivamente, quando si scoprì che la tomba era vuota, sarebbe
stata necessaria la presenza di un emissario: un emissario sconosciuto ai «
soldati semplici ». Avrebbe avuto il compito di rassicurare gli ignari «
seguaci del messaggio », fungere da intermediario tra Gesù e i suoi discepoli,
ed evitare che contro i Romani venissero rivolte accuse di profanazione della
tomba, che avrebbero potuto provocare gravi disordini.
Indipendentemente dal fatto che questo « scenario » fosse esatto
o no, ci sembrava abbastanza evidente che Gesù era associato strettamente agli
esseni non meno che agli zeloti. A prima vista potrebbe apparire strano, perché
spesso si immagina che vi fosse incompatibilità tra zeloti ed esseni. Gli
zeloti erano aggressivi, violenti, militaristi, e non rifuggivano dal praticare
l'assassinio politico e il terrorismo. Gli esseni, invece, spesso vengono
presentati come una setta distaccata dalla politica, quietista, pacifista e
mite. In realtà, invece, c'erano numerosi esseni tra le file degli zeloti,
perché gli zeloti non erano una setta, bensì una fazione politica. E in quanto
fazione politica, reclutavano i loro aderenti non soltanto tra i farisei
antiromani, ma anche tra gli esseni, che sapevano essere aggressivamente
nazionalisti quanto chiunque altro.
L'associazione tra gli zeloti e gli esseni è evidente in
particolare negli scritti di Giuseppe Flavio, dai quali derivano in gran parte
le notizie disponibili oggi sulla Palestina di quei tempi. Joseph ben Matthias
era nato nel 37 d.C. e apparteneva all'aristocrazia giudaica. All'inizio della
rivolta del 66 d.C. fu nominato governatore della Galilea, dove assunse il
comando delle forze schierate contro
401
i Romani. Come comandante militare si rivelò, sembra, molto
inetto, e molto presto fu catturato dall'imperatore romano Vespasiano. Diventò
poi collaborazionista. Assunse il nome romanizzato di Giuseppe Flavio, divenne
cittadino romano, divorziò dalla moglie e sposò un'ereditiera romana, e accettò
ricchi doni dall'imperatore romano, inclusi un appartamento nel palazzo
imperiale e terreni confiscati agli Ebrei in Terrasanta. Le sue copiose cronache
incominciarono ad apparire poco prima della sua morte, avvenuta nellOOd.C.
Nella Guerra giudaica, Giuseppe Flavio fa un resoconto
dettagliato dell'insurrezione del 66-74 d.C. Anzi, fu appunto da Giu^ seppe
che gli storici successivi appresero quasi tutto ciò che si sa circa quella
rivolta disastrosa, il sacco di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. E
l'opera di Giuseppe contiene l'unico resoconto della caduta (74 d.C.) della
fortezza di Masada, situata all'angolo sud-occidentale del Mar Morto.
Come Montségur dodici secoli dopo, Masada è diventata un simbolo
di tenacia, di eroismo e di martirio in difesa di una causa perduta. Come
Montségur, continuò a resistere all'invasore per molto tempo, dopo che ogni
altra resistenza organizzata era finita. Mentre il resto della Palestina
crollava sotto l'attacco di Romani, Masada rimase inespugnabile. Alla fine, nel
74 d.C, la posizione divenne insostenibile. Dopo un prolungato bombardamento
con le macchine d'assedio, i Romani installarono una rampa che li mise in grado
di sfondare le difese. La notte del 15 aprile si prepararono all'assalto
decisivo. La stessa notte tutti coloro che restavano nella fortezza, 960
persone tra uomini, donne e bambine, si suicidarono. Quando i Romani, al
mattino seguente, sfondarono le porte, trovarono soltanto i cadaveri tra le
fiamme.
Giuseppe accompagnò le truppe romane che entrarono nel guscio
svuotato di Masada la mattina del 16 aprile. Afferma di aver visto con i suoi
occhi tutti quei morti. E afferma di aver parlato con tre superstiti del
disastro, una donna e due bambini che si erano nascosti nelle gallerie
sotterranee della fortezza mentre gli altri difensori si uccidevano. Dai
superstiti, Giuseppe venne a sapere dettagliatamente ciò che era accaduto nella
notte. Secondo questo racconto il comandante della guarnigione si chiamava
Eleazar: una variante di Lazzaro, e questo è piuttosto interessan-
402
te. E a quanto sembra era
stato Eleazar che, con la sua eloquenza persuasiva e carismatica, aveva spinto
i difensori a prendere la tragica decisione. Nella sua cronaca, Giuseppe
riporta i discorsi di Eleazar, che afferma di aver appreso dai superstiti.
Questi discorsi sono estremente interessanti. La storia riferisce che Masada
era difesa da zelo ti militanti. Lo stesso Giuseppe usa le parole « zeloti » e
« sicari » come intercambiabili. Tuttavia i discorsi di Eleazar non hanno
neppure un convenzionale carattere giudaico. AI contrario, sono
inequivocabilmente esseni, gnostici e dualisti:
Da gran tempo, infatti, e
sin da quando la nostra mente ha cominciato ad aprirsi, la disciplina
tradizionale e i precetti divini ci hanno sempre insegnato - e i nostri avi ce
l'hanno confermato con il loro agire e con il loro pensare - che per gli uomini
è una disgrazia vivere, non morire. La morte infatti, donando la libertà alle
anime, fa sì che esse possano raggiungere quel luogo di purezza che è la loro
sede propria, dove andranno esenti da ogni calamità, mentre finché sono
prigioniere in un corpo mortale, schiacciate sotto il peso dei suoi malanni,
allora sì che esse son morte, se vogliamo dire il vero; infatti il divino mal
s'adatta a coesistere col mortale. Senza dubbio, grandi cose può realizzare
l'anima anche quando è prigioniera di un corpo; essa infatti fa di questo il
suo organo di percezione e invisibilmente lo muove e lo guida a compiere opere
che vanno al di là della sua natura mortale; ma una volta che, affrancata dal
peso che la trascina in basso verso la terra e ve la tiene avvinta, essa
raggiunge la sua sede naturale, allora partecipa di un potere straordinario e
di una forza che non patisce alcuna limitazione, continuando ad essere
invisibile agli occhi umani come lo stesso Dio. Essa infatti non è visibile
nemmeno quando abita in un corpo: invisibilmente vi entra e invisibilmente se
ne allontana, e mentre per sé conserva la sua identica natura incorruttibile,
provoca la trasformazione del corpo. Tutto ciò che è toccato dall'anima vive e
fiorisce, tutto ciò da cui essa si diparte avvizzisce e muore: così grande è
la sua carica d'immortalità!14
E ancora:
Costoro [1 filosofi indiani]
infatti, ed è gente di prim'ordine, sopportano a malincuore il periodo della
vita come un debito da pagare alla natura, e non vedono l'ora di liberare le
anime dai corpi; senza che alcun male li affligga o li costringa ad andarsene,
presi dal desiderio della vita immortale, preannunziano agli altri di essere
prossimi alla dipartita.15
È straordinario che nessuno studioso, a quanto ci risulta, abbia
mai commentato questi discorsi, perché sollevano una quantità di interrogativi
interessanti. La religione ebraica ortodossa, ad esempio, non parla mai di un'«
anima », e tanto meno di un'anima
403
« immortale » e « imperitura ». Anzi, il concetto dell'anima e
dell'immortalità è estraneo alla corrente principale del pensiero e della
tradizione ebraica. E altrettanto estranee sono la supremazia dello spirito
sulla materia, l'unione con Dio al momento della morte e la condanna della vita
come un male. Queste concezioni derivano in modo inequivocabile da una
tradizione misterica. Sono chiaramente gnostiche e dualiste; e nel contesto di
Masada sono tipicamente essene.
Alcune di queste concezioni, naturalmente, possono essere
considerate in un certo senso « cristiane »; non inevitabilmente nel modo in
cui il termine venne a definirsi in seguito, ma nel senso in cui avrebbe potuto
riferirsi ai primi seguaci di Gesù, ad esempio coloro che desideravano morire
con Lazzaro nel Quarto Vangelo. È possibile che tra i difensori di Masada vi
fossero sostenitori della stirpe di Gesù. Durante la rivolta del 66-74 d.C. vi
furono numerosi « cristiani » che combatterono contro i Romani con lo stesso
accanimento degli Ebrei. Molti zeloti, anzi, potrebbero essere chiamati «
protocristiani », ed è molto probabile che alcuni di loro fossero a Masada.
Naturalmente, questo Giuseppe nonio dice; e anche se l'avesse
detto, il riferimento sarebbe stato espunto in seguito dai revisori. Nel
contempo, sarebbe logico attendersi che Giuseppe, scrivendo una storia della
Palestina durante il I secolo, accenni a Gesù. Certo, molte edizioni più tarde
della sua opera contengono riferimenti del genere; ma sono conformi al
personaggio di Gesù come viene presentato dall'ortodossia, e quasi tutti gli
studiosi moderni li considerano interpolazioni spurie, non anteriori al tempo
di Costantino. Tuttavia, nel XIX secolo fu scoperta in Russia un'edizione
diversa da tutte le altre. Il testo, tradotto in russo antico, risaliva
approssimativamente al 1261. L'uomo che lo trascrisse, evidentemente, non era
un ebreo ortodosso, perché conservò molte allusioni « filocristiane ». Eppure
Gesù, in questa versione dell'opera di Giuseppe, è presentato come umano; è un
rivoluzionario politico e un « re che non regnò ».16 E inoltre
viene detto che « aveva una scriminatura come i nazirei ».17
Gli specialisti hanno consumato molta carta e molta energia per
discutere la possibile autenticità di quello che oggi è chiamato il « Giuseppe
slavò ». Tutto considerato, noi eravamo propensi a
404
ritenerlo più o meno autentico: una trascrizione tratta da una o
più copie di Giuseppe sopravvissute alla distruzione dei documenti cristiani
ordinata da Diocleziano e sfuggite alla zelo censorio dell'ortodossia
reinsediata al tempo di Costantino. Le ragioni della nostra conclusione sono
numerose. Se il Giuseppe slavo fosse un falso, ad esempio, quali interessi avrebbe
dovuto servire? La presentazione di Gesù come un re difficilmente sarebbe stata
gradita a un pubblico ebreo del XIII secolo. E la presentazione di Gesù come
umano sarebbe stata ancora meno gradita ai cristiani della stessa epoca. Ma c'è
di più: Origene, un padre della Chiesa che scrisse all'inizio del IH secolo,
allude a una versione di Giuseppe che nega a Gesù il ruolo di Messia.18
Questa versione, che forse era originale e autentica, potrebbe aver fornito il
testo del Giuseppe slavo.
Gli scritti gnostici
L'insurrezione del 66-74 d.C. fu seguita sessant'anni dopo, tra il
132 e il 135, da una seconda grande rivolta. La conseguenza fu che tutti'gli
Ebrei vennero ufficialmente espulsi da Gerusalemme, e questa diventò una città
romana. Ma già al tempo della prima ribellione la storia aveva cominciato a
tirare un velo sugli avvenimenti della Terrasanta; e per altri due secoli non
esiste virtualmente nessuna documentazione. Quel periodo non è diverso da
certi momenti della storia d'Europa durante i cosiddetti « secoli bui ». Si sa
comunque che numerosi Ebrei rimasero nel territorio, anche se non a
Gerusalemme. Vi rimasero anche molti cristiani. E c'era persino una setta di
Ebrei, gli ebioniti, che pur attenendosi in generale alla loro fede, onoravano
Gesù come un profeta - per quanto mortale.
Ma il vero spirito del giudaismo e del cristianesimo si allontanò
dalla Terrasanta. Quasi tutta la popolazione ebraica della Palestina si
disperse in una diaspora simile a quella avvenuta circa settecento anni prima,
quando Gerusalemme era stata conquistata dai Babilonesi. E anche il
cristianesimo cominciò a emigrare attraverso il globo: in Asia Minore, in
Grecia, a Roma, in Gallia, in Britannia, nell'Africa settentrionale. Non è
affatto sorprendente che in tutto il mondo civile incominciassero a spuntare
versioni
405
contrastanti di ciò che era accaduto intorno al 33 d.C. E nonostante
gli sforzi di Clemente d'Alessandria, Ireneo e altri come loro, queste
versioni, bollate ufficialmente come « eresie », continuarono a fiorire.
Alcune derivavano senza dubbio da una conoscenza diretta, conservata tanto da
Ebrei ortodossi quanto da gruppi come gli ebioniti, Ebrei convcrtiti a una
forma di cristianesimo. Altre versioni erano chiaramente basate su leggende e
voci, sulla mescolanza di dottrine in voga come le tradizioni misteriche egizie,
ellenistiche e mitraiche. Quali che fossero le loro fonti precise, causavano
gravi inquietudini ai « seguaci del messaggio », l'ortodossia in fase di
formazione che si sforzava di consolidare la propria posizione.
Le notizie sulle « eresie » più antiche sono scarse. La conoscenza
che ne abbiamo noi moderni deriva soprattutto dagli attacchi dei loro
avversari, e questo naturalmente ne da un quadro distorto: come, per esempio,
l'immagine della Resistenza francese che potrebbe scaturire dai documenti della
Gestapo. Nel complesso, tuttavia, sembra che Gesù venisse visto dai primi «
eretici » in uno dei due modi seguenti; Per alcuni era un dio vero e proprio,
con pochi o punti attributi umani. Per altri era un profeta mortale,
sostanzialmente non diverso dal Budda, o da Maometto che venne mezzo millennio
più tardi.
Uno dei primi eresiarchi fu Valentino, nato ad Alessandria, che
trascorse a Roma l'ultima parte della sua vita (136-65 d.C). Ai suoi tempi,
Valentino era molto influente, e1 tra i suoi seguaci contava uomini
come Tolomeo. Affermando di avere in suo possesso un corpus di «
insegnamenti segreti » di Gesù, rifiutava di sottomettersi all'autorità di
Roma, e affermava che la gnosi personale aveva la precedenza su ogni
gerarchia. Logicamente, Valentino e i suoi seguaci furono tra i bersagli
prediletti degli strali di Ireneo.
Un altro bersaglio fu Marcione, vescovo e ricco armatore, che
arrivò a Roma intorno al 140 e quattro anni dopo fu scomunicato. Marcione
propugnava una distinzione radicale tra « legge » e « amore », che associava
rispettivamente all'Antico e al Nuovo Testamento; e alcune di queste idee
marcionite riaffiorarono ben mille anni più tardi in opere come il Perlesvaus.
Marcione fu il primo scrittore che compilò un elenco canonico dei libri
della
406
Bibbia, un elenco che escludeva tutto l'Antico Testamento. Fu
appunto per rispondere a Marcione che Ireneo compilò il suo canone, divenuto
poi la base della Bibbia quale la conosciamo oggi-li terzo grande eresiarca di
quel periodo e, sotto molti aspetti, il più sconcertante, fu Basilide, uno
studioso alessandrino che scrisse tra il 120 e il 130 d.C. Basilide conosceva
molto bene tanto le scritture ebraiche quanto i Vangeli cristiani. Inoltre,
conosceva altrettanto bene il pensiero egizio ed ellenistico. Si ritiene che
abbia scritto non meno di ventiquattro commenti ai Vangeli. Secondo Ireneo,
propugnava un'eresia terribile. Basilide affermava che la Crocifissione era
una frode, che Gesù non era morto sulla croce, e che il suo posto era stato
preso da un sostituto, Simone di Cirene.19 Questa affermazione
sembrerebbe molto bizzarra. Tuttavia si dimostrò straordinariamente tenace e
longeva. Ancora nel VII secolo, il Corano sosteneva esattamente la stessa cosa:
un sostituto, che secondo la tradizione sarebbe stato Simone di Cire-ne, aveva
preso il posto di Gesù sulla croce.20 E lo sfesso argomento era
sostenuto dall'ecclesiastico anglicano che ci aveva inviato la lettera
misteriosa di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, la lettera che alludeva
alla « prova incontrovertibile » della sostituzione.
Se c'era una regione dove erano particolarmente radicate le eresie
più antiche, questa era l'Egitto, anzi più esattamente Ales-sandria, la più
colta e cosmopolita città del mondo, a questi tempi, la seconda in ordine di
grandezza in tutto l'Impero romano, e crogiolo di una sbalorditiva varietà di
dottrine, insegnamenti e tradizioni. Dopo le due rivolte in Giudea, l'Egitto fu
il rifugio più accessibile per i profughi ebrei e cristiani, molti dei quali si
stabilirono ad Alessandria. Non è quindi sorprendente che proprio l'Egitto
fornisse la prova più convincente a sostegno della nostra ipotesi, contenuta
nei cosiddetti Vangeli gnostici o, più esattamente, nei Rotoli di Nag Hammadi.
Nel dicembre 1945 un contadino egiziano, mentre scavava in cerca
di terriccio fertile nei pressi del villaggio di Nag Hammadi nell'Alto Egitto,
scoprì una giara di terracotta. Conteneva tredici codici - libri o rotoli di
papiro - rilegati in pelle. Ignari dell'importanza della scoperta, il
contadino e i suoi familiari usarono alcuni
407
di quei codici per accendere il fuoco. Alla fine, comunque, quelli
superstiti attirarono l'attenzione degli esperti; e uno, esportato
clandestinamente dall'Egitto, fu offerto in vendita al mercato nero. Una parte
di questo codice, che fu acquistata dalla Fondazione C. G. Jung, conteneva
l'ormai famoso Vangelo di Tommaso.
Intanto il governo egiziano, nel 1952, nazionalizzò quanto restava
dei Rotoli di Nag Hammadi. Solo nel 1961, tuttavia, venne riunita una
commissione internazionale di esperti per copiare e tradurre tutto il
materiale. Nel 1972 apparve il primo volume dell'edizione fotografica. E nel
1977 l'intera collezione dei rotoli apparve per la prima volta in traduzione
inglese.
I Rotoli di Nag Hammadi sono una raccolta di testi biblici a
carattere sostanzialmente gnostico, che risalgono alla fine del IV secolo o
all'inizio del V, intorno al 400 d.C. Sono copie, e gli originali risalgono a
date molto anteriori. Alcuni - ad esempio il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di
Verità e il Vangelo degli Egizi - sono menzionati dai primissimi padri della
Chiesa, come Clemente d'Alessandria, Ireneo e Origene. I filologi hanno
accertato che .alcuni dei testi contenuti nei rotoli, se non tutti, non sono
posteriori al 150 d.C. E almeno uno di essi può includere materiale ancora più
antico dei quattro Vangeli canonici del Nuovo Testamento.21
Presa nel suo insieme, la raccolta di Nag Hammadi costituisce un
repertorio inestimabile di documenti protocristiani, alcuni dei quali possono
vantare un'autorità eguale a quella dei Vangeli. E c'è di più: alcuni di questi
documenti possono rivendicare una veridicità assolutamente unica. Innanzi
tutto, sfuggirono alla cen-sura e alle revisioni dell'ortodossia romana. In
secondo luogo, erano stati composti per un pubblico egiziano e non romano, e
quindi non sono alterati e modificati in senso filoromano. Infine, è possibile
che si basino su fonti di prima mano o su testimonianze oculari, ad esempio su
racconti orali di Ebrei fuggiti dalla Terra-santa, che forse avevano conosciuto
personalmente Gesù e potevano dare la loro versione con una fedeltà storica
che i Vangeli non potevano permettersi di rispettare.
Non è sorprendente che i Rotoli di Nag Hammadi contengano parecchi
passi ostili all'ortodossia e ai « seguaci del messaggio ». In un codice non
datato, il Secondo trattato del Grande Seth, ad
408
esempio, Gesù viene presentato esattamente come nell'eresia di
Basilide: sfugge alla morte sulla croce grazie a un'ingegnosa sostituzione.
Nel passo che riportiamo. Gesù parla in prima persona:
Io non soccombetti a loro come essi intendevano... E non morii in
realtà ma solo in apparenza, perché essi non gettassero vergogna su di me...
Perché la mia morte, che essi credono avvenisse [avvenne] a loro, nel loro
errore e cecità, poiché inchiodarono a morire il loro uomo... Fu un altro, il
loro padre, che bevve il fiele e l'aceto; non fui io. Essi mi percossero con la
canna; fu un altro, Simone, che portò la croce sulle spalle. Fu un altro, colui
al quale imposero la corona di spine... E io ridevo della loro ignoranza.22
Con coerenza convincente, altre opere della raccolta di Nag
Hammadi attestano un dissidio accanito e protratto fra Pietro e la Maddalena:
un dissidio che sembra rispecchiare uno scisma tra i « seguaci del messaggio »
e i seguaci della stirpe. Nel Vangelo di Maria, Pietro si rivolge alla
Maddalena con queste parole: « Sorella, noi sappiamo che il Salvatore ti amava
più di ogni altra donna. Rivelaci le parole del Salvatore che tu ricordi... che
tu conosci e che noi non conosciamo ».21 Più tardi, Pietro chiede
indignato agli altri discepoli: « Davvero egli parlava privatamente a una donna
e non apertamente a noi? Dobbiamo tutti volgerci ad ascoltarla? La preferiva a
noi? ».24 E ancora più avanti, uno dei discepoli risponde a Pietro:
« Sicuramente il Salvatore la conosce molto bene. Per questo l'amava più di noi
».25
Nel Vangelo di Filippo, la ragione del dissidio appare evidente.
Ad esempio, ricorre con insistenza l'immagine della camera nuziale. Secondo il
Vangelo di Filippo, « il Signore fece tutto in un mistero, un battesimo e una
cresima e un'eucarestia e una redenzione e una carriera nuziale ».26
Certo, la camera nuziale, a prima vista, può sembrare simbolica o allegorica.
Ma il Vangelo di Filippo è più esplicito: « Vi erano tre che camminavano sempre
con il Signore: Maria sua madre, e la sorella di questa, e Maddalena, colei
che era chiamata la sua compagna ».27 Secondo un filologo, la
parola « compagna » deve essere tradotta « sposa ».28 I motivi per
farlo ci sono, perché il Vangelo di Filippo diventa più esplicito ancora:
E la compagna del Salvatore è Maria Maddalena. Ma Cristo l'amava
più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca. Gli altri discepoli
erano
409
offesi ed esprimevano
disapprovazione. Gli dissero: « Perché tu l'ami più di tutti noi? ». E il
Salvatore rispose: « Perché non amo voi come amo lei? ».*>
Il Vangelo di Filippo spiega: « Non temete la carne e non amatela.
Se la temete, vi dominerà. Se l'amate, vi inghiottirà e vi paralizzerà ».30
In un altro punto, questa elaborazione viene tradotta in termini concreti: «
Grande è il mistero del matrimonio! Perché senza di esso il "mondo non
sarebbe esistito. Ora, l'esistenza del mondo dipende dall'uomo, e l'esistenza
dell'uomo dal matrimonio »,31 E verso la conclusione dello stesso
Vangelo di Filippo c'è questa affermazione: « Vi è il Figlio dell'uomo e vi è
il figlio del Figlio dell'uomo. II Signore è il Figlio dell'uomo, e il figlio
del Figlio dell'uomo è colui che è creato tramite il Figlio dell'uomo ».32
Note
1 Eisler, Messiah Jesus, pp. 606 sgg.
2 Chadwick, The Early Church, p. 125.
3 Goodenough, Jewish Symbols, voi. 7,
pp. 178 sgg.
4 Cfr. Halsberghe, The Cult ofSol Invictus. L'autore
spiega che il culto fu introdotto a Roma nel III secolo d.C. dall'imperatore
Eliogabalo. Quando Aureliano operò la sua riforma religiosa, si trattò di un
ristabilimento del culto del Sole Invitto nella forma in cui era stato
introdotto.
5 218 voti favorevoli, 2 contrari. Il Figlio fu
quindi dichiarato identico al padre.
6 Solo a partire dal 384 il vescovo di Roma
assunse il titolo di « papa ».
7 C'è la possibilità, tuttavia, che ne vengano scoperti
altri. Nel 1976 un cospicuo numero di antichi manoscritti fu scoperto nel
monastero di Santa Caterina sul monte Sinai. Il ritrovamento venne tenuto
segreto per circa due anni, prima che nel 1978 ne avesse notizia un giornale
tedesco. Vi sono migliaia di frammenti, alcuni dei quali anteriori al 300 d.C,
incluse otto pagine mancanti nel Codex Sinaiticus custodito nel British
Museum. I monaci che conservano il materiale hanno accordato accesso soltanto
a uno o due studiosi greci. Cfr. « International Herald Tribune » (27 aprile
1978).
8 Vangelo di Pietro, 5:5.
9 Vangelo dell'Infanzia di Gesù Cristo, 2:4.
10 Maccoby, Revolution in Judaea, p. 129.
L'autore aggiunge che la presentazione di Gesù come antifariseo
faceva probabilmente parte del tentativo di mostrarlo come un ribelle contro la
religione ebraica, anziché contro la dominazione romana.
410
1 '
Brandon, Jesus and thè Zealots, p. 327. Cfr. inoltre Vermes, Jesus
theJew, p. 50: « Zelota o no, Gesù fu indubbiamente accusato, giudicato e
condannato come se Io fosse ».
12 Allegro, DeadSea Scrolls, p. 167.
13 Ibid.,p. 175.
14 Josephus, Jewish Was, p. 387'Ed. it. Flavio
Giuseppe, La guerra giudaica, libro VII, cap, 8, Milano 1974.
15 Ibid.,p. 387.Trad.it. ibid.
16 Ibid., Appendice, p. 400.
17 Eisler, Messiah Jesus, p. 427.
18 Ibid., p. 167.
19 Ireneo, Pive Books... against Heresies, traduzione
inglese dei Cinque libri di Ireneo, p. 73.
20 Corano, 4:157. Cfr. inoltre
Parrinder, Jesus in thè Qur'an, pp. 108 sgg.
21 Pagels, Gnostic Gospels, pp. xvi sgg.
Trad. it. / Vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi,
Milano 1981.
22 The Second Treatise of thè Great Seth, in
Robinson, J., NagHammadiLibrary in English, p. 332.
23 The Gospel of Mary, in Robinson, J., Nag
Hammadi Library in English, p. 472.
24 Ibid., p. 473
25 Ibid.
26 The Gospel of Philip, in Robinson, J., Nag
Hammadi Library in English, p. 140.
27 Ibid., pp. 135 sgg.
28 Phipps, Was Jesus Marrìed?, pp. 136
sgg.
29 The Gospel of Philip, in Robinson, J., Nag
Hammadi Library in English, p. 138.
30 Ibid., p. 139.
31 Ibid.
32 Ibid.,p. 148.
411
XIV
La dinastia del Graal
Già in base ai soli Rotoli di Nag Hammadi, la possibilità di una
stirpe discesa direttamente da Gesù acquistava ai nostri occhi una
considerevole plausibilità. Alcuni dei cosiddetti Vangeli gnostici potevano
rivendicare un'attendibilità non inferiore a quella dei libri del Nuovo
Testamento. Di conseguenza, le cose di cui rendevano testimonianza esplicita o
implicita - un sostituto sulla croce, un dissidio continuo tra Pietro e la
Maddalena, il matrimonio tra la Maddalena e Gesù, la nascita di un « figlio del
Figlio dell'Uomo » - non potevano venire accantonate con disinvoltura, per
quanto apparissero polemiche e controverse. Avevamo a che fare con la storia,
non con la teologia. E al tempo di Gesù la storia non era meno complessa,
sfaccettata e pratica di quanto lo sia ora.
Il dissidio tra Pietro e la Maddalena, nei Rotoli di Nag Hammadi,
attestava apparentemente il conflitto ipotizzato da noi, il conflitto tra i «
seguaci del messaggio » e i seguaci della stirpe. Ma furono i primi a uscirne
vittoriosi e a plasmare il corso della civiltà occidentale. Poiché acquisirono
un crescente monopolio sulla cultura, le comunicazioni e la documentazione,
rimasero scarsissimi indizi che suggerissero l'esistenza della famiglia di
Gesù. E c'erano anche meno indizi che potessero stabilire un legame tra quella
famiglia e la dinastia merovingia.
Neppure i « seguaci del messaggio » ebbero partita completamente
vinta. Se i primi due secoli della storia del cristianesimo furono
caratterizzati da eresie indomabili, i secoli che seguirono lo furono ancora di
più. Mentre l'ortodossia si consolidava - sotto Ireneo da un punto di vista
teologico, sotto Costantino da un
412
punto di vista politico - le eresie continuarono a proliferare in
misura senza precedenti.
Per quanto fossero diverse nei dettagli teologici, quasi tutte le
eresie più importanti avevano in comune certi fattori fondamentali. Quasi
tutte erano essenzialmente gnostiche o risentivano dell'influenza gnostica,
ripudiavano la struttura gerarchica di Roma ed esaltavano la superiorità
dell'illuminazione personale rispetto alla fede cieca. Inoltre, molte erano
dualiste, in un senso o nell'altro, e consideravano il bene e il male non tanto
come problemi etici terreni, bensì come princìpi d'importanza cosmica. E
ancora, molte concordavano nel considerare Gesù come un mortale, nato da un
processo naturale di concezione, un profeta forse ispirato da Dio ma non
intrinsecamente divino, che morì definitivamente sulla croce, o che non morì
affatto sulla croce. NelPinsistere sull'umanità di Gesù, molte eresie si
richiamavano all'augusta autorità di san Paolo, il quale aveva parlato di «
Gesù Cristo nostro Signore, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne »
(Romani 1:3).
L'eresia forse più famosa e profondamente radicale fu il manicheismo,
che fondeva il cristianesimo gnostico con vari filoni delle preesistenti
tradizioni zoroastriane e mitraiche. Fu fondato da un certo Mani, nato presso
Baghdad nel 214 d.C. da una famiglia imparentata con la casa reale persiana. In
gioventù, Mani fu introdotto dal padre in una setta mistica imprecisata -
probabilmente gnostica - che esaltava l'ascetismo e il celibato, praticava il
battesimo e adottava abiti bianchi. Intorno al 240 Mani cominciò a diffondere i
propri insegnamenti e, come Gesù, divenne famoso per le sue guarigioni
spirituali e i suoi esorcismi. I suoi seguaci Io proclamavano « il nuovo Gesù »
e affermavano che era nato da madre vergine: un requisito necessario per le
divinità di quei tempi. Mani era conosciuto anche come « Salvatore », « Apostolo
», « Illuminatore », « Signore », « Risuscitatore dei morti », « Pilota » e«
Timoniere ». Le ultime due designazioni sono particolarmente indicative,
perché corrispondono a « Nautonnier », il titolo ufficiale del Gran maestro del
Priorato di Sion.
Secondo gli storici arabi di periodi più tardi, Mani scrisse molti
libri in cui sosteneva di rivelare segreti ai quali Gesù aveva accennato
soltanto in modo oscuro e obliquo. Considerava suoiprecur-
413
sori Zaratustra, il Budda e Gesù, e dichiarava che come loro aveva
ricevuto essenzialmente la stessa illuminazione dalla stessa fonte. I suoi
insegnamenti consistevano di un dualismo gnostico unito a un imponente,
complesso edificio cosmologico. Ogni cosa era pervasa dal conflitto universale
tra la luce e la tenebra; il principale campo di battaglia di questi due
princìpi opposti era l'anima umana. Come i Catari venuti dopo di lui, Mani
abbracciava la dottrina della reincarnazione. E come i Catari, attribuiva
grande importanza a una classe di iniziati, di « eletti illuminati ». Chiamava
Gesù « il Figlio della Vedova », un'espressione adottata successivamente dalla
massoneria. Nel contempo, affermava che Gesù era mortale o, se era divino, lo
era soltanto in un senso simbolico o metaforico, grazie all'illuminazione. E
Mani, come Basilide, sosteneva che Gesù non era morto sulla croce, ma era
stato rimpiazzato da un sostituto. '
Nel 276, per ordine del re, Mani fu imprigionato, flagellato a
morte, scuoiato e decapitato; e forse per evitare una resurrezione, il suo
corpo mutilato fu esposto in pubblico. Ma i suoi insegnamenti acquisirono
slancio dopo il martirio; e tra i suoi seguaci, più tardi, almeno per qualche
tempo vi fu lo stesso sant'Agostino. Con straordinaria rapidità, il manicheismo
si diffuse in tutto il mondo cristiano. Nonostante i feroci tentativi di
sopprimerlo, riuscì a sopravvivere, a influenzare molti pensatori, e a
protrarsi fino ai tempi nostri. C'erano scuole manichee particolarmente attive
in Spagna e nella Francia meridionale. Prima delle Crociate, queste scuole
strinsero legami con altre sette manichee in Italia e in Bulgaria. Oggi appare
improbabile che i Catari derivassero dai Bogomil bulgari. Al contrario, le
ricerche più recenti indicano che i Catari derivarono da scuole manichee
insediate da molto tempo in Francia. In ogni caso, la Crociata contro gli
Albigesi fu sostanzialmente una crociata contro il manicheismo; e nonostante
gli assidui sforzi di Roma, il termine « manicheo » è sopravvissuto ed è
entrato a far parte del linguaggio comune.
Naturalmente, oltre al manicheismo, c'erano molte altre eresie.
Tra tutte, fu quella di Ario che finì per costituire il pericolo più grave per
la dottrina cristiana ortodossa durante il primo millennio della sua storia.
Ario era un presbyter (prete) di Alessandria intorno al 318, e morì nel
335. Il suo dissidio con l'ortodossia era
414
semplicissimo, e si basava su un'unica premessa: Gesù era interamente
mortale, non era divino in nessun senso, e non era altro che un maestro
ispirato,
Postulando un unico Dio supremo e onnipotente, un Dio che non si
incarnava e non subiva l'umiliazione e la morte a opera delle sue creature,
Ario inseriva il cristianesimo in una cornice sostanzialmente giudaica. Può
darsi che, risiedendo ad Alessandria, fosse stato influenzato da insegnamenti
giudaici diffusi nella città, ad esempio gli insegnamenti degli ebioniti. Nel
contempo, il Dio supremo delParianesimo esercitava un richiamo immenso sull'Occidente.
Via via che il cristianesimo acquisiva un crescente potere secolare, questo Dio
diveniva più convincente. I re e i potentati riuscivano a identificarsi con lui
più facilmente di quanto fossero disposti a identificarsi con una divinità mite
e passiva che aveva subito il martirio senza opporre resistenza e aveva evitato
i contatti con il mondo.
Benché I'arianesimo venisse condannato al Concilio di Nicea nel
325, Costantino l'aveva sempre avuto in simpatia, e questa simpatia si accentuò
verso la fine della sua vita. Quando morì, Costanzo, suo figlio e successore,
divenne apertamente ariano; e sotto i suoi auspici si tennero concili che
costrinsero all'esilio i capi della Chiesa ortodossa. Nel 360 I'arianesimo
aveva soppiantato quasi del tutto il cristianesimo. E sebbene venisse di nuovo
condannato ufficialmente nel 381, continuò a prosperare e ad acquisire
seguaci. Quando, nel V secolo, i Merovingi presero il potere, virtualmente ogni
diocesi della cristianità era ariana o vacante.
Fra i più fervidi seguaci dell'arianesimo c'erano i Goti, che si
erano convertiti a questa fede, abbandonando il paganesimo, durante il IV
secolo. Gli Svevi, i Longobardi, gli Alani, i Vandali, i Burgundi e gli
Ostrogoti erano tutti ariani. E lo erano anche i Visigoti che, quando
saccheggiarono Roma nel 480, risparmiarono le chiese cristiane. Se prima di
Clodoveo i Merovingi avevano qualche propensione per il cristianesimo, doveva
trattarsi del cristianesimo ariano dei loro vicini, i Visigoti e i Burgundi.
Sotto gli auspici dei Visigoti, I'arianesimo divenne la forma di
cristianesimo predominante in Spagna, nei Pirenei e in quella che è oggi la
Francia meridionale. Se la famiglia di Gesù trovò veramente rifugio in Gallia,
nel V secolo viveva in un territorio signo-
reggiato dai Visigoti ariani. Ed è improbabile che venisse perseguitata,
sotto il regime ariano. Anzi, è molto probabile che venisse tenuta in grande
onore, e che concludesse alleanze matrimoniali con la nobiltà visigota, prima
di concluderne altre con i Franchi per produrre i Merovingi. E grazie alla
protezione dei Visigoti, doveva essere al sicuro da tutte le minacce da parte
di Roma. Perciò non deve sorprendere che i nomi inequivocabilmente semitici -
come Bera - s'incontrino tra i nobili e i re dei Visigoti. Dagoberto II sposò
una principessa visigota il cui padre si chiamava Bera. Il nome Bera ricorre
ripetutamente nell'albero genealogico della famiglia visigoto-merovingia
discesa da Dagoberto II e Sigisberto IV.
La Chiesa di Roma, a quanto si dice, affermò che il figlio di
Dagoberto s'era convcrtito all'arianesimo;2 e non sarebbe affatto
strano. Nonostante il patto tra la Chiesa e Clodoveo, i Merovingi avevano
sempre avuto simpatia per l'arianesimo. Uno dei nipoti di Clodoveo, Chilperico,
non faceva mistero delle sue tendenze ariane.
Se l'arianesimo non era ostile al giudaismo, non lo era neppure
all'Isiam, che sorse così fulmineamente nel VII secolo. L'idea che gli ariani
avevano di Gesù era in piena armonia con quella del Corano. Nel Corano, Gesù
viene nominato non meno di trentacinque volte, e chiamato con appellativi
deferenti, inclusi « Messaggero di Dio » e « Messia ». Tuttavia, viene
considerato un profeta mortale, precursore di Maometto e portavoce dell'unico
Dio supremo. E come Basilide e Mani, il Corano afferma che Gesù non morì sulla
croce: « Non lo uccisero, non lo crocifissero, ma credettero di farlo ».3
Il Corano non spiega questa affermazione ambigua; ma'lo fanno i commentatori
islamici. Secondo la maggioranza, ci fu un sostituto che spesso, sebbene non
sempre, viene indicato in Simone di Cirene. Certi autori musulmani dicono che
Gesù, nascosto in una nicchia, assistette alla Crocifissione del sostituto. E
questo concorda con il frammento dei Rotoli di Nag Hammadi che abbiamo citato.
Il giudaismo e i Merovingi
Dobbiamo tener conto della tenacia con cui, anche di fronte alle
416
persecuzioni più accanite, quasi tutte le eresie, e in particolare
l'arianesimo, insistevano sulla mortalità e l'umanità di Gesù. Ma noi non
trovammo nessuna indicazione che avessero inevitabilmente una conoscenza di
prima mano della premessa alla quale aderivano con tanta fermezza. E a parte i
Rotoli di Nag Hammadi, nulla indicava che potessero essere a conoscenza
dell'eventuale esistenza di una stirpe di Gesù. Era possibile naturalmente che
ci fossero documenti, affini ai Rotoli, forse addirittura genealogie e archivi.
La stessa virulenza della persecuzione ordinata da Roma poteva indicare che
quei documenti facevano paura e quindi si riteneva necessario evitare che
vedessero la luce. Ma se era stato davvero così, sembrava che Roma fosse
riuscita nel suo intento.
Le eresie, quindi, non ci fornivano conferme decisive di un legame
tra la famiglia di Gesù e i Merovingi, apparsi sulla scena mondiale quattro
secoli dopo. Eravamo obbligati a cercare la conferma altrove, presso gli stessi
Merovingi. A prima vista gli indizi sembravano molto scarsi. Avevamo già
considerato la nascita leggendaria di Meroveo, figlio di due padri, uno dei
quali era un misterioso essere acquatico venuto d'oltremare; e avevamo concluso
che questa bizzarra favola poteva rispecchiare e nel contempo nascondere un
matrimonio dinastico. Ma anche se il simbolismo del pesce era indicativo, non
era per nulla probante. Così pure, il successivo patto tra Clodoveo e la Chiesa
di Roma aveva molto più senso alla luce del nostro « scenario » ; ma il patto
in se stesso non costituiva una prova concreta. E sebbene al sangue reale
merovingio venisse attribuita una natura sacra, miracolosa e divina, non veniva
mai affermato esplicitamente che fosse il sangue di Gesù.
In mancanza di testimonianze decisive, dovevamo procedere
cautamente. Dovevamo valutare i frammenti di indizi circostanziali, e cercare
di comporti in un quadro coerente. E per prima cosa dovevamo accertare se i
Merovingi presentavano qualche influenza di carattere esclusivamente giudaico.
E certo che i re merovingi non erano antisemiti. Al contrario,
sembra dimostrassero non soltanto tolleranza ma addirittura simpatia per gli
Ebrei insediati nei loro domini, nonostante le continue proteste della Chiesa
di Roma. I matrimoni misti erano frequenti. Molti Ebrei, soprattutto nel Sud,
possedevano grandi
417
proprietà terriere. Molti avevano schiavi e servitori cristiani. E
molti avevano alti incarichi nella magistratura e nell'amministrazione
merovingia. Nel complesso, l'atteggiamento dei Merovingi nei confronti del
giudaismo sembra non avere paralleli nella storia dell'Occidente prima della
Riforma luterana.
I Merovingi erano convinti che i loro poteri miracolosi risiedessero
in gran parte nelle loro chiome, e non se le tagliavano. La loro posizione in
proposito era identica a quella dei nazirei dell'Antico Testamento, la setta
cui apparteneva anche Sansone. Molti indizi suggeriscono che anche Gesù fosse
nazireo. Secondo vari autori protocristiani e molti studiosi moderni, lo era
incontestabilmente suo fratello, san Giacomo.
. <
Nella casa i reale merovingia e nelle famiglie imparentate con
essa figurava un numero sorprendente di nomi tipicamente giudaici. Nel 577, un
fratello di re Clotario si chiamava Sansone. In seguito, un certo Miron le
Levile fu conte di Bésalou e vescovo di Gerona. Un conte di Rossiglione si
chiamava Solomon, e un altro Solomon divenne re di Bretagna. C'era un abate
Elisachar, una variante di « Eleazar » e « Lazzaro ». E lo stesso nome Meroveo
(o Merovech) sembrerebbe di derivazione medio-orientale.4
I nomi giudaici acquisirono una crescente preminenza in seguito ai
matrimoni dinastici tra Merovingi e Visigoti. Questi nomi figurano tra gli
aristocratici e i membri della casa reale visigota; ed è possibile che molte
delle famiglie cosiddette « visigote » fossero in realtà d'origine
giudaica.Questa possibilità appare ancora più credibile grazie al fatto che i
cronisti usavano spesso i termini « Goto » ed « Ebreo » come se fossero
intercambiabili. La Francia meridionale e le marche spagnole - la regione
chiamata Setti-mania in tempi merovingi e carolingi - ospitavano una popolazione
ebrea molto numerosa. La regione era conosciuta anche come « Gothie » o «
Gothia », e perciò spesso i suoi abitanti ebrei erano chiamanti « Goti », un
errore che talvolta poteva essere voluto. Grazie a questo errore, gli Ebrei non
potevano essere identificati come tali, a meno che i loro nomi rivelassero la
loro origine. Ad esempio, il suocero di Dagoberto si chiamava Bera, un nome
semitico. E la sorella di Bera aveva sposato un uomo di una famiglia che
portava il cognome Levy.5
Certo, i nomi e la tradizione mistica di non tagliarsi i capelli
non
418
rappresentavano necessariamente una base solida su cui stabilire
una connessione tra i Merovingi e il giudaismo. Ma c'è un altro indizio
frammentario più convincente. I Merovingi erano la dinastia reale dei Franchi,
una tribù teutonica che seguiva la legge tribale dei Teutoni. Verso la fine del
V secolo questa legge, codificata e inserita in una cornice romana, prese il
nome di Lex salica (Legge salica). In origine, tuttavia, la Legge salica
era la legge tribale teutonica, anteriore all'avvento del cristianesimo romano
nell'Europa occidentale. Nei secoli che seguirono, continuò a contrapporsi
alla legge ecclesiastica promulgata da Roma. Per tutto il Medioevo fu la legge
laica ufficiale del Sacro romano impero. Ancora ai tempi della Riforma luterana
i contadini e i cavalieri tedeschi includevano, nelle lagnanze presentate
contro la Chiesa, il fatto che quest'ultima non tenesse conto della tradizionale
Legge salica.
C'è un'intera sezione della Legge salica - titolo 45, « De Mi-grantibus
» - che ha sconcertato sempre studiosi e commentatori, e ha dato origine a
interminabili discussioni. E un complesso insieme di clausole e di condizioni
relative alle circostanze in cui gli immigranti possono prendere residenza e
ottenere la cittadinanza. La cosa più strana è che non è affatto d'origine
teutonica, e diversi autori si sono lasciati indurre a postulare ipotesi
bizzarre per spiegarne l'inclusione nel Codice salico. Solo di recente, però,
si è scoperto che questa sezione del Codice salico deriva direttamente dalla
Legge giudaica.6 Più esattamente, la si può far risalire a una
sezione del Talmud. Si può quindi affermare che la Legge salica, almeno in
parte, derivi direttamente dalla Legge giudaica tradizionale. E questo indica
a sua volta che i Merovingi, sotto i cui auspici fu codificata la Legge salica,
non soltanto conoscevano la Legge giudaica, ma avevano accesso a testi
giudaici.
Il principato di Settimania
Questi frammenti erano interessanti, ma fornivano solo un tenue
sostegno alla nostra ipotesi: che una stirpe discesa da Gesù esistesse nella
Francia meridionale, che si fosse alleata per matrimonio con i Merovingi, e che
i Merovingi, di conseguenza, fossero in parte Ebrei. Ma, anche se l'epoca
merovingia non ci dava prove
419
conclusive per la nostra ipotesi, ce le dava l'epoca immediatamente
successiva. Grazie a questa « prova retroattiva », la nostra ipotesi diventava
di colpo sostenibile.
Avevamo già sondato la possibilità che la stirpe merovingia fosse
sopravvissuta, dopo essere stata spodestata dai Carolingi. E avevamo incontrato
un principato autonomo, che esistette nella Francia meridionale per un secolo e
mezzo, un principato il cui sovrano più famoso fu Guillem de Gellone. Guillem
fu uno degli eroi più illustri del suo tempo. Era il protagonista del Willehalm
di Wolfram von Eschenbach e veniva associato alla famiglia del Graal. Fu
appunto in Guillem e nei suoi precedenti che trovammo una delle prove più
sorprendenti e avvincenti.
Al culmine della sua potenza, Guillem de Gellone includeva tra i
suoi domini la Spagna nord-orientale, i Pirenei e la regione della Francia
meridionale chiamata Septimania o Settimania. Da molto tempo, quell'area
ospitava una numerosa popolazione ebraica. Durante il VI e il VII secolo,
questa popolazione aveva avuto rapporti molto cordiali con i sovrani visigoti,
seguaci del cristianesimo ariano; e a quel tempo i matrimoni misti erano
frequenti, e i termini « goti » e « giudei » venivano usati spesso come fossero
intercambiabili.
Prima del 711, però, la situazione degli Ebrei in Settimania e
nella Spagna nord-orientale era dolorosamente peggiorata. Dago-berto II era
stato assassinato, e i suoi discendenti erano stati costretti a riparare nel
Razès, la regione che include Rennes-le-Chàteau. E sebbene i discendenti
collaterali della stirpe merovingia occupassero ancora nominalmente il trono
al nord, il potere effettivo era nelle mani dei cosiddetti maestri di palazzo,
gli usur-patori carolingi che, con la sanzione e l'appoggio di Roma, si
accingevano a fondare una loro dinastia. Inoltre, i Visigoti si erano
convcrtiti al cristianesimo romano e avevano cominciato a perseguitare gli
Ebrei insediati nei loro domini. Perciò, quando la Spagna visigota fu occupata
dai Mori nel 771, gli Ebrei accolsero con gioia gli invasori.
Sotto il dominio musulmano, gli Ebrei di Spagna conobbero un
periodo felice. I Mori li trattavano con benevolenza, e spesso affidavano loro
l'amministrazione delle città conquistate, come Cordova, Granàda e Toledo. I
commercianti ebrei venivano inco-
420
raggiati, e raggiungevano una nuova prosperità. Il pensiero giudaico
coesisteva con quello islamico, lo influenzava e ne veniva influenzato con
risultati fecondi. E molte città, inclusa Cordova, la capitale dei Mori di
Spagna, avevano una popolazione prevalentemente ebrea.
All'inizio dell'VIII secolo i Mori varcarono i Pirenei e occuparono
la Settimania che rimase in mani islamiche dal 720 al 759, mentre il nipote e
il pronipote di Dagoberto II continuavano la loro esistenza clandestina nel
Razès. La Settimania diventò un principato moresco autonomo, con capitale a
Narbona, sottomesso soltanto nominalmente all'emirato di Cordova. E partendo
da Narbona i Mori di Settimania incominciarono a spingersi verso nord,
conquistando città nell'entroterra franco, fino a Lione.
L'avanzata dei Mori fu bloccata da Carlo Martello, maestro di
palazzo e nonno di Carlomagno. Entro il 738, Carlo aveva ricacciato i Mori a
Narbona, dove li assediò. Tuttavia Narbona, difesa dai Mori e dagli Ebrei, si
dimostrò inespugnabile e Carlo sfogò la sua rabbia devastando le campagne
circostanti.
Entro il 752 il figlio di Carlo, Pipino il Breve, aveva stretto
alleanze con gli aristocratici locali, portando così la Settimania sotto il suo
dominio. Ma Narbona continuò a resistere, benché le forze di Pipino
l'assediassero per sette anni. La città era una spina nel fianco di Pipino,
proprio quando questi si trovava nella necessità di consolidare la sua
posizione. Tanto lui quanto i suoi successori erano molto sensibili all'accusa
di aver usurpato il trono dei Merovingi. Per crearsi una legittimità, avevano
concluso matrimoni dinastici con famiglie superstiti del sangue reale. E per
convalidare la sua posizione, Pipino dispose che la sua incoronazione fosse
caratterizzata dal rito biblico dell'unzione, grazie al quale la Chiesa assunse
la prerogativa di creare i re. Ma il rito dell'unione aveva anche un altro
aspetto. Secondo gli studiosi, l'unzione aveva lo scopo deliberato di indicare
che la monarchia franca era una replica, se non addirittura una continuazione,
della monarchia di Giuda nell'Antico Testamento. E questo, di perse, è molto
interessante. Perché l'usurpatore Pipino mirava a legittimarsi mediante un
prototipo biblico? A meno che la dinastia da lui deposta, la dinastia
merovingia, si fosse legittimata esattamente nello stesso modo.
421
In ogni caso, Pipino si trovava di fronte a due problemi: la
tenace resistenza di Narbona e la legittimazione delle sue pretese al trono
mediante il precedente biblico. Come ha dimostrato Arthur Zuckerman della
Columbia University, risolse entrambi i problemi nel 759 grazie a un patto con
la popolazione ebrea di Narbona. Secondo il patto, Pipino avrebbe ricevuto
l'appoggio degli Ebrei per la sua aspirazione a una successione biblica.
Inoltre avrebbe avuto il loro aiuto contro i Mori. In cambio avrebbe concesso
agli Ebrei di Settimania un principato e un re esclusivamente loro.7
Nel 759 la popolazione ebrea di Narbona si rivoltò improvvisamente
contro i difensori musulmani della città, li massacrò e aprì le porte della
fortezza agli assedianti franchi. Poco più tardi, gli Ebrei riconobbero Pipino
come sovrano nominale e convalidarono le sue pretese a una legittima
successione biblica. Anche Pipino mantenne gli impegni presi. Nel 768 in
Settimania fu creato un principato: un principato ebraico che riconosceva
nominalmente la sovranità di Pipino, ma che in pratica era indipendente. Fu
insediato in forma ufficiale un sovrano, con il titolo di re degli Ebrei. Nei
romanzi, viene chiamato Aymery. Secondo i documenti pervenuti fino ai tempi
nostri, invece, sembra che, quando fu accolto nei ranghi della nobiltà franca,
assumesse il nome di Teodorico o Thierry. Teodorico, o Thierry, era il padre di
Guillem de Gellone. Ed era riconosciuto, tanto da Pipino quanto dal califfo di
Baghdad, come « il seme della casa reale di Davide ».8
Come avevamo già scoperto in precedenza, gli studiosi moderni sono
incerti per quanto riguarda le origini e i precedenti di Teodorico. Secondo la
maggioranza dei ricercatori, era di schiatta merovingia.9 Secondo
Arthur Zuckerman era nato a Baghdad: un « esilarca » disceso dagli Ebrei
rimasti nella Babilonia fin dai tempi della Cattività babilonese. Tuttavia è
anche possibile che l'« esilarca » di Baghdad non fosse Teodorico. E possibile
che l'« esilarca » fosse giunto da Baghdad per consacrare Teodorico, e che le
cronache successive facessero confusione tra i due personaggi. Arthur
Zuckerman accenna anche a un'affermazione curiosa: gli « esilarchi occidentali
» erano di « sangue più puro » di quelli orientali.10
Chi erano gli « esilarchi occidentali » se non i Merovingi? Per-
422
che mai un personaggio di discendenza merovingia doveva essere
riconosciuto re degli Ebrei, sovrano di un principato ebraico e « seme della
casa reale di Davide », a meno che i Merovingi fossero, almeno in parte, Ebrei?
Dopo la parte avuta dalla Chiesa nell'assassinio di Dagoberto e il tradimento
del patto concluso con Clodoveo, è possibile che i Merovingi superstiti
avessero ripudiato ogni sottomissione a Roma, e fossero ritornati alla fede dei
loro padri. I legami con questa fede, comunque, dovevano essere stati
rafforzati dal matrimonio fra Dagoberto e la figlia di un principe
ufficialmente « visigoto » che portava il nome chiaramente semitico di Bera.
Teodorico, o Thierry, consolidò ancor più la propria posizione, e
anche quella di Pipino, sposando opportunamente la sorella di quest'ultimo,
Alda, la zia di Carlomagno. Negli anni che seguirono, il regno ebreo di
Settimania ebbe un'esistenza prospera. Venne arricchito di territori concessi
dai monarchi carolingi. Ottenne persino cospicui appezzamenti di terra
appartenenti alla Chiesa, nonostante le energiche proteste del pontefice
Stefano III e dei suoi successori.
Il figlio di Teodorico, re degli Ebrei di Settimania, fu Guillem
de Gellone, che tra gli altri titoli portava quelli di conte di Barcellona, di
Tolosa, d'Alvernia, e di Razès. Come il padre, Guillem non era soltanto
merovingio, ma anche un ebreo di sangue reale. E i Carolingi, il califfo e
persino il papa, sia pure a denti stretti, riconoscevano che era il sangue
della Casa di Davide.
Nonostante i successivi tentativi di nasconderlo, gli studiosi
moderni hanno provato incontestabilmente il giudaismo di Guillem. Persino nei
romanzi, dove figura come Guillaume, principe d'Orange, parla correntemente
l'ebraico e l'arabo. Lo stemma sul suo scudo è lo stesso degli « esilarchi »
orientali: il Leone di Giuda, la tribù cui appartenne la casa di Davide e,
successivamente, lo stesso Gesù. È soprannominato « Naso adunco ». E persino
tra una campagna e l'altra, si fa premura di rispettare il sabato e la festa
ebraica dei Tabernacoli- Come osserva Arthur Zuckerman:
II cronista che scrisse il racconto originale dell'assedio e della
caduta di Barcellona registrò gli eventi secondo il calendario ebraico... [Il]
comandante della spedizione, il duca Guglielmo di Narbona e di Tolosa, condusse
l'azione rispettando rigorosamente l'osservanza dei sabbath e delle
423
festività ebraiche. E in
tutto questo, aveva la piena comprensione e collaborazione di re Ludovico.11
Guillem de Gellone divenne uno dei cosiddetti Pari di Carloma-gno,
un autentico eroe storico che, nella tradizione popolare, aveva un posto a
fianco di personaggi leggendari come Rolando e Olivieri. Quando il figlio di
Carlomagno, Ludovico, ricevette l'investitura come imperatore, fu Guillem a
porgli sul capo la corona. E Ludovico avrebbe detto: « Nobilissimo Guglielmo...
è la tua stirpe che ha innalzato la mia ».12 E un'affermazione straordinaria,
dato che viene rivolta a un uomo il cui lignaggio — almeno per gli storici di
epoche posteriori — sembrerebbe completamente oscuro.
Guillem non era soltanto un guerriero. Poco prima nel 792 fondò a
Gellone un'accademia, facendovi pervenire eruditi da varie parti e creando una
famosa biblioteca; e ben presto Gellone divenne un noto centro di studi
giudaici. Da questa accademia potrebbe essere uscito il « pagano » Flegetanis.
il dotto ebreo disceso da Salomone che, secondo Wolfram, confidò a Kyot di
Provenza il segreto del Santo Graal.
Nell'806 Guillem si ritirò dalla vita attiva e si chiuse nella sua
accademia. Vi morì intorno all'812, e più tardi l'accademia fu trasformata in
un monastero, il famoso Saint-Guilhelm-le-Désert.13 Tuttavia, già prima
della morte di Guillem, Gellone era divenuta una delle prime sedi europee, a
quanto si sa, del culto della Maddalena14 che significativamente vi
fiorì negli stessi anni dell'accademia giudaica.
Gesù apparteneva alla tribù di Giuda e alla casa reale di Davide.
La Maddalena, si dice, portò in Francia il Graal... il Sangraal o « sangue
reale ». E neh" Vili secolo vi fu, nella Francia meridionale, un principe
della tribù di Giuda e della casa reale di Davide che venne riconosciuto re
degli Ebrei. Tuttavia, non era solo un Ebreo praticante. Era anche un
Merovingio. E tramite il poema di Wolfram von Eschenbach, lui e la sua
famiglia sono associati al Santo Graal.
Il seme di Davide
Nei secoli successivi, sembra che venissero compiuti tentativi di
424
Cartaio II principato
ebraico.
espungere ogni traccia del regno giudaico di Settimania. La frequente
confusione tra « Goti » e « Giudei » sembra indicare una tale censura. Ma la
censura non poteva riuscire completamente nell'intento. Ancora nel 1143 Pietro
il Venerabile di Cluny, in un discorso rivolto a Luigi VII di Francia, attaccò
gli Ebrei di Narbona, che affermavano di avere tra loro un re. Nel 1144 un
monaco di Cambridge, un certo Theobald, parla dei « grandi principi e rabbi dei
Giudei che dimorano in Spagna e si radunano a Narbona, dove risiede il seme
reale ».15 E intorno al 1165-6 Beniamino di Tudela, famoso
viaggiatore e cronista, riferisce che a Narbona vi sono « saggi, magnati e
principi, alla cui testa sta... un discendente della Casa di Davide, come
attesta il suo albero genealogico ».16
Ma il seme di Davide residente a Narbona nel XII secolo era meno
importante di un altro seme che risiedeva altrove. Gli alberi genealogici si
biforcano, si allargano, si suddividono e producono vere e proprie foreste. Se
certi discendenti di Thierry e Guillem de Gellone rimasero a Narbona, ve ne
erano altri che in quei quattro secoli avevano acquisito domini più augusti.
Nel XII secolo questi domini ne includevano due tra i più illustri della
cristianità: la Lorena e il regno franco di Gerusalemme.
Nel IX secolo la stirpe di Guillem de Gellone era culminata nei
primi duchi di Aquitania. E si era imparentata con la casa ducale di Bretagna.
E nel X secolo un certo Hugues de Plantard, soprannominato « Naso lungo » e
discendente diretto tanto di Dagoberto quanto di Guillem de Gellone, divenne
padre diEustachio, primo conte di Boulogne. II nipote di Eustachio fu Goffredo
di Buglione, duca di Lorena e conquistatore di Gerusalemme. E da Goffredo
discese una dinastia, una « tradizione reale » che, in quanto fondata sulla «
pietra di Sion » era « eguale » a quelle che dominavano in Francia,
Inghilterra e Germania. Se i Merovingi discendevano veramente da Gesù, allora
Goffredo, rampollo del sangue reale merovingio, conquistando Gerusalemme aveva
recuperato quanto gli spettava di diritto.
Goffredo e i suoi successori della casa di Lorena, è ovvio, erano
nominalmente cattolici. Per sopravvivere in un mondo ormai cristianizzato,
dovevano esserlo per forza. Ma pare che la loro origine fosse nota almeno in
certi ambienti. Ancora nel XVI secolo Enrico di Lorena, duca di Guisa, quando
entrò nella città di
426
Joinville, nello Champagne, fu accolto da una folla entusiasta. E
si sa che certi individui, mescolati tra la gente, cantarono « Hosan-nah filio
David » (Osanna al figlio di Davide).
Forse non è privo di significato il fatto che l'episodio sia
riferito in una moderna storia della Lorena, pubblicata nel 1966. L'opera ha
una speciale introduzione di Otto d'Asburgo, che oggi è duca titolare di Lorena
e re di Gerusalemme.17
Figura 3 Lo stemma di
Rennes-le-Chàteau.
Figura 4
L'emblema ufficiale del Priorato di Sion.
Note
1 Parrinder, Jesus in thè Qur'an, pp.
110 sgg.
2 Blancasall, Les Descendants, p. 9
3 Corano, 4:157.
4 C'era il sacro Toro di Meroe, a Eliopoli. Il
fatto che i tori fossero tenuti in grande onore dai Sicambri è dimostrato: una
testa taurina d'oro fu trovata nella tomba di Childerico, padre di Clodoveo.
5 Henri Lobineau, Dossierssecrets, planche
n. 1,950-1400, n.l.
6 Rabinowitz, De Migrantibus.
427
7 Zuckerman, Jewìsh Princedom, pp. 36
sgg.
8 Ibid., p. 59.
9 Ponsich, « Le conflent », p. 244, n. 10. Cfr.
inolte Levillain, « Nibelungen », anno 50 (1938), genealogia di fronte a p. 46.
10 Zuckerman, Jewish Princedom, p. 81.
11 Ibid., p. 197.
12 William, Count of Orange, The Crowning of
Louis, p. 4 (9).
13 Una parte di esso forma oggi « The Cloisters
» a New York.
14 Saxer, Marie Madeleine, voi. 2., p.
412. Il culto, che la consacra il 19 gennaio, risale almeno al 792-5
d.C.
15 Zuckerman, Jewish Princedom, p. 64.
16 Ibid., p. 58
17 Pange, Maison de Lorraine, p. 60.
428
XV
Conclusione e presagi per il
futuro
Ma se, ad esempio,
l'affermazione che Cristo risuscitò dalla morte viene intesa in senso non già
letterale ma simbolico, allora è suscettibile di varie interpretazioni che non
sono in conflitto con la nostra conoscenza e non intaccano il significato
dell'affermazione. L'obiezione che comprenderlo pone simbolicamente fine alla
speranza cristiana nell'immortalità non è valida, perché molto prima
dell'avvento del cristianesimo l'umanità credeva nella vita dopo la morte, e
quindi non aveva bisogno dell'evento della Pasqua come garanzia
dell'immortalità. Il pericolo che una mitologia intesa troppo alla lettera, e
quale viene oggi insegnata dalla Chiesa, venga all'improvviso ripudiata in
blocco è oggi più grande che mai. Non è il momento che la mitologia cristiana,
anziché venire cancellata, venga intesa una volta tanto simbolicamente?
Cari Jung, L'io non
scoperto
. All'inizio non eravamo partiti decisi a dimostrare o a confutare
qualcosa, e men che meno la conclusione alla quale eravamo stati condotti
ineluttabilmente. Non eravamo certo partiti decisi a contestare alcune delle
dottrine più fondamentali del cristianesimo. Al contrario, avevamo incominciato
indagando su un certo mistero. Cercavamo le risposte ad alcuni interrogativi
sconcertanti, le spiegazioni di certi enigmi storici. Lungo il cammino
c'eravamo imbattuti in qualcosa di portata assai più grande di quanto avessimo
previsto. Eravamo giunti a una conclusione sbalorditiva, polemica e in
apparenza assurda.
Questa conclusione ci aveva costretto a rivolgere l'attenzione su
Gesù e sulle origini della religione imperniata su di lui. Quando lo avevamo
fatto, non avevamo ancora nessuna intenzione di contestare il cristianesimo.
Stavamo semplicemente cercando di accer-
429
tare se la nostra conclusione era o no sostenibile. Un esame
esauriente del materiale biblico ci convinse che lo era. Anzi, ci convinse che
la conclusione era non soltanto sostenibile, ma anche estremamente probabile.
Non potevamo - e non possiamo neppure ora - provare l'esattezza
della nostra conclusione. Almeno in una certa misura, resta tuttora un'ipotesi.
Ma è un'ipotesi plausibile e coerente. Spiega molte cose. E per quanto ci
riguarda, offre un quadro storicamente più verosimile di quelli da noi
incontrati degli eventi e dei personaggi che, duemila anni or sono, si imposero
alla coscienza dell'Occidente e, nei secoli che seguirono plasmarono la nostra
cultura e la nostra civiltà.
Sebbene non possiamo provare la nostra conclusione, tuttavia,
abbiamo ricevuto una enorme quantità di indicazioni, sia tramite i suoi
documenti sia tramite i suoi rappresentanti, che il Priorato di Sion è in grado
di farlo. In base agli scritti e alle conversazioni personali con noi, siamo
disposti a credere che Sion possieda qualcosa: qualcosa che in un modo o
nell'altro costituisce la « prova incontrovertibile » dell'ipotesi da noi
formulata. Non sappiamo con precisione quale sia questa prova. Tuttavia,
possiamo immaginarlo.
Se la nostra ipotesi è esatta, la moglie e i figli di Gesù (e Gesù
potrebbe averne generati parecchi, tra i sedici-diciassette anni e la sua
presunta morte) dopo essere fuggiti dalla Terrasanta trovarono riparo nella
Francia meridionale e là, in una comunità ebraica, perpetuarono il loro
lignaggio. Durante il V secolo, sembra, questa stirpe si alleò per matrimonio
con la famiglia reale dei Franchi, dando così origine alla dinastia merovingia.
Nel 496 d.C. la Chiesa concluse un patto con questa dinastia, impegnandosi a
sostenere perpetuamente la stirpe dei Merovingi, presumibilmente nella piena
consapevolezza della vera identità di tale stirpe. Questo spiegherebbe perché a
Clodoveo fu offerto il titolo di Sacro romano imperatore, di « nuovo Costantino
», e perché egli non fu creato re, ma semplicemente riconosciuto tale.
Quando la Chiesa favorì o avallò l'assassinio di Dagoberto e il
successivo tradimento nei confronti della stirpe merovingia, si macchiò di una
colpa che non poteva venire razionalizzata né espunta. Poteva soltanto venire
soppressa. Doveva venire sop-
430
pressa: perché la rivelazione della vera identità dei Merovingi
non avrebbe certo rafforzato la posizione di Roma nei confronti dei suoi
nemici.
Nonostante tutti i tentativi di eliminarla, la stirpe di Gesù - o
almeno la stirpe merovingia - sopravvisse. Sopravvisse in parte tramite i
Carolingi, i quali chiaramente provarono più rimorso di Roma per l'usurpazione,
e cercarono di legittimarsi mediante matrimoni dinastici con principesse
merovinge. Ma, più significativamente, sopravvisse nel figlio di Dagoberto,
Sigisberto, tra i cui discendenti vi furono Guillem de Gellone, sovrano del
regno ebraico di Settimania, e Goffredo di Buglione. Quando Goffredo conquistò
Gerusalemme nel 1099, la stirpe di Gesù avrebbe riottenuto l'eredità che le
spettava e che la era stata conferita al tempo dell'Antico Testamento.
È dubbio che il vero lignaggio di Goffredo, ai tempi delle
Crociate, fosse segreto come avrebbe desiderato Roma. Data l'egemonia della
Chiesa, ovviamente non poteva esserci una rivelazione aperta. Ma è probabile
che abbondassero le dicerie, le tradizioni e le leggende, che sembrano aver
trovato l'espressione più eminente in « favole » come quella di Lohengrin,
mitico antenato di Goffredo, e naturalmente nei romanzi del Santo Graal.
Se la nostra ipotesi è esatta, il Santo Graal doveva essere simultaneamente
almeno due cose. Da. una parte era la stirpe e i discendenti di Gesù, il « Sang
Raal », il sangue reale di cui erano guardiani i Templari, fondati dal Priorato
di Sion. Nel contempo il Santo Graal doveva essere, alla lettera, il
ricettacolo che aveva ricevuto e contenuto il sangue di Gesù. In altre parole,
doveva essere il grembo della Maddalena e, per estensione, la Maddalena stessa.
Di qui sarebbe sorto il culto della Maddalena, diffusosi durante il Medioevo -
e confuso con il culto della Vergine. Si può provare, ad esempio, che molte
delle famose « Madonne Nere » protocristiane non raffigurano la Vergine bensì
la Maddalena, e mostrano una madre e un figlio. È stato persino sostenuto che
le cattedrali gotiche, le maestose copie in pietra del grembo materno dedicate
a « Notre Dame », fossero, come afferma Le serperti rouge, santuari
eretti in onore della consorte di Gesù, anziché di sua madre.
Il Santo Graal, quindi, avrebbe simboleggiato tanto la stirpe di
Gesù quanto la Maddalena, dal cui grembo era uscita quella stirpe.
Ma può essere stato anche qualcosa d'altro. Nel 70 d.C, durante la grande
rivolta in Giudea, le legioni romane comandate da Tito saccheggiarono il Tempio
di Gerusalemme. Si dice che il tesoro rubato finisse per arrivare nei Pirenei;
e Pierre Plantard, parlando con noi, dichiarò che oggi il tesoro è nelle mani
del Priorato di Sion. Ma il Tempio di Gerusalemme poteva contenere qualcosa di
più del tesoro portato via dai soldati di Tito. Nell'antico giudaismo, la
religione e la politica erano inseparabili. Il Messia doveva essere un
re-sacerdote, la cui autorità abbracciava il campo spirituale quanto quello
secolare. È quindi verosimile, anzi probabile, che nel Tempio fossero custoditi
documenti ufficiali riguardanti la casa reale d'Israele: gli equivalenti dei
certificati di nascita, degli atti di matrimonio e altri dati relativi a
qualunque famiglia reale o aristocratica dei nostri giorni. Se Gesù era veramente
« Re dei Giudei », quasi sicuramente il Tempio custodiva copiose notizie su di
lui. Forse custodiva anche il suo corpo o almeno la sua tomba, quando il corpo
fu portato via dalla sepoltura temporanea di cui parlano i Vangeli.
Nulla indica che Tito, quando saccheggiò il tempio nel 70 d.C,
portasse via qualcosa che aveva una qualche relazione con Gesù. Naturalmente
tale materiale, se esisteva, potrebbe essere andato distrutto. D'altra parte,
poteva essere stato nascosto; e i soldati di Tito, interessati solo a far
bottino, difficilmente l'avrebbero cercato. Per i sacerdoti del Tempio vi
sarebbe stata la scelta di un solo comportamento possibile. Vedendo avanzare le
truppe romane, avrebbero lasciato loro i gioielli, l'oro, i tesori materiali
che si aspettavano di trovare. E avrebbero nascosto, forse sotto il Tempio,
cose ben più importanti che si riferivano al legittimo re d'Israele, al Messia
riconosciuto e alla sua famiglia.
Verso il 1100 i discendenti di Gesù avrebbero poi acquisito una
notevole preminenza in Europa e, grazie a Goffredo di Buglione, anche in
Palestina. Dovevano conoscere la loro discendenza. Ma forse non erano in grado
di provare a tutti la loro identità; e tale prova era considerata necessaria
per i loro successivi disegni. Se si sapeva che quella prova esisteva o poteva
esistere nel Tempio, non si sarebbero lesinati gli sforzi per trovarla. Questo
spiegherebbe il ruolo dei Cavalieri Templari che, segretamente, intrapresero
sca-
-132
vi sotto il Tempio, nelle cosiddette scuderie di Salomone. In base
all'evidenza che avevamo esaminato, non c'era dubbio che i Cavalieri Templari
erano stati inviati in Terrasanta con l'espresso compito di scoprire o di
ottenere qualcosa. E sempre in base all'evidenza che avevamo esaminato, sembra
che portassero a compimento la missione. Sembra che avessero trovato ciò che
dovevano cercare, e che lo portassero in Europa. Cosa ne fu, poi, rimane un
mistero. Ma è indubbiamente certo che sotto gli auspici di Ber-trand de
Blanchefort, Gran Maestro dell'Ordine del Tempio, qualcosa fu nascosto nei
pressi di Rennes-le-Chàteau, e che un contingente di minatori tedeschi fu
chiamato a scavare e a costruire un nascondiglio, nel massimo segreto. Possiamo
soltanto chiederci che cosa vi fu nascosto. Forse era il corpo mummificato di
Gesù. Forse era, per così dire, l'equivalente del certificato di matrimonio di
Gesù o degli atti di nascita dei suoi figli. Forse era qualcosa altrettanto
importante e potenzialmente esplosivo. E tutte queste cose potrebbero essere
state indicate come Santo Graal. E alcune di queste cose, o tutte, per caso o
di proposito, potrebbero essere state affidate agli eretici Catari, e avrebbero
fatto parte del misterioso tesoro di Montségur.
Tramite Goffredo e Baldovino di Buglione esisteva una « tradizione
reale » che, in quanto « fondata sulla pietra di Sion », era l'eguale delle più
grandi dinastie d'Europa. Se-come affermano sia il Nuovo Testamento che la
massoneria- la « Pietra di Sion » è un sinonimo di Gesù, quell'asserzione
acquisterebbe un senso. Anzi, se mai sarebbe un understatement.
Insediata sul trono del regno di Gerusalemme, la dinastia merovingia
poteva sanzionare e addirittura incoraggiare qualche accenno alla sua vera
origine. Questo spiegherebbe perché i romanzi del Graal apparvero esattamente
quando e dove apparvero, e perché erano associati in modo tanto esplicito ai
Cavalieri Templari. Con il tempo, se avesse consolidato la sua posizione in
Palestina, la « tradizione reale » discesa da Goffredo e Baldovino avrebbe
probabilmente rivelato le proprie origini. Allora il re di Gerusalemme avrebbe
avuto la precedenza su tutti i sovrani d'Europa, e il patriarca di Gerusalemme
avrebbe soppiantato il papa. Spodestando Roma, Gerusalemme sarebbe divenuta la
vera capitale della cristianità, e forse non soltanto della cristianità.
Infatti, se
433
Gesù fosse stato riconosciuto come un profeta mortale, un resacerdote,
legittimo sovrano della stirpe di Davide, sarebbe divenuto accettabile per i
Musulmani e per gli Ebrei. Quale re di Gerusalemme, il suo discendente diretto
sarebbe stato in grado di realizzare una delle dottrine fondamentali della
politica dei Templari: la riconciliazione del cristianesimo con il giudaismo e
l'Isiam.
La situazione storica, naturalmente, non permise che si arrivasse
a questo punto. Il regno franco di Gerusalemme non consolidò la sua posizione.
Assediato da ogni parte dalle armate musulmane, politicamente instabile, non
raggiunse mai la forza e la sicurezza interna necessarie per sopravvivere e
tanto meno per imporre la propria supremazia rispetto alle corone dell'Europa e
alla Chiesa di Roma. Il grandioso disegno fallì; e crollò completamente nel
1291, con la perdita della Terrasanta. Ancora una volta, i Merovingi erano
senza corona. E i Cavalieri Templari erano non soltanto superflui, ma anche
sacrificabili.
Nei secoli successivi i Merovingi, aiutati, guidati e protetti dal
Priorato di Sion, compirono ripetuti tentativi di riconquistare la loro
eredità, ma tali tentativi rimasero circoscritti all'Europa. A quanto sembra,
includevano tre programmi, interrelati ma sostanzialmente distinti. Uno era la
creazione di un'atmosfera psicologica, una tradizione clandestina destinata a
minare l'egemonia spirituale di Roma, una tradizione che trovò espressione nel
pensiero ermetico ed esoterico, nei manifesti rosacrociani e in altri scritti,
in certi riti della massoneria e, naturalmente, nei simboli dell'Arcadia e del
fiume sotterraneo. Il secondo programma comprendeva le macchinazioni politiche,
gli intrighi e, se possibile, la presa del potere: le tecniche impiegate dalle
famiglie di Guisa e di Lorena nel XVI secolo, e dagli ispiratori della Fronda nel
XVII. Il terzo programma mediante il quale i Merovingi cercarono di recuperare
l'eredità perduta era costituito dai matrimoni dinastici.
A prima vista sembrerebbe che questi metodi bizantini non fossero
necessari; sembrerebbe che i Merovingi - se davvero discendevano da Gesù - non
avrebbero avuto difficoltà a stabilire la supremazia desiderata. Bastava che
rivelassero e provassero la loro vera identità perché il mondo li riconoscesse.
In realtà, tuttavia, le cose non erano poi tanto semplici. Lo stesso Gesù non
era
434
riconosciuto dai Romani. Quando le era parso opportuno farlo, la
Chiesa non aveva avuto scrupoli nel sanzionare l'assassinio di Dagoberto e
l'usurpazione dei Carolingi. Una rivelazione intempestiva della loro
discendenza non avrebbe assicurato il successo ai Merovingi. Al contrario,
molto probabilmente sarebbe stata disastrosa: avrebbe suscitato lotte tra
fazioni, causato una crisi religiosa e provocato la reazione della Chiesa e dei
potenti. Se non fossero stati saldamente trincerati in posizioni di potere, i
Merovingi non avrebbero potuto reggere alle ripercussioni, e il segreto della
loro identità, il loro asso, sarebbe stato giocato e perduto per sempre. Date
le realtà storiche e politiche, quell'asso non poteva venire usato per la scalata
al potere. Poteva venire giocato solo quando il potere fosse già stato
acquisito; in altre parole, doveva essere giocato da una posizione di forza.
Per riaffermarsi, quindi, i Merovingi erano costretti a ricorrere
a procedure più convenzionali, accettate nel particolare periodo in questione.
Almeno in quattro occasioni, queste procedure sfiorarono il successo, e furono
sventate soltanto da errori di calcolo, dalle circostanze o dall'imprevisto.
Nel XVI secolo, ad esempio, la casa di Guisa per poco non riuscì a impadronirsi
della corona francese. Nel secolo successivo, per poco la Fronda non riuscì a
togliere il trono a Luigi XIV e a sostituirlo con un esponente della casa di
Lorena. Verso la fine del XIX secolo venne preparato il progetto di una sorta
di nuova Lega Santa, che avrebbe unificato l'Europa cattolica - Austria,
Francia, Italia e Spagna - sotto gli Asburgo. I piani furono sventati dal
comportamento inatteso e aggressivo della Germania e della Russia, che
provocarono continui rimescolamenti di alleanze tra le grandi potenze e alla
fine causarono la guerra destinata a rovesciare tutte le dinastie continentali.
Fu nel secolo XVII, comunque, che la stirpe merovingia giunse più
vicina alla realizzazione dei suoi obiettivi. Grazie al matrimonio di
Francesco con Maria Teresa d'Asburgo, la casa di Lorena aveva ottenuto il trono
austriaco, il Sacro romano impero. Quando Maria Antonietta, figlia di
Francesco di Lorena, divenne regina di Francia, anche il trono francese era
lontano non più di una generazione. Se non fosse scoppiata la Rivoluzione
francese, la casa di Asburgo-Lorena avrebbe potuto, nei primi anni
dell'Ottocen-
to, essere in procinto di stabilire il suo dominio su tutta
l'Europa.
Sembra evidente che la Rivoluzione francese fu un colpo disa-stroso
per le speranze e le aspirazioni dei Merovingi. La catastrofe annientò i
disegni meticolosamente ideati e realizzati per un secolo e mezzo. Da certi
riferimenti contenuti nei « documenti del Priorato », inoltre, appare chiaro
che Sion, durante il caos della Rivoluzione, perse molti dei suoi documenti più
preziosi; e forse anche altre cose. Questo potrebbe spiegare perché la carica
di Gran maestro dell'Ordine passò a uomini di cultura francesi che, come
Nodier, avevano accesso a materiale altrimenti non ottenibile. Potrebbe anche
spiegare il ruolo di Saunière. Un predecessore di Saunière. Antoine Bigou.
aveva nascosto - e forse anche composto - le pergamene in codice, alla vigilia
della Rivoluzione; poi era fuggito in Spagna, dove era morto poco tempo dopo. È
quindi possibile che Sion, almeno per un certo tempo, non sapesse con
precisione dov'erano le pergamene. Ma anche se si fosse saputo che erano nella
chiesa di Rennes-le-Chàteau, non sarebbe stato facile recuperarle senza la
collaborazione di un prete del posto, un uomo che eseguisse gli ordini di Sion,
si astenesse dal fare domande imbarazzanti, mantenesse il silenzio e non
ostacolasse gli interessi e l'attività dell'Ordine. E se le pergamene si
riferivano a qualcosa d'altro, qualcosa nascosto nei pressi di
Rennes-le-Chàteau, un uomo così sarebbe stato ancora più opportuno.
Saunière morì senza rivelare il suo segreto. Lo stesso fece la sua
governante, Marie Denarnaud. Negli anni successivi sono stati effettuati molti
scavi nei dintorni di Rennes-le-Chàteau, ma nessuno ha dato risultati. Se,
come presumiamo, un tempo in quella zona era nascosto qualcosa di sensazionale,
senza dubbio fu portato via quando la vicenda di Saunière cominciò ad attirare
l'attenzione dei cercatori di tesori; a mano che gli oggetti in questione
fossero nascosti in qualche luogo inaccessibile per i cercatori, ad esempio in
una cripta sotterranea situata sotto un laghetto artificiale, in una proprietà
privata. La cripta sarebbe stata al sicuro da ogni scavo non autorizzato. Uno
scavo sarebbe impossibile se prima non venisse svuotato il laghetto; e questo
non potrebbe venire fatto clandestinamente, soprattutto da individui che si introducessero
abusivamente in una proprietà privata. In effetti, un laghetto artificiale
esiste presso Rennes-le-Chàteau, vicino a una
località che porta il nome piuttosto appropriato di Lavaldieu (la
Valle di Dio). Il laghetto potrebbe essere stato costruito sopra una cripta
sotterranea, che a sua volta potrebbe essere in comunicazione, per mezzo di un
passaggio segreto, con una delle tante grotte che costellano le montagne
circostanti.
In quanto alle pergamene scoperte da Saunière, due di esse - o
almeno i loro facsimili - sono state riprodotte e pubblicate. Ma le altre due
sono state tenute scrupolosamente segrete. Nella sua conversazione con noi,
Pierre Plantard ci disse che attualmente si trovano in una cassetta di
sicurezza, in una banca dei Lloyds a Londra. Non siamo riusciti e saperne di
più.
E il denaro di Saunière? Sappiamo che, in parte, sembra fosse
stato ottenuto mediante una transazione finanziaria con l'arciduca Giovanni
d'Asburgo. Sappiamo anche che somme cospicue furono messe a disposizione non
soltanto di Saunière, ma anche del vescovo di Carcassonne, da parte dell'abate
Henri Boudet, curato di Rennes-les-Bains. C'è motivo di ritenere che la parte
più consistente degli introiti di Saunière gli venisse pagata da Boudet,
attraverso l'intermediaria Maria Denarnaud, governante dello stesso Saunière.
Naturalmente, dove prendesse tutto quel denaro l'abate Boudet, anche lui un
povero parroco, resta un mistero. Si direbbe che fosse un rappresentante del
Priorato di Sion; ma non si sa se era da Sion che veniva il denaro. Poteva
anche venire dal tesoro degli Asburgo. Oppure dal Vaticano, che sarebbe stato
sottoposto a un ricatto politico d'alto livello tanto da Sion quanto dagli
Asburgo. In ogni caso la questione del denaro, o di un tesoro che poteva averlo
fatto affluire, diventò per noi sempre più incidentale, in confronto alle
nostre scoperte successive. In retrospettiva, la sua funzione principale era
stata attirare la nostra attenzione sul mistero. Poi era diventato
relativamente insignificante.
■ Abbiamo formulato l'ipotesi di una stirpe discesa da Gesù,
che continua a esistere ancora oggi. Naturalmente, non possiamo avere la
certezza che l'ipotesi sia esatta in ogni particolare. Ma anche se qualche
dettaglio, qua e là, è soggetto a modifiche, siamo convinti che le linee
generali della nostra ipotesi siano esatte. Forse abbiamo interpretato in modo
errato il significato delle attività di un Gran maestro, poniamo, o di
un'alleanza nelle lotte
437
per il potere e nelle macchinazioni politiche del secolo XVIII. Ma
le nostre ricerche ci hanno convinti che il mistero di Rennes-le-Chàteau
riguardi un tentativo molto serio, da parte di persone influenti, di riportare
una dinastia merovingia sul trono di Francia, se non addirittura di tutta
l'Europa, e che le pretese di questa monarchia siano fondate sulla discendenza
da Gesù.
In questa prospettiva, molti enigmi, anomalie e interrogativi
senza risposta sollevati dalle nostre ricerche divengono spiegabili. E
diventano spiegabili molti dei tanti frammenti apparentemente banali: il titolo
del libro associato a Nicolas Flamel, ad esempio, // sacro libro di Abraham
il Giudeo, principe, sacerdote, levita, astrologo e filosofo della tribù di
Ebrei che dalla collera di Dio fu dispersa tra i Galli; o la coppa simbolica
di Renato d'Angiò che prometteva, a chi la vuotasse d'un fiato, la visione di
Dio e della Maddalena; o Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz, di
Andrea, che parlano di una misteriosa fanciulla di sangue reale, gettata a
terra a bordo di una barca, e la cui eredità è caduta in mani islamiche ; o il
segreto che Poussin conosceva; e il « Segreto » che si diceva « fosse il cuore
» della Compagnia del Santo Sacramento.
Nel corso delle nostre ricerche avevamo incontrato anche un gran
numero di altri frammenti. Al momento ci erano sembrati insignificanti o non
pertinenti. Ma adesso avevano senso. Adesso sembrerebbe chiaro perché Luigi IX
considerava la Maddalena come capostipite della stirpe reale francese: una
convinzione che a prima vista appariva assurda, anche nel contesto del XV
secolo.1 Adesso sembrerebbe chiaro, inoltre, perché la corona di
Carloma-gno - una copia della quale oggi fa parte del tesoro imperiale degli
Asburgo - portavaTiscrizione « Rex Salomon ».2 E sembrerebbe chiaro
il perché i Protocolli degli anziani di Sion parlano di un nuovo re «
del sacro seme di Davide ».3
Durante la Seconda guerra mondiale, per ragioni che non sono mai
state spiegate in modo convincente, la Croce di Lorena divenne il simbolo
delle forze della Francia Libera, al comando di Charles de Gaulle. In se stesso
è un fatto piuttosto curioso. Perché mai la Croce di Lorena, lo stemma di
Renato d'Angiò, doveva essere l'emblema della Francia? La Lorena non era mai
stata il cuore della Francia. Anzi, per gran parte della sua storia la Lorena
438
era stata un ducato indipendente, uno Stato germanico che faceva
parte del vecchio Sacro romano impero.
In parte, la Croce di Lorena potrebbe esser stata adottata a causa
del ruolo importante che il Priorato di Sion sembra aver avuto nella Resistenza
francese. In parte può essere stata adottata a causa dei rapporti tra Charles
de Gaulle e vari membri del Priorato di Sion, come Pierre Plantard. Ma è
interessante notare che, quasi trent'anni prima, la Croce di Lorena figurava in
modo provocatorio in una poesia di Charles Péguy. Poco tempo prima di morire
nella battaglia della Marna, nel 1914, Péguy, intimo amico di Maurice Barrès,
l'autore della Colline inspirée, compose questi versi:
Les armes de Jésus
c'est la croix de Lorraine, Et le sang dans l'artère et le sang dans la veine,
Et la source de gràce et la claire fontaine;
Les armes de Satan
c'est la croix de Lorraine, Et c'est la mème artère et c'est la mème veine Et
c'est le méme sang et la trouble fountaine...
(Lo stemma di Gesù è la Croce di Lorena, E il sangue nell'arteria
e il sangue nella vena, Sorgente della grazia e limpida fontana;
Lo stemma di Satana è la Croce di Lorena,
Ed è la stessa arteria ed è la stessa vena,
Ed è lo stesso sangue e la torbida fontana...)14
Verso la fine dei secolo XVII'il reverendo padre Vincent, studioso
di storia antica di Nancy, scrisse una storia di Sion in Lorena. Scrisse anche
un'altra opera, intitolata La vera storia di san Sigi-sberto, che
contiene anche un racconto della vita di Dagoberto II.5 Sul
frontespizio di quest'ultima opera c'è un'epigrafe, una citazione tratta dal
Quarto Vangelo: « Egli è tra voi e voi non lo conoscete ».
Prima ancora di incominciare le nostre ricerche, eravamo agnostici,
né filocristiani né anticristiani. In virtù della nostra educazione e dello
studio delle religioni comparate, apprezzavamo il nucleo di validità presente
in quasi tutte le più importanti fedi del mondo, ed eravamo indifferenti al
dogma, alla teologia, alle so-
439
vrastrutture. E mentre rispettavamo ogni credp, non potevamo
riconoscere a nessuno il monopolio della verità.
Perciò, quando le nostre ricerche ci portarono a Gesù, potemmo
affrontarlo con quello che speravamo fosse un senso di equilibrio e di
prospettiva. Non avevamo pregiudizi o preconcetti in un senso o nell'altro, né
interessi di sorta, nulla da guadagnare provando o confutando qualche cosa.
Nella misura in cui l'« obiettività » è possibile, potemmo avvicinarci a Gesù
« obiettivamente », come uno storico dovrebbe accostarsi ad Alessandro o a
Cesare, per esempio. E le conclusioni che ci si imposero, per quanto
sbalorditive, non furono sconvolgenti. Non richiedevano un riesame nelle
nostre convinzioni personali e non sconvolgevano le nostre personali gerarchie
dei valori.
Ma, e gli altri? E i milioni di persone in tutto il mondo per le
quali Gesù è il Figlio di Dio, il Salvatore, il Redentore? In quale misura il
Gesù storico, il re-sacerdote che emergeva dalle nostre ricerche, minaccia la
loro fede? Fino a che punto abbiamo violato ciò che per tanti costituisce la
più amata interpretazione del sacro?
Ci rendiamo conto, naturalmente, che le nostre ricerche ci hanno
portato a conclusioni sotto molti aspetti ostili a certe dottrine fondamentali
del cristianesimo moderno: conclusioni eretiche, forse addirittura blasfeme.
Dal punto di vista di un certo dogma consolidato siamo senza dubbio doppiamente
colpevoli di queste trasgressioni. Ma non crediamo di aver profanato o sminuito
Gesù agli occhi di coloro che lo venerano con sincerità. E sebbene noi non
accettiamo la divinità di Gesù, le nostre conclusioni non impediscono agli
altri di farlo. Molto semplicemente, non c'è motivo perché Gesù non potesse
essere sposato e non potesse avere figli pur conservando la sua divinità. Non
c'è ragione perché la sua divinità debba dipendere dalla castità sessuale.
Anche se era il Figlio di Dio, non c'è ragione perché non dovesse sposarsi e
avere una famiglia.
Alla base di gran parte della teologia cristiana sta l'assunto che
Gesù è Dio incarnato. In altre parole Dio, per pietà verso le sue creature, si
incarnò assumendo forma umana. Così facendo avrebbe potuto conoscere di prima
mano, per così dire, la condizione umana. Avrebbe fatto l'esperienza diretta
delle vicissitudini dell'esistenza degli uomini. Avrebbe compreso, nel senso
più profon-
440
do, cosa significa essere uomo: affrontare da un punto di vista
umano la solitudine, l'angoscia, l'abbandono, la tragica mortalità che è la
sorte dell'umanità. Diventando uomo, Dio avrebbe conosciuto gli uomini in un
modo che l'Antico Testamento non ammette. Rinunciando al suo distacco
olimpico, sarebbe stato direttamente partecipe del destino degli uomini. E
così facendo, avrebbe redento il destino degli uomini, l'avrebbe convalidato e
giustificato facendosene partecipe, soffrendo per esso e venendo ad esso
sacrificato.
Il significato simbolico di Gesù è che egli è Dio esposto alla
gamma dell'esperienza umana, esposto alla conoscenza diretta di ciò che
significa essere un uomo. Ma Dio, incarnato in Gesù, poteva veramente affermare
d'essere un uomo, abbracciare la gamma dell'esperienza umana, senza conoscere
due degli aspetti più fondamentali ed elementari della condizione umana? Dio
poteva affermare di conoscere totalmente l'esistenza umana senza affrontare due
aspetti essenziali dell'umanità come la sessualità e la paternità?
■ Noi non lo pensiamo. Anzi, non pensiamo che l'Incarnazione
simboleggi veramente ciò che vorrebbe simboleggiare, se Gesù non era sposato e
padre. Il Gesù dei Vangeli e del cristianesimo è in ultima analisi incompleto,
un Dio la cui incarnazione umana è soltanto parziale. Il Gesù che emergeva
dalle nostre ricerche, secondo noi, è molto più vicino a ciò che il
cristianesimo vede in lui.
Nel complesso, quindi, non crediamo di aver compromesso o sminuito
Gesù. Non crediamo che abbia sofferto a causa delle conclusioni alle quali ci
hanno condotto le nostre ricerche. Dalla nostra indagine emerge un Gesù vivo e
plausibile, un Gesù la cui vita è più significativa e comprensibile per l'uomo
moderno.
Non siamo in grado di additare un uomo e di asserire che è un
discendente diretto di Gesù. Gli alberi genealogici si biforcano, si
suddividono e, nel corso dei secoli, formano vere e proprie foreste. Oggi
esiste almeno una dozzina di famiglie, in Gran Bretagna e in Europa, con
numerosi rami collaterali, che sono di discendenza merovingia. Tra le altre,
vi sono quelle degli Asburgo-Lorena (duchi titolari di Lorena e re di
Gerusalemme), i Plantard, i
441
Lussemburgo, i Montpézat, i Montesquieu e vari altri. Secondo i «
documenti del Priorato » anche la famiglia Sinclair, in Gran Bretagna, è
imparentata con la stirpe, come lo sono i vari rami degli Stuart. E la famiglia
del Devonshire, tra l'altro, sembra fosse a conoscenza del segreto. Molte di
queste casate potrebbero presumibilmente affermare di discendere da Gesù; e se
in futuro un uomo verrà presentato come un nuovo re-sacerdote, noi non sappiamo
chi sarà.
Ma sono chiare, almeno, parecchie cose. Per quanto ci riguarda
personalmente, un discendente diretto di Gesù non sarebbe più divino, più
intrinsecamente miracoloso di chiunque altro. E senza dubbio, questa posizione
verrebbe condivisa oggi da molta gente. Sospettiamo che sia condivisa dallo
stesso Priorato di Sion. Inoltre la rivelazione dell'esistenza di un individuo
o di un gruppo d'individui discesi da Gesù non sconvolgerebbe il mondo come
l'avrebbe sconvolto ancora un secolo fa. Anche se vi fosse la « prova
incontrovertibile » di questa discendenza, molti si limiterebbero a scrollare
le spalle e a dire: « E con ciò? ». Di conseguenza, sembrerebbe che i
complessi disegni del Priorato di Sion non abbiano molto senso; a meno che
siano legati in qualche modo cruciale alla politica. Quali che siano le
ripercussioni teologiche delle nostre conclusioni, sembra chiaro che ve ne sono
altre: ripercussioni politiche d'effetto potenzialmente enorme, tali da
influire sul pensiero, i valori, le istituzioni del mondo in cui viviamo.
Certamente, in passato, le varie famiglie di discendenza merovingia
erano immerse nella politica e i loro obiettivi includevano il potere politico.
E si potrebbe dire altrettanto del Priorato di Sion e di molti suoi Gran
maestri. Non c'è ragione di presumere che la politica, oggi, non debba essere
ugualmente importante per Sion e per la stirpe. Anzi, tutto indica che Sion
pensi a un'unità tra Chiesa e Stato, un'unità tra secolare e spirituale, sacro
e profano, politica e religione. In molti suoi documenti, Sion asserisce che il
nuovo re, secondo la tradizione merovingia, dovrebbe « regnare ma non governare
». In altre parole, sarebbe un re-sacerdote, con funzioni principalmente
rituali e simboliche; e il compito concreto di governare verrebbe espletato da
altri, forse dal Priorato di Sion.
Nel XIX secolo il Priorato di Sion, operando tramite la massoneria
e FHiéron du Val d'Or, cercò di creare un Sacro romano
442
impero rinnovato e « aggiornato », una sorta di Stati uniti d'Europa
a carattere teocratico, governato simultaneamente dagli Asburgo e da una Chiesa
riformata in modo radicale. L'iniziativa venne frustrata dalla Prima guerra
mondiale e dal crollo di tante dinastie regnanti. Ma non è irrazionale supporre
che gli attuali obiettivi di Sion siano in sostanza molto simili, almeno nelle
linee generali, a quelli dell'Hiéron du Val d'Or.
È superfluo aggiungere che possiamo formulare soltanto ipotesi
circa tali obiettivi. Ma a quanto pare includerebbero una forma teocratica di
Stati uniti d'Europa, una confederazione paneuropea unita in un impero moderno
sotto una dinastia discesa da Gesù. Questa dinastia non occuperebbe soltanto un
trono del potere politico e secolare, ma molto probabilmente anche il trono di
san Pietro. Sotto questa autorità suprema potrebbe sorgere allora una rete
intercollegata di regni o principati, legati da matrimoni dinastici: una
specie di « sistema feudale » del XX secolo, ma senza gli abusi che i moderni
associano a questo termine. E il compito di governare sarebbe1
presumibilmente affidato al Priorato di Sion, che potrebbe assumere, diciamo,
la forma di un Parlamento europeo dotato di poteri esecutivi e/o legislativi.
■
Questa Europa costituirebbe una nuova forza politica unificata in
campo internazionale, un'entità la cui posizione sarebbe paragonabile a quella
degli Stati Uniti d'America o dell'Unione Sovietica. Anzi, potrebbe essere
ancora più forte, poiché sarebbe fondata su profonde basi spirituali ed
emotive anziché su basi astratte, teoriche o ideologiche. Parlerebbe non
soltanto all'intelletto dell'uomo, ma anche al suo cuore. Trarrebbe la propria
forza dalla psiche collettiva dell'Europa occidentale, ridestando il fondamentale
impulso religioso.
Un programma simile può apparire donchisciottesco. Ma la storia ci
ha insegnato a non sottovalutare la forza della psiche collettiva e il potere
che si può conseguire sfruttandola. Pochi anni fa sarebbe parso inconcepibile
che un fanatico religioso, senza un esercito, senza un partito politico alle
spalle; senza altri mezzi se non il carisma e la sete religiosa di un popolo,
riuscisse da solo a rovesciare l'edificio moderno e superbamente attrezzato del
regime dello scià.in Iran. Eppure è ciò che è riuscito a fare l'ayatollah
Komeini.
443
Naturalmente, non intendiamo lanciare un monito. Non paragoniamo
affatto il Priorato di Sion all'ayatollah, né esplicitamente né implicitamente.
Non abbiamo nessun motivo di vedere Sion alonato da una luce sinistra come il
demagogo iraniano. Ma il demagogo iraniano dimostra in modo eloquente la
profondità, l'energia, la forza potenziale dell'impulso religioso negli uomini,
e i modi in cui questo impulso può essere sfruttato ai fini politici. Non è
affatto detto che tali fini debbano comportare un abuso d'autorità. Possono
essere lodevoli, come lo erano quelli di Chur-chill e de Gaulle durante la
Seconda guerra mondiale. L'impulso religioso può venire incanalato in
innumerevoli direzioni. È fonte di un potenziale enorme. E troppo spesso viene
ignorato o sottovalutato dai governi attuali che hanno nella ragione la loro
base ma anche il loro limite. L'impulso religioso rispecchia una profonda
esigenza psicologica ed emotiva. E le esigenze psicologiche ed emotive sono
autentiche e sentite quanto il bisogno di cibo, di una casa, di sicurezza
materiale.
Sappiamo che il Priorato di Sion non è un'organizzazione eccentrica.
Sappiamo che dispone di cospicue fonti finanziarie e ha l'adesione o almeno la
simpatia di uomini importanti e influenti nel campo della politica,
dell'economia, dei mass-media e delle arti. Sappiamo che, a partire dal 1956,
ha più che quadruplicato il numero dei suoi membri, come se stesse
mobilitandosi o preparandosi a qualcosa; e Pierre Plantard ci ha detto che lui
e il suo Ordine stavano lavorando secondo un programma più o meno preciso.
Sappiamo inoltre che a partire dal 1956 Sion sta rendendo disponibili certe
informazioni, con discrezione, poco a poco, in quantità misurate appena
sufficienti per fornire accenni affascinanti. Sono stati tali accenni a far
nascere questo libro.
Se il Priorato di Sion intende « scoprire le sue carte », ora i
tempi sono maturi. I sistemi politici e le ideologie che nei primi anni del
nostro secolo sembravano promettere tanto si sono rivelati più o meno
fallimentari. Il comunismo, il socialismo, il fascismo, il capitalismo, la
democrazia occidentale hanno tutti, in un modo o nell'altro, tradito le promesse,
deluso i loro seguaci, mancato di realizzare i sogni che avevano ispirato. I
politici, con la loro mentalità limitata, la mancanza di una prospettiva, e gli
abusi di potere, non ispirarlo più fiducia, ma soltanto diffidenza. Oggi in
444
Occidente predominano il cinismo, l'insoddisfazione e la disillusione.
Crescono la tensione psichica, l'ansia e la disperazione. Ma c'è anche
un'intensa ricerca di significati, di esaudimento emotivo, di una dimensione
spirituale, di qualcosa in cui credere sinceramente. C'è l'aspirazione a un
rinnovato senso del sacro che in pratica equivale a una vera e propria
rinascita religiosa, esemplificata dalla proliferazione di sette e culti, e
dall'ondata di fondamentalismo che pervade gli Stati Uniti. Inoltre, c'è il
desiderio sempre più intenso di trovare un vero « leader » - non un Fuhrer-ma
una figura spirituale, saggia e benigna, un « re-sacerdote » nel quale
l'umanità possa riporre ogni fiducia. La nostra civiltà si è saziata di
materialismo ed è divenuta consapevole di una sete più profonda. Ora incomincia
a guardare altrove, a cercare l'esaudimento delle sue esigenze emotive,
psicologiche e spirituali.
Questa atmosfera sembra eminentemente favorevole agli obiettivi
del Priorato di Sion. Pone Sion nella condizione di poter offrire
un'alternativa ai sistemi politici e sociali esistenti. Tale alternativa non
costituisce l'Utopia o la Nuova Gerusalemme. Ma poiché soddisfa esigenze che i
sistemi esistenti neppure riconoscono, potrebbe esercitare un'attrazione
immensa.
Vi sono molti cristiani devoti che non esitano a interpretare
l'Apocalisse come un olocausto nucleare. Come potrebbe essere interpretato
l'avvento di un discendente diretto di Gesù? Per un pubblico ricettivo,
potrebbe essere una specie di Seconda venuta.
Note
1 Lacordaire, St Mary Magdalen, p. 185.
2 Encyclopaedia Britannica, XIV ediz. (1972), Crown and Regalia, fig. 2.
3 Nilus, Protocols, n. 24.
4 Péguy, Charles, « La Tapisserie de Saint
Geneviève » in Oeuvres poétiques compìètes (Paris 1957), p. 849.
5 San Sigisberto fu il padre di Dagoberto II.
44 S
Appendice
I presunti Gran maestri del
Priorato di Sion
JEAN
DE GISORS. Secondo i « documenti del Priorato », Jean de Gisors fu il primo
Gran maestro indipendente di Sion, e assunse la carica dopo il « taglio
dell'olmo » e la separazione dai Cavalieri Templari, nel 1188. Nacque nel 1133
e morì nel 1220. Almeno nominalmente, era signore della fortezza di Gisors in
Normandia, dove si svolgevano per tradizione gli incontri tra i re di Francia e
d'Inghilterra e dove, nel 1188, ebbe luogo una strana contesa che comportò
l'abbattimento di un olmo. Fino al 1193 Jean fu vassallo del re d'Inghilterra;
prima di Enrico II, poi di Riccardo I. Aveva proprietà in Inghilterra, nel
Sussex, e il maniero di Titchfield nell'Hampshire. Secondo i « documenti del
Priorato » s'incontrò con Tommao Beckett nel 1169. Non rimangono documentazioni
indipendenti dell'incontro, ma Beckett si recò a Gisors nel 1169 e dovette
avere qualche contatto con il signore della fortezza.
MARIE
DE SAINT-clair. Le
notizie su Marie de Saint-Clair erano ancora più scarse di quelle su Jean de
Gisors. Nata intorno al 1192, discendeva da Henry de Saint-Clair, barone di
Rosslyn in Scozia, che accompagnò Goffredo di Buglione alla Prima Crociata.
Rosslyn era situato non lontano dal principale presidio dei Templari in Scozia,
e la cappella di Rosslyn, costruita nel XV secolo, venne circondata di leggende
rosacrociane e massoniche. La nonna di Marie de Saint-Clair aveva sposato un
uomo della famiglia francese degli Chaumont; come Jean de Gisors sposò una
donna della stessa famiglia. Le genealogie delle famiglie Chaumont, Gisors e
Saint-Clair sono quindi strettamente legate. Secondo certi indizi, Marie de
Saint-Clair sarebbe stata anzi la seconda moglie di Jean de Gisors; ma non
riuscimmo a trovare conferme definitive. Secondo le genealogie contenute nei «
documenti del Priorato », la madre di Marie si chiamava Isabel Letois. Questo
cognome, che sembrerebbe di origine ebraica, è frequente in Linguadoca, dove
c'erano colonie di Ebrei insediate ancor prima dell'era cristiana.
446
TIBAU DE PAYEN
■11 Moro di GHrdilla»
1012 64
CATHER1NE = HUQUES DE PAYEN 1070 1131
OM Ordino de) Tempio
Casa di Chaumont
HUGUES ROBERT =
DE CHAUMONT DE CHAUMONT
1011 67 1017 75
I I
ADELAIDE= HUQUES DE CHAUMONT
1032 75 1° Signore di Gisors
OSMON DE CHAUMONT
1060 1116 Signora di Guiliy
QUILLAUMC DE CHAUMONT
RICHILDE =
erode di Sainl Clair
TI0AUDI = "la Payen» 1055 1130 Signore di Girare
ROBERT DE CHAUMONT
Signora di Guitry
GUILLAUME
DE CHAUMONT
1155 1224
ROBERT
DE SAINT CLAIH
1160 1232
Stirpo
merovingia ,-------
1 1156 I
JEAN VI : "'" 1DOINE
DESPLANTARD 1135 91 1130?
HUGUCS II
1000 1142
Signore di Gisors
JEAN
1133 1320
Signore di Glaors
Fondatore della
Rosacroce nelUBB
QM Priorato di Slon
? DECHAUMONT
GIRARD
AGNESDASSALY
GU1LLAUME 1219 1307 Signore di Gisara G M Priorato di Slon 1288
= IOLANDEDEBAR
La [Inoa continua ai
Tavola 5 Le famiglie di Gisors, Payen e Saint-Clair.
[Dall'opera di H LobineautfH de Lénoncourt) ]
GUILLAUME
de gisors. Guillaume de Gisors,
nipote di Jean de Gisors, nacque nel 1219. Avevamo già incontrato il
suo nome in connessione con la testa misteriosa trovata nel presidio parigino
dei Templari dopo gli arresti del 1307. A parte questo, però, trovammo una sola
menzione esterna del suo nome, in un atto datato 1244 dove si dice che è un
cavaliere. Secondo le genealogie dei « documenti del Priorato », sua sorella
sposò Jean de Plantard. I « documenti del Priorato », inoltre, affermano che
Guillaume, nel 1269, entrò a far parte dell'Ordine della Nave e della Doppia
Mezzaluna. L'ordine fu creato da Luigi IX (san Luigi) per i nobili che lo
accompagnarono nella fallimentare Sesta Crociata. Se Guillaume de Gisors ne
faceva parte, doveva aver partecipato alla campagna in Egitto insieme a san
Luigi.
EDOUARD
DE bar. Nato
nel 1302, Edouard, conte de Bar, poteva vantare come nonno Edoardo I
d'Inghilterra, ed Edoardo II come zio. Discendeva da una famiglia che era stata
influente nelle Ardenne fin dai tempi dei Merovingi, e quasi sicuramente era
imparentata con quella dinastia. La figlia di Edouard sposò un nobile della
casa di Lorena, e le genealogie dei Bar e dei Lorena diventano in seguito
strettamente intrecciate.
Nel 1308, all'età di sei
anni (!), Edouard accompagnò il duca di Lorena in battaglia, fu catturato e
venne riscattato soltanto nel 1314. Divenuto maggiorenne, acquistò la signoria
di Stenay da uno dei suoi zii, Jean de Bar. Nel 1324 fu alleato in operazioni
militari con Ferry di Lorena e Giovanni di Lussemburgo: e la casa di
Lussemburgo, come quella di Lorena, sembra di origine merovingia. Nel 1336
Edouard morì in un naufragio al largo di Cipro.
Nessuna fonte indipendente
ci fornisce qualche legame tra Edouard de Bar e Guillaume de Gisors. Secondo le
genealogie dei « documenti del Priorato », tuttavia, Edouard era pronipote della
moglie di Guillaume, Iolande de Bar. Anche se non potemmo confermare questa
parentela, non trovammo nulla.che la smentisse.
Se, come affermano i «
documenti del Priorato », Edouard divenne Gran maestro di Sion nel 1307, lo
divenne a cinque anni. Questo non è necessariamente improbabile, se fu
catturato sul campo di battaglia quando ne aveva sei. Fino a quando Edouard
raggiunse la maggior età, la contea di Bar fu governata da suo zio, Jean de
Bar, in qualità di reggente. È possibile che Jean fosse anche Gran maestro
reggente. Ma la scelta di un bambino di cinque anni come Gran maestro non
avrebbe senso, a meno che il titolo fosse in un certo senso ereditario, legato
alla stirpe.
JEANNE
DE BAR. Nacque nel 1295; era sorella maggiore di Edouard. Quindi Edoardo I
d'Inghilterra era suo nonno, ed Edoardo II era suo zio.
448
Nel 1310, a quindici anni,
sposò il conte di Warren, Surrey, Sussex e Strathern; divorziò circa cinque
anni più tardi, dopo che il conte venne scomunicato per adulterio. Jeanne
continuò tuttavia a vivere in Inghilterra; e sebbene non riuscissimo a trovare
notizie dettagliate sulle sue attività, sembra che avesse rapporti di estrema
cordialità con il trono inglese. Pare che fossero ottimi anche quelli con il re
di Francia, che nel 1345 la invitò a ritornare in continente, dove Jeanne
divenne reggente della contea di Bar. Nel 1353, nonostante la Guerra dei
cent'anni e le ostilità tra Inghilterra e Francia, Jeanne tornò in Inghilterra.
Quando il sovrano francese fu catturato nel 1356 alla battaglia di Poitiers e
tenuto prigioniero a Londra, Jeanne fu autorizzata a « confortarlo » e a
prendersi cura di lui. Durante la lunga prigionia del re, si dice che Jeanne
fosse divenuta la sua amante, sebbene a quel tempo fossero entrambi avanti
negli anni. Jeanne morì a Londra nel 1361.
Secondo i « documenti del
Priorato », Jeanne de Bar presiedette il Priorato di Sion fino al 1351, dieci
anni prima della morte. Quindi sembra essere stata l'unica, tra i Gran maestri,
che abdicò o fu deposta.
JEAN
de saint-Clair. Le
nostre ricerche non ci permisero di scoprire nulla, virtualmente, su Jean de
Saint-Clair, che sembra essere stato un personaggio minore. Nacque intorno al
1329; discendeva dalle case francesi di Chaumont, Gisors e
Saint-Clair-sur-Epte. Secondo le genealogie dei « documenti del Priorato », suo
nonno aveva sposato la zia di Jeanne de Bar. La relazione è indubbiamente
tenue. Tuttavia, sembra indicare che il titolo di Gran maestro di Sion era
ancora appannaggio esclusivo di certe famiglie imparentate tra loro.
BLANCHE D'EVREUX. Bianche
d'Evreux era in realtà Bianca di Navarra, figlia del re di Navarra. Nacque nel
1332. Ereditò dal padre le contee di Longueville ed Evreux, entrambe vicine a
Gisors; e nel 1359 divenne anche contessa di Gisors. Dieci anni prima aveva
sposato Filippo VI, re di Francia, e per suo tramite conobbe quasi sicuramente
Jeanne de Bar. Trascorse gran parte della sua vita nel castello di Neuphle,
presso Gisors, dove morì nel 1398.
Secondo molte leggende,
Bianca si occupava di studi ed esperimenti alchemici; e la tradizione afferma
che in alcuni dei suoi castelli c'erano Iaboratori. Si dice che possedesse
un'opera alchemica di valore inestimabile, redatta in Linguadoca nel XIV
secolo, ma basata su un manoscritto risalente agli ultimi tempi della dinastia
merovingia, sette secoli prima. Sembra inoltre che fosse protettrice di Nicolas
Flamel.
449
NICOLAS flamel. Quello di Flamel è il primo
nome, nell'elenco dei Gran maestri, che non abbia legami di sangue con le
genealogie dei « documenti del Priorato »; e con lui, la carica di Gran maestro
di Sion cessa di essere un appannaggio di famiglia. Flamel nacque intorno al
1330 e per qualche tempo lavorò a Parigi come scrivano o copista. Grazie al suo
lavoro, gli passavano tra le mani molti libri rari; e divenne esperto di
pittura, poesia, matematica e architettura. Inoltre s'interessò all'alchimia e
al pensiero cabalistico ed ermetico.
Intorno al 1361 Flamel,
secondo ciò che narra egli stesso, s'imbattè per caso in un libro che avrebbe
cambiato la sua vita. Il titolo completo è sconcertante e interessante: // libro
sacro di Abraham il Giudeo, principe, sacerdote, levita, astrologo e filosofo
della tabù di Ebrei che dalla collera di Dio fu dispersa tra i Galli. L'opera
divenne in seguito una delle più famose della tradizione esoterica occidentale.
Si dice che l'originale fosse depositato presso la Biblioteca dell'Arsenale a
Parigi. Le riproduzioni sono state studiate assiduamente, religiosamente e,
sembra, del tutto invano da molte generazioni di aspiranti adepti.
Secondo il suo racconto,
Flamel sudò sul volume per ventun anni, senza ottenere risultati migliori.
Finalmente, durante un viaggio in Spagna nel 1382, incontrò a Leon un Ebreo
convertito che gli spiegò il testo. Tornato a Parigi, mise in pratica quanto
aveva imparato; e si dice che compisse la sua prima trasmutazione alchemica
riuscita a mezzogiorno del 17 gennaio: la data che ricorre con tanta insistenza
nella vicenda di Saunière e di Rennes-le-Chàteau.
Indipendentemente dal fatto
che il racconto di Flamel sia esatto o no, è certo che egli divenne
ricchissimo. Verso fine della sua vita, nella sola Parigi possedeva più di
trenta case e appezzamenti di terreno. Nel contempo, però, sembra fosse
modesto; non amava il potere e spendeva gran parte del suo denaro in opere di
bene. Prima del 1413 aveva fondato e dotato quattordici ospedali, sette chiese
e tre cappelle a Parigi, e altri a Boulogne (la vecchia contea del padre di
Goffredo di Buglione). Più ancora della sua straordinaria fortuna, questo
altruismo lo rese caro ai posteri. Ancora nel XVII secolo era tenuto nella più
alta considerazione da uomini come Isaac Newton, che lesse meticolosamente le
sue opere, le annotò e addirittura ne copiò una a mano.
RENATO D'ANGIÒ. Non
scoprimmo nessun contatto documentato tra Flamel e Renato d'Angiò. Nel
contempo, però, Renato ci offriva molti motivi di riflessione. Sebbene oggi sia
poco noto, fu uno dei personaggi più importanti degli anni che precedettero il
Rinascimento. Nato nel 1408, nel corso della sua vita finì per accumulare
un'impressionante serie di titoli. Tra i più importanti figuravano: conte di
Bar, di Provenza, di Piemonte, di
450
Guisa, duca di Calabria,
d'Angiò, di Lorena, re d'Ungheria, di Napoli e Sicilia, d'Aragona, Valenza,
Maiorca e Sardegna. Ma forse il più altisonante di tutti era il titolo di re
di Gerusalemme, anche se ovviamente era soltanto nominale. Tuttavia indicava
una continuità che risaliva a Goffre-do di Buglione, ed era riconosciuto dagli
altri potentati europei. Una delle figlie di Renato sposò nel 1445 Enrico VI
d'Inghilterra e divenne uno dei personaggi di maggior rilievo della Guerra
delle due rose.
Secondo i« documenti del
Priorato », Renato divenne Gran maestro di Sion a dieci anni; e suo zio Luigi,
cardinale di Bar, esercitò la reggenza di questa carica fino al 1428. Le nostre
ricerche rivelarono che Renato era entrato nel 1418 in un certo Ordine del
Levriero Bianco, sul cui conto non riuscimmo a scoprire altre notizie
importanti. Senza dubbio poteva essere Sion, sotto un altro nome.
Tra il 1420 e il 1422 il
cardinale di Lorena fondò un altro ordine, L'Ordre de la Fidélité, e Renato fu
uno dei primi ammessi. Nel 1448, Renato creò a sua volta un ordine, l'Ordine
della Mezzaluna; egli stesso affermava che era una nuova versione del vecchio
Ordine della Nave e della Doppia Mezzaluna (di cui aveva fatto parte Guillaume
de Gisors un secolo e mezzo prima). Tra i primi Cavalieri della Mezzaluna
figuravano anche Francesco Sforza, duca di Milano e padre del futuro mecenate di
Leonardo da Vinci; il conte di Lénoncourt, il cui discendente, secondo i «
documenti del Priorato », compilò le genealogie dei Dossiers segreti; e
Ferri, signore di un importante feudo in Lorena che risaliva ai tempi merovingi
ed era chiamato Sion-Vaudémont. Secondo le intenzioni di Renato, questi
personaggi costituivano per così dire la sua risposta all'Ordine della
Giarrettiera inglese e all'Ordine del Toson d'Oro borgognone. Ma per ragioni
che permangono oscure, l'Ordine della Mezzaluna incorse nell'ira della Chiesa e
fu soppresso dal papa.
t da Renato d'Angiò che
deriva la moderna Croce di Lorena, simbolo della Resistenza francese durante la
Seconda guerra mondiale. Quando divenne duca di Lorena, la doppia croce fu il
suo stemma personale.
IOLANDE DE BAR. Nata intorno
al 1428, era figlia di Renato d'Angiò. Nel 1445 sposò Ferri, signore di
Sion-Vaudémont, uno dei primi cavalieri dell'Ordine della Mezzaluna fondato da
Renato. Dopo la morte di Ferri, Iolande trascorse gran parte della sua vita a
Sion-Vaudémont, che sotto i suoi auspici divenne, da centro locale di
pellegrinaggi, un luogo sacro per tutta la Lorena. In passato, ai tempi dei
pagani, era già stato un luogo sacro; in seguito vi venne ritrovata una statua
di Rosemerthe, un'antica Dea Madre gallo-teutonica. Anche nei primi tempi
dell'era cristiana la località aveva carattere sacro, sebbene si chiamasse
allora Monte Semita, un nome più giudaico che cristiano. In epoca merovingia vi
era stata eretta
451
una statua della Vergine, e
nel 1070 il conte di Vaudémont si era autoproclamato « vassallo della Regina
del Cielo ». La Vergine di Sion fu dichiarata ufficialmente « Sovrana della
contea di Vaudémont » ; in maggio si celebravano feste in suo onore, ed era
riconosciuta come protettrice della Lorena. Le nostre ricerche ci permisero di
ritrovare un documento datato 1396 che riguarda una confraternita cavalieresca
con sede sulla montagna, la Confraternita dei Cavalieri di Sion, che faceva
risalire le proprie origini alla vecchia abbazia di Monte Sion nei pressi di
Gerusalemme. Nel secolo XV, tuttavia, sembra che Sion-Vaudémont avesse perso in
parte la sua importanza, e Iolande de Bar si adoperò per rendergli la gloria di
un tempo.
Il figlio di Iolande,
Renato, divenne in seguito duca di Lorena. Per ordine dei genitori studiò a
Firenze, dove imparò a conoscere bene la tradizione esoterica e l'orientamento
delle accademie. Il suo insegnante fu Giorgio Antonio Vespucci, uno dei
principali mecenati del Botticelli.
SANDRO BOTTICELLI. Sandro
Filipepi, più noto come Botticelli, nacque nel 1444. Escludendo Nicolas Flamel,
è il primo dei presunti Gran maestri di Sion non imparentato con le famiglie le
cui genealogie figurano nei « documenti del Priorato ». Sembra però che avesse
rapporti molto stretti con alcune di queste famiglie. Tra i suoi protettori vi
furono i Medici, gli Estensi, i Gonzaga e i Vespucci: e un Vespucci fu maestro
del figlio di Iolande de Bar, futuro duca di Lorena. Il Botticelli studiò
presso Filippo Lippi e il Mantegna, che erano stati entrambi protetti di Renato
d'Angiò. Studiò anche presso il Verrocchio, alchimista ed esponente del
pensiero ermetico che fu maestro anche di Leonardo da Vinci.
Come tanti altri, non
vedevamo il Botticelli come un personaggio legato all'« occulto » e all'esoterismo.
Ma recentemente diversi studiosi del Rinascimento - ad esempio Edgar Wind e
Frances Yates - hanno sostenuto che aveva tendenze esoteriche, e noi abbiamo
ceduto alle loro conclusioni convincenti. Sembra che Botticelli fosse un'«
esoterista » e molte delle sue opere rispecchiano princìpi esoterici. Uno dei
più antichi mazzi di Tarocchi che si conoscono viene attribuito al Botticelli o
al suo maestro, il Mantegna. E il famoso quadro della Primavera è, tra
le altre cose, una elaborazione del tema dell'Arcadia e dell'esoterico « fiume
sotterraneo ».
LEONARDO DA VINCI. Nato nel
1452, Leonardo conosceva molto bene il Botticelli, soprattutto perché furono
entrambi apprendisti presso il Verrocchio. Come il Botticelli, fu protetto dai
Medici, gli Estensi e i Gonzaga. Inoltre ebbe come mecenate Ludovico Sforza,
figlio di Francesco Sforza, uno dei migliori amici di Renato d'Angiò e membro
dell'Ordine della Mezzaluna.
452
Gli interessi e gli
orientamenti esoterici di Leonardo, come quelli del Botticelli, sono ormai
accertati. Frances Yates, in una conversazione con uno dei nostri ricercatori,
disse che era stato un « rosacrociano ». Ma nel caso di Leonardo l'interesse
per l'esoterismo era ancora più grande di quello del Botticelli. Persino il
Vasari, suo biografo e contemporaneo, dice che aveva « una mente eretica ». Non
è chiaro che cosa potesse costituire di preciso tale eresia. Tuttavia, durante
gli ultimi anni della sua vita certi autori gli hanno attribuito l'antica
credenza eretica che Gesù avesse un fratello gemello. Vi sono senza dubbio
alcuni indizi a sostegno di questa asserzione, in un cartone intitolato La
Vergine con san Giovanni Battista e sant'Anna, e nel famoso Cenacolo, dove
vi sono in effetti due Cristi virtualmente identici. Ma nulla indica se la
dottrina relativa al gemello di Gesù debba essere interpretata letteralmente o
simbolicamente.
Tra il 1515 e il 1517
Leonardo, nelle qualità di ingegnere militare, seguì l'esercito di Carlo di
Montpensier e di Borbone, connestabile di Francia, viceré di Linguadoca e di
Milano. Nel 1518 si stabilì nel castello di Cloux, non lontano dal connestabile
che viveva ad Amboise.
CONNESTABILE DI BORBONE.
Carlo di Montpensier e di Borbone, duca di Chàtellerault, connestabile di
Francia, fu probabilmente il più potente nobile francese all'inizio del XVI
secolo. Nato nel 1490, era figlio di Clara Gonzaga; e sua sorella sposò il duca
di Lorena, nipote di Iolande de Bar e pronipote di Renato d'Angiò. Dell'entourage
personale di Carlo faceva parte anche Jean de Joyeuse, il quale era
divenuto, grazie a un matrimonio, signore di Couiza, Rennes-le-Chàteau e
Arques, nei cui pressi si trova la tomba identica a quella dipinta da Poussin.
Come viceré di Milano, Carlo
ebbe contatti con Leonardo da Vinci; e sembra che questi contatti continuassero
più tardi, ad Amboise. Nel 1521 Carlo cadde in disgrazia presso Francesco I di
Francia; fu costretto ad abbandonare le sue terre e a fuggire dal paese. Trovò
rifugio presso Carlo V, Sacro romano imperatore, e divenne uno dei comandanti dell'esercito
imperiale. Sconfisse e fece prigioniero il re di Francia nella battaglia di
Pavia, nel 1525. Due anni dopo fu ucciso mentre assediava Roma, durante il
sacco della città.
FERRANTE I gonzaga. Ferrante Gonzaga nacque nel
1507. Era figlio di Francesco, marchese di Mantova e di Isabella d'Este,
protettrice di Leonardo da Vinci. Il suo titolo principale era conte di
Guastalla. Nel 1527 collaborò con il cugino Carlo di Borbone in varie
operazioni militari. Qualche anno dopo, sembra, si alleò segretamente con
Francesco di Lorena duca di Guisa, che per poco non riuscì a impadronirsi del
trono
453
francese. Come tutti o quasi
tutti i Gonzaga di Mantova, Ferrante era appassionato del pensiero esoterico.
Nel contempo, Ferrante
Gonzaga ci metteva di fronte all'unica notizia palesemente errata che avemmo
modo di incontrare in tutti i « documenti del Priorato ». Secondo l'elenco dei
Gran maestri di Sion incluso nei Dossiers segreti, Ferrante presiedette
l'Ordine fino alla sua morte, nel 1575. Ma secondo fonti indipendenti sarebbe
morto nei pressi di Bruxelles nel 1557. Le circostanze della sua morte sono
estremamente vaghe, e certo è possibile che nel 1557 non morisse, ma si desse
alla clandestinità. D'altra parte, la data dei Dossiers segreti potrebbe
essere un errore. Inoltre, Ferrante ebbe un figlio, Cesare, che morì nel 1557,
e che forse venne confuso con il padre, volutamente o no. Il fatto è che non
trovammo altre inesattezze clamorose nei « documenti del Priorato », neppure
quando si trattava di notizie relative a personaggi e fatti molto più oscuri,
che potevano venire contraddette da fonti indipendenti. Ci sembrava quasi
inconcepibile che in questo particolare caso fosse stato commeso un errore per
imprecisione o noncuranza. Al contrario, sembrava quasi che l'errore confutando
in modo clamoroso le notizie storiche accettate, fosse stato inserito per
indicare qualcosa.
LUIGI DI NEVERS. Luigi, duca
di Nevers, era un Gonzaga. Nato nel 1539, era nipote di Ferrante Gonzaga, suo
predecessore nell'elenco dei Gran maestri di Sion. Suo fratello sposò
un'Asburgo e sua figlia sposò il duca di Longueville, un titolo detenuto in
passato da Bianche d'Evreux; una sua pronipote sposò il duca di Lorena e dedicò
un notevole interesse per la vecchia località sacra di Sion-Vaudémont. Nel 1622
vi fece installare una croce, e nel 1627 fondò una casa e una scuola di
religiosi.
Durante le Guerre di
religione, Luigi di Nevers fu stretto alleato della casa di Lorena e del ramo
cadetto, la casa di Guisa, che sterminarono la dinastia dei Valois e per poco
non riuscirono a impadronirsi del trono. Nel 1584, ad esempio, Luigi di Nevers,
il duca di Guisa e il cardinale di Lorena firmarono un trattato impegnandosi a
osteggiare Enrico HI di Francia. Come i suoi alleati, tuttavia, Luigi di Nevers
si riconciliò con Enrico IV, e divenne sovrintendente delle finanze sotto il
nuovo sovrano. In questa carica, avrebbe avuto modo di trattare con il padre di
Robert Fludd. Sir Thomas Fludd era infatti tesoriere del contingente militare
inviato da Elisabetta I d'Inghilterra in appoggio al re di Francia.
Come tutti i Gonzaga, Luigi
di Nevers era profondamente versato nella tradizione esoterica; si crede che
avesse contatti con Giordano Bruno, il quale, secondo Frances Yates, faceva
parte di certe società segrete ermeti-che, antesignane dei rosacrociani. Nel
1582, ad esempio, Luigi si trovava in Inghilterra e frequentava Sir Philip
Sidney (autore di Arcadia) e John
454
Dee, il più famoso
esoterista inglese di quel tempo. Un anno dopo Bruno si recò a Oxford e
frequentò gli stessi personaggi; secondo Frances Yates, collaborò alle attività
della loro organizzazione clandestina.
ROBERTFLUDD. Nato nel 1574,
Robert Fludd divenne, dopo John Dee, il principale esponente inglese del
pensiero esoterico. Scrisse e pubblicò molte opere su una vasta gamma di
argomenti esoterici, e sviluppò una delle formulazioni più ampie della
filosofia ermetica che siano mai state scritte. Frances Yates ritiene che
alcune sue opere possano essere « il Sigillo o il codice segreto di una setta o
società ermetica ». Sebbene Fludd non affermasse mai di far parte dei
rosacrociani che a quel tempo suscitavano tanto scalpore sul continente, li
appoggiò con calore, dichiarando che il « sommo bene » era rappresentato dalla
« magia, cabala e alchimia dei Fratelli della Rosacroce ».
Nel contempo, Fludd
raggiunse una posizione onorata nel Collegio dei medici di Londra; e tra i suoi
amici c'era anche William Harwey, lo scopritore della circolazione del sangue.
Fludd godette della stima di Giacomo I e di Carlo I, che gli concessero le
rendite di terreni situati nel Suffolk. E fece parte della commissione di
studiosi che diresse la traduzione della famosa Bibbia di re Giacomo, la più
nota versione inglese della Bibbia.
Il padre di Fludd aveva
avuto contatti di lavoro con Luigi di Nevers. Lo stesso Fludd studiò a Oxford,
dove John Dee e Sir Philip Sidney avevano creato pochi anni prima una cerchia
esoterica. Tra il 1596 e il 1602 Fludd fece lunghi viaggi in Europa, e
frequentò molti personaggi che in seguito parteciparono al movimento
rosacrociano. Tra questi c'era Janus Gruter, amico intimo di Johann Valentin
Andrea.
Nel 1602 a Fludd fu affidato
un incarico interessante e, per noi, significativo. Fu chiamato a Marsiglia
come istitutore personale dei figli del duca di Guisa, in particolare di Carlo,
il giovane duca. I suoi rapporti con Carlo , continuarono fino al 1620.
Nel 1610 Carlo, duca di
Guisa, sposò Enrichetta Caterina de Joyeuse. I possedimenti di quest'ultima
includevano Couiza, ai piedi della montagna su cui sorge Rennes-le-Chàteau. E
includevano anche Arques, il sito della tomba identica a quella dipinta da
Poussin. Una ventina d'anni più tardi, nel 1631, il duca di Guisa, dopo aver
cospirato contro il trono francese, andò volontariamente esule in Italia, dove
presto lo raggiunse la moglie. Morì nel 1641. Ma a sua moglie non fu permesso
di ritornare in Francia fino a quando non acconsentì a vendere alla corona
Couiza e Arques.2
JOHANN VALENTIN ANDREA.
Andrea, figlio di un pastore e teologo luterano, nacque nel 1586 nel
Wurttemberg, che confinava con la Lorena e il
455
Palatinato. Già nel 1610
stava viaggiando per l'Europa, e si diceva che facesse parte di una società
segreta ermetica o esoterica. Nel 1614 fu ordinato diacono di una cittadina nei
pressi di Stoccarda, dove rimase indisturbato anche durante il caos della
successiva Guerra dei trent'anni (1618-48).
ROBERTBOYLE.
Robert Boyle nacque nel 1627. Era il figlio minore del conte di Cork.
Più tardi venne offerta anche a lui una parìa, ma la rifiutò. Studiò a Eton,
dove il rettore, Sir Henry Wotton, aveva stretti legami con l'entourage
rosacrociano di Federico del Palatinato.
Nel 1639 Boyle partì per
compiere un lungo viaggio in Europa. Trascorse diverso tempo a Firenze dove i
Medici, nonostante le pressioni del papato, continuavano a proteggere
esoteristi e scienziati, Galileo incluso. E si fermò per ventun mesi a Ginevra,
dove s'interessò a molti argomenti esoterici, compresa la demonologia. Durante
il soggiorno ginevrino si procurò un'opera, II Diavolo di Mascon, tradotta
da un certo Pierre du Moulin che divenne suo amico per tutta la vita. Il padre
di du Moulin era cappellano di Caterina di Bar, moglie di Enrico di Lorena,
duca di Bar. In seguito, il vecchio du Moulin fu protetto da Enrico de la Tour
d'Auvergne, visconte di Turenne e duca di Buglione.
Rientrato in Inghilterra nel
1645, Boyle si mise subito in contatto con la cerchia di Samuel Hartlib, amico
intimo e corrispondente di Andrea. In varie lettere datate 1646 e 1647, parla
ripetutamente del « Collegio Invisibile ». Dichiara, ad esempio, che « le
pietre angolari del Collegio Invisibile (o come dicono loro stessi,
Filosofico) mi onorano di tanto in tanto della loro compagnia ».
Nel 1654 Boyle era a Oxford,
dove fece amicizia con John Wilkin, già cappellano di Federico del Palatinato.
Nel 1660 Boyle fu tra i primi personaggi pubblici che giurarono fedeltà agli
Stuart dopo la loro restaurazione, e Carlo II divenne patrono della Royal
Society. Nel 1668 Boyle si stabilì a Londra con la sorella, imparentata per
matrimonio con John Dury, un altro amico e corrispondente di Andrea. Nella sua
casa londinese Boyle ricevette visitatori illustri, incluso Cosimo III de'
Medici, granduca di Toscana.
In quegli anni gli amici più
intimi di Boyle erano Isaac Newton e John Locke. Si dice che insegnasse a
Newton i segreti dell'alchimia. Comunque, è certo che si incontravano
regolarmente per discutere e studiare opere alchemiche. Nel frattempo Locke,
poco dopo aver conosciuto Boyle, partì per un lungo soggiorno nella Francia
meridionale. Si sa che si aggirò piuttosto a lungo nei dintorni di Tolosa,
Carcassonne e Narbona, e probabilmente anche nei dintorni di
Rennes-le-ChSteau. Si sa che frequentò la duchessa di Guisa. Si sa che studiò i
documenti dell'Inquisizione relativi ai
456
Catari, e la storia delle
leggende secondo cui la Maddalena aveva portato il Santo Graal a Marsiglia. Nel
1676 visitò la presunta casa della Maddalena a Saint Baume.
Mentre Locke esplorava la
Linguadoca, Boyle continuava una voluminosa corrispondenza con il continente.
Tra le sue carte vi sono lettere che comprendono la metà di un prolungato
rapporto epistolare con un personaggio francese elusivo e altrimenti
sconosciuto, un certo Georges Pierre: un nome che molto probabilmente è uno
pseudonimo. Le lettere parlano molto di alchimia e di esperimenti alchemici.
Ma, cosa più importante, parlano anche dell'appartenenza di Boyle a una società
segreta ermetica, della quale facevano parte anche il duca di Savoia e du
Molin.
Tra il 1675 e il 1677 Boyle
pubblicò due ambiziosi trattati alchemici, Incalescenza del mercurio con
l'oro e Resoconto storico di una degradazione dell'oro. Nel 1689
annunciò ufficialmente che non poteva ricevere visite in certi giorni,
riservati agli esperimenti alchemici. Gli esperimenti, scriveva, dovevano
realizzare la mia
persistente intenzione di lasciare una sorta di eredità ermetica agli studiosi
discepoli di quell'arte e di affidare con sincerità in uno scritto allegato
alcuni processi, chimici e medici, meno semplici e chiari di quelli a malapena
illuminati che usavo compiere, e d'una sorta più difficile ed elaborata di
quelli da me pubblicati sinora, e più affini ai nobilissimi segreti ermetici o,
come li chiama Helmont, « arcana majo-ra ».3
Boyle soggiunge che è suo
intendimento parlare nel modo più chiaro possibile « sebbene gli usi pieni e
completi non siano menzionati, in parte perché, nonostante la mia filantropia,
sono vincolatola! segreto ».4
Lo « scritto allegato » cui
accenna Boyle non venne mai trovato. Forse passò nelle mani di Locke, o più
probabilmente di Newton. Quando morì nel 1691 Boyle affidò tutte le altre sue
carte a questi due confidenti, insieme a campioni di una misteriosa « polvere
rossa » che viene menzionata spesso nella corrispondenza di Boyle e nei suoi
esperimenti alchemici.
ISAAC NEWTON. Isaac Newton
nacque nel Lincolnshire nel 1642; discendeva dall'« antica nobiltà scozzese »,
come affermava lui stesso, anche se a quanto pare nessuno prendeva molto sul
serio questa asserzione. Studiò a Cambridge; nel 1672 entrò a far parte della
Royal Society e l'anno seguente conobbe Boyle. Nel 1689-90 fece amicizia con
John Locke e un personaggio enigmatico, chiamato Nicholas Fatio de Duillier.
Discendente dell'aristocrazia ginevrina, Fatio de Duillier si aggirò con
arrogante noncuranza per tutta l'Europa. Sembra che in certe occasioni
svolgesse attivi-
45/
tà spionistiche, di solito
contro Luigi XIV di Francia. A quanto pare, aveva stretti rapporti d'amicizia
con tutti gli scienziati importanti del suo tempo. E dal momento in cui
comparve in Inghilterra divenne il miglior amico di Newton. Per almeno un
decennio, i loro nomi appaiono legati inestricabilmente.
Nel 1696 Newton divenne
direttore della Zecca reale e contribuì a stabilire il titolo dell'oro. Nel
1703 fu eletto presidente della Royal Society. In quel periodo, inoltre, fece
amicizia con un giovane protestante, profugo dalla Francia, che si chiamava
Jean Desaguliers e che era uno dei due curatori degli esperimenti della Royal
Society. Negli anni che seguirono, Desaguliers divenne una delle figure
principali della sorprendente diffusione della massoneria in Europa. Aveva
legami con illustri personaggi massonici come James Anderson, il cavalier
Ramsay e Charles Radclyffe. E nel 1731, quale Maestro della Loggia massonica
dell'Aia, presiedette all'iniziazione del primo principe europeo che divenne
membro dell'« arte ». Il principe era Francesco, duca di Lorena, che in
seguito al matrimonio con Maria Teresa d'Austria, divenne Sacro romano imperatore.
Dai documenti non risulta
che Newton fosse massone. Tuttavia, faceva parte di un'istituzione
semi-massonica, il « Gentleman's Club di Spal-ding », al quale appartenevano
personalità come Alexander Pope. Inoltre, certe sue prese di posizione e certe
sue opere rispecchiano interessi condivisi da illustri massoni di quel tempo.
Come molti autori massonici, considerava Noè, più che Mosé, come fonte suprema
della sapienza esoterica. Già nel 1689 aveva iniziato quella che, riteneva una
delle sue opere più importanti, uno studio delle antiche monarchie. L'opera, La
cronologia riveduta e corretta dei regni antichi, cercava di accertare le
origini dell'istituo monarchico, nonché il primato di Israele su tutte le
culture dell'antichità. Secondo Newton, l'antico giudaismo era stato un
patrimonio di sapienza divina, che in seguito si era inquinato e corrotto ed
era andato in gran parte perduto. Tuttavia, egli riteneva che in parte fosse
pervenuto a Pitagora, la cui « musica delle sfere » rappresentava ai suoi occhi
una metafora della legge di gravita. Nel tentativo di formulare una precisa
metodologia per la datazione degli eventi delle Scritture e del mito classico,
usò come perno la cerca del Vello d'Oro da parte di Giasone; e come altri
autori massoni ed esoterici, interpretò la cerca come un'allegoria alchemica.
Inoltre, si sforzò di discernere « corrispondenze » o correlazioni ermetiche
tra la musica e l'architettura. E come molti massoni, attribuiva grande
importanza alla configurazione e alle dimensioni del Tempio di Salomone;
riteneva che nascondessero formule alchemiche, e che le antiche cerimonie
celebrate nel Tempio riguardassero processi alchemici.
458
Questi interessi di Newton
furono per noi una specie di rivelazione. Di certo, non concordano con l'idea
che si ha di lui nel' nostro secolo, l'immagine dello scienziato che stabilisce
definitivamente la separazione tra la filosofia naturale e la teologia. In
realtà, invece, più di ogni altro scienziato del suo tempo, Newton conosceva
molto bene i testi ermetici e rispecchiava la tradizione dell'ermetismo.
Profondamente religioso, cercava con ansia ossessiva un'unità divina e una
rete di corrispondenze insite nella natura. La sua ricerca Io spinse a
esplorare la geometria sacra e la numerologia: uno studio delle proprietà
intrinseche delle forme e dei numeri. A causa della sua amicizia con Boyle era
anche un alchimista praticante, e anzi attribuiva la massima importanza alla
propria opera alchemica.5 Oltre a copie annotate personalmente dei «
manifesti rosacro-ciani », la sua biblioteca comprendeva più di cento testi
alchemici. Uno di essi, un'opera di Nicolas Flamel, l'aveva ricopiato
laboriosamente di sua mano. Newton non abbandonò mai l'interesse per
l'alchimia. Ebbe una voluminosa ed enigmatica corrispondenza sull'argomento con
Boyle, Locke, Fatio de Duillier e altri. In una lettera, certe parole chiave
sono addirittura espunte.
Se gli interessi scientifici
di Newton erano meno ortodossi di quanto avessimo immaginato all'inizio, Io
erano anche le sue concezioni religiose. Era fermamente ostile all'idea della
Trinità. Inoltre, ripudiava il deismo di gran moda ai suoi tempi, che riduceva
il cosmo a un'immensa macchina costruita da un Ingegnere Celeste. Contestava la
divinità di Gesù e collezionava avidamente manoscritti che trattavano
l'argomento. Dubitava dell'autenticità assoluta del Nuovo Testamento, e
riteneva che certi passi fossero interpolazioni del V secolo. Era profondamente
affascinato da alcune delle più antiche eresie gnostiche e scrisse uno studio
su una di esse.6
Ispirato da Fatio de
Duillier, Newton dimostrò anche una sorprendente simpatia per i Camisards, o
profeti delle Cévennes che, poco dopo il 1705, cominciarono a comparire a
Londra. Così chiamati per le loro tuniche bianche, i Camisards, come un tempo i
Catari, erano spuntati nella Francia meridionale. Come i Catari, si opponevano
vigorosamente a Roma ed esaltavano la supremazia della gnosi, o conoscenza
diretta, sulla fede. Come i Catari, contestavano la divintà di Gesù. E come i
Catari erano stati brutalmente repressi manu militari: una specie di
Crociata contro gli Albigesi del XVIII secolo. Scacciati dalla Linguadoca, gli
eretici si erano rifugiati a Ginevra e a Londra.
Qualche settimana prima di
morire, Newton, con l'aiuto di pochi amici intimi, bruciò sistematicamente
numerose cassette di manoscritti e di carte personali. Con grande stupore, i
suoi contemporanei notarono che, sul letto di morte, non chiese i conforti
della religione.
459
CHARLES RADCLYFFE. A partire
dal XVI secolo i Radclyffe furono un'influente famiglia del Northumberland.
Nel 1688, poco prima di venire detronizzato, Giacomo II li aveva fatti conti di
Derwentwater. Charles Radclyffe nacque nel 1693. Sua
madre era figlia illegittima di Carlo II e di Moli Davis. Quindi Radclyffe, per
parte di madre, era di sangue reale, nipote di Carlo II. Era cugino del «
Bonnie Prince Charlie », il Giovane pretendente, e di George Lee, conte di
Lichfield, un altro nipote illegittimo del re Stuart. Non è quindi sorprendente
che Radclyffe dedicasse la vita alla casa degli Stuart.
CARLO DI LORENA. Nato nel
1744, Carlo di Lorena era fratello minore di Francesco. È probabile che
entrambi i fratelli, durante l'infanzia, risentissero dell'influenza
giacobita, perché il loro padre aveva offerto rifugio e protezione a
Bar-le-Duc, agli Stuart esiliati. Nel 1735, quando Francesco sposò Maria
Teresa, Carlo divenne cognato della futura imperatrice d'Austria. Undici anni
più tardi, nel 1744, sposò la sorella di Maria Teresa, Maria Anna. Nello stesso
anno fu nominato governatore generale dei Paesi Bassi austriaci (l'attuale
Belgio) e comandante in capo dell'esercito austriaco.
All'atto del matrimonio,
Francesco aveva rinunciato a tutti i diritti e le pretese sulla Lorena, che
passò praticamente in mani francesi. In cambio ebbe il granducato di Toscana.
Carlo, invece, rifiutò incrollabilmente di riconoscere l'accordo, rifiutò di
rinunciare alle sue pretese sulla Lorena. Dopo l'abdicazione di Francesco,
quindi, era duca titolare di Lorena. E nel 1742, alla testa di 70.000 uomini,
partì per riconquistare la sua terra natale. Molto probabilmente ci sarebbe
riuscito se non fosse stato costretto a dirottare sulla Boemia per arrestare
l'invasione francese.
Nelle operazioni militari
che seguirono, Carlo si dimostrò un abile comandante. Oggi sarebbe considerato
senza dubbio uno dei migliori generali del suo tempo, se non avesse avuto la
sfortuna di trovarsi ripetuta-mente di fronte a Federico il Grande. Fu appunto
contro Carlo che Federico di Prussia ottenne una delle sue vittorie più sonanti
e decisive nella battaglia di Leuthen, nel 1757. Tuttavia, Federico considerava
Carlo un degno e « temibile » avversario, e parlava di lui con grande stima.
Dopo la sconfitta di
Leuthen, Carlo fu esonerato dal comando e si ritirò nella sua capitale,
Bruxelles. Si atteggiò a patrono delle arti e raccolse intorno a sé una corte
brillante, elegante e colta che divenne un centro di letteratura, pittura,
musica e teatro. Sotto molti aspetti, la corte di Carlo ricordava quella del
suo avo Renato d'Angiò; e forse la rassomiglianza era voluta.
Nel 1761 Carlo divenne Gran
maestro dell'Ordine Teutonico, epigono dei vecchi Cavalieri Teutonici, i «
protetti » tedeschi dei Templari che fino
460
al secolo XVI furono una grande
potenza militare. Più tardi, nel 1770, venne nominato un nuovo coadiutore
dell'Ordine Teutonico: il nipote prediletto di Carlo, Massimiliano. Negli anni
che seguirono, i legami tra zio e nipote divennero molto stretti; e nel 1775,
quando a Bruxelles venne inaugurato un monumento equestre a Carlo, Massimiliano
era presente. L'inaugurazione ufficiale della statua avvenne il 17 gennaio: la
data della prima trasmutazione alchemica di Nicolas Flamel, della pietra tombale
di Marie de Blanchefort, dell'attacco cardiaco che portò alla morte Saunière.
MASSIMILIANO DI LORENA. Nato
nel 1756, Massimiliano di Lorena - o Massimiliano d'Asburgo - era il nipote
prediletto di Carlo di Lorena e il figlio minore di Maria Teresa. In gioventù
sembrava destinato alla carriera militare, ma una caduta da cavallo lo lasciò
con una gamba menomata. Perciò preferì dedicare le sue energie alla Chiesa,
diventando nel 1784 vescovo di Miinster, nonché arcivescovo ed elettore di
Colonia. Nel 1780, alla morte dello zio, divenne anche Gran maestro dell'Ordine
Teutonico.
Anche sotto altri aspetti
Massimiliano seguì le orme dello zio. Come Carlo, divenne assiduo patrono delle
arti. Tra i suoi .protetti vi furono Haydn, Mozart e il giovane Beethoven.
Quest'ultimo intendeva dedicargli la Prima Sinfonia. Ma prima che l'opera
venisse ultimata e pubblicata, Massimiliano morì.
Massimiliano fu un uomo
intelligente, tollerante e bonario, amato dai sudditi e stimato dai suoi pari.
Sembra che incarnasse l'ideale del potentato illuminista del secolo XVIII; e
probabilmente fu uno degli uomini più colti del suo tempo. In politica era
particolarmente lucido, e cercò più volte di mettere in guardia sua sorella
Maria Antonietta contro la tempesta che incominciava ad addensarsi in Francia.
Quando la tempesta scoppiò, Massimiliano non si lasciò prendere dal panico.
Anzi, sembra che simpatizzasse per gli obiettivi originari della Rivoluzione,
ma nel contempo offriva un rifugio agli aristocratici fuggiaschi.
Sebbene Massimiliano
affermasse di non essere massone, questa asserzione è stata spesso posta in
dubbio. Di certo, si sospetta che appartenesse a qualche società segreta,
nonostante la sua posizione di ecclesiastico e il vigore con cui Roma vietava
ogni attività del genere. Si sa comunque che frequentava apertamente membri
dell'« arte », incluso ovviamente Mozart.
Come Radclyffe e Carlo di
Lorena, Massimiliano-rimase relativamente nell'ombra, lavorando in silenzio
dietro le quinte e agendo - se un Gran maestro di Sion agisce - per mezzo di
intermediari e di portavoce .Radclyffe, ad esempio, sembra agisse dapprima
tramite il cavalier Ramsay, quindi tramite Hund. Carlo di Lorena, a quanto
pare, agì tramite suo fratello
461
Francesco. E Massimiliano
agiva tramite personaggi della cultura e alcuni tra i suoi numerosi fratelli e
sorelle: ad esempio Maria Carolina, che come regina di Napoli e di Sicilia,
ebbe una parte importante nella diffusione della massoneria in quei tenitori.
CHARLES NODIER. Nato nel
1780, Charles Nodier sembra inaugurare un modello che caratterizza tutti i
presunti Gran maestri di Sion dopo la Rivoluzione francese. Diversamente dai
due predecessori, non soltanto non era nobile ma a quanto pare non era neppure
in contatto diretto con nessuna delle famiglie le cui geneaologie figurano nei
« documenti del Priorato ». Dopo la Rivoluzione francese, il Priorato di Sion,
o almeno i suoi presunti Gran maestri, sembrerebbe distaccarsi tanto dalla
vecchia aristocrazia quanto dagli ambienti politici; o almeno così ci indusse a
concludere, al momento, la nostra ricerca.
La madre di Nodier era una
certa Suzanne Paris che, a quanto si dice, non conosceva i propri genitori. Il
padre era avvocato aBesangon e, prima della Rivoluzione, aveva fatto parte del
locale circolo giacobino. Dopo lo scoppio della Rivoluzione, il padre di Nodier
divenne sindaco di Besan§on e presidente del tribunale rivoluzionario di quella
città. Era anche Maestro massone molto stimato, in prima linea nelle attività
massoniche e politiche. ,
Charles Nodier dimostrò una
precocità straordinaria, e tra le altre cose avrebbe partecipato ad attività
culturali e politiche all'età di dieci anni! A diciotto, si era già creato una
fama letteraria e per tutto il resto della vita fu uno scrittore prolifico e
produsse in media un librò all'anno. Le sue opere abbracciano una gamma molto
diversificata: diari di viaggio, saggi sulla letteratura e la pittura, studi di
prosodia e versificazione, uno studio sulle antenne degli insetti, un'indagine
sul suicidio, memorie autobiografiche, escursioni nell'archeologia,'la
linguistica, le questioni legali e l'esoterismo, per non parlare poi di una
copiosa produzione di narrativa. Oggi Nodier viene considerato nulla più di una
curiosità letteraria.
Benché all'inizio
simpatizzasse per la Rivoluzione, ben presto Nodier cambiò idea. Fece un altro
voltafaccia nei confronti di Napoleone; e nel 1802 esprimeva già apertamente la
sua opposizione all'imperatore. Quell'anno pubblicò a Londra un poema
satirico, il Napoleone. Poi, dopo aver scritto quest'opera sediziosa, abbastanza
stranamente incominciò ad attirare l'attenzione su di essa. All'iniziò le
autorità non gli badarono, e sembra che Nodier si agitasse molto per farsi
arrestare. Finalmente, dopo aver scritto a Napoleone una lettera personale in
cui si riconosceva colpevole, fu incarcerato per un mese; quindi fu rimandato
a Besancpn e sottoposto a una svogliata sorveglianza. In seguito, Nodier
affermò di aver continuato a opporsi al regime e di aver partecipato a due
complotti
462
antinapoleonici nel 1804 e
nel 1812. Benché avesse l'abitudine alle vanterie, può darsi che questa
affermazione non fosse infondata. Di certo si sa che era in rapporti amichevoli
con gli istigatori dei due complotti, che aveva conosciuto a Besancon in
gioventù.
VICTOR HUGO. La famiglia di
Hugo era originaria della Lorena - e di discendenza nobile, come sostenne più
tardi lo scrittore - ma Victor Hugo nacque a Besancon, centro di attività
sovversive clandestine, nel 1802. Suo padre era un generale di Napoleone, ma
aveva rapporti molto cordiali con i cospiratori coinvolti nella congiura contro
l'imperatore. Uno dei cospiratori, anzi era l'amante di Madame Hugo, che
abitava nella stessa casa ed ebbe un ruolo importante nella formazione di
Victor, poiché era il suo padrino e il suo mentore. Quindi Hugo, fin dall'età
di sette anni, si trovò circondato da un mondo di intrighi, di cospirazioni e
di società segrete.
A diciassette anni era già
un fervente discepolo di Charles Nodier; e da Nodier acquisì la sua conoscenza
erudita dell'architettura gotica, che ha una parte di tanto rilievo in Notre
Dame, Nel 1819 Hugo e suo fratello fondarono insieme a Nodier una casa
editrice, che pubblicava una rivista diretta dallo stesso Nodier. Nel 1822 Hugo
si sposò con una speciale cerimonia celebrata in Saint Sulpice. Tre anni dopo
lui e Nodier, con le rispettive mogli, partirono per un lungo viaggio in
Svizzera. Nello stesso anno, 1825, i due amici si recarono insieme ad assistere
all'incoronazione di Carlo X. Negli anni successivi Hugo creò un suo salotto, modellato
su quello di Nodier e frequentato più o meno dalle stesse celebrità. E quando
Nodier morì nel 1845, Hugo fu tra coloro che tenevano i cordoni della bara, al
funerale.
Come Newton, Hugo era un
uomo profondamente religioso, ma le sue concezioni religiose erano tutt'altro
che ortodosse. Come Newton, era un antitrinitarista militante e ripudiava
l'attività di Gesù. Sotto l'influenza di Nodier, per tutta la vita si occupò di
esoterismo e del pensiero gnostico, cabalistico ed ermetico: un interesse che
predomina nella sua poesia e nella sua prosa. Si sa, inoltre, che aveva legami
con un ordine rosacro-ciano del quale facevano parte anche Éliphas Levi e il
giovane Maurice Barrès.
Le idee politiche di Hugo
sono sempre state motivo di perplessità per critici e storici, e sono troppo
complesse, troppo incoerenti e troppo dipendenti da altri fattori per
discuterne in questa sede. Trovammo tuttavia significativo che, nonostante la
sua ammirazione personale per Napoleone, Hugo fosse convinto realista e salutasse
con gioia la restaurazione della vecchia dinastia borbonica. Nel contempo,
sembra che considerasse i Borbone accettabili soltanto in via provvisoria: come
una soluzione tappabuchi. Nel complesso li disprezzava, ed era particolarmente
feroce
463
nel giudicare Luigi XIV. Il
sovrano che Hugo approvava con grande entusiasmo - i due, anzi, erano amici -
era Luigi Filippo, il « re cittadino », chiamato a presiedere una monarchia
popolare. E Luigi Filippo era legato per matrimonio alla casa Asburgo-Lorena:
sua moglie era la nipote di Massimiliano di Lorena.
CLAUDE DEBUSSY. Debussy
nacque nel 1862; e sebbene la sua famiglia fosse povera, allacciò molto presto
contatti con persone ricche e influenti. Ancor prima dei vent'anni, si esibiva
come pianista nel castello dell'amante del presidente francese, e a quanto
sembra conosceva anche il capo dello Stato. Nel 1880 fu adottato dalla
nobildonna russa che era stata la mecenate di Ciakovski, e viaggiò con lei in
Svizzera, Italia e Russia. Nel 1884, dopo aver vinto un ambito premio musicale,
studiò per diverso tempo a Roma. Tra il 1887 e il 1906 visse soprattutto a
Parigi, ma gli anni precedenti e successivi a questo periodo li dedicò ai
viaggi. Si sa che durante questi viaggi entrò in contatto con molti personaggi eminenti.
Noi cercammo di accertare se alcuni di costoro avevano legami con le famiglie
le cui genealogie figurano nei « documenti del Priorato », ma i nostri sforzi
risultarono completamente inutili. Scoprimmo che Debussy era stranamente
riservato per quanto riguardava le sue amicizie aristocratiche e politiche.
Molte delle sue lettere sono scomparse; e in quelle che sono state pubblicate,
i nomi importanti e spesso intere frasi sono stati meticolosamente espunti.
Sembra che Debussy facesse
la conoscenza di Hugo tramite il poeta simbolista Paul Verlaine. In seguito,
musicò numerose opere di Hugo. Durante i suoi soggiorni a Parigi entrò negli
ambienti simbolisti, che dominavano la vita culturale della capitale francese.
Erano ambienti che includevano personaggi illustri e personaggi bizzarri.
C'erano il giovane ecclesiastico Émile Hoffet, per il cui tramite Debussy
conobbe Bérenger Saunière; Emma Calve, la diva appassionata di esoterismo;
l'enigmatico mago della poesia simbolista francese, Stéphane Mallarmé, del
quale Debussy musicò uno dei capolavori, L'Après-Midi d'un Faun; il
drammaturgo simbolista Maurice Maeterlinck, il cui dramma Pelléas et
Mélisande fu trasformato da Debussy in un'opera famosa ; e il bizzarro
conte Philippe Auguste Villiers de PIsle-Adam, autore del dramma rosacrociano Axel.
Sebbene la morte, nel 1918, gli impedisse di completarlo, Debussy incominciò
a comporre il libretto per il dramma occultista di Villiers, con l'intenzione
di ricavarne un'opera. Tra i suoi conoscenti c'erano le celebrità che
frequentavano le famose soirées del martedì in casa di Mallarmé: Oscar
Wilde, W.B. Yeats, Paul Valéry, Andre Gide, Marcel Proust.
Nei circoli di Debussy e di
Mallarmé si respirava un'atmosfera esoterica; e nel contempo, si intrecciavano
con altri circoli ancora più esoterici.
464
Quindi Debussy frequentava
virtualmente tutti i principali esponenti del cosiddetto* revival occultista
francese ».
JEAN COCTEAU. Cocteau, nato
nel 1889, ci sembrava un candidato estremamente improbabile al ruolo di Gran
maestro di un'influente società segreta. Ma ci avevano fatto la stessa
impressione anche alcuni degli altri nomi, quando ce li eravamo trovati davanti
per la prima volta. E per quasi tutti gli altri erano affiorate poco a poco
certe connessioni significative. Nel caso di Cocteau, ne affiorarono poche.
Vale comunque la pena di
notare che Cocteau crebbe in un ambiente vicino ai « corridoi del potere »: la
sua famiglia era politicamente importante e suo zio era un illustre
diplomatico. Nonostante la sua successiva esistenza di bohémien, Cocteau
non si staccò mai del tutto da quegli ambienti. Anche se il suo comportamento
era talvolta scandaloso, manteneva stretti contatti con individui altolocati
dei circoli aristocratici e politici. Come molti dei presunti Gran maestri di
Sion - ad esempio Boyle, Newton e Debussy - dimostrava in apparenza un sublime
distacco nei confronti della politica. Durante l'occupazione tedesca non prese
parte attiva alla Resistenza, ma non nascose la sua ostilità per il regime di Pétain.
E dopo la guerra sembra fosse tenuto in grande considerazione da de Gaulle, il
cui fratello lo incaricò di tenere un'importante conferenza sulla situazione
francese. Per noi, la testimonianza più convincente dell'affiliazione di
Cocteau al Priorato di Sion sta nella sua opera, ad esempio nel film Orfeo, in
drammi come L'aquila a due teste (ispirato all'imperatrice Elisabetta
d'Austria) e nella decorazione di certe chiese come Notre Dame de France a
Londra. La prova più convincente di tutte, comunque, è la sua firma in calce
allo statuto del Priorato di Sion.
Note
1 Cfr. Digot, P., Notre-Dame-de-Sion, p.
8. Ci procurammo una copia dell'atto istitutivo dell'Ordine,
custodito nella Bibliothèque Municipale di Nancy.
2 Fédié, Le cortile de Razès, p. 119
3 Birch, Life ofRobert Boyle, p. 274.
4 Ibid.
5 Cfr. Manuel, Portraitof Isaac Newton, eDobbs,
Foundation of Newton'sAlche-my.
6 Newton, inoltre, fu
sostenitore dei sociniani, un gruppo religioso il quale credeva che Gesù fosse
divino per la sua missione, anziché per natura. Erano di orientamento ariano.
Lo stesso Newton veniva considerato un ariano.
7 Perey, Charles de Lorraine, p. 287.
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1979.
Zuckerman, A. J., A Jewish Princedown in Feudal France, New York
1972.
Ringraziamenti
Desideriamo esprimere la
nostra gratitudine soprattutto ad Ann Evans, perché senza la sua collaborazione
sarebbe stato impossibile scrivere questo libro. Vogliamo ringraziare inoltre
Jehan l'Ascuiz, Robert Beer, Ean Begg, Dave Bennett, Colin Bloy, Juliet Burke,
Henry Buthion, Jean-Lue ChaumeiI, Philippe de Chérisey, Jonathan Clowes,
Shirley Col-lins, Chris Cornford, Painton Cowan, Roy Davies, Liz Flower, Janice
Glaholm, John Glover, Liz Greene, Margareth Hill, Renee Hinchley, Judy Holland,
Paul Johnstone, Patrick Lichfield, Douglas Lockhart, Guy Lovel, Jane
McGillivray, Andrew Maxvell-Hylshop, Para Morris, Les Olbinson, Pierre Plantard
de Saint-Clair, Bob Roberts, David Rolfe, John Saul, Gerard de Sède, Rosalie
Siegel, John Sinclair, Jeanne Thoma-son, Louis Vazart, Colin Waldeck, Anthony
Wall, Andy Whitaker, il personale della Sala di lettura del British Museum e
gli abitanti di Rennes-Ie-Chàteau.
Le fotografie sono state
cortesemente fornite da: AGRACI, Parigi, 36; Archives Nationales, Parigi, 16a;
Michael Baigent, Londra, 1, 2, 5, 6, 7, 14, 15, 18, 24, 25, 31, 32, 34;
Bibliotèque Nationale, Parigi, 28, 29, 30; Michel Bouffard, Carcassonne, 4; W.
Braun, Gerusalemme, 11, 13; British Library, Londra, 9, 166, 35; British
Museum, Londra (per cortese concessione dei Curatori del British Museum), 33;
Courtauld Institute of Art, Londra, 10; Roy Davies, Londra, 26, 27; Collezione
Devonshire, Chatsworth (per cortese concessione degli amministratori dell'eredità
Chatsworth), 21; Jean Deiuzaide/YAN photo, Tolosa, 8; Galleria Nazionale
d'Arte Antica, Roma, 20; Patrick Lichfield, Londra, 23; Henry Lincoln, Londra,
3; Museo del Louvre, Parigi, 22; Ost. Nationalbibliot-hek, Vienna, 19; H. Roger
Viollet, Parigi, 12,17.
Le autorizzazioni a citare
brani coperti da copyright sono state concesse da: Le Charivari, Parigi,
per il materiale pubblicato sul n. 18, « Les
479
Archives du Prieuré de Sion
»; Victor Gollancz, Londra, e Harper & Row, Publishers, Inc., New York, per
il materiale tratto dalle pp. 14-17 di The Secret Gospet, di Morton
Smith, copyright 1973 by Morton Smith; Random House, Inc., New York, per il
materiale tratto da Parzival di Wolfram von Eschenbach, traduzione di
Helen Mustard e Charles E. Passage, copyright 1961 by Elen Mustard e Charles
Passage.
Indice generale
7 Introduzione
Parte prima IL
MISTERO
15 i II villaggio del mistero
Rennes-le-Chàteau e Bérenger
Saunière, 15 -1 possibili tesori, 25 - L'intrigo, 29 - Note, 32.
34 a I Catari e la grande eresia
La crociata contro gli
Albigesi, 35 - L'assedio di Montségur, 42 -II tesoro dei Catari, 44-11 mistero
dei Catari, 49 - Note, 51.
53 ni I monaci guerrieri
I Cavalieri Templari: la versione ortodossa, 54
- I Cavalieri Templari: i misteri, 70-1 Cavalieri Templari: l'aspetto nascosto,
77 - Note, 87.
91 iv Documenti segreti
Note, 104.
Parte seconda
LA SOCIETÀ SEGRETA
109 v L'ordine nell'ombra
II mistero che circonda la
fondazione dei Templari, 114 - Luigi VII e il Priorato di Sion, 117-11 « taglio
dell'olmo » a Giosors. 118 - Ormus, 121 - II Priorato a Orleans, 125 - La «
testa » dei Templari, 126 -1 Gran maestri dei Templari, 127 - Note, 130.
132 vi I Gran maestri e il fiume sotterraneo
Renato d'Angiò, 140 - Renato
e il tema dell'Arcadia, 142 - I
manifesti dei Rosacroce, 145
- La dinastia Stuart, 149 - Charles Nodier e il suo circolo, 155 - Debussy e la
Rosacroce, 159 - Jean Cocteau, 162 -1 due Giovanni XXIII, 164 - Note, 167.
170 Vii Una cospirazione attraverso i secoli
II Priorato di Sion in
Francia, 172 -1 duchi di Guisa e Lorena, 174 - II tentativo di impadronirsi del
trono di Francia, 178 - La Compagnia del Santo Sacramento, 180 - ChSteau
Barberie, 185
- Nicolas Fouquet, 187 -
Nicolas Poussin, 188 - La cappella di Rosslyn e Shugborough Hall, 192 - La
lettera segreta del papa, 193 - La Pietra di Sion, 194 - II movimento
modernista cattolico, 196-1 protocolli di Sion, 199 - L'Hiéron du Val d'Or, 204
- Note, 209.
214 vili La società segreta oggi
Alain Poher, 217 - II Re
Perduto, 218 - Strani testi conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi,
220 - II tradizionalismo cattolico, 223 - II Convento del 1981 e lo Statuto di
Cocteau, 227
- Pierre Plantard de
Saint-Clair, 233 - La politica del Priorato di Sion, 240 - Note, 246.
250 ix I sovrani lungichiomati
La leggenda e i Merovingi,
251 - L'orso venuta dall'Arcadia, 254 -1 Sicambri entrano in Gallia, 255 -
Meroveo e i suoi discendenti, 256 - Sangue reale, 257 - Clodoveo e il patto
con la Chiesa, 259, Dagoberto II, 262 - Gli usurpatoli Carolingi, 269 -
L'eslu-sione di Dagoberto II dalla storia, 274 - II principe Guillem de
Gellone, conte di Razès, 275 - II principe Ursus, 280 - La famiglia del Graal,
281 - II mistero che ci sfuggiva, 285 - Note, 285.
289 X La tribù esule
Note, 297.
Parte terza LA
STIRPE
301 xi II Santo Graal
La leggenda del Santo Graal,
303 - La storia di Wolfram von Eschenbach, 311-11 Graal e il cabalismo, 322 -
II gioco di parole, 323 -1 « re perduti » e il Graal, 325 - Necessità di una
sintesi, 328
- La nostra ipotesi, 332 -
Note, 335.
337 XII II re-sacerdote che non regnò
La Palestina al tempo di
Gesù, 344 - La storia dei Vangeli, 348 -
Lo stato civile di Gesù, 351
- La moglie di Gesù, 355 - II discepolo prediletto, 360 - La dinastia di Gesù,
366 - La Crocifissione, 370 - Chi era Barabba?, 372 -1 particolari della
Crocifissione, 375 - Lo « scenario », 381 - Note, 383.
385 xin II segreto
proibito dalla Chiesa
Gli zeloti, 395 - Gli
scritti gnostici, 405 - Note, 410.
412 xiv La dinastia del
Graal
II giudaismo e i Merovingi,
416 - II principato di Settimania, 419 - Il seme di Davide, 424 - Note, 428.
429 xv Conclusione e
presagi per il futuro
Note, 445.
446 Appendice:
I presunti Gran maestri del
Priorato di Sion. Note, 465.
467
Bibliografia
479
Ringraziamenti
Indice delle illustrazioni
entro testo
Carte
12 1 Le principali località dell'indagine in
Francia.
23 2 Rennes-le-Chàteau e i suoi dintorni.
36 3 La Linguadoca dei Catari.
59 4 Castelli e città principali della
Terrasanta intorno alla metà del
XII secolo. 79 5 Gerusalemme: il Tempio e l'area del
Monte Sion alla metà del
XII secolo.
175 6 II ducato di Lorena alla metà del XVI
secolo. 263 7 Iregni merovingi.
293 8 La Giudea mostra l'unica
possibile via di fuga per la tribù di
Beniamino.
345 9 La Palestina al tempo di Gesù. 425 10 II principato ebraico.
Tavole genealogiche
111 1 I
duchi di Guisa e Lorena.
265 2 La
dinastia merovingia: i re.
279 3 La
dinastia merovingia: i conti di Razès.
283 4 La
dinastia merovingia: i« re perduti ».
447 5 Le
famiglie di Gisors, Payen e Saint-Clair.
Figure
191 1 Lo
stemma della famiglia Plantard.
241 2 La
copertina del romanzo Circuit.
427 3 Lo
stemma di Rennes-le-Chàteau.
427 4
L'emblema ufficiale del Priorato di Sion.
Sconcertante, misterioso,
imprevedibile, II Santo Graal è soprattutto tvn vero e proprio giallo storico,
che prende avvio da alcuni incredibili indizi ritrovati a Carcassonne, cenlro
della Francia meridionale. Il quadro che ne emerge è quanto mai sconvolgente:
Gesù non morì stilla croce, sposò Maria Maddalena da cui ebbe alcuni figli e,
con la famiglia, si rifugiò in Francia presso una comunità ebraica; i suoi
discendenti regnarono con il nome di Merovingi, creando successivamente il
Sacro Romano Impero, maestoso disegno di un'Europa riunita. Fallito sul piano
politico, questo progetto si sarebbe invece alimentato grazie a sette
religioso-esoteriche come i Templari, gli Albi-gesi, i Cavalieri Teutonici, e a
società segrete facenti capo a un'organizzazione ancor più misteriosa, il
«Priorato di Sion», di cui sono stati collegati, nel corso dei secoli, alcuni
fra i nomi più prestigiosi dell'arte, della scienza e del cattolicesimo.
Insolito reportage su duemila anni di storia, II Santo Graal trascina
il lettore in mi gioco affascinante di fatti, ipotesi, analisi,
interpretazioni e strabilianti coincidenze, facendo rivivere il mistero della
grande leggenda del Graal.
In copertina:
elaborazione al computer di
Amilcaie Martinazzi
Ari Diiector: Federico Luci
Graphic Designer: Giacomo Callo
Lire 16.000
ISBN 88-04-38609-6
9 788804 386094