M.Baigent - R.Leigh H.Lincoln

IL SANTO GRAAL

Una .catena di misteri lunga duemila anni

OSCAR SAGGI MONDADORI

 

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Michael Baigent   Richard Leigh   Henry Lincoln

II santo Graal

Traduzione di Roberta Rambelli

Arnoldo Mondadori Editore

 

© 1982 by Michael Baigent, Richard Leigh and Henry Lincoln

Jonathan Cape Ltd, 30 Bredford Square, London WCI

© 1982 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Titolo originale dell'opera:

The Holy Blood and thè Holy Grail

I edizione Ingrandimenti giugno 1982 I edizione Oscar Arcana agosto 1984

ISBN 88-04-38609-6

Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento di Verona Stampato In Italia - Printed in Italy

Ristampe:

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1996   1997   1998   1999

La prima edizione Oscar saggi è stata pubblicata in concomitanza con la nona ristampa di questo volume

 

Il Santo Graal

 

 

Introduzione

Nel 1969, mentre mi stavo recando nelle Cévennes per trascorrer­vi le vacanze estive, acquistai per puro caso un tascabile. Le trésor maudit di Gerard de Sède era un giallo: un gradevole prodotto d'evasione che mescolava dati storici, autentici elementi di miste­ro e molte congetture. Probabilmente il libro sarebbe finito nel dimenticatoio, dopo le vacanze, come tutte le letture di quel genere, se nelle sue pagine non mi fossi imbattuto in una strana e clamorosa omissione.

Il « tesoro maledetto » del titolo era stato ritrovato, a quanto pareva, poco dopo il 1890, da un parroco di paese, grazie alla decifrazione di certi documenti enigmatici riesumati nella sua chiesa. Sebbene nel libro fossero riprodotti i presunti testi di due di questi documenti, i « messaggi segreti » che si diceva vi fossero inclusi non erano riprodotti nel libro. Sembrava sottinteso che i messaggi decifrati fossero già andati perduti. Tuttavia, come ebbi modo di constatare, uno studio superficiale dei documenti ripro­dotti nel libro rivela almeno un messaggio celato. Sicuramente, l'autore lo aveva scoperto. Mentre lavorava al suo libro, doveva aver dedicato ai documenti qualcosa di più di un'attenzione fugge­vole. Quindi, doveva aver trovato quel che avevo trovato io. E per giunta il messaggio era esattamente quel tipo di allettante fram­mento di « prova » adattissimo a incentivare le vendite di un tascabile « popolare ». Perché de Sède non l'aveva pubblicato?

Nei mesi che seguirono, la stranezza della vicenda e la possibili­tà di effettuare altre scoperte richiamarono più volte il mio interes­se. La storia aveva il fascino di un cruciverba straordinariamente

 

complicato - e in più m'incuriosiva lo strano silenzio di de Sède. Via via che intravedevo nuovi significati tentatori sepolti nel testo dei documenti, mi auguravo di poter dedicare all'enigma di Rennes-le-Chàteau qualcosa di più dei pochi momenti liberi sot­tratti alla mia attività di autore televisivo. Perciò, verso la fine dell'autunno 1970, presentai la vicenda come tema per una propo­sta di documentario a Paul Johnstone, che era allora il produttore del programma storico e archeologico della BBC, « Chronicle ».

Paul intuì le possibilità di quella realizzazione, e io fui inviato in Francia per parlare con de Sède e sondare le prospettive per un breve documentario. Nella settimana di Natale del 1970 m'incon­trai con de Sède a Parigi. Durante quel primo colloquio, gli sottoposi l'interrogativo che mi assillava da più di un anno: « Per­ché non ha pubblicato il messaggio celato nelle pergamene? ». La risposta di de Sède mi sbalordì: « Quale messaggio?».

Mi sembrava inconcepibile che non si fosse accorto di quel messaggio elementare. Perché cercava di eludere la mia doman­da? All'improvviso, mi passò dalla mente l'impulso di rivelare esattamente quello che avevo scoperto. Per diversi minuti conti­nuammo una schermaglia verbale caratterizzata da reticenze. Era evidente che entrambi conoscevamo il messaggio. Io ripetei la domanda: « Perché non l'ha pubblicato? ». Questa volta la rispo­sta di de Sède fu calcolata: « Perché pensavamo che qualcuno come lei avrebbe preferito scoprirlo da sé ».

Quella risposta, enigmatica quanto i misteriosi documenti del parroco, era il primo chiaro indizio che il mistero di Rennes-le-Chàteau era destinato a rivelarsi ben più di una semplice vicenda di tesori perduti.

Insieme al mio regista, Andrew Maxwell-Hyslop, incominciai a preparare un documentario per la serie « Chronicle » nella prima­vera del 1971. Secondo le previsioni doveva essere breve, una ventina di minuti, per inserirlo in un « rotocalco » televisivo. Ma mentre stavamo lavorando, de Sède incominciò a fornirci altre informazioni frammentarie. Per primo arrivò il testo integrale di un importante messaggio in codice, che parlava dei pittori Poussin e Teniers. Era affascinante. La cifra era incredibilmente comples­sa. Ci venne comunicato che era stata decifrata da esperti del­l'Ufficio cifra dell'esercito francese, per mezzo dei computer. Ma,

 

studiando quel codice così complicato, mi convinsi che quella spiegazione era a dir poco sospetta. Consultai alcuni specialisti di cifrari del Servizio segreto britannico. Furono d'accordo con me: « La cifra non presenta un problema valido per un computer ». Il codice era indecifrabile. Quindi qualcuno, chissà dove, ne posse­deva la chiave.

Poi de Sède scagliò la seconda bomba. Era stata scoperta una tomba simile a quella raffigurata nel celebre quadro di Poussin, Les bergers d'Arcadie (I pastori d'Arcadia). De Sède promise di inviare altri ^particolari, « non appena li avesse avuti ». Pochi giorni dopo arrivarono le fotografie, e apparve evidente che il nostro breve servizio televisivo su un piccolo « mistero » locale aveva incominciato ad assumere dimensioni inattese. Paul decise di lasciar perdere il progetto, e ci commissionò invece un docu­mentario di lunghezza regolare. Così, avremmo avuto più tempo per le ricerche, e la maggiore durata del filmato ci avrebbe permes­so di approfondire la vicenda. La trasmissione fu rimandata alla primavera dell'anno successivo.

The Lost Treasure of Jerusalem? (Il tesoro perduto di Gerusa­lemme?) andò in onda nel febbraio 1972, e provocò un notevole scalpore. Mi ero reso conto di aver trovato un tema appassionan­te, non soltanto per me ma anche per un grandissimo numero di telespettatori. Un'ulteriore ricerca non sarebbe stata un capriccio personale. Prima o poi, il documentario avrebbe dovuto avere un seguito. Nel 1974 avevo raccolto una quantità di materiale nuovo; e Paul incaricò Roy Davies di produrre il mio secondo documenta­rio per « Chronicle », The Prìest, thè Pointer and thè Devii (II prete, il pittore e il diavolo). Ancora una volta, la reazione del pubblico dimostrò che la vicenda aveva colpito la fantasia popola­re. Ma ormai era diventata così complessa, così ramificata, che io mi rendevo conto che la ricerca approfondita esorbitava dalle possibilità di una persona sola. Le piste da seguire erano troppe. Più seguivo una linea d'indagine, e più mi accorgevo dell'enorme massa di materiale che ero costretto a trascurare. In quel momen­to critico, il Caso, che con tanta disinvoltura mi aveva buttato sulle ginocchia quella storia, fece in modo che il lavoro non finisse insabbiato.

Nel 1975, in un corso estivo dove entrambi tenevamo lezioni su

 

vari aspetti della letteratura, ebbi la fortuna di conoscere Richard Leigh. Richard è un romanziere e novellista, specializzato in letteratura comparata, e ha una profonda conoscenza della storia, della filosofìa, della psicologia e dell'esoterismo. Per diversi anni era stato docente universitario negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna.

Tra una lezione e l'altra, passavamo ore e ore a discutere di argomenti che interessavano entrambi. Io accennai ai Cavalieri Templari, che avevano assunto un ruolo importante sullo sfondo del mistero di Rennes-le-Chàteau. Con mia grande gioia, scoprii che quell'enigmatico ordine di monaci-guerrieri medievali aveva già suscitato l'interesse più profondo di Richard, il quale aveva svolto ricerche considerevoli sulla loro storia. Come per magia, i lunghi mesi di lavoro che vedevo prospettarsi davanti a me diven­tarono superflui. Richard era in grado di rispondere a quasi tutti i miei interrogativi, ed era affascinato non meno di me da alcune delle evidenti anomalie che io avevo scoperto. E soprattutto, anche lui si rendeva conto del significato della ricerca da me intrapresa. Si offrì di aiutarmi per quanto riguardava i Templari. E coinvolse Michael Baigent, un laureato in psicologia che recente­mente aveva abbandonato una fortunata carriera nel campo del giornalismo fotografico per effettuare ricerche sui Templari, in vista di un progetto cinematografico che aveva in mente.

Se avessi deciso di cercarli, non avrei potuto trovare due colla­boratori più qualificati e congeniali. Dopo anni di fatiche solitàrie, lo slancio apportato dal loro intervento fu esaltante. Il primo risultato concreto della nostra collaborazione fu il terzo documen­tario della serie « Chronicle » su Rennes-le-Chàteau, The Shadow ofthe Templars (L'ombra dei Templari), prodotto da Roy Davies nel 1979.

Il lavoro che svolgemmo per realizzare il documentario ci portò finalmente di fronte alle fondamenta del mistero di Rennes-le-Chàteau. Ma il documentario si limitava ad accennare ciò che stavamo incominciando a scoprire. Sotto la superficie c'era qual­cosa assai più sorprendente, significativo e clamoroso di quanto avremmo ritenuto possibile quando avevamo incominciato a lavo­rare sul « piccolo, affascinante mistero » relativo a ciò che un prete francese poteva aver trovato in un paesino di montagna.

io

 

Nel 1972 avevo concluso il primo documentario con queste parole: « Qualcosa di straordinario attende di essere scoperto... e sarà scoperto in un futuro non troppo lontano ».

Questo libro spiega che cos'è questo « qualcosa » - e mostra quanto sia stata straordinaria la scoperta.

H.L. 17 gennaio 1981

 

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Carta 1    Le principali località dell'indagine in Francia.

 

Parte prima

II mistero

 

 

I II villaggio del mistero

All'inizio della nostra ricerca non sapevamo esattamente che cosa stavamo cercando - anzi, non sapevamo neppure che cosa aveva­mo sotto gli occhi. Non avevamo teorie e non facevamo ipotesi: non eravamo partiti con lo scopo di provare qualcosa. Al contra­rio, stavamo semplicemente cercando di trovare la spiegazione di un piccolo, bizzarro enigma della fine del secolo XIX. Le conclu­sioni che finimmo per raggiungere non erano prestabilite. Ci arrivammo passo a passo, come se le prove che andavamo accu­mulando avessero un loro spirito d'iniziativa e ci guidassero.

Eravamo convinti, in principio, di trovarci alle prese con un mistero locale - senza dubbio avvincente, ma di portata sostanzial­mente limitata, circoscritta a un paesino della Francia meridiona­le. All'inizio pensavamo che il mistero, sebbene coinvolgesse molti affascinanti fattori storici, avesse un interesse soprattutto accademico. Credevamo che la nostra indagine potesse contribui­re a illuminare certi aspetti della storia dell'Occidente; ma non prevedevamo certo che imponesse di riscriverli completamente. E meno ancora potevamo prevedere che quanto avremmo scoperto avrebbe avuto un autentico interesse contemporaneo, addirittura un interesse esplosivo.

La nostra cerca — poiché fu veramente una « cerca » — ebbe inizio con una vicenda più o meno semplice e lineare. A prima vista, non era troppo diversa da tante altre « storie di tesori » e da tanti « misteri insoluti » che abbondano nelle cronache e nel folklore di quasi tutte le zone rurali. Una versione era stata pubbli­cata in Francia, dove aveva suscitato un considerevole interesse

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ma - a quanto ne sapevamo noi a quel tempo - non aveva avuto conseguenze sensazionali. Come apprendemmo in seguito, tale versione conteneva diversi errori. Per il momento, comunque, dobbiamo riferire la vicenda così come fu pubblicata durante gli anni Sessanta, e come venimmo a conoscerla all'inizio.1

Rennes-le-Chàteau e Bérenger Saunière

II 1° giugno 1885 nel minuscolo villaggio di Rennes-le-Chàteau arrivò il nuovo parroco. Il curato si chiamava Bérenger Saunière.2 Era un uomo robusto, bello, energico e, sembra, molto intelligen­te; aveva trentatrè anni. In seminario, era parso destinato a una carriera ecclesiastica promettente: senza dubbio, almeno a qual­cosa di più importante della cura delle anime di un paesino sperdu­to nei Pirenei orientali. Tuttavia, a un certo momento Saunière cadde in disgrazia agli occhi dei superiori. Non si sa con certezza che cosa avesse fatto - ammettendo che avesse fatto qualcosa - ma le sue prospettive di avanzamento vennero stroncate. Forse fu per sbarazzarsi di lui che i superiori lo mandarono nella parrocchia di Rennes-le-Chàteau.

A quei tempi, Rennes-le-Chàteau contava soltanto duecento abitanti. Era un piccolo villaggio appollaiato in vetta a una collina scoscesa, a una quarantina di chilometri da Carcassonne. Per un altro, quel luogo sarebbe stato forse un esilio: la relegazione a vita in uno sperduto angolo di provincia, lontano dagli agi della civiltà del tempo e da ogni stimolo per una mente viva e indagatrice. Senza dubbio, fu un brutto colpo per l'ambizione di Saunière. Tuttavia, qualche compensazione c'era. Saunière era di quella zona, perché era nato e cresciuto a pochi chilometri da lì, nel paesetto di Montazels. Quindi, nonostante i suoi difetti, Rennes-le-Chàteau doveva essere un po' come casa sua, e doveva offrirgli la familiarità dei suoi ricordi d'infanzia.

Tra il 1885 e il 1891 il reddito medio di Saunière, in franchi francesi, equivaleva a sei sterline l'anno: tutt'altro che cospicuo, era tuttavia quello che ci si poteva aspettare per un curato di campagna nella Francia del tardo secolo XIX. Sembra che, unita­mente alle offerte dei parrocchiani, questa somma fosse sufficien­te - per sopravvivere, se non per concedersi dei lussi. In quei sei

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anni, a quanto pare, Saunière visse un'esistenza abbastanza piace­vole e tranquilla. Andava a caccia e a pesca tra le montagne e in fiumicelli della sua infanzia. Era un lettore accanito: si perfezionò nello studio del latino, imparò il greco, cominciò a studiare l'ebrai­co. Come governante, aveva assunto una contadina diciottenne, Marie Denarnaud, che sarebbe diventata la compagna e la confi­dente di tutta la sua vita. Spesso faceva visita a un amico, l'abate Henri Boudet, curato del vicino villaggio di Rennes-les-Bains. E sotto la guida di Boudet cominciò a occuparsi della storia turbo­lenta di quella regione: una storia le cui testimonianze erano sempre presenti intorno a lui.

Pochi chilometri a sud-est di Rennes-le-Chàteau, ad esempio, sorge un'altra vetta, chiamata Bézu e sovrastata dalle rovine di una fortezza medievale che aveva ospitato una comunità dei Cava­lieri Templari. Su una terza cima, a meno di due chilometri da Rennes-le-Chàteau, si trovano le rovine del castello di Blanche-fort, dimora avita di Bertrand de Blanchefort, quarto Gran mae­stro dei Templari, che aveva presieduto il famoso Ordine intorno alla metà del XII secolo. Rennes-le-Chàteau e i suoi dintorni erano situati sull'antico percorso dei pellegrini, che portava dal­l'Europa settentrionale a Santiago di Compostela in Spagna. E l'intera regione era satura di leggende suggestive, dagli echi di un passato vivo, drammatico e spesso sanguinoso.

Da diverso tempo, Saunière aveva progettato di restaurare la chiesa di Rennes-le-Chàteau. Consacrato alla Maddalena nel 1059, l'edificio fatiscente sorgeva sulle fondamenta di una struttu­ra visigota ancora più antica, risalente al VI secolo. Alla fine del secolo XIX, cosa tutt'altro che sorprendente, era in uno stato di sfacelo quasi irrimediabile.

Nel 1891, incoraggiato dall'amico Boudet, Saunière iniziò un modesto restauro, prendendo a prestito una piccola somma dai fondi comunali. Durante i lavori, rimosse la mensa dell'altare che poggiava su due antichi pilastri visigoti. Uno dei pilastri era cavo. All'interno, il curato rinvenne quattro pergamene, conservate entro cilindri di legno sigillati. Due delle pergamene, a quanto si dice, contenevano genealogie: una portava la data del 1244, l'altra quella del 1644. Gli altri due documenti erano stati stilati intorno al 1870 da un predecessore di Saunière, l'abate Antoine Bigou,

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curato di Rennes-le-Chàteau. Bigou era stato cappellano dei Blanchefort, i quali, alla vigilia della Rivoluzione francese, figura­vano ancora tra i principali proprietari terrieri della zona.

Le due pergamene che risalivano al tempo di Bigou sembravano pii testi latini, brani del Nuovo Testamento. Almeno in apparen­za. Ma su una delle pergamene le parole sono scritte incoerente­mente tutte di seguito, senza spazi intermedi, e vi sono inserite numerose lettere del tutto superflue. E sulla seconda pergamena le righe sono troncate indiscriminatamente, in modo irregolare, qualche volta addirittura a metà di una parola, mentre certe lettere appaiono vistosamente rialzate rispetto alle altre. In realtà, queste pergamene formano una sequenza di cifre o di codici molto ingegnosi. Alcuni sono incredibilmente complessi e imprevedibili: sfidano persino i computer, e sono insolubili se non si possiede la chiave indispensabile. La decifrazione che segue è apparsa in varie opere francesi dedicate a Rennes-le-Chàteau e in due dei nostri documentari realizzati per la BBC.

BERGERE PAS DE TENTATION QUE POUSSIN TENIERS GARDENT LA CLEF PAX DCLXXXI PAR LA CROIX ET CE CHEVAL DE DIEU J'ACHE-VE CE DAEMON DE GARDIEN A MIDI POMMES BLEUES.

(PASTORA, NESSUNA TENTAZIONE. CHE POUSSIN, TENIERS, DE­TENGONO LA CHIAVE: PACE 681. PER LA CROCE E QUESTO CAVAL­LO DI DIO, IO COMPIO - O ANNIENTO - QUESTO DEMONE DI GUAR­DIANO A MEZZOGIORNO. MELE AZZURRE.)

Ma se alcune delle cifre sono sconcertanti per la loro complessi­tà, altre sono evidentemente, addirittura clamorosamente ovvie. Nella seconda pergamena, ad esempio, le lettere rialzate, prese in sequenza, formano un messaggio coerente:

A D AGOBERTIIROI ET A SION EST CE TRESOR ET IL EST LA MORT.

(A RE DAGOBERTO II E A SION APPARTIENE QUESTO TESORO ED EGLI È LÀ MORTO.)

Sebbene questo particolare messaggio dovesse risultare com­prensibile a Saunière, è molto dubbio che egli potesse aver deci­frato i codici più complicati. Tuttavia, il curato si rese conto di essersi imbattuto in qualcosa d'importante e, con il consenso del sindaco del villaggio, portò i documenti scoperti al suo superiore, il vescovo di Carcassonne. Non si sa che cosa ne capisse il vescovo;

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tuttavia Saunière venne immediatamente inviato a Parigi- a spese del vescovo stesso - con l'ordine di presentare le pergamene a certe importanti autorità ecclesiastiche. Il più illustre era l'abate Bieil, direttore generale del Seminario di Saint Sulpice; inoltre, c'era il nipote di Bieil, Émile Hoffet. A quel tempo Hoffet studia­va per diventare sacerdote. Sebbene avesse passato da poco i vent'anni, s'era già fatto un'imponente fama di erudito, soprattut­to nel campo della linguistica, della crittografia e della paleogra­fia. Nonostante la vocazione pastorale, si sapeva che aveva pro­pensioni per il pensiero esoterico, e manteneva rapporti cordiali con i vari gruppi occultisti, le varie sette e società segrete che allora proliferavano nella capitale francese. Era in contatto con un circo­lo culturale illustre, che includeva letterati come Stéphane Mallar-mé e Maurice Maeterlinck e il compositore Claude Debussy. Conosceva anche Emma Calve, che al tempo dell'arrivo di Sauniè­re, era appena ritornata da una trionfale tournée a Londra e Windsor. Emma Calve era la Maria Callas dei suoi tempi, ma era anche una somma sacerdotessa della subcultura esoterica parigi­na, e aveva legami sentimentali con diversi occultisti influenti.

Dopo essersi presentato a Bieil e Hoffet, Saunière trascorse tre settimane a Parigi. Non si sa che cosa accadesse durante i suoi colloqui con gli ecclesiastici. Si sa comunque che il parroco di campagna fu subito accolto a braccia aperte nel raffinato circolo di Hoffet. Si è addirittura affermato che diventò l'amante di Emma Calve. I pettegolezzi contemporanei parlavano di una relazione tra i due, e un conoscente della cantante dichiarò che lei era « ossessionata » dal curato. In ogni caso, è certo che tra i due si stabilì un'amicizia intima e duratura. Negli anni successivi, la Calve si recò spesso a far visita a Saunière nei pressi di Rennes-le-Chàteau, dove, ancora in tempi recenti, si potevano vedere ro­mantici cuori con le loro iniziali incisi sulle rocce della montagna.

Durante il soggiorno a Parigi, Saunière passò anche diverso tempo al Louvre. Forse questo si collega al fatto che, prima di partire, si procurò le riproduzioni di tre quadri. Sembra che uno fosse un ritratto, eseguito da un autore non identificato, di papa Celestino V, che regnò per un breve periodo verso la fine del secolo XIII. Un altro era un'opera di David Teniers, anche se non è chiaro di quale dei due pittori dallo stesso nome si trattasse, il

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padre o il figlio.3 Il terzo era forse il famosissimo quadro diNicolas Poussin, Les bergers d'Arcadie.

Ritornato a Rennes-le-Chateau, Saunière proseguì i restauri della chiesa. Durante i lavori, esumò una lapide bizzarramente scolpita che risaliva al VII o alI'VIII secolo e che forse copriva una cripta, una camera sepolcrale nella quale, si dice, furono trovati alcuni scheletri. Inoltre, Saunière si dedicò ad attività assai più singolari. Ad esempio, nel camposanto c'era il sepolcro di Marie, marchesa d'Hautpoul de Blanchefort. La lapide e la pietra tomba­le erano state disegnate e installate dall'abate Antoine Bigou, che era stato il parroco di Rennes-le-Chàteau un secolo prima e che a quanto pareva aveva composto due delle misteriose pergamene. L'iscrizione della lapide - che includeva numerosi errori voluti nella spaziatura e nell'ortografia - era un perfetto anagramma del messaggio celato nelle pergamene che alludevano a Poussin e Teniers. Se si ridispongono le lettere, queste formano l'enigmatica affermazione, riportata più sopra, che allude a Dagoberto e a Sion (v.p. 18); e gli errori sembrano inseriti di proposito per servire da guida.

Non sapendo che le iscrizioni sulla tomba della marchesa erano già state copiate, Saunière le cancellò. E questa profanazione non fu la sua unica stranezza. Accompagnato dalla fedele governante, cominciò a fare lunghe camminate nella campagna circostante, raccogliendo pietre apparentemente prive di valore e d'interesse. Inoltre, iniziò un voluminoso scambio di lettere con corrisponden­ti sconosciuti che risiedevano un po' dovunque, in Francia, in Germania, Svizzera, Italia, Austria e Spagna. Cominciò a racco­gliere una quantità di francobolli del tutto privi di valore. E intavolò misteriose transazioni con varie banche. Una di queste mandò addirittura un rappresentante da Parigi a Rennes-le-Chàteau, al solo scopo di occuparsi degli affari di Saunière.

Solo per la posta, Saunière stava già spendendo somme cospi­cue, che non avrebbe certo potuto permettersi con il suo reddito annuo di un tempo. Poi, nel 1896, cominciò a spendere a piene mani: quando morì, nel 1917, il totale delle spese da lui sostenute equivaleva a diversi milioni di sterline.

Una parte di questa ricchezza inspiegata venne usata per lode­voli opere pubbliche: una strada moderna che portava al villaggio,

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ad esempio, e impianti per l'acqua corrente. Altre spese erano più sensazionali. Furono costruite una torre, Torre Magdala, affaccia­ta sullo strapiombo della montagna, e una ricca casa di campagna, Villa Bethania, dove Saunière non abitò mai. La chiesa venne non soltanto restaurata, ma decorata a nuovo in modo decisamente bizzarro. Sull'architrave del porticato, sopra l'ingresso, venne posta un'iscrizione latina:

TERRIBILIS EST LOCUS ISTE (QUESTO LUOGO È TERRIBILE).

Appena al di qua dell'entrata fu eretta una statua orrenda, raffigurante il demonio Asmodeo, custode dei tesori nascosti e, secondo l'antica leggenda giudaica, costruttore del Tempio di Salomone. Sulle pareti della chiesa vennero collocate tavole sgar­gianti che raffiguravano la Via Crucis; e ognuna era caratterizzata da qualche strana incoerenza, qualche aggiunta inspiegabile, qual­che deviazione flagrante o sottile rispetto alla versione tradiziona­le delle Scritture. Per esempio, nell'VIII Stazione, c'è un bambino avvolto in una stoffa scozzese. Nella XIV Stazione, dove si vede il corpo di Gesù portato nella tomba, lo sfondo è un buio cielo notturno, dominato dalla luna piena. Si direbbe che Saunière cercasse di indicare qualcosa. Ma che cosa? Che la sepoltura di Gesù era avvenuta dopo il cader della notte, molte ore più tardi di quel che ci dice la Bibbia? Oppure che il corpo viene portato fuori dal sepolcro anziché nel suo interno?

Mentre era impegnato in questi bizzarri lavori di rifacimento, Saunière continuava a spendere in maniera stravagante. Faceva collezione di porcellane rare, di stoffe preziose, di marmi antichi. Creò un aranceto e un giardino zoologico. Mise insieme una biblioteca magnifica. Poco prima di morire, aveva annunciato l'intenzione di costruire una specie di massiccia torre di Babele piena di libri, dalla quale progettava di predicare. Tuttavia non trascurava i suoi parrocchiani. Offriva loro banchetti sontuosi e altre forme di munificenza, mantenendo il tenore di vita di un potentato medievale, signore di un inespugnabile dominio monta­no. Nel suo rifugio remoto e pressoché inaccessibile riceveva molti ospiti illustri tra cui, ovviamente, non mancava Emma Calve. Un

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altro ospite era il segretario di Stato francese per la Cultura. Ma forse il più augusto e di riguardo tra i visitatori dell'ignoto prete di campagna fu l'arciduca Giovanni d'Asburgo, cugino dell'impera­tore d'Austria Francesco Giuseppe. In seguito, i documenti ban-cari rivelarono che Saunière e l'arciduca avevano aperto due conti consecutivamente lo stesso giorno, e che il secondo aveva fatto a favore del primo un versamento molto sostanzioso.

All'inizio, le autorità ecclesiastiche finsero di non vedere. Quando morì il superiore di Saunière, il vescovo di Carcassonne, il suo successore tentò di chiedere conto al parroco del suo compor­tamento. Saunière reagì con una sfida sorprendente e impudente. Rifiutò di spiegare l'origine della sua ricchezza. Rifiutò di accetta­re il trasferimento imposto dal vescovo. Poiché non aveva elemen­ti più concreti a suo carico, il prelato lo accusò di simonia, e un tribunale ecclesiastico locale lo sospese. Saunière si appellò al Vaticano, che lo scagionò e lo reintegrò.

Il 17 gennaio 1917 Saunière, che aveva allora sessantacinque anni, ebbe un improvviso attacco cardiaco. La data del 17 gennaio è forse sospetta. La stessa data appare sulla lapide della marchesa d'Hautpoul de Blanchefort, la lapide che Saunière aveva cancella­to. E il 17 gennaio è inoltre la festa di san Sulplizio che, come avremmo scoperto, ricorreva spesso nella nostra storia. Era stato nel seminario di Saint Sulpice che Saunière aveva consegnato le pergamene all'abate Bieil e a Émile Hoffet. Ma ciò che rende particolarmente sospetto l'attacco che colpì Saunière il 17 gennaio è il fatto che appena cinque giorni prima, il 12 gennaio, secondo le dichiarazioni dei suoi parrocchiani sembrava godere di una salute invidiabile per un uomo della sua età. Tuttavia proprio il 12 gennaio, secondo una ricevuta in nostro possesso, Marie Denar-naud aveva ordinato una bara per il suo padrone.

Quando Saunière era sul letto di morte, da una parrocchia vicina fu chiamato un prete per ricevere la sua confessione e somministrargli l'estrema unzione. Il prete arrivò e si chiuse nella camera del malato. A quanto affermarono i testimoni oculari, poco dopo usci, visibilmente sconvolto. Secondo le parole di uno dei testimoni « non sorrise mai più »; secondo un altro, precipitò in uno stato di depressione acuta che si protrasse per parecchi mesi. Indipendentemente dal fatto che queste testimonianze siano

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Carta 2   Rennes-le-Chàteau e i suoi dintorni.

 

o no esagerate, è certo che il prete, probabilmente in seguito alla confessione di Saunière, rifiutò di somministrargli l'estrema unzione.

Il 22 gennaio Saunière morì senza i conforti religiosi. L'indoma­ni mattina il suo corpo fu sistemato sopra una poltrona, sulla terrazza della Torre Magdala, abbigliato di una ricca veste ornata di nappe rosse. Uno ad uno, certi personaggi non identificati sfilarono davanti a lui, e molti di loro staccarono per ricordo le nappe della veste. Questa cerimonia non ha mai trovato una spiegazione. Gli attuali abitanti di Rennes-le-Chàteau la ritengo­no sconcertante non meno degli estranei.

La lettura del testamento di Saunière era attesa con grande ansia. Ma con grande sorpresa e amarezza di tutti, il testamento affermava che il parroco era morto squattrinato. Probabilmente, il curato, prima di morire, aveva trasferito tutte le sue ricchezze a nome di Marie Denarnaud, che per trentadue anni aveva vissuto con lui, condividendo i suoi segreti. O forse addirittura gran parte delle ricchezze era sempre stata intestata a Marie.

Dopo la morte del suo padrone, Marie continuò a vivere agiata­mente a Villa Bethania, fino al 1946. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, il nuovo governo francese emise moneta nuova. Per scoprire gli evasori fiscali, i collaborazionisti e i profittatori, i cittadini francesi, quando si presentavano a cambiare i vecchi franchi con i nuovi, erano obbligati a fornire spiegazioni sui loro redditi. Di fronte a una simile prospettiva, Marie scelse la povertà. Ci fu chi la vide bruciare, nel giardino della villa, enormi mucchi di banconote.

Durante i sette anni che seguirono, Marie visse austeramente con il ricavato della vendita di Villa Bethania. Promise al compra­tore, un certo Monsieur Noel Corbu, che prima di morire gli avrebbe confidato un « segreto », e che questo segreto lo avrebbe reso non soltanto ricco, ma anche « potente ». Tuttavia, il 29 gennaio 1953 Marie, come era accaduto al suo padrone, ebbe un attacco improvviso e inaspettato che la lasciò prostrata e incapace di parlare. Con grande dispiacere di Monsieur Corbu, morì poco dopo, portando con sé il suo segreto.

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I possibili tesori

Questa, a grandi linee, era la storia pubblicata in Francia negli anni Sessanta. E fu in questa forma che ne siamo venuti a cono­scenza, all'inizio. E noi, come altri ricercatori, abbiamo comincia­to a occuparci degli interrogativi sollevati da questa versione.

Il primo interrogativo è piuttosto ovvio. Quale era la fonte della ricchezza di Saunière? Da dove poteva essere arrivato all'improv­viso tutto quel denaro? La spiegazione era, in ultima analisi, banale? Oppure c'era sotto qualcosa di più sensazionale? Que­st'ultima possibilità circondava il mistero di un alone affascinante, e noi non abbiamo resistito alla tentazione di trasformarci in investigatori.

Per cominciare, abbiamo preso in considerazione le spiegazioni proposte da altri ricercatori. Secondo molti di loro, Saunière aveva trovato un tesoro. Era un'ipotesi abbastanza plausibile, perché la storia del villaggio e dei dintorni fa pensare a molti possibili nascondigli d'oro e di gioielli.

In tempi preistorici, ad esempio, il territorio intorno a Rennes-le-Chàteau era considerato sacro dalle tribù celtiche che vi abita­vano; e il villaggio, un tempo chiamato Rhédae, prendeva il nome da una di quelle tribù. Al tempo dei Romani, la zona era un municipio popoloso e prospero, importante per le sue miniere e le sorgenti termali terapeutiche. Anche i Romani consideravano sacro quel luogo. Gli archeologi vi hanno trovato tracce di'nume-rosi templi pagani.

Durante il VI secolo, il piccolo villaggio di montagna era una città di circa 30.000 abitanti. Sembra che, per un certo periodo, fosse la capitale settentrionale del dominio dei Visigoti, il popolo teutonico che si era spinto verso ovest, partendo dall'Europa centrale, aveva saccheggiato Roma e rovesciato l'Impero e aveva creato un suo regno a cavallo dei Pirenei.

Per altri cinquecento anni, la città fu sede di un'importante contea, la Comté de Razès. Poi, all'inizio del secolo XIII, un esercito di cavalieri venne dal nord e piombò sulla Linguadoca per estirpare l'eresia dei Catari o Albigesi e per appropriarsi del ricco bottino. Durante le atrocità della cosiddetta Crociata contro gli Albigesi, Rennes-le-Chàteau fu conquistata e passò di mano in

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mano come feudo. Centoventicinque anni più tardi, intorno al 1360, la popolazione locale fu decimata dalla peste; e poco dopo Rennes-le-Chàteu fu distrutta da banditi catalani.4

A molte di queste vicissitudini storiche s'intrecciano voci di fantastici tesori. Gli eretici Catari, ad esempio, avevano fama di possedere qualcosa che aveva un valore favoloso e sacro e che, secondo numerose leggende, era il Santo Graal. Tali leggende indussero Richard Wagner a compiere un pellegrinaggio a Rennes-le-Chàteau prima di comporre la sua ultima opera, Parsi-fal; e durante l'occupazione del 1940-45 i militari tedeschi, sulle orme di Wagner, avrebbero effettuato numerosi scavi infruttuosi nei dintorni. C'era inoltre il tesoro scomparso dei Cavalieri Tem­plari, il cui Gran maestro, Bertrand de Blanchefort, aveva ordina­to misteriosi scavi nei pressi. Secondo le cronache, tali scavi si erano svolti nella clandestinità ed erano stati effettuati da un contingente di minatori tedeschi fatti arrivare sul luogo apposita­mente. Se un tesoro dei Templari era veramente nascosto nei dintorni di Rennes-le-Chàteau, si poteva spiegare l'allusione a « Sion » nelle pergamene scoperte da Saunière.

C'erano altri tesori possibili. Tra il V e l'VIII secolo, quasi tutta l'attuale Francia era sotto il dominio della dinastia merovingia, cui apparteneva anche il re Dagoberto II. Ai tempi di Dagoberto, Rennes-le-Chàteau era una roccaforte dei Visigoti, e lo stesso Dagoberto aveva sposato una principessa visigota. È possibile che la città fosse una specie di tesoreria reale; ed esistono documenti che parlano di immense ricchezze ammassate da Dagoberto nelle sue conquiste militari e nascoste nei dintorni di Rennes-le-Chàteau. Se Saunière aveva scoperto uno di questi nascondigli, la cosa avrebbe spiegato l'allusione a Dagoberto contenuta nelle pergamene.

I Catari. I Templari. Dagoberto II. E c'era un altro tesoro possibile: l'enorme bottino accumulato dai Visigoti nella loro tempestosa avanzata attraverso l'Europa. Poteva includere anche qualcosa di più di un bottino convenzionale, forse oggetti d'impor­tanza immensa, simbolica e letteraria, per la tradizione religiosa occidentale. In breve, poteva includere il leggendario tesoro del Tempio di Gerusalemme; e questo; ancora più dei Cavalieri Tem­plari, avrebbe spiegato i riferimenti a « Sion ».

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Nel 66 d.C. la Palestina insorse contro la dominazione romana. Quattro anni dopo, nel 70 d.C, Gerusalemme fu rasa al suolo dalle legioni dell'imperatore, comandate da suo figlio Tito. Il Tempio fu saccheggiato, e il contenuto del Santo dei Santi venne portato a Roma. Come si può vedere nei bassorilievi dell'arco trionfale di Tito, il tesoro includeva l'immenso candeliere d'oro a sette braccia, sacro alla religione ebraica, e forse anche l'Arca dell'Alleanza.

Tre secoli e mezzo più tardi, nel 410 d.C., Roma fu saccheggiata a sua volta dagli invasori Visigoti guidati da Alarico il Grande, che portarono via, in pratica, tutte le ricchezze della Città Eterna. Come narra lo storico Procopio, Alarico s'impadronì dei « tesori di Salomone, re degli Ebrei, mirabili a vedersi perché quasi tutti adorni di smeraldi, che anticamente erano stati presi a Gerusalem­me dai Romani ».5

Perciò, è del tutto possibile che un tesoro sia stato all'origine dell'impiegata ricchezza di Saunière. Può darsi che il prete avesse scoperto uno di questi tesori, o forse un tesoro unico, che aveva cambiato ripetutamente mano nel corso dei secoli, passando forse dal Tempio di Gerusalemme ai Romani, da questi ai Visigoti, e quindi ai Catari o ai Cavalieri Templari. Se era così, questo spiegherebbe perché il tesoro in questione « apparteneva » tanto a Dagoberto II quanto a Sion.

Fin qui, sembrava in sostanza la storia di un tesoro. E la storia di un tesoro, anche se riguarda il tesoro del Tempio di Gerusalem­me, alla fin fine ha un interesse e un significato limitati. Di tesori ne vengono scoperti continuamente; spesso sono ritrovamenti senzazionali, drammatici e misteriosi, e molti gettano una luce interessante sul passato. Poche di queste scoperte, tuttavia, eserci­tano un'influenza diretta, politica o non politica, sul presente - a meno che, naturalmente, il tesoro in questione includa un segreto, un segreto esplosivo.

Noi non escludevamo la possibilità che Saunière avesse scoper­to un tesoro. Ma nel contempo ci sembrava chiaro che avesse scoperto anche un segreto: un segreto storico d'importanza enor­me per i suoi tempi e forse anche per i nostri. Il denaro, l'oro, o i gioielli, in se stessi, non potevano spiegare certi aspetti della sua avventura. Ad esempio, non giustificavano l'introduzione nel cir-

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colo di Hoffet, la frequentazione di Debussy e il legame con Emma Calve. Non spiegavano l'immenso interesse della Chiesa, l'impunità con cui Saunière aveva sfidato il suo vescovo e il succes­sivo intervento assolutorio del Vaticano, che sembrava dimostrare una vivissima sollecitudine. Non chiarivano perché un prete aveva rifiutato di somministrare gli ultimi conforti religiosi a un mori­bondo, né perché un arciduca Asburgo si fosse recato in un remoto villaggio dei Pirenei, particolarmente in certi frangenti, nel 1916, quando il suo paese era in guerra con la Francia. E il denaro, l'oro e i gioielli non bastavano a spiegare il fortissimo alone di mistero che circondava l'intera vicenda, dai complessi codici cifrati al fatto che Marie Denarnaud avesse bruciato le banconote avute in eredi­tà. E la stessa Marie aveva promesso di rivelare un « segreto » che conferiva non soltanto ricchezza, ma anche « potere ».

In base a tutte queste considerazioni, ci convincemmo sempre più che la vicenda di Saunière riguardava ben altro che le ricchezze materiali, e che includeva un segreto, quasi sicuramente oggetto di controversie. In altre parole, avevamo l'impressione che il mistero non fosse circoscritto a un remoto paesetto di provincia e a un prete del secolo XIX. Qualunque cosa fosse, sembrava irradiarsi da Rennes-le-Chàteau in tutto il mondo, causando inquietudini - e forse anche potenziali sconvolgimenti. Era possibile che la ric­chezza di Saunière derivasse non già da oggetti di un valore finanziario intrinseco, bensì dalla conoscenza di qualcosa di straordinario? E se era così, quella conoscenza poteva essere sfruttata economicamente? Poteva essere stata usata, ad esempio, per ricattare qualcuno? La ricchezza di Saunière poteva essere il prezzo del suo silenzio?

Sapevano che aveva ricevuto denaro da Giovanni d'Asburgo. Tuttavia il « segreto » del parroco, quale che fosse, sembrava avere un carattere più religioso che politico. Inoltre, i suoi rappor­ti con l'arciduca austriaco, secondo tutte le testimonianze, erano particolarmente cordiali. D'altra parte, c'era un'istituzione che, a partire da un certo periodo, sembrava avere paura di Saunière, e lo trattava con i guanti - il Vaticano. Possibile che Saunière ricattasse il Vaticano? Un simile ricatto sarebbe stata un'azione presuntuosa e pericolosissima da parte di un singolo individuo, per quante precauzioni potesse prendere. Ma... e se Saunière, nella

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sua iniziativa ,-fosse stato aiutato e appoggiato da altri, che per la loro posizione eminente erano inattaccabili per la Chiesa, come il segretario di Stato francese per la Cultura o gli Asburgo? E se l'arciduca Giovanni fosse stato solo un intermediario, se il denaro da lui consegnato a Saunière fosse uscito in realtà dai forzieri di Roma?6

L'intrigo

Nel febbraio 1972 andò in onda The Lost Treasure ofJerusalem?, il primo dei nostri tre documentari su Saunière e il mistero di Rennes-le-Chàteau. Il documentario non faceva affermazioni di­scutibili: raccontava semplicemente la « vicenda base » così come è stata riferita nelle pagine precedenti. Non conteneva ipotesi di un « segreto esplosivo » né di ricatti ad alto livello. E ancora, vale la pena di ricordare che il commento non nominava neppure Émile Hoffet, il giovane studioso di Parigi al quale Saunière aveva affidato le sue pergamene.

Ricevemmo una valanga di lettere, e questo forse non è sor­prendente. Alcune presentavano ipotesi suggestive. Altre erano semplicemente di elogio. Altre ancora erano bizzarre. Tra tutte ce n'era una, che il suo autore ci chiedeva di non pubblicare, e che sembrava meritare un'attenzione speciale. Era di un ecclesiastico anglicano in pensione, e appariva strana, provocatoria e assurda. Il nostro corrispondente scriveva in toni di autorevole, categorica certezza. Esponeva le sue affermazioni con fare definitivo, senza fronzoli, del tutto indifferente al fatto che gli credessimo o no. Il « tesoro », dichiarava seccamente, non era d'oro o di pietre pre­ziose. Al contrario, consisteva nella « prova incontrovertibile » che la Crocifissione era un inganno e che Gesù era ancora vivo nel 45 d.C.

L'affermazione appariva clamorosamente assurda. Anche per l'ateo più incallito, che cosa mai poteva costituire la « prova incontrovertibile » che Gesù era sopravvissuto alla Crocifissione? Non riuscivamo a immaginare niente che non potesse venire con­futato o ripudiato, che rappresentasse non soltanto una « prova », ma addirittura una « prova » veramente « incontrovertibile ». Nel contempo, però, la stessa assurdità dell'affermazione esigeva

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approfondimenti e chiarimenti. L'autore della lettera aveva acclu­so il suo indirizzo. Alla prima occasione andammo a trovarlo e cercammo di intervistarlo.

Di persona, si mostrò molto più reticente di quanto fosse stato nella sua lettera; sembrava addirittura pentito di averci scritto. Rifiutò di spiegare la sua allusione alla « prova incontrover­tibile », e ci diede una sola informazione nuova. La « prova », disse, o almeno la sua esistenza, gli era stata rivelata da un altro ecclesiastico anglicano, il canonico Alfred Leslie Lilley.

Lilley, deceduto nel 1940, aveva pubblicato parecchi libri e non era uno sconosciuto. Per gran parte della sua vita aveva mantenu­to contatti con il Movimento modernista cattolico, incentrato principalmente a Saint Sulpice, a Parigi. In gioventù, Lilley aveva lavorato a Parigi, e aveva conosciuto Émile Hoffet. Il cerchio si chiudeva. Dato il nèsso esistente fra Lilley e Hoffet, le affermazio­ni del nostro corrispondente, per quanto assurde, non potevavo venire accantonate sommariamente.

Altri indizi di un segreto colossale cominciarono ad affiorare quando intraprendemmo ricerche sulla vita di Nicolas Poussin, il grande pittore del XVI secolo, il cui nome ricorreva nella vicenda di Saunière. Nel 1656 Poussin, che a quel tempo viveva a Roma, aveva ricevuto la visita dell'abate Louis Fouquet, fratello di Nico­las Fouquet, sovrintendente delle Finanze di Luigi XIVdiFrancia. Da Roma, l'abate inviò una lettera al fratello, raccontando il suo incontro con Poussin. Una parte della lettera merita di essere citata.

Egli ed io discutemmo certe cose, che con comodo potrò spiegarvi in dettaglio - cose che vi daranno, tramite Monsieur Poussin, vantaggi quali persino i re stenterebbero grandemente a ottenere da lui e che, secondo la sua opinione, forse nessun altro riscoprirà mai più nei secoli futuri. E ciò che più conta, sono cose tanto difficili da scoprire che null'altro ora esistente su questa terra può essere più avventurato o pari ad esse.7

Gli storici e i biografi di Poussin o di Fouquet non sono mai riusciti a spiegare in modo convincente questa lettera, che chiara­mente allude a un mistero d'enorme importanza. Poco tempo dopo averla ricevuta, Nicolas Fouquet fu arrestato e incarcerato per il resto della sua vita. Secondo certe testimonianze, gli venne assolutamente impedito di comunicare con chiunque; e alcuni

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storici lo identificano con l'Uomo dalla Maschera di Ferro. Nel frattempo, tutta la sua corrispondenza fu confiscata da Luigi XIV, che l'esaminò personalmente. Negli anni che seguirono, il re fece di tutto per procurarsi l'originale del quadro di Poussin, Les bergers d'Arcadie. Quando finalmente ci riuscì, lo chiuse nel suo appartamento privato, a Versailles.

A parte il valore artistico, il quadro sembra piuttosto innocuo. In primo piano tre pastori e una pastora sono radunati intorno a una grande tomba antica, e contemplano l'iscrizione incisa sulla pietra corrosa: « ET IN ARCADIA EGO ». Sullo sfondo torreggia un tor­mentato paesaggio montuoso, del genere spesso dipinto da Pous­sin. Secondo Anthony Blunt e altri esperti della pittura di Poussin, il paesaggio è del tutto mitico, creato dalla fantasia dell'autore. Poco dopo il 1970, però, fu scoperta una tomba identica a quella raffigurata nel quadro, identica per la posizione, le dimensioni, le proporzioni, la forma, la vegetazione che la circonda; c'è persino lo spuntone circolare di roccia sul quale uno dei pastori di Poussin appoggia il piede. La tomba si trova alla periferia di un villaggio, Arques, a una decina di chilometri da Rennes-le-Chàteau, a cin­que dal castello di Blanchefort. Se ci si mette davanti al sepolcro, il paesaggio è virtualmente indistinguibile da quello raffigurato nel quadro. E ci si accorge che una delle vette sullo sfondo del dipinto è Rennes-le-Chàteau.

Non vi sono indicazioni che permettano di scoprire l'età della tomba. Naturalmente, è possibile che sia stata eretta di recente-ma i suoi costruttori come riuscirono a trovare uno sfondo che corrisponde con tanta precisione a quello del quadro? In effetti, sembra che esistesse già ai tempi di Poussin, e Les bergers d'Arca­die appare come una raffigurazione fedele di quel luogo. Secondo i contadini dei dintorni, la tomba era sempre stata lì, a quanto ricordavano i loro padri e i loro nonni. Sembra inoltre che sia menzionata specificatamente in un mémoire datato 1709.8

Secondo gli archivi del villaggio d'Arques, il terreno su cui sorge la tomba apparteneva, fino alla sua morte avvenuta negli anni Cinquanta, a un americano, un certo Louis Lawrence di Boston, Massachusetts. Negli anni Venti, Lawrence aprì il sepolcro e lo trovò vuoto. Più tardi, vi furono sepolte sua moglie e sua suocera.

Mentre stavamo preparando il nostro primo documentario su

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Rennes-Ie-Chàteau per la BBC, passammo una mattina a ripren­dere la tomba. Poi andammo a pranzo e ritornammo tre ore dopo. Durante la nostra assenza, qualcuno aveva tentato, in modo rudi­mentale e violento, di penetrare nel sepolcro.

Se mai c'era stata veramente un'iscrizione sulla tomba, le in-temperje l'hanno cancellata da molto tempo. In quanto a quel­la che appare nel quadro di Poussin, sembrerebbe convenzio­nalmente elegiaca: la Morte annuncia la sua lugubre presen­za anche in Arcadia, l'idillico paradiso pastorale della mitologia classica. Tuttavia l'iscrizione è strana, perché manca il verbo. Tradotta letteralmente significa:

E IN ARCADIA IO...

Perché il verbo manca? Forse per una ragione filosofica? Per eliminare ogni tempo grammaticale, ogni indicazione di passato, presente e futuro, e quindi per sottolineare qualcosa di eterno? O forse per una ragione più pratica?

I codici contenuti nelle pergamene ritrovate da Saunière si basavano sugli anagrammi, sulla trasposizione e il riordinamento delle lettere. Era possibile anagrammare « ET IN ARCADIA EGO »? Poteva darsi che il verbo fosse stato omesso perché l'iscrizione doveva consistere soltanto di certe lettere particolari? Uno dei nostri telespettatori ci scrisse suggerendo che poteva essere vera­mente così; e per giunta aveva ordinato le lettere formando una frase latina coerente. Il risultato era:

I TEGO ARCANA DEI (VATTENE! IO CELO I SEGRETI DI DIO)

Quell'ingegnoso esercizio intellettuale ci sembrò affascinante. A quel tempo non ci rendemmo conto che il monito risultante dall'anagramma era straordinariamente appropriato.

Note

/ dati bibliografici completi, quando non sono citati in queste note, si trovano nella Bibliografìa.

1 Gerard de Sède, L'Or de Rennes. Robert Charroux, Trésors du Monde, Paris 1962, pp. 247 sgg.

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- Annuaire Ecclésiastique, p. 282.

1 De Sède, L'Or de Rennes, p. 28. Il quadro raffigurerebbe « Saint Antoine l'Hermite ». Lo stesso de Sède, parlando con noi, disse che raffigurava « la tentazione di sant'Antonio » ma nessuno sapeva quale. Le nostre successive ricer­che indicarono che in realtà era « sant'Antonio e san Gemiamo nel deserto ».

* Fédié, La Comté de Iiazès, pp. 3 sgg. Il numero di 30.000 abitanti è dato da de Sède in L'Or de Rennes, p. 17. De Sède non cita la fonte della notizia.

5  Procopio, Storia delle guerre, libro V, xii.

6  Abbiamo fatto controllare per due volte i documenti, pertinenti, negli archivi vaticani, e tutte e due le volte i nostri ricercatori ci hanno riferito che non esiste nessun riferimento a Saunière. Non c'è neppure traccia della sua esistenza, una lacuna molto curiosa in una documentazione di solito tanto meticolosa. Questo fa pensare che tutte le informazioni relative al parroco siano state eliminate di proposito.

7  Lépinois, « Lettres de Louis Fouquet », pp. 268 sgg. La lettera era conservata negli archivi della famiglia Cossé-Brissac, che ha sempre avuto una posizione eminente nella Massoneria fin dal XVIII secolo.

8  Delaude, Cerale d'Ulysse, p. 3. L'autore afferma che la tomba è menzionata in un mémoire dell'abate Delmas risalente al XVII secolo. Senza dubbio si tratta del mémoire di Delmas datato 1709. Il manoscritto fu depositato presso YAcadémie céltique e poi spari per diverso tempo. All'inizio del nostro secolo ricomparve, e fu parzialmente pubblicato in Courrent, Notice historique, pp. 9-17. Questo estratto, tuttavia, non parla della tomba. Si può soltanto supporre che la notizia sia contenu­ta nelle parti non pubblicate; ma il manoscritto di Delmas si trova oggi a Limoux ed è di proprietà privata. Non ci è stato permesso consultarlo.

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II

I Catari e la grande eresia

Incominciammo la nostra indagine da un argomento, con il quale avevamo già una certa familiarità: l'eresia dei Catari o Albigesi e la crociata che provocò nel XIII secolo. Sapevamo già che i Catari figuravano nel mistero di Saunière e di Rennes-le-Chàteau. Innan­zitutto, erano stati numerosi nel villaggio e nei suoi dintorni gli eretici medievali che avevano sofferto parecchio durante la Cro­ciata contro gli Albigesi. In effetti, la storia della regione è intrisa del sangue dei Catari, e il ricordo di quel sangue persiste ancora oggi, insieme a un profondo rancore. Molti contadini di quell'a­rea, oggi che non esistono più gli inquisitori pronti a balzare loro addosso, confessano apertamente le loro simpatie per i Catari. C'è addirittura una chiesa catara, e un cosiddetto « papa cataro » visse nel villaggio di Arques fino alla sua morte, avvenuta nel 1979.

Sapevamo che Saunière si era dedicato allo studio della storia e delle tradizioni popolari della sua terra natale, e quindi non è possibile che non fosse a conoscenza del pensiero e delle tradizioni dei Catari. Non poteva ignorare che Rennes-le-Chàteau era stata una città importante nel XII e nel XIII secolo, una specie di roccaforte catara.

Inoltre, Saunière doveva aver conosciuto bene le numerose leggende legate ai Catari. Doveva sapere che erano collegati al favoloso Santo Graal. E se Richard Wagner, nella sua ricerca sul Graal, si era recato a Rennes-le-Chàteau, Saunière non poteva ignorarlo.

Nel 1890, inoltre, un certo Jules Doinel diventò bibliotecario a Carcassonne e fondò una chiesa neo-catara.1

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Doinel scrisse parecchio sul pensiero dei Catari, e nel 1896 diventò un membro importante di un'organizzazione culturale locale, la Società delle arti e delle scienze di Carcassonne. Nel 1898 fu eletto segretario. Alla società erano iscritti parecchi cono­scenti di Saunière, incluso il suo miglior amico, l'abate Henri Boudet. E del circolo personale di Doinel faceva parte Emma Calve. Quindi è molto probabile che Doinel e Saunière si cono­scessero.

C'è poi un'altra ragione, più interessante, per collegare i Catari al mistero di Rennes-le-Chàteau. In una delle pergamene ritrova­te da Saunière, il testo è costellato di lettere minuscole - otto, per la precisione - volutamente diverse da tutte le altre. Tre di queste lettere sono situate nella parte alta del foglio, cinque nella parte inferiore. È sufficiente leggere in sequenza queste otto lettere per formare due parole: « rex MUNDI ». È un termine inequivocabile cataro, immediatamente riconoscibile per chiunque conosca il pensiero dei Catari. Tenuto conto di questi fattori, sembrava logico incominciare dai Catari le nostre indagini. Perciò iniziam­mo a effettuare ricerche sulle loro credenze e le loro tradizioni, la loro storia e il loro ambiente. La nostra indagine rivelò nuove dimensioni misteriose e generò molti interrogativi inquietanti.

La Crociata contro gli Albigesi

Nel 1209 un esercito di circa 30.000 uomini tra fanti e cavalieri, provenienti dall'Europa settentrionale, piombò come un ciclone sulla Linguadoca, la regione nord-orientale dei Pirenei, nel sud della Francia odierna. Durante la guerra che seguì l'intero territo­rio fu devastato, le messi distrutte, le città e i villaggi furono rasi al suolo e intere popolazioni vennero passate per le armi. Lo stermi­nio fu perpetrato su una scala così immane e terribile da poter essere considerato come il primo caso di « genocidio » nella storia dell'Europa moderna. Nella sola città di Béziers, ad esempio, furono massacrate almeno 15.000 persone tra uomini, donne e bambini: molti furono addirittura uccisi nella chiesa dove si erano rifugiati. Quando un ufficiale chiese al legato pontificio come avrebbe potuto distinguere gli eretici dai ven credenti, la risposta fu: « Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i Suoi ». Questa frase,

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Carta 3    La Linguadoca dei Catari.

sebbene venga citata molto spesso, potrebbe essere apocrifa. Tut­tavia esprime benissimo lo zelo fanatico e la ferocia sanguinaria con cui venivano perpetrate queste atrocità. Lo stesso legato pontificio, scrivendo a Innocenzo III, annunciò orgogliosamente che non c'era stato riguardo « né per l'età né per il sesso né per la condizione sociale ».

Dopo Béziers, l'esercito invasore dilagò in tutta la Linguadoca. Cadde Perpignano, cadde Narbona, cadde Carcassonne, cadde Tolosa. E i vincitori passarono oltre, lasciandosi dietro una scia di sangue, di morte e di carneficina.

La guerra, che si protrasse per circa quarant'anni, oggi è cono­sciuta come la Crociata contro gli Albigesi. Fu una crociata nel vero senso della parola. Era stata bandita dal papa. I partecipanti portavano una croce sulla tunica, come i crociati in Palestina. E le ricompense erano quelle promesse ai crociati in Terrasanta: re-

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missione di tutti i peccati, dispensa dalle penitenze, un posto assicurato in Paradiso, più tutto il bottino che ognuno riusciva ad arraffare. Inoltre, in questa Crociata, i guerrieri non erano co­stretti ad attraversare il mare. E secondo la legge feudale, nessuno era tenuto a combattere più di quaranta giorni, presumendo, naturalmente, che non fosse troppo interessato a far bottino.

Quando la Crociata si concluse, la Linguadoca era stata comple­tamente trasformata; era ripiombata nella barbarie che caratteriz­zava il resto dell'Europa. Perché? Perché tanti orrori, tanta bruta­lità, tante devastazioni?

All'inizio del XIII secolo, la zona oggi conosciuta come Lingua­doca non faceva parte ufficialmente della Francia. Era un princi­pato indipendente, e la lingua, la cultura e le istituzioni politiche, più che con quelle del nord, avevano affinità con quelle della Spagna, con i regni di Leon, Aragona e Castiglia. Il principato era governato da alcune famiglie nobili, e tra queste spiccavano i conti di Tolosa e il potente casato dei Trencavel. Entro i confini del principato fioriva una cultura che a quei tempi era la più avanzata e raffinata dell'intera cristianità, con l'unica eccezione dell'Impero bizantino.

La Linguadoca aveva molte cose in comune con Bisanzio. L'e-rudizione, ad esempio, era tenuta in grande onore, diversamente da quanto avveniva nell'Europa settentrionale. Fiorivano la filo­sofia e altre attività intellettuali; la poesia e l'amor cortese godeva­no di grande fervore; il greco, l'arabo e l'ebraico venivano studiati con entusiasmo; e a Lunel e Narbona prosperavano scuole votate allo studio della Cabala, l'antica tradizione filosofico-esoterica del giudaismo. Anche i nobili erano colti e spesso si dedicavano alla letteratura, in un periodo in cui gli aristocratici del Nord, in maggioranza, non sapevano neppure scrivere il loro nome.

Sempre come Bisanzio, la Linguadoca praticava una civilissima tolleranza religiosa, in contrasto con il fanatismo che caratterizza­va altre parti dell'Europa. Il pensiero islamico e giudaico, ad esempio, penetrava tramite i centri commerciali marittimi come Marsiglia, oppure perveniva dalla Spagna attraverso i Pirenei. Nel contempo, la Chiesa di Roma non godeva di una grande stima; i religiosi romani, soprattutto a causa della loro ben nota corruzio­ne, erano riusciti ad alienarsi la popolazione della Linguadoca.

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C'erano addirittura chiese nelle quali non veniva celebrata messa da trent'anni. Molti preti si disinteressavano dei parrocchiani per dedicarsi ad attività commerciali o amministrare grandi proprietà terriere . Un arcivescovo di Narbona non si degnò mai di visitare la sua diocesi.

Nonostante la corruzione della Chiesa, la Linguadoca aveva raggiunto un vertice culturale quale non si sarebbe più visto in Europa fino al Rinascimento. Tuttavia, come a Bisanzio, erano presenti i fattori di rilassatezza, di decadenza e di tragica debolez­za che lasciarono la regione impreparata al feroce attacco scatena­to successivamente. Da diverso tempo la nobiltà nord-europea e la Chiesa romana erano ben consapevoli della sua vulnerabilità e aspiravano ad approfittarne. Da molti anni l'aristocrazia setten­trionale invidiava la ricchezza e i lussi della Linguadoca. E la Chiesa era interessata per ragioni sue. Innanzitutto, la sua autorità nell'intera regione era molto debole. E mentre in Linguadoca fioriva la cultura, fioriva anche qualcosa d'altro: la più grande eresia della cristianità medievale.

Secondo le autorità ecclesiastiche, la Linguadoca era « contagia­ta » dall'eresia albigese, « l'immonda lebbra del Sud ». E sebbene i seguaci di questa eresia fossero fondamentalmente nonviolenti, rappresentavano una grave minaccia per l'autorità di Roma, anzi la più grave che Roma avrebbe conosciuto fino a quando, tre secoli più tardi, gli insegnamenti di Martin Luterò avrebbero dato l'av­vio alla Riforma. Nel 1200 c'era l'incontestabile possibilità che questa eresia spodestasse il cattolicesimo romano quale forma dominante del cristianesimo in tutta la Linguadoca. Inoltre, fatto­re ancora preoccupante agli occhi della Chiesa, l'eresia si stava già diffondendo in altre regioni dell'Europa, soprattutto nei centri urbani della Germania, delle Fiandre e dello Champagne.

Gli eretici venivano chiamati con nomi diversi. Nel 1165 erano stati condannati da un concilio svoltosi ad Albi, una città della Linguadoca. Per questa ragione, o forse perché Albi continuò a essere uno dei loro centri, spesso gli eretici venivano chiamati Albigesi. In altre occasioni erano chiamati Catari; in Italia li chiamavano Patarini. Non di rado, poi, venivano bollati o stigma­tizzati con le denominazioni di eresie assai più antiche: ariani, marcioniti e manichei.

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« Albigesi » e « Catari » erano sostanzialmente nomi generici. In altre parole, non indicavano una chiesa unica, come quella di Roma, con un corpus dottrinale e teologico codificato e definitivo. Gli eretici in questione comprendevano una moltitudine di sette diverse, parecchie guidate da un capo indipendente, dal quale prendevano nome i seguaci. E sebbene sia possibile che queste sette avessero in comune certi principi, differivano radicalmente nei dettagli. Inoltre, gran parte delle informazioni pervenute fino a noi sul conto degli eretici deriva da fonti ecclesiastiche come l'Inquisizione. Crearsi un quadro in base a tali fonti è come tenta­re, poniamo, di farsi un'idea della Resistenza francese basandosi sui rapporti delle SS e della Gestapo. Quindi è virtualmente impossibile presentare un'esposizione coerente e definitiva di quello che era in realtà il « pensiero cataro ».

In generale, i Catari accettavano la dottrina della reincarnazio­ne e il riconoscimento del principio femminile nella religione. Anzi, i predicatori e i maestri delle congregazioni catare, chiamati parfaits (« perfetti »), erano di entrambi i sessi. Nel contempo, i Catari ripudiavano la Chiesa cattolica e negavano la validità di tutte le gerarchie ecclesiastiche o di intercessori ufficiali ordinati tra l'uomo e Dio. Alla base di questa presa di posizione stava un importantissimo principio cataro: il ripudio della « fede », almeno nel senso in cui l'intendeva la Chiesa. Alla « fede » accettata di seconda mano, i Catari sostituivano la conoscenza diretta e perso­nale, un'esperienza religiosa o mistica acquisita di prima mano. Questa esperienza era stata chiamata « gnosi », dal termine greco che significa « conoscenza » ; e per i Catari aveva la precedenza su ogni credo e ogni dogma. Data l'importanza attribuita al contatto diretto e personale con Dio, i preti, i vescovi e le altre autorità ecclesiastiche diventavano superflui.

I Catari erano anche dualisti. Tutto il pensiero cristiano, ovvia­mente, in ultima analisi può essere considerato dualistico, poiché pone l'accento su un conflitto tra due princìpi opposti: bene e male, spirito e carne, superiore e inferiore. Ma i Catari spingevano questa dicotomia molto più lontano di quanto fosse disposto ad accettare il cattolicesimo ortodosso. Per i Catari, gli uomini erano le spade con cui combattevano gli spiriti, e nessuno vedeva le mani che le impugnavano. Per loro, era in corso un'eterna guerra in

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tutto il Creato fra due princìpi inconciliabili: luce e tenebra, spirito e materia, bene e male. Il cattolicesimo postula un Dio supremo, il cui avversario, il Diavolo, gli è inferiore. I Catari, invece, procla­mavano l'esistenza non già di un unico Dio, bensì di due, che avevano uno status abbastanza simile. Uno di questi dei - il « buo­no » - era interamente disincarnato, un essere o un principio di puro spirito, non macchiato dalla contaminazione della materia. Era il dio d'amore. Ma l'amore era considerato del tutto incompa­tibile con il potere, e la creazione materiale era una manifestazio­ne del potere. Quindi, per i Catari, la creazione materiale - il mondo - era intrinsecamente malefica. Era intrinsecamente ma­lefica tutta la materia. Insomma, l'universo era l'opera di un « dio usurpatore », il dio del male... o, come lo chiamavano i Catari, « Rex Mundi », il Re del Mondo.

Il cattolicesimo si basa su quello che si potrebbe chiamare un « dualismo etico ». Il male, sebbene in ultima analisi promani forse dal Diavolo, si manifesta principalmente tramite l'uomo e le sue azioni. Al contrario, i Catari propugnavano una forma di « dualismo cosmologico », un dualismo che pervadeva l'intera realtà. Per loro, questa era un premessa fondamentale, alla quale reagivano tuttavia in maniera diversa da una setta all'altra. Secon­do alcuni Catari, il fine della vita dell'uomo sulla terra era trascen­dere la materia, rinunciare perpetuamente a tutto ciò che era connesso al principio del potere, e conseguire quindi con il princi­pio dell'amore. Secondo altri, il fine dell'uomo era riscattare e redimere la materia, spiritualizzarla e trasmutarla. È importante osservare l'assenza di dogmi, dottrine e ideologie di carattere fisso. Come in gran parte delle deviazioni rispetto all'ortodossia conclamata, c'erano soltanto certi atteggiamenti di carattere gene­rale definiti a grandi linee mentre i doveri morali che accompagna­vano tali atteggiamenti erano soggetti all'interpretazione indivi­duale.

Agli occhi della Chiesa di Roma i Catari si macchiavano di gravi eresie considerando intrinsecamente malefica la creazione mate­riale, per la quale era morto Gesù, e sottintendendo che Dio, il cui « verbo » aveva creato il mondo « in principio », era un usurpato-re. La loro eresia più nefanda, tuttavia, era l'atteggiamento assun­to nei confronti dello stesso Gesù. Poiché la materia era intrinse-

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camente malefica, i< Catari negavano che Gesù potesse essere partecipe della materia, e si fosse incarnato continuando a restare Figlio di Dio. Alcuni Catari, perciò, lo ritenevano del tutto incor­poreo, un « fantasma », un puro spirito che, naturalmente, non poteva venire crocifisso. Sembra che la maggioranza dei Catari lo considerasse un profeta non diverso dagli altri: un mortale che, in nome del principio dell'amore, era spirato sulla croce. Insomma, non c'era nulla di mistico, nulla di sovrannaturale e di divino nella Crocifissione - anche ammettendo che avesse importanza; cosa, questa, di cui sembra che molti Catari dubitassero.

Comunque, tutti i Catari ripudiavano con veemenza il significa­to della Crocifissione e della croce, forse perché ritenevano che queste dottrine avessero poca rilevanza, o forse perché Roma le esaltava con tanto fervore, o perché il carattere brutale della morte di un profeta non appariva loro degno di venerazione. E la croce - almeno nella sua associazione con il Calvario e la Crocifis­sione - era considerata un emblema del Rex Mundi, signore del mondo materiale, antitesi del vero principio di redenzione. Gesù, se era stato mortale, era stato un profeta di amor, il principio dell'amore. E AMOR, quando viene pervertito o mutato in potere, diventava ROMA: Roma, la cui Chiesa opulenta e sfarzosa appa­riva agli occhi dei Catari l'incarnazione concreta e la'manifestazione terrena della sovranità del Rex Mundi. Di conseguenza, i Catari non solo rifiutavano di adorare la croce, ma negavano la validità di sacramenti come il battesimo e la comunione.

Nonostante queste posizioni teologiche sottili, complesse, astratte, magari inconsistenti per una mentalità moderna, in mag­gioranza i Catari non erano eccessivamente fanatici, per quanto riguardava il loro credo. Oggi è di moda, fra gli intellettuali, considerare i Catari come una congregazione di saggi, di mistici illuminati o di iniziati alla sapienza arcana, tutti a conoscenza di qualche grande segreto cosmico. In pratica, tuttavia, i Catari erano in maggioranza uomini e donne più o meno « comuni », che trovavano nel loro credo un rifugio contro l'assillante ortodossia del cattolicesimo, un'evasione dalle interminabili decime, peni­tenze, sottomissioni, rigori e imposizioni della Chiesa di Roma.

Per quanto fosse astnisa la loro teologia, i Catari erano estrema­mente pratici e realistici. Condannavano la procreazione, ad

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esempio, perché la propagazione della carne era un servizio reso non già al principio dell'amore, bensì al Rex Mundi; ma non erano tanto ingenui da propugnare l'abolizione della sessualità. È vero che esisteva un « sacramento » tipicamente cataro, o un suo equi­valente, chiamato Consolamentum, che imponeva l'obbligo di castità. Tuttavia, se si escludono i parfaits, che di solito erano uomini e donne senza famiglia, il Consolamentum veniva sommi­nistrato soltanto sul letto di morte; e non è troppo difficile mante­nersi casti quando si è moribondi. Per quanto riguardava i fedeli in generale, la sessualità era tollerata, se non esplicitamente appro­vata. Come si può condannare la procreazione quando si ammette la sessualità? Vari indizi fanno pensare che i Catari praticassero il controllo delle nascite e l'aborto.2 Quando in seguito Roma accusò gli eretici di « pratiche sessuali contro natura », questo venne interpretato come un riferimento alla sodomia. Tuttavia i Catari, almeno secondo i documenti pervenuti fino a noi, erano estrema­mente rigorosi nel vietare l'omosessualità. È possibile che le « pratiche sessuali contro natura » fossero in realtà i vari metodi di controllo delle nascite e di aborto. Sappiamo bene qual è oggi la posizione di Roma nei confronti di questi problemi. Non è diffìcile immaginare l'energia e lo zelo vendicativo con cui questa posizio­ne veniva imposta durante il Medioevo.

In generale, sembra che i Catari vivessero una vita di estrema devozione e semplicità. Poiché deploravano le chiese, di solito svolgevano i riti e le funzioni religiosi all'aperto, o in qualunque edificio disponibile: un granaio, una casa, un palazzo comunale. Inoltre, praticavano quella che oggi noi chiamiamo meditazione. Erano rigorosamente vegetariani, sebbene fosse consentito man­giare pesce. E quando viaggiavano per le campagne, i parfaits andavano sempre in coppia, accreditando così le accuse di sodo­mia sparse dai loro nemici.

L'assedio di Montségur

Era questo, dunque, il credo che si era diffuso nella Linguadoca e nelle province confinanti, al punto di minacciare il cattolicesimo. Per parecchie e comprensibili ragioni, molti nobili furono attratti da questo credo. Alcuni ne apprezzavano il carattere tollerante.

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Altri erano motivati dall'anticlericalismo. Alcuni erano delusi e amareggiati dalla corruzione della Chiesa. Certuni trovavano in­sopportabile il sistema delle decime, che faceva affluire le rendite delle loro tenute nei forzieri della lontana Roma. Perciò molti nobili, in tarda età, diventano parfaits. Anzi, si calcola che il 30 per cento di tutti i parfaits provenisse dalla nobiltà della Lin-guadoca.

Nel 1145, mezzo secolo prima della Crociata contro gli Albigesi, lo stesso San Bernardo si era recato in Linguadoca per predicare contro gli eretici. Ma quando arrivò, inorridì non tanto a causa degli eretici quanto per la corruzione della sua Chiesa. Invece, gli eretici gli fecero una notevole impressione. « Nessun sermone è più cristiano dei loro » dichiarò. « E la loro morale è pura ».3

Nel 1200,' è superfluo precisarlo, Roma era decisamente allar­mata per la situazione. E sapeva benissimo che i baroni dell'Euro­pa settentrionale guardavano con invidia le ricche terre e le città del sud. Quell'invidia poteva venire sfruttata agevolmente; e i signori del nord avrebbero costituito le truppe d'assalto della Chiesa. Occorreva soltanto una provocazione, un pretesto per scatenare l'opinione pubblica.

Il pretesto non tardò ad arrivare. Il 14 gennaio 1208 uno dei legati pontinci'in Linguadoca, Pierre de Castelnau, fu assassinato. Sembra che l'omicidio fosse stato commesso da ribelli anticlericali che non avevano nessun legame con i Catari. Roma, che aveva trovato il pretesto desiderato, non esitò invece ad accusare gli aborriti eretici. Subito papa Innocenzo III bandì una Crociata. Sebbene vi fossero state persecuzioni intermittenti contro gli ereti­ci durante tutto il secolo precedente, questa volta la Chiesa mobili­tò tutte le sue forze. L'eresia doveva essere estirpata per sempre.

Si radunò un vero esercito, al comando dell'abate di Citeaux. Le operazioni militari vennero affidate soprattutto a Simone di Montfort, padre dell'uomo che in seguito avrebbe avuto un ruolo decisivo nella storia inglese. Guidati da Simone, i crociati del papa partirono, decisi a distruggere la più eletta cultura europea del Medioevo. In questa santa impresa si avvalsero dell'aiuto di un nuovo e prezioso alleato, un fanatico spagnolo che si chiamava Domenico Guzmàn. Spronato da un odio feroce contro l'eresia, nel 1216 Guzmàn fondò l'Ordine dei domenicani. E nel 1233 i

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domenicani crearono un'istituzione infame: la Santa Inquisizione. I Catari non sarebbero stati le sue uniche vittime. Prima della Crociata contro gli Albigesi molti nobili della Linguadoca - so­prattutto le influenti casate di Trecavel e di Tolosa - avevano mostrato molta benevolenza verso la numerosa popolazione ebrea della zona. La protezione e gli appoggi furono ritirati per ordine della Chiesa.

Nel 1218 Simone di Montfort fu ucciso mentre assediava Tolo­sa. Tuttavia le devastazioni in Linguadoca continuarono, con brevi tregue, per altri venticinque anni. Nel 1243, tuttavia, tutta la resistenza organizzata era finita. Col 1243 tutte le principali città e roceaforti catare erano state espugnate dagli invasori venuti dal Nord, eccettuate poche fortezze remote e isolate. La più impor­tante era la maestosa cittadella montana di Montségur, librata come un'arca celeste sopra le valli circostanti.

Per dieci mesi, Montségur fu assediata dagli invasori; respinse vari assalti e resistette con grande tenacia. Alla fine, nel marzo del 1244, la fortezza capitolò e il catarismo, almeno apparentemente, smise di esistere nella Francia meridionale. Ma le idee non posso­no mai venire annientate in modo definitivo. Nel suo best-seller, Montaillou, ad esempio, Emmanuel Le Roy Ladurie, attingendo ai documenti dell'epoca, narra le attività svolte dai Catari supersti­ti circa mezzo secolo dopo la caduta di Montségur. Piccole enclavi di eretici continuarono a sopravvivere tra le montagne; i Catari vivevano nelle grotte, seguivano fedelmente il loro credo e com­battevano un'accanita guerriglia contro i loro persecutori. In mol­te zone della Linguadoca- inclusi i dintorni di Rennes-le-Chàteau - la fede catara, sembra, perdurò ancora a lungo. E parecchi autori hanno fatto risalire diverse eresie europee dei tempi succes­sivi a derivazioni del pensiero cataro: ad esempio i Valdesi, gli Hussiti, gli Adamiti o Fratelli del Libero Spirito, gli Anabattisti e gli strani Camisards, molti dei quali si rifugiarono a Londra all'ini­zio del secolo XVIII.

Il tesoro dei Catari

Durante la Crociata contro gli Albigesi e in tempi successivi, intorno ai Catari crebbe una leggenda che persiste ancora oggi. In

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parte, ciò può essere attribuito alla temperie romantica che circon­da ogni causa tragicamente perduta - ad esempio quella del Bon-nie Prince Charlie, sfortunato pretendente al trono d'Inghilterra-di una luce magica, di un'intensa nostalgia. Ma nel contempo, come potemmo scoprire, c'erano alcuni misteri molto concreti associati ai Catari. Anche se le leggende potevano essere esagera­te, restavano parecchi enigmi.

Uno di questi riguarda l'origine dei Catari; e sebbene all'inizio ci sembrasse una questione accademica, in seguito risultò di un'importanza considerevole. Molti storici, in tempi recenti, han­no sostenuto che i Catari derivavano dai Bogomil, una setta attiva in Bulgaria nel X e nell'XI secolo, i cui missionari erano emigrati verso occidente. Non c'è dubbio che gli eretici della Linguadoca comprendessero anche numerosi Bogomil. Anzi, un noto predica­tore Bogomil ebbe una posizione di rilievo negli affari politici e religiosi di quel tempo. Tuttavia, le nostre ricerche rivelarono chiari indizi che i Catari non derivavano dai Bogomil. Al contra­rio, sembravano rappresentare la fioritura di un movimento già da secoli radicato nel suolo francese. Sembravano discendere quasi direttamente da eresie insediate in Francia già all'avvento dell'era cristiana.4

Vi sono altri misteri, molto più inquietanti, associati ai Catari. Jean de Joinville, ad esempio, che da vecchio scrisse dei suoi rapporti con il re Luigi IX durante il XIII secolo, afferma: « II re [Luigi IX] mi narrò una volta come molti uomini degli Albigesi si erano presentati al conte di Montfort... e l'avevano invitato a seguirli e ad andare a vedere il corpo di Nostro Signore, che era divenuto carne e sangue nelle mani del loro prete ».5 Secondo questo aneddoto, Montfort fu sconcertato dall'invito. Dichiarò burberamente che il suo seguito poteva andare, se voleva; ma lui avrebbe continuato a credere secondo i dettami della « Santa Chiesa ». L'episodio non ha spiegazione. Lo stesso Joinville lo riferisce quasi di sfuggita. Ma come dobbiamo interpretare quel­l'invito enigmatico? Che cosa facevano i Catari? Di quale rito si trattava? Escludendo la messa, che del resto i Catari ripudiavano, che cosa poteva far sì che « il corpo di Nostro Signore » diventasse « carne e sangue »? A qualunque rito si riferisse questa afferma­zione è comunque inquietante, se la si prende alla lettera.

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Un altro mistero circonda il leggendario « tesoro » dei Catari. Si sa che i Catari erano ricchissimi. Il loro credo vietava di portare le armi e, anche se molti non rispettavano la proibizione, resta il fatto che si servivano di un gran numero di mercenari, assoldati con spese ingenti. Nel contempo, erano evidenti e spiegabilissime le fonti delle ricchezze dei Catari, ad esempio la devozione di molti potenti proprietari terrieri. Tuttavia, anche durante la Crociata contro gli Albigesi, nacquero voci di un fantastico, mistico tesoro dei Catari che trascendeva le ricchezze materiali. Qualunque cosa fosse, si diceva che il tesoro fosse custodito a Montségur. Ma quando Montségur cadde, non vi fu trovato niente di eccezionale. Nonostante ciò, vi sono alcuni episodi estremamente singolari, legati all'assedio e alla capitolazione della fortezza.

Durante l'assedio, gli assalitori erano più di 10.000. Con questo esercito tentarono di circondare tutta la montagna, per precludere ogni possibilità di entrare e di uscire dalla roccaforte e per prende­re per fame i difensori. Ma nonostante la loro consistenza numeri­ca, non avevano uomini a sufficienza per rendere del tutto impene­trabile l'accerchiamento. Inoltre, molti soldati erano del luogo e simpatizzavano per i Catari. E molti erano semplicemente infidi. Di conseguenza, non era troppo difficile passare inosservati attra­verso le linee degli assedianti. C'erano molti varchi dai quali gli uomini potevano uscire e rientrare, e la fortezza veniva rifornita di viveri con questo metodo.

I Catari approfittarono di quei varchi. In gennaio, circa tre mesi prima della caduta della fortezza, dueparfaits fuggirono. Secondo testimonianze attendibili, portarono via una parte consistente delle ricchezze materiali degli assediati: un carico d'oro, d'argento e di monete che trasportarono dapprima in una grotta fortificata tra le montagne e successivamente in un castello. Poi il tesoro sparì, e nessuno ne seppe più nulla.

II  1° marzo Montségur capitolò. Ormai i suoi difensori erano ridotti a meno di 400: 150-180 erano parfaits, e gli altri erano cavalieri, scudieri, armigeri e i loro familiari. Gli assedianti offri­rono loro condizioni sorprendentemente generose. Agli armigeri sarebbero stati perdonati tutti i loro « crimini » ; avrebbero potuto andarsene indisturbati con armi, bagagli e con tutti i compensi, denaro incluso, che avessero ricevuto da quelli che li avevano

 

assoldati. Anche ai parfaits veniva accordato un trattamento ina­spettatamente magnanimo. Purché abiurassero la loro fede ereti­ca e confessassero all'Inquisizione i loro « peccati », sarebbero stati liberati e sottoposti a lievi penitenze.

I difensori chiesero una tregua di due settimane, con la totale interruzione delle ostilità, per prendere in considerazione le con­dizioni. Dimostrando ancora una volta una generosità inconsueta, gli assedianti acconsentirono. In cambio, i difensori offrirono volontariamente un certo numero di ostaggi. Fu concordato che, se qualcuno avesse cercato di uscire dalla fortezza, gli ostaggi sarebbero stati giustiziati.

I parfaits erano veramente tanto legati alla loro fede da preferire il martirio alla conversione? Oppure c'era qualcosa che non pote­vano o non osavano confessare all'Inquisizione? Comunque stes­sero le cose, nessuno dei parfaits, a quanto si sa, accettò le condi­zioni offerte dagli assedianti. Scelsero tutti il martirio. Anzi, alme­no altri venti difensori della fortezza, sei donne e una quindicina di combattenti, chiesero e ricevettero il Consolamentum e divennero anch'essi parfaits, votandosi così alla morte certa.

II  15 marzo venne a scadere la tregua. All'alba del giorno seguente, più di duecento parfaits furono trascinati giù per il pendio della montagna. Nessuno di loro abiurò. Non c'era tempo per erigere un rogo per ognuno; perciò furono rinchiusi entro una grande palizzata piena di legna ai piedi del monte, e bruciati in massa. I superstiti della guarnigione, confinati nel castello, furono costretti ad assistere. Vennero avvertiti che, se qualcuno di loro avesse cercato di fuggire, sarebbero stati uccisi tutti, inclusi gli ostaggi.

Nonostante il rischio, però, la guarnigione era riuscita a nascon­dere quattro parfaits. E la notte del 16 marzo questi quattro uomini, accompagnati da una guida, fuggirono, ancora una volta con la piena connivenza della guarnigione. Scesero lungo la sco­scesa parete occidentale della montagna, servendosi di corde, e calandosi per tratti a strapiombo alti più di cento metri.6

Che cosa stavano facendo quei quattro? Che scopo aveva quella fuga ardimentosa che comportava un simile rischio per la guarni­gione e gli ostaggi? L'indomani avrebbero potuto uscire libera­mente dalla fortezza per riprendere un'esistenza normale. Eppu-

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re, per una ragione sconosciuta, intrapresero una pericolosa fu­ga notturna che poteva costare la vita a loro e ai loro compagni.

Secondo la tradizione, i quattro portavano il leggendario tesoro dei Catari. Ma il tesoro dei Catari era stato portato via di nascosto da Montségur tre mesi prima. E del resto, quale tesoro, quanto oro, argento, denaro, potevano portare sulle spalle tre o quattro uomini che si calavano con le corde giù per uno strapiombo? Se i quattro fuggiaschi portavano veramente qualcosa, è evidente che non si trattava di ricchezze materiali.

Che cosa potevano portare? Forse oggetti culturali della loro fede, libri, manoscritti, insegnamenti segreti, reliquie, oggetti di significato religioso; forse qualcosa che, per una qualunque ragio­ne, non potevano lasciar cadere in mani nemiche. Questo potreb­be spiegare perché venne organizzata la fuga, una fuga tanto rischiosa per tutti. Ma se si trattava di una cosa tanto preziosa che doveva venir sottratta alle mani del nemico, a qualunque costo, perché non era stata portata via in precedenza? Perché non era stata evacuata di nascosto con il tesoro materiale, tre mesi prima? Perché era stata tenuta nella fortezza fino all'ultimo, pericolosissi­mo momento?

La data esatta della tregua ci permise di dedurre una possibile risposta a questi interrogativi. La tregua era stata chiesta dai difensori, che per ottenerla avevano offerto volontariamente di consegnare gli ostaggi. Per una qualche ragione, sembra che i difensori la ritenessero necessaria - anche se servì soltanto a procrastinare di due settimane l'inevitabile.

Forse, abbiamo concluso, quella tregua era stata indispensabile per guadagnare tempo: non in senso generale, ma per arrivare a quella data specifica. Coincideva con l'equinozio di primavera, ed è possibile che l'equinozio avesse per i Catari un'importanza ritua­le. E coincideva anche con la Pasqua. Ma i Catari, che contestava­no il valore della Crocifissione, non attribuivano alla Pasqua un'importanza particolare. Si sa tuttavia che fu celebrata una festività il 14 marzo, alla vigilia dello scadere della tregua.7 Sembra che non vi siano dubbi: la tregua fu chiesta per poter celebrare quella festività. E sembra altrettanto certo che la festività non poteva venire celebrata in una data a caso. È evidente che doveva assolutamente essere il 14 marzo. Non si sa con esattezza quale

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celebrazione fosse, ma è sicuro che impressionò i mercenari, alcuni dei quali, sfidando la morte inevitabile, si convertirono alla fede catara. Questo fatto poteva fornire una chiave, almeno par­ziale, per dedurre che cosa venne portato fuori di nascosto da Montségur due notti dopo? È possibile che avesse indotto almeno venti difensori a divenire parfaits all'ultimo momento? È possibile che giustificasse la successiva collusione dei membri della guarni­gione, a rischio della loro vita? Se la risposta a tutti questi interro­gativi è sì, questo spiegherebbe perché ciò che venne portato via la notte del 16 non era stato asportato prima: in gennaio, ad esem­pio, quando era stato messo in salvo il tesoro materiale. Era necessario per la celebrazione. E doveva essere sottratto alle mani dei nemici.

II mistero dei Catari

Mentre riflettevamo su queste conclusioni, il nostro pensiero ritor­nava continuamente alle leggende che collegano i Catari al Santo Graal.8 A quel tempo, eravamo convinti che il Graal non fosse altro che un mito. Non eravamo certamente disposti ad affermare che fosse esistito realmente. E anche se era esistito, non potevamo immaginare che una coppa o un vaso, indipendentemente dal fatto che avesse contenuto o meno il sangue di Gesù, fosse tanto prezio­so per i Catari, dato che per loro Gesù aveva un'importanza relativa. Tuttavia, quelle leggende continuavano ad assillarci e a sconcertarci.

Sembra che esista in effetti un legame, per quanto sfuggente, tra i Catari e il culto del Graal nella forma in cui si era evoluto nel XII e nel XIII secolo. Molti studiosi hanno sostenuto che i romanzi del Graal - ad esempio quelli di Chrétien de Troyes e di Wolfram von Eschenbach - sono un'interpolazione del pensiero cataro, celato sotto un simbolismo complesso, nel cuore del cristianesimo orto­dosso. È possibile che questa affermazione sia esagerata, ma contiene una parte di verità. Durante la Crociata controigli_AlbP gesi, gli ecclesiastici si scagliarono contro i romarjzr'clel Graal, proclamandoli dannosissimi se non addirittura erètici. E in alcuni di questi romanzi vi sono passi che non soltanto'non sono ortodos­si, ma sono anche fuori dubbio dualisti; in altre parole, catari.

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E c'è di più. In uno dei suoi romanzi del Graal, Wolfram von Eschenbach afferma che il castello del Graal era situato nei Pire-nei: un'affermazione che in futuro Richard Wagner, comunque, avrebbe preso alla lettera. Secondo Wolfram, il nome del castello del Graal era Munsalvaesche - evidentemente una versione ger­manizzata di Montsalvat, un termine cataro. E in uno dei poemi di Wolfram il signore del castello del Graal è chiamato Perilla. Particolare piuttosto interessante, il signore di Montségur era Raimon de Pereille, e il suo nome appare come Perilla, nella forma latina, in vari documenti dell'epoca.9

Se queste coincidenze sorprendenti continuavano a perseguitar­ci, concludemmo, dovevano aver colpito anche Saunière, il quale, dopotutto, conosceva molto bene le leggende e le tradizioni popo­lari della zona. E come tutti coloro che erano nati in quella regione, Saunière doveva sapere benissimo che nelle vicinanze si trovava Montségur, la cui sorte tragica e commovente viene ricor­data ancora oggi dagli abitanti di quel territorio. Ma per Saunière la vicinanza della fortezza poteva aver avuto anche certi significati pratici.

Qualcosa era stato portato fuori da Montségur, clandestina­mente, subito dopo Io scadere della tregua. Secondo la tradizione, i quattro uomini fuggiti dalla cittadella condannata portavano con loro il tesoro dei Catari. Ma l'oro e il denaro erano stati portati via tre mesi prima. Era possibile che il « tesoro » cataro, come il « tesoro » scoperto da Saunière, consistesse soprattutto in un segreto? Era possibile che il segreto fosse legato, chissà come, a ciò che era conosciuto come il Santo Graal? Ci sembrava inconce­pibile che i romanzi del Graal potessero essere interpretati alla lettera.

In ogni caso, ciò che era stato portato fuori da Montségur dovette essere trasportato altrove. Secondo la tradizione, finì nelle grotte fortificate di Ornolac, nell'Ariège, dove poco tempo dopo fu sterminato un gruppo di Catari. Ma a Ornolac non è mai stato trovato nulla, eccettuati gli scheletri. D'altra parte, Rennes-le-Chàteau dista soltanto mezza giornata a cavallo da Montségur. Ciò che fu portato via da Montségur poteva essere stato trasporta­to a Rennes-le-Chàteau, o più probabilmente in una delle grotte che costellano le montagne circostanti. E se il « segreto » di

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Montségur era quello scoperto secoli dopo da Saunière, ovvia­mente questo spiegherebbe parecchie cose.

Nel caso dei Catari, come in quello di Saunière, la parola « tesoro » sembra nascondere dell'altro: una conoscenza o un'in­formazione di qualche cosa. Data la tenace fedeltà dei Catari al loro credo e la loro ostilità militante nei confronti di Roma, ci chiedevamo se quell'informazione (ammesso che esistesse real­mente) era legata in qualche modo al cristianesimo, alle dottrine e alla teologia del cristianesimo, forse alla sua storia e alle sue origini. Insomma, era possibile che i Catari (o almeno alcuni di loro) sapessero qualcosa: un qualcosa che contribuì ad attizzare il frenetico fervore con cui Roma decise di sterminarli? L'ecclesia­stico anglicano che ci aveva scritto aveva accennato a una « prova incontrovertibile ». Era possibile che i Catari fossero a conoscen­za di quella « prova »?

A quel tempo, potevamo soltanto abbandonarci a ipotesi ozio­se. E in generale le notizie sui Catari erano così scarse da preclude­re anche una semplice ipotesi di lavoro, D'altra parte, le nostre ricerche sui Catari erano sconfinate più volte in un altro argomen­to, ancora più enigmatico e misterioso e circondato da leggende suggestive: i Cavalieri Templari.

Perciò incominciammo a indagare sui Templari. E fu a questo punto che le nostre ricerche incominciarono a portare documenta­zioni concrete, e il mistero assunse proporzioni assai più grandi di quanto avessimo immaginato.

Note

1  Nel 1888, mentre lavorava nella Biblioteca Municipale di Orleans, Doinel trovò un manoscritto datato 1022 e opera di uno gnostico che più tardi, quello stesso anno, fu mandato al rogo. La lettura del manoscritto convertì Doinel allo gnostici­smo. Cfr. Lauth, « Tableau de l'au dela », pp. 212 sgg.

2  I manichei avevano usato per lungo tempo vari metodi di conjróflo delle nascite, e venivano accusati di giustificare l'aborto. Quasi sicuramente queste pratiche erano incluse anche nell'insegnamento cataro. Noonan dimostra che la condanna della contraccezione, da parte della Chiesa, venne riconfermata al tempo della condanna dell'eresia catara. Cfr. Noonan, Contraception, p. 281, Chadwick, Pri-scillian, p. 37.

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3  De Rougement, Lave in thè Western World, p. 78.

4  Nell'anno 800 d.C. i manichei venivano ancora condannati in Occidente. Nel 991 Gerbert d'Aurillac, divenuto più tardi papa con il nome di Silvestro II, espresse convinzioni manichee. Cfr. Runciman, The Medieval Manichee, p. 117; Niel, Lei Cathars de Montségur, pp. 26 sgg.

5  Jean de Joinville, Vita di san Luigi (p. 174 dell'edizione inglese).

6  Niel, Les Cathais de Montségur, pp. 291 sgg.

7  I manichei avevano una festività chiamata Berna, che veniva celebrata in marzo. Niel ipotizza che fosse appunto la festività celebrata a Montségur il 14 marzo, e aggiunge che nel 1244 l'equinozio di primavera cadeva appunto in quella data: Niel, Les Cathars de Montségur, pp. 276 sgg.

Sembra che i manichei si servissero di uno speciale libro di disegni che esprimeva gli insegnamenti di Mani, forse simbolicamente. Conteneva delle immagini che mostravano il dualismo tra i Figli della Luce e i Figli delle Tenebre. Questo libro veniva usato nella festività chiamata Berna. Forse un libro contenente simboli di questo tipo faceva parte del tesoro dei Catari. Cfr. Ort, Mani, pp. 168 sgg., 180 e 253 sgg.

8  Un esame di questo tipo di ipotesi si trova in Waite, Holy Grati, pp. 524 sgg.

9  Nelli, Dictionnaire des hérésies, pp. 216 sgg. Lo scrittore che si è occupato maggiormente di questi tipi di connessione è Otto Rahn, autore di Crosaide cantre le Graìl e La cour de Lucifer. Otto Rahn sostenne che il castello del Graal, il Munsalvaesche di Wolfram von Eschenbach, è Montségur. I libri di Rahn furono pubblicati per la prima volta in tedesco negli anni Trenta. Rahn entiò nelle SS e raggiunse il grado di colonnello. Le sue ricerche sui Catari e il Graal furono incoraggiate da Alfred Rosenberg, il teorico ufficiale del razzismo, portavoce del partito nazista e amico di Hitler. Rahn scomparve nel 1939; fu detto che si era suicidato in vetta al monte Kufstein. Tuttavia un ricercatore francese ha scoperto parecchi documenti relativi a Rahn, l'ultimo dei quali porta la data del 1945. Cfr. Bernadac, Le mystère Otto Rahn. Se i documenti si riferiscono veramente allo scrittore, c'è da domandarsi quali fossero i veri scopi di misteriosi scavi eseguiti dai tedeschi a Montségur e in altre località legate ai Catari, durante la Seconda guerra mondiale.

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I monaci guerrieri

La ricerca sui Cavalieri Templari fu un'impresa tremenda. La quantità del materiale esistente sull'argomento era scoraggiarne; e all'inizio non sapevamo quanta parte di tale materiale fosse atten­dibile. Se i Catari avevano dato origine a innumerevoli leggende spurie e romantiche, le mistificazioni che circondavano i Templari erano ancora più numerose e sconcertanti.

Su un certo piano, sapevamo abbastanza sul loro conto: erano stati monaci-guerrieri, ardenti e fanatici, mistici cavalieri dal man­tello bianco ornato dalla croix pattée rossa, e avevano avuto un ruolo importante nelle Crociate. In un certo senso, erano gli archetipi dei crociati, gli arditi della Terrasanta, che avevano combattuto ed erano morti eroicamente a migliaia in nome di Cristo. Tuttavia molti studiosi, ancora oggi, li consideravano un'i­stituzione molto più misteriosa, un ordine essenzialmente segreto, votato a intrighi oscuri, macchinazioni clandestine, tenebrose co­spirazioni. E restava un fatto sconcertante e inspiegabile. Dopo due secoli di esistenza, questi biancovestiti campioni di Cristo furono accusati di rinnegare e ripudiare lo stesso Cristo, di calpe­stare la croce e di sputarvi sopra.

Nel romanzo di Walter Scott, Ivanhoe, i Templari sono preserie tati come arroganti e altezzosi, despoti avidi e ipocriti^herSbusano spudoratamente del loro potere, astuti intriganti che manovrano le sorti degli uomini e dei regni. Altri scrittori del XIX secolo li descrivono come abominevoli satanisti, adoratori del diavolo che praticano ogni sorta di riti osceni, esecrabili ed eretici. Gli storici più recenti tendono a considerarli vittime sfortunate, pedine sa-

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criticate dalle manovre politiche della Chiesa e dello Stato. Vi sono poi altri autori, soprattutto quelli che seguono la tradizione della massoneria, che considerano i Templari come adepti mistici e iniziati, custodi di una sapienza arcana che trascende lo stesso cristianesimo.

Indipendentemente dai pregiudizi degli scrittori, nessuno con­testa lo zelo eroico dei Templari o il contributo dato alla storia. E nessuno dubita che il loro ordine sia una delle istituzioni più affascinanti ed enigmatiche negli annali della cultura occidentale. Nessuna storia delle Crociate - o più in generale dell'Europa del XII e del XIII secolo - trascura di menzionare i Templari. Al culmine della loro esistenza furono l'organizzazione più influente e potente dell'intera cristianità, con l'unica possibile eccezione del papato.

Tuttavia permangono certi interrogativi inquietanti. Chi erano e che cos'erano i Cavalieri Templari? Erano semplicemente ciò che sembravano, oppure erano qualcosa di diverso? Erano soltan­to soldati circonfusi in seguito d'un alone di leggenda e di mistifica­zione? E se questo è vero, perché? Oppure erano legati a un autentico mistero? I miti fioriti successivamente potevano avere un fondamento?

Per prima cosa, abbiamo esaminato le versioni generalmente accettate sul conto dei Templari, quelle offerte da storici seri e rispettati. Queste versioni, però, sollevavano virtualmente su ogni punto un numero di interrogativi ancora più grande di quelli che trovavano risposta. Non soltanto crollavano a un attento esame, ma facevano pensare a una specie di « copertura ». Non riusciva­mo a scacciare il sospetto che fosse stato volutamente nascosto qualcosa e fosse stata confezionata una « copertura », che gli storici dei tempi successivi si erano accontentati di ripetere.

I Cavalieri Templari: la versione ortodossa

A quanto si sa generalmente, le prime notizie attendibili sui Tem­plari sono quelle date da uno storico franco, Guillaume de Tyre, che scrisse tra il 1175 e il 1185. Era la fase culminante delle Crociate, quando gli eserciti dell'Occidente avevano già conqui­stato la Terrasanta fondando il regno di Gerusalemme o, come

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veniva chiamato dagli stessi Templari, Outremer, « Oltremare ». Ma quando Guillaume de Tyre incominciò a scrivere, la Palestina era in mano agli occidentali da settant'anni, e i Templari esisteva­no da più di mezzo secolo. Perciò Guillaume narrava eventi ante­riori alla sua nascita, eventi ai quali non aveva assistito personal­mente, e che aveva appreso di seconda o terza mano. Di seconda o terza mano e, per giunta, in base a un'autorità incerta. Infatti, tra il 1127 e il 1144 non c'erano cronisti occidentali in Outremer. e quindi non esisteva una documentazione scritta relativa a quegli anni importantissimi.

Insomma, non sappiamo molto delle fonti di Guillaume, e può darsi che alcune delle sue affermazioni siano discutibili. Può darsi che attingesse ai racconti popolari, a una tradizione orale non troppo attendibile. Oppure, può darsi che avesse consultato gli stessi Templari e riferisse ciò che gli avevano raccontato loro stessi. Se è così, è chiaro che Guillaume riferisce soltanto quello che gli stessi Templari volevano che dicesse.

Certo, Guillaume ci fornisce varie notizie fondamentali; ed è su queste notizie che si basano tutte le storie successive dei Templari, tutte le spiegazioni della loro fondazione, tutti i resoconti delle loro attività. Ma se si tiene conto del tono vago e sommario della cronaca di Guillaume, del tempo in cui scriveva e della penuria di fonti documentate, la base per costruire un quadro definitivo viene a essere molto precaria. Le cronache di Guillaume sono indiscutibilmente utili. Ma è un errore - e molti storici lo hanno commesso - considerarle inoppugnabili ed esatte. Persino le date di Guillaume, come fa osservare Sir Steven Runciman, « sono confuse e talvolta dimostrabilmente errate ». '

Secondo Guillaume de Tyre, l'Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone fu fondato nel 1118. Il fondatore sarebbe stato un certo Hugues de Payen, un nobile vassallo del conte di Champagne.2 Un giorno Hugues si presentò spontanea­mente, insieme a otto compagni, al palazzo di Baldovino I, re di Gerusalemme, il cui fratello maggiore, Goffredo di Buglione, aveva conquistato la Città Santa diciannove anni prima. A quanto sembra, Baldovino li accolse con grande cordialità, come fece anche il patriarca di Gerusalemme, primate religioso del nuovo regno ed emissario speciale del pontefice.

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Lo scopo dichiarato dai Templari, continua Guillaume de Tyre, era «. per quanto lo permettevano le loro forze, mantenere sicure le vie e le strade... particolarmente per proteggere i pellegrini a.1 Questa finalità era così encomiabile che il re mise a disposizione dei cavalieri un'intera ala del suo palazzo. E nonostante il voto di povertà, i cavalieri si installarono in quell'alloggio lussuoso. Se­condo la tradizione, l'alloggio sorgeva sulle fondamenta dell'anti­co Tempio di Salomone: e fu da questo che il neonato Ordine prese il nome.

Per nove anni, ci narra Guillaume de Tyre, i nove cavalieri non ammisero nuovi candidati nel loro Ordine. Ufficialmente viveva­no ancora in povertà, al punto che i sigilli autentici mostrano due cavalieri in groppa a un solo cavallo per simboleggiare non solo lo spirito di fratellanza, ma anche una penuria di mezzi che impediva loro di avere una cavalcatura per ciascuno. Questo sigillo viene spesso considerato come il più famoso e tipico dei Templari, risalente ai primi tempi dell'Ordine. Tuttavia, risale invece a un secolo dopo, quando i Templari non erano certo poveri - se mai lo erano stati.

Secondo Guillaume de Tyre, che scrisse mezzo secolo dopo, i Templari furono fondati nel 1118 e si insediarono nel palazzo reale per uscirne, presumibilmente, allo scopo di proteggere i pellegrini sulle strade della Terrasanta. C'era tuttavia, a quell'epoca, uno storico ufficiale, alle dipendenze del re. Si chiamava Fulk de Chartres, e scriveva non già cinquant'anni dopo la presunta fonda­zione dell'Ordine, ma proprio negli anni in questione. Abbastanza stranamente, Fulk de Chartres non parla mai di Hugues de Payen, dei suoi compagni o di cose sia pur lontanamente collegate ai Cavalieri Templari. C'è dunque uno strano silenzio che circon­da le attività dei Templari nei primi tempi dell'esistenza del­l'Ordine.

Di certo, non esiste nessuna documentazione - neppure più tarda - che dimostri che facessero qualcosa per proteggere i pellegrini. D'altra parte, non si può fare a meno di chiedersi come mai quei pochi uomini potessero sperare di svolgere un compito tanto colossale. Nove cavalieri per proteggere i pellegrini su tutte le strade della Terrasanta? Soltanto nove? Per tutti i pellegrini? Se quello era il loro compito, sarebbe stato logico che accogliessero a

 

braccia aperte nuove reclute. Invece, secondo Guillaume deTyre, per nove anni non ammisero nell'Ordine nuovi candidati.

Tuttavia, nel breve volgere di un decennio la fama dei Templari sembra essersi diffusa in Europa. Le autorità ecclesiastiche parla­vano di loro in termini entusiastici ed esaltavano il loro spirito cristiano. Nel 1128, o poco più tardi, un trattato che elogiava le loro virtù e i loro meriti fu scritto addirittura da san Bernardo, abate di Clairvaux e principale portavoce della cristianità di quel tempo. Il trattato di Bernardo, In lode della Nuova Cavallerìa, proclama che i Templari sono l'epitome e l'apoteosi dei valori cristiani.

Nove anni dopo la fondazione dell'Ordine, quasi tutti i nove cavalieri tornarono in Europa, dove ebbero accoglienze trionfali orchestrate soprattutto da san Bernardo. Nel gennaio 1128 si riunì a Troyes, dov'era la corte del conte di Champagne, il signore di Hugues de Payen, un concilio del quale ancora una volta Bernardo fu l'ispiratore. In questa occasione, fu ufficialmente riconosciuto l'Ordine militare-religioso dei Templari. Hugues de Payen fu insignito del titolo di Gran maestro. Lui e i suoi subordinati sarebbero stati monaci-guerrieri, soldati-mistici, e avrebbero uni­to la disciplina austera del chiostro a uno zelo marziale fanatico: una « milizia di Cristo », come venivano chiamati a quel tempo. Fu sempre san Bernardo che contribuì a redigere, con una prefa­zione entusiastica, la regola cui avrebbero obbedito i cavalieri, una regola ispirata a quella dell'Ordine dei monaci cistercensi, del quale lo stesso Bernardo era l'influenza dominante.

I Templari facevano voto di povertà, castità e obbedienza. Erano obbligati a tagliarsi i capelli, ma non potevano tagliarsi la barba, e questo li distingueva, in un'epoca in cui quasi tutti gli uomini si radevano. Il vitto, l'abbigliamento e i vari aspetti della vita quotidiana erano meticolosamente e rigorosamente regolati secondo i princìpi monastici e militari. Tutti i membri dell'Ordine erano tenuti a portare abiti, sopravvesti e mantelli bianchi; e questo portò ben presto al tipico mantello bianco per cui i Templa­ri andavano famosi. « Non è concesso a nessuno portare vesti bianche o mantelli bianchi, eccettuati i... Cavalieri di Cristo. »4 Così stabiliva la regola dell'Ordine, che si diffondeva sul significa­to simbolico di questo abbigliamento: « A tutti i cavalieri professi,

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nell'inverno e nell'estate, noi assegnamo, se è possibile procurarli, indumenti bianchi, affinchè coloro che hanno rinnegato un'est stenza tenebrosa sappiano di doversi raccomandare al loro creato­re con una vita pura e candida. »5

Oltre a questi dettagli, la regola istituiva a grandi linee una gerarchia e un apparato amministrativo. E il comportamento sul campo di battaglia era rigorosamente stabilito. Per esempio, se venivano catturati, i Templari non erano autorizzati a chiedere né misericordia né a riscattarsi. Erano tenuti a combattere fino alla morte. E non potevano neppure ripiegare, a meno che i nemici fossero tre volte più numerosi di loro.

Nel 11396 fu emanata una Bolla pontificia da Innocenzo III, già monaco cistercense a Clairvaux e protetto di san Bernardo . Secon­do la Bolla, i Templari non dovevano obbedienza a nessun potere secolare o'ecclesiastico, eccettuato lo stesso papa. In altre parole, vennero resi completamente indipendenti da tutti i re, i principi e i prelati e da ogni interferenza da parte delle autorità religiose e politiche. In pratica erano diventati un impero internazionale autonomo.

Durante i due decenni successivi al Concilio di Troyes, l'Ordine ebbe un'espansione notevolissima e straordinariamente rapida. Quando Hugues de Payen si recò in Inghilterra verso la fine del 1128, fu ricevuto con « grande devozione » dal re Enrico I. In tutta l'Europa, i figli cadetti delle famiglie nobili accorrevano nelle file dell'Ordine, e da ogni parte del mondo cristiano di allora giunge­vano cospicue donazioni in denaro, beni e terre. Hugues de Payen aveva dato l'esempio donando all'Ordine tutte le sue proprietà, e tutte le nuove reclute erano tenute e fare altrettanto. Quando veniva ammesso nell'Ordine, un uomo doveva cedergli tutto ciò che possedeva.

Se si tiene presente questa politica, non è sorprendente che le ricchezze dei Templari si moltiplicassero. Già dodici mesi dopo il Concilio di Troyes, l'Ordine possedeva ricche proprietà terriere in Francia, Inghilterra, Scozia, Fiandre, Spagna e Portogallo. Dopo un altro decennio, ne aveva acquisite anche in Italia, Austria, Germania, Ungheria, in Terrasanta e in varie località orientali. Sebbene i Cavalieri fossero vincolati individualmente dal voto di povertà, questo non impediva all'Ordine di accumulare ricchezze

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Carta 4   Castelli e città principali della Terrasanta intorno alla metà del XII secolo.

 

senza precedenti. Tutti i doni erano bene accetti. Ma l'Ordine aveva il divieto di cedere qualunque cosa; non poteva farlo neppu­re per pagare il riscatto dei suoi capi. Il Tempio riceveva doni in abbondanza ma, per principio, non dava mai nulla. Quando nel 1130 Hugues de Payen ritornò in Palestina con una scorta di circa trecento cavalieri - un numero considerevole, per quei tempi- si lasciò alle spalle, affidate alla custodia di altri confratelli, immense proprietà terriere sparse in tutta Europa.

Nel 1146 i Templari adottarono la famosa croce patente rossa, la croix pattée. Con questo emblema sui mantelli, i cavalieri accom­pagnarono alla Seconda Crociata re Luigi VII di Francia. In quell'occasione si conquistarono una fama di zelo marziale e di temerarietà quasi folle, ma anche di eccezionale arroganza. Nel complesso, comunque, erano magnificamente disciplinati: il cor­po combattente più disciplinato che esistesse al mondo in quel tempo. Lo stesso re di Francia scrisse che era stato merito esclusi­vo dei Templari se la Seconda Crociata, mal concepita e peggio guidata, non era degenerata in una totale disfatta.

Nei cento anni che seguirono, i Templari divennero una potenza internazionale influentissima. Erano continuamente impegnati in rapporti diplomatici d'alto livello fra i nobili e i monarchi di tutto il mondo occidentale e della Terrasanta. In Inghilterra, ad esempio, il Maestro del Tempio era invitato regolarmente al Parlamento reale ed era considerato il capo di tutti gli ordini religiosi, con diritto di precedenza su tutti i priori e gli abati del regno. I Templari mantennero stretti legami tanto con Enrico II quanto con l'arcivescovo Tommaso Becket, e si adoperarono per riconci­liarli. In tempi successivi altri sovrani inglesi, incluso Giovanni Senzaterra, alloggiarono spesso nel presidio* londinese del Tem­pio; e il Maestro dell'Ordine fu a fianco del re quando questi firmò la Magna Carta.7

L'attività politica dell'Ordine non era limitata alla cristianità.

*È stato tradotto con presidio il termine inglese preceptory che a sua volta deriva dal latino praeceptoria. Precettoria in italiano esiste ma è m disuso. Dato il carattere prevalentemente militare dell'Ordine dei Templari e poiché le costruzio­ni che li ospitavano erano dei castelli, il termine presidio ci è sembrato il più opportuno per denominare la sede territoriale della loro comunità. [N.d.R.]

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Furono stretti legami anche con il mondo musulmano - quel mondo tanto spesso contrapposto sui campi di battaglia - e i Templari godevano da parte dei potentati saraceni di un rispetto molto più grande di quello accordato a qualunque altro europeo. C'erano persino collegamenti segreti con gli Hashishim o Assassini la famosa setta di adepti militanti e spesso fanatici che costituiva l'equivalente islamico dell'Ordine dei Templari. Gli Assassini pa­gavano tributi ai Templari, e si diceva che fossero al loro servizio.

Più o meno a tutti i livelli politici i Templari svolgevano ufficial­mente funzioni di arbitrato nelle dispute, e persino i re si sottomet­tevano alla loro autorità. Nel 1252 Enrico III d'Inghilterra osò sfidarli, minacciando di confiscare alcune loro proprietà. « Voi Templari... avete tante proprietà e tante concessioni che i vostri enormi possedimenti vi inducono a delirare d'orgoglio e d'alteri­gia. Ciò che fu stoltamente donato deve perciò essere saggiamente revocato; e ciò che fu concesso sconsideratamente deve essere consideratamente ritolto. » II Maestro dell'Ordine rispose: « Che dici, o re? Non sia mai che la tua bocca pronunci parole tanto spiacevoli e stolte. Finché userai giustizia, tu regnerai. Ma se la violerai, cesserai d'esser re ».8 È molto difficile far comprendere a una mentalità moderna l'enorme audacia di questa risposta. Im­plicitamente, il Maestro rivendica a se stesso e al suo Ordine un potere che neppure il papato osava reclamare apertamente: il patere di creare e di deporre i monarchi.

Nel contempo, gli interessi dei Templari si estendevano ben al di là delle guerre, della diplomazia e dell'intrigo politico. In prati­ca, furono loro a ideare e a consolidare l'istituzione bancaria. Prestando somme enormi ai sovrani squattrinati, diventarono i banchieri di tutti i regnanti dell'Europa e persino di alcuni poten­tati musulmani. Con la loro rete di presidi sparsi in Europa e nel Medio Oriente, organizzarono anche, a tassi d'interesse modesti, il trasferimento sicuro ed efficiente del denaro per conto dei mercanti, una classe che finì per dipendere sempre più da loro. Il denaro depositato in una città, ad esempio, poteva essere/ richiesto e ritirato in un'altra, per mezzo di lettere cambiarie redatte in codici complicati. I Templari divennero così i più importanti cam­biavalute dell'epoca, e il presidio di Parigi diventò il centro della finanza europea.9 È addirittura probabile che l'assegno, ci^me noi

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lo conosciamo e lo usiamo al giorno d'oggi, sia stato inventato dall'Ordine.

I Templari non si occupavano soltanto di denaro: diffondevano anche il pensiero. Grazie ai continui contatti, caratterizzati da una mentalità aperta, con la cultura islamica e con quella giudaica, l'Ordine assunse per così dire un ruolo di « stanza di compensazio­ne » per nuove idee, nuove dimensioni della conoscenza e nuove scienze. I Templari avevano un vero e proprio monopolio della tecnologia più avanzata del loro tempo: quanto di meglio veniva prodotto dagli armaioli, artigiani del cuoio, i muratori, gli archi­tetti e gli ingegneri militari. Contribuirono allo sviluppo dei rileva­menti topografici, della cartografia, delle costruzioni stradali e della navigazione. Possedevano porti, cantieri e una flotta com­merciale e militare che fu tra le prime ad adottare la bussola. Inoltre, poiché erano combattenti, la necessità di curare le ferite e le malattie li rese esperti nell'uso delle medicine. L'Ordine posse­deva ospedali propri, propri medici e chirurghi i quali, tra'l'altro, usavano estratti di muffe che precorrevano gli antibiotici. Inoltre, avevano una concezione piuttosto moderna dell'igiene e della pulizia. E con una mentalità non meno in anticipo sui tempi, consideravano l'epilessia non già una possessione demoniaca ma una malattia controllabile.10

Ispirato da tanti successi, in Europa l'Ordine del Tempio diven­ne sempre più ricco, potente e fiero dei propri successi. Non è sorprendente, forse, che diventasse anche sempre più arrogante, brutale e corrotto. « Bere come un Templare » era una frase molto comune a quel tempo. E certe fonti affermano che l'Ordine non mancava mai di reclutare cavalieri scomunicati.

Ma, mentre in Europa i Templari acquisivano prosperità e notorietà, in Terrasanta la situazione era gravemente peggiorata. Nel 1185 morì Baldovino IV, re di Gerusalemme. Durante il dissidio dinastico che seguì, Gerard de Ridefort, Gran maestro del Tempio, tradì un giuramento fatto al sovrano morto, e trascinò così la comunità europea della Palestina sull'orlo di una guerra civile. E non fu la sola azione discutibile di Ridefort. Il suo comportamento altezzoso nei confronti dei Saraceni causò la rot­tura della lunga tregua e provocò un nuovo ciclo di ostilità. Poi, nel luglio del 1187, Ridefort guidò i suoi cavalieri e il resto dell'eserci-

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to cristiano in una battaglia avventata e disastrosa a Hattin. Le forze cristiane furono in pratica annientate; e due mesi dopo la stessa Gerusalemme, conquistata circa un secolo prima, tornò in mano ai Saraceni.

Durante il secolo successivo, la situazione divenne sempre più disperata. Nel 1291 ormai era caduto tutto ì'Outremer, e la Terra-santa era quasi completamente sotto il dominio musulmano. Re­stava soltanto Acri, ma anche quest'ultima fortezza venne perduta nel maggio del 1291. I Templari si comportarono eroicamente nella difesa della città ormai condannata. Lo stesso Gran maestro, benché ferito gravemente, continuò a battersi fino alla morte. Poiché a bordo delle galee dell'Ordine lo spazio era limitato, furono evacuati le donne e i bambini, e tutti i cavalieri, inclusi i feriti, decisero di rimanere. Quando cadde l'ultimo bastione di Acri, cadde con drammaticità apocalittica: le mura crollarono seppellendo assedianti e difensori.

I Templari stabilirono a Cipro il loro nuovo quartier generale; ma con la perdita della Terrasanta, si trovavano privi della loro raison d'ètre. Poiché non c'erano più terre infedeli da conquistare, l'Ordine cominciò a rivolgere l'attenzione sull'Europa, nella spe­ranza di trovare una giustificazione per continuare la propria esistenza.

Un secolo prima, i Templari avevano presieduto alla fondazio­ne di un .altro ordine cavalieresco a carattere militare-religioso, i Cavalieri Teutonici. Questi ultimi furono attivi nel Medio Oriente in numero piuttosto limitato; ma verso la metà del secolo XIII rivolsero l'attenzione verso le frontiere nord-orientali della cristia­nità. Là si crearono un principato indipendente, VOrdenstaat o Ordensland, che abbracciava quasi tutto il Baltico orientale. In questo principato, che si estendeva dalla Prussia al golfo di Finlan­dia e al territorio russo, 1 Cavalieri Teutonici godevano di una sovranità incontestata, lontano da ogni controllo secolare ed ec­clesiastico.

Fin dalla nascita dell'Ordenstaat, 1 Templari avevano sempre invidiato l'indipendenza e l'immunità dell'ordine confratello. Do­po la caduta della Terrasanta, incominciarono a pensare idi crearsi uno Stato tutto loro, per potervi esercitare un'autorità incontra­stata e un'autonomia simile a quella dei Cavalieri Teutonici. A

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differenza di questi ultimi, però, i Templari non provavano il minimo interesse per le terre selvagge e desolate dell'Europa orientale. Ormai erano troppo abituati ai lussi e all'opulenza. E quindi sognavano di fondare il loro Stato in un territorio più accessibile e congeniale: la Linguadoca."

A partire dai primi anni della sua esistenza, l'Ordine dei Tem­plari aveva mantenuto rapporti piuttosto buoni con i Catari, spe­cialmente nella Linguadoca. Molti ricchi proprietari terrieri, cata­ri o simpatizzanti dei Catari, avevano donato all'Ordine cospicui possedimenti. Secondo ciò che ha scritto recentemente uno stu­dioso, almeno uno dei co-fondatori del Tempio era un Cataro. La cosa appare piuttosto improbabile, ma è indiscutibile che Ber-trand de Blanchefort, quarto Gran maestro dell'Ordine, veniva da una famiglia catara. Quarant'anni dopo la morte di Bertrand, i suoi discendenti combatterono a fianco di altri nobili catari contro gli invasori nordici guidati da Simone di Montfort.12

Durante la Crociata contro gli Albigesi, i Templari si mantenne­ro ufficialmente neutrali e si limitarono ad assumere il ruolo di testimoni. Nel contempo, però, sembra che il Gran maestro in carica chiarisse la posizione dell'Ordine quando affermò che c'era una sola, vera Crociata: la Crociata contro i Saraceni. Inoltre un attento esame dei documenti dell'epoca rivela che i Templari provvidero a ospitare molti profughi Catari.13 Qualche volta, sem­bra, presero addirittura le armi per difendere questi profughi. E un esame dei registri dell'Ordine all'inizio della Crociata contro gli Albigesi rivela una forte affluenza di Catari nelle file dei Templari, dove neppure i crociati di Simone di Montfort osarono sfidarli. In effetti, i registri dei Templari di quel periodo mostrano che una percentuale notevole degli alti dignitari dell'Ordine proveniva dalle famiglie catare.14 In Linguadoca, le alte cariche erano rico­perte da Catari più spesso che da Cattolici. E soprattutto, i nobili Catari che entravano nell'Ordine non venivano mandati in giro per il mondo con la stessa frequenza dei loro confratelli cattolici. Al contrario, risulta che rimanessero in maggioranza nella Lingua­doca, creando per l'Ordine, in quella regione, una base stabile e duratura.

Grazie ai loro contatti con la cultura islamica e con quella giudaica, i Templari avevano già assimilato molte idee estranee al

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cristianesimo romano. I maestri Templari, ad esempio, avevano spesso segretari arabi, e molti cavalieri che avevano imparato la lingua araba in prigionia la parlavano correntemente. Si mantene­vano anche stretti rapporti con comunità ebraiche, soprattutto in campo finanziario e culturale. In questo modo, i Templari assorbi­vano molte idee che di norma Roma non tollerava. In seguito all'afflusso delle numerose reclute catare, ora i cavalieri erano esposti all'influenza del dualismo gnostico, sempre ammettendo che prima non l'avessero mai conosciuto.

Nel 1306 Filippo IV di Francia, detto Filippo il Bello, smaniava dal desiderio di sbarazzarsi dei Templari insediati sul suo territo­rio. Erano arroganti e indomabili. Erano efficienti e perfettamen­te addestrati, e formavano un esercito di professionisti assai più forte e meglio organizzato di quello che lui stesso poteva sperare di radunare. Erano saldamente piazzati in tutta la Francia, e ormai anche la loro sottomissione al papa era puramente nominale. Filippo non aveva la minima autorità sull'Ordine, al quale doveva parecchio denaro. Non aveva dimenticato l'umiliazione subita quando, per sottrarsi a una folla di parigini ribelli, era stato costretto a cercare rifugio nel presidio dei Templari. Aspirava a mettere le mani sulle immense ricchezze dei Templari, che aveva avuto modo di vedere durante il soggiorno presso di loro. E quando aveva chiesto di entrare nell'Ordine come postulante, aveva subito l'affronto di venire altezzosamente respinto. Tutti questi fattori, unitamente alla prospettiva allarmante di trovarsi uno Stato templare indipendente proprio sull'uscio di casa, basta­rono a spronarlo all'azione. L'eresia poteva essere un comodo pretesto.

Per prima cosa, Filippo doveva assicurarsi la collaborazione del papa, al quale i Templari dovevano obbedienza, almeno in teoria. Tra il 1303 e il 1305, il re di Francia e i suoi ministri riuscirono a sequestrare e a far morire un papa (Bonifacio Vili) e molto probabilmente a ucciderne un altro con il veleno (Benedetto XI). Poi, nel 1305, Filippo ottenne l'elezione al soglio pontificio del suo candidato, l'arcivescovo di Bordeaux, che prese il nome di Cle­mente V. Questi doveva troppo al re per potersi opporre alle sue richieste. E le richieste includevano la soppressione dell'Ordine dei Templari.

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Filippo pianificò abilmente le sue mosse. Fu compilato un elen­co di capi d'accusa, forniti in parte dalle spie che il re aveva infiltrato nell'Ordine, in parte dalle confessioni volontarie di un sedicente Templare rinnegato. Armato di queste imputazioni, Filippo potè finalmente agire; e quando sferrò il colpo, fu inaspet­tato, fulmineo, efficiente ed esiziale. Con un'operazione di sicu­rezza degna delle SS o della Gestapo, il re fece recapitare ordini segreti sigillati ai suoi siniscalchi, in tutto il paese. Gli ordini dovevano venire aperti simultaneamente e subito eseguiti. All'al­ba di venerdì 13 ottobre 1307, tutti i Templari in Francia dovevano venire catturati e posti in stato d'arresto dagli uomini del re, i loro presìdi dovevano essere messi sotto sequestro, i loro beni confisca­ti. Ma anche se, a quanto pare, l'operazione a sorpresa riuscì secondo le intenzioni del re, gli sfuggì ciò che più gli stava a cuore: l'immensa ricchezza dell'Ordine. Non fu mai trovata, e la sorte del favoloso « tesoro dei Templari » rimane ancora oggi un mistero.

In effetti, è molto dubbio che l'attacco a sorpresa sferrato da Filippo contro l'Ordine fosse davvero inaspettato come credeva lui stesso o come credettero più tardi gli storici. Anzi, secondo molti indizi, sembrerebbe che i Templari avessero ricevuto una specie di preavviso. Poco prima che gli arresti venissero effettuati, ad esempio, il Gran maestro Jacques de Molay si fece consegnare molti dei libri e dei registri dell'Ordine, e ordinò di bruciarli. Un cavaliere che si ritirò dall'Ordine in quel periodo si sentì dire dal tesoriere che la sua decisione era molto « saggia », dato che la catastrofe era imminente. A tutti i presìdi francesi fu inviata una comunicazione ufficiale, che ordinava di non rivelare nessuna informazione sui riti e le tradizioni dell'Ordine.

In ogni caso, sia che i Tamplari fossero stati preavvertiti o che avessero intuito quel che si andava preparando, furono prese indiscutibilmente certe precauzioni.15 Innanzitutto, i cavalieri che furono catturati si arresero passivamente, come se avessero rice­vuto istruzioni precise. Non è documentato un solo caso di resi­stenza opposta dai membri dell'Ordine ai siniscalchi del re. In secondo luogo, esistono prove convincenti della fuga organizzata di un gruppo di cavalieri: virtualmente tutti coloro che avevano legami con il tesoriere del Tempio. Perciò forse non è sorprenden­te che il tesoro del Tempio fosse scomparso, come erano scompar-

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si quasi tutti i documenti. Alcune voci insistenti ma non conferma­te affermano che il tesoro sarebbe stato asportato nottetempo dal presidio di Parigi, poco prima degli arresti. Secondo tali voci, fu trasportato con i carri fino alla costa, presumibilmente alla base navale dell'Ordine a La Rochelle, e quindi caricato su diciotto galee delle quali non si seppe mai più nulla. Non si sa se questo sia vero o no; sembra tuttavia che la flotta dei Templari sfuggisse alle grinfie del re, dato che nessun documento parla della cattura di una o più navi. Anzi, si direbbe che queste navi sparissero comple­tamente, insieme al carico che potevano avere a bordo.16

In Francia, i Templari arrestati furono processati; molti venne­ro sottoposti a torture. Furono estorte strane confessioni e formu­late accuse ancora più strane. Nel paese incominciarono a circola­re dicerie agghiaccianti. Si raccontava che i Templari adorassero un diavolo chiamato Baphomet. Nelle cerimonie segrete si sareb­bero prosternati davanti a una testa barbuta d'uomo, che parlava e conferiva loro poteri occulti. I testimoni non autorizzati che ave­vano assistito a quelle cerimonie erano scomparsi. E c'erano altre accuse ancora più vaghe: i Templari avevano praticato l'infantici­dio, avevano insegnato alle donne come abortire; all'iniziazione dei postulanti venivano scambiati baci osceni; erano dediti all'o­mosessualità. Ma tra tutte le accuse rivolte a questi miliziani di Cristo, che per lui avevano combattuto e sacrificato la vita, ce n'è una che spicca per la sua contraddittorietà e per la sua apparente assurdità. I Templari erano accusati di rinnegare ritualmente Cri­sto, di ripudiare la croce, di calpestarla e di sputarvi sopra.

In Francia, se non altrove, il fato dei Templari tratti in arresto era segnato. Filippo li perseguitò con spietata ferocia. Molti furo­no bruciati vivi, molti altri torturati e condannati al carcere. Nel contempo, il re continuava a insistere presso il papa, chiedendogli misure sempre più rigorose contro l'Ordine. Dopo aver resistito per qualche tempo, nel 1312 il papa cedette, e sciolse ufficialmente i Cavalieri Templari, senza che fosse mai stato pronunciato un verdetto definitivo di colpevolezza. Ma nel regno di Filippo i processi, le inchieste e le indagini continuarono per altri due anni. Finalmente, nel marzo 1314, Jacques de Molay, il Gran maestro) Geoffroi de Charnay, Precettore della Normandia, furono brucia^ ti a fuoco lento. Con la loro esecuzione, i Templari sembrarono

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scomparire dalla scena della storia. Tuttavia, l'Ordine non cessò di esistere. Anzi, sarebbe stato sorprendente se questo fosse accadu­to, dato il grande numero dei cavalieri che erano rimasti all'estero o che erano stati assolti.

Filippo aveva cercato di influenzare gli altri sovrani, nella spe­ranza di far sì che in tutta la cristianità non rimanesse un solo Templare. Anzi, lo zelo dimostrato dal re in questa occasione è quasi sospetto. Si può capire che aspirasse a liberare i suoi domìni dalla presenza dell'Ordine; ma perché teneva tanto a sterminare anche i Templari insediati altrove? Filippo non era certamente un modello di virtù; ed è difficile immaginare che un monarca respon­sabile della morte di due papi fosse molto turbato da eventuali violazioni della fede. Filippo aveva semplicemente paura di essere vittima di una vendetta se l'Ordine fosse rimasto indenne fuori dalla Francia? Oppure c'era qualche altra ragione?

Comunque, il suo tentativo di eliminare i Templari anche all'e­stero non riuscì come sperava. Il genero di Filippo, Edoardo II d'Inghilterra, ad esempio, all'inizio si levò in difesa dell'Ordine. Alla fine, sottoposto a pressioni da parte del papa e del suocero, accolse le loro richieste, ma solo in parte e senza molto impegno. Pur avendo quasi tutti i Templari in Inghilterra il tempo di fuggire, parecchi furono arrestati. Tuttavia, quasi tutti subirono lievi con­danne; spesso si trattava di pochi anni di penitenza in abbazie e monasteri, dove vivevano piuttosto comodamente. Le loro terre furono assegnate ai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni; ma personalmente non subirono le feroci persecuzioni che avevano colpito i loro confratelli in Francia.

Altrove, l'eliminazione dei Templari incontrò difficoltà ancora più grandi. La Scozia, ad esempio, a quei tempi era in guerra con gli Inglesi, e la situazione caotica lasciava poche possibilità di mettere in pratica certi adempimenti legali. Perciò le Bolle papali che scioglievano l'Ordine non furono mai rese pubbliche in Sco­zia, e di conseguenza in Scozia l'Ordine non fu mai sciolto. Molti Templari inglesi e, sembra, anche francesi trovarono rifugio in Scozia, e si sa che un loro contingente combattè a fianco di Robert Bruce nella battaglia di Bannockburn nel 1314. Secondo una leggenda - suffragata da diverse prove - l'Ordine sopravvisse in Scozia ancora per quattro secoli. Con gli scontri del 1688-91,

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Giacomo II d'Inghilterra fu deposto da Guglielmo d'Orange. In Scozia, i sostenitori del sovrano Stuart insorsero e, nella battaglia di Killiekranke, combattuta nel 1689, John Claverhouse, visconte di Dundee, morì sul campo. Quando fu ritrovato il suo cadavere, si scoprì che portava la Gran croce dell'Ordine del Tempio: un'in­segna che non era recente, anzi risaliva a prima del 1307.17

Nella Lorena, che a quei tempi faceva parte della Germania e non della Francia, i Templari ebbero l'appoggio del duca. Alcuni furono processati ma assolti. Moltissimi, sembra, obbedirono al loro precettore, che ordinò loro di tagliarsi la barba, indossare abiti secolari e mimetizzarsi tra la popolazione.

Nella Germania vera e propria, i Templari sfidarono aperta­mente i loro giudici, minacciando di prendere le armi. Intimiditi, i giudici li proclamarono innocenti; e quando l'Ordine fu sciolto ufficialmente, molti Templari tedeschi entrarono negli Ospitalieri di San Giovanni o nei Cavalieri Teutonici. Anche in Spagna i Templari resistettero ai persecutori e trovarono rifugio in altri ordini.

In Portogallo, l'Ordine fu scagionato da un'inchiesta e si limitò a modificare il proprio nome, assumendo quello di Cavalieri di Cristo. Sotto questa nuova etichetta, continuò a esistere fino al XVI secolo, dedicandosi ad attività marinare. Vasco da Gama era un Cavaliere di Cristo, e il principe Enrico il Navigatore era Gran maestro dell'Ordine. Le navi dei Cavalieri di Cristo portavano il simbolo tradizionale della croce patente rossa. E sotto la stessa insegna le tre caravelle di Cristoforo Colombo attraversarono l'Atlantico e raggiunsero il Nuovo Mondo. In quanto a Colombo, aveva sposato la figlia di un ex Cavaliere di Cristo e aveva avuto modo di consultare le carte e i diari del suocero.

Quindi, in molti modi diversi, i Templari sopravvissero all'at­tacco sferrato il 13 ottobre 1307. E nel 1522 i Cavalieri Teutonici, progenie prussiana dei Templari, ritornarono alla stato laicale, ripudiarono la sottomissione a Roma e si schierarono a sostegno di un eretico ribelle che si chiamava Martin Luterò. Due secoli/dopo lo scioglimento del loro Ordine, i Templari, sia pure indirettamen­te, si vendicarono così della Chiesa che li aveva traditi.

 

I Cavalieri Templari: i misteri

In forma molto succinta, questa è la storia dei Cavalieri Templari così come l'hanno accettata e presentata moltissimi storici, e come la incontrammo nella nostra ricerca. Tuttavia, ben presto scoprim­mo che la storia dell'Ordine aveva un'altra dimensione, assai più sfuggente, provocatoria ed enigmatica. Già durante la loro esi­stenza, i cavalieri erano stati alonati da una particolare mistica. Alcuni sostenevano che erano incantatori e maghi, adepti dell'oc­cultismo e alchimisti. Molti loro contemporanei li evitavano, rite­nendoli in combutta con le potenze delle tenebre. Già nel 1208, all'inizio della Crociata contro gli Albigesi, il papa Innocenzo III aveva ammonito i Templari per il loro comportamento poco cri­stiano, e aveva alluso esplicitamente alla necromanzia. D'altra parte, c'erano alcuni che li esaltavano con immenso entusiasmo. Verso la fine del XII secolo Wolfram von Eschenbach, il più grande dei Minnesanger o romanciers medievali, si recò apposta in Outremer, per vedere l'Ordine in azione. E quando, tra il 1195 e il 1220, Wolfram compose il suo romanzo epico, Parzifal, attribuì ai Templari una posizione elevatissima. Nel poema di Wolfram sono appunto Templari i cavalieri che custodiscono il Santo Graal, il castello del Graal e la famiglia del Graal.18

Dopo la liquidazione dell'Ordine del Tempio, la mistica che Io circondava continuò a persistere. L'ultimo atto documentato della sua storia era stato il supplizio dell'ultimo Gran maestro, Jacques de Molay, nel marzo 1314. Mentre il fumo del fuoco lento lo soffocava, si dice che Jacques de Molay prorompesse in una maledi­zione. Secondo la tradizione, chiamò i suoi persecutori, papa Clemente e re Filippo, a presentarsi insieme a lui davanti al tribunale di Dio entro un anno, per rendere conto del loro opera­to. Meno di un mese dopo, papa Clemente morì, sembra per un improvviso attacco di dissenteria. Entro la fine dell'anno, morì anche Filippo, per cause che sono rimaste oscure. Naturalmente, non è affatto necessario cercare spiegazioni sovrannaturali, I Templari erano molto esperti nell'uso dei veleni. E senza dubbio c'era in circolazione abbastanza gente, fra cavalieri profughi in incognito, simpatizzanti dell'Ordine e parenti dei perseguitati, in grado di vendicarsi. Tuttavia, l'apparente compimento della pro-

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fezia del Gran maestro rinfocolò la credenza che l'Ordine avesse poteri occulti. E la maledizione non finì lì. Secondo la leggenda, era destinata a gettare un'ombra tenebrosa sulla stirpe reale fran­cese fino al più remoto futuro. E così, gli echi del presunto potere mistico dei Templari si perpetuarono nei secoli.

Nel XVIII secolo,'c'erano numerose confraternite segrete e semisegrete che esaltavano i Templari come precursori e iniziati mistici. Molti massoni di quell'epoca consideravano i Cavalieri del Tempio come loro predecessori. Certi « riti » massonici vantava­no una discendenza diretta dall'Ordine, nonché la custodia auto­rizzata dei suoi segreti più arcani. Alcune di queste rivendicazioni erano chiaramente assurde. Altre, basate ad esempio sulla possi­bile sopravvivenza dell'Ordine in Scozia, potrebbero avere un loro nucleo di validità, anche se le manifestazioni esteriori sono spurie.

Nel 1789 le leggende che circondavano i Templari avevano raggiunto proporzioni decisamente mitiche, e la loro realtà storica era offuscata da un alone romanzesco. Erano considerati adepti occulti, alchimisti illuminati, maghi e saggi, maestri muratori e grandi iniziati: veri e propri superuomini dotati di un imponente arsenale di conoscenze e di poteri arcani. Erano considerati inol­tre come eroi e martiri, precursori dello spirito anticlericale preva­lente in quel periodo; e molti massoni francesi che cospiravano contro Luigi XVI erano convinti di tradurre in atto la maledizione scagliata dal morente Jacques de Molay contro la casa reale di Francia. Qundo la testa del re cadde sotto la lama della ghigliotti­na, uno sconosciuto balzò sul palco. Immerse la mano nel sangue del re, lo spruzzò sulla folla circostante e gridò: « Jacques de Molay, sei vendicato! ».

Dopo la Rivoluzione francese, l'alone che circonda i Templari non è svanito. Oggi esistono almeno tre organizzazioni che si autoproclamano Templari, e affermano di poter vantare una di­scendenza che risale al 1314 e possedere documenti la cui autenti­cità non è mai stata accertata. Certe logge massoniche hanno adottato il grado di « Templare », nonché riti e appellativi che si presume discendano dall'Ordine originale. Verso la fine del secolo XIX, venne fondato in Germania e in Austria un sinistro « Ordine dei Nuovi Templari », che aveva come emblema la svastica. Per-

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sonaggi come H.P. Blavatsky, la fondatrice della teosofia, e Ru-dolf Steiner, il fondatore dell'antroposofia, parlavano di una eso­terica « tradizione di sapienza » che attraverso i Rosacroce risali­va fino ai Catari e ai Templari, i quali erano a loro volta depositari di segreti ancora più antichi. Oggi, negli Stati Uniti, tanti giovani vengono ammessi nella De Molay Society, senza che i loro mento­ri abbiano la più lontana idea della provenienza di questo nome. In Gran Bretagna e in molti paesi dell'Occidente, vi sono certi club segreti che si fregiano del nome di « Templari » e contano nelle loro file eminenti personalità. Dal regno dei cieli che aspirava a conquistare con la spada, Hugues de Payen deve guardare con una certa scettica perplessità i cavalieri odierni, calvi, occhialuti e panciuti, che si considerano suoi proseliti. Tuttavia, deve essere anche impressionato dalla durata e dalla vitalità della sua eredità spirituale.

In Francia questa eredità è particolarmente forte. Anzi, i Tem­plari costituiscono in Francia una vera e propria industria, come Glastonbury, le misteriose linee ley e il mostro di Loch Ness in Gran Bretagna. Nelle librerie di Parigi abbondano i volumi dedi­cati all'Ordine: alcuni validi, altri intrisi di entusiastica follia. Nell'ultimo quarto di secolo sono state avanzate moltissime riven­dicazioni stravaganti sul conto dei Templari, e può darsi che alcune non siano del tutto infondate. Certi autori hanno attribuito loro la costruzione di gran parte delle cattedrali gotiche, o almeno lo slancio e l'ispirazione che portarono a quella splendida fioritu­ra della genialità architettonica. Altri hanno affermato che l'Ordi­ne aveva stabilito rapporti commerciali con le Americhe fin dal 1296 e doveva gran parte della sua ricchezza all'importazione dell'argento messicano. Si è asserito spesso che i Templari erano a conoscenza di un segreto riguardante le origini del cristianesimo. È stato detto che erano gnostici, che erano eretici, che erano apostati passati all'islamismo. È stato affermato che cercavano di realizzare un'unità creativa fra le razze e le religioni, una sistema­tica politica di fusione tra il pensiero islamico, cristiano e giudaico. E molte volte è stato ripetuto, come aveva detto Wolfram von Eschenbach quasi otto secoli fa, che i Templari erano i guardiani del Santo Graal, qualunque cosa fosse il Santo Graal.

Spesso si tratta di affermazioni ridicole. Tuttavia vi sono indi-

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scutibilmente molti misteri legati ai Templari e, come noi avemmo modo di convincerci, anche certi segreti. Era chiaro che alcuni di questi segreti rientravano nella categoria oggi chiamata esoterica. Ad esempio, le sculture simboliche nei presìdi dei Templari indi­cano che alcuni esponenti della gerarchia dell'Ordine conosceva­no molto bene discipline come l'astrologia, l'alchimia, la geome­tria sacra e la numerologia, oltre naturalmente all'astronomia che, nel XII e nel XIII secolo, era inseparabile dall'astrologia e altret­tanto « esoterica ».

Ma non erano le affermazioni stravaganti e le reliquie esoteri-che a lasciarci sconcertati e ad affascinarci. Al contrario, eravamo incantati da qualcosa di molto più terreno e prosaico: la quantità di contraddizioni, di improbabilità, di incoerenze e di « cortine fu­mogene » incontrate nella storia comunemente accettata. Poteva darsi benissimo che i Templari possedessero segreti esoterici. Ma in loro c'era qualcosa che veniva egualmente tenuto nascosto, qualcosa che aveva radici nelle correnti religiose e politiche della loro epoca. Abbiamo intrapreso la nostra indagine soprattutto su questo piano.

Abbiamo incominciato con la fine della vicenda: la caduta del­l'Ordine e le accuse di cui era stato bersagliato. Sono stati scritti molti libri che esplorano e vagliano la possibile veridicità di tali accuse; e in base all'evidenza anche noi, come quasi tutti i ricerca­tori, abbiamo concluso che sembravano avere un certo fondamen­to. Sottoposti a interrogatori da parte dell'Inquisizione, ad esem­pio, molti cavalieri avevano parlato di qualcosa chiamato « Bap-homet » : troppi, e in troppi luoghi diversi perché Baphomet po­tesse essere l'invenzione di un solo individuo o anche di un solo presidio. Allo stesso tempo, non c'è nulla che indichi chi o che cosa fosse Baphomet, che cosa rappresentasse e perché dovesse avere un particolare significato. A quanto pare, Baphomet era tenuto in grande reverenza, una reverenza forse equivalente all'idolatria. In alcuni casi, il nome è associato a sculture demoniache, tipo gar-goyle, che si trovavano in diversi presìdi. In altre occasioni, Bap­homet risulta associato all'apparizione di una testa barbuta. No­nostante le affermazioni di certi storici del passato, sembra chiaro che Baphomet non fosse una corruzione del nome di Maometto. D'altra parte, poteva essere una corruzione dell'arabo abufiha-

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met, che i Mori di Spagna pronunciavano bufihimat. Questo nome significa « Padre della Conoscenza » o « Padre della Sapienza » ; e « padre », in arabo, ha anche il significato di « fonte » e « stirpe ».'" Se era veramente questa l'origine di Baphomet, presu­mibilmente il nome indicava un principio sovrannaturale o divino. Ma che cosa poteva differenziare Baphomet da qualunque altro principio divino o sovrannaturale? La cosa non è chiara. Se Ba­phomet era semplicemente Dio o Allah, perché i Templari gli avevano cambiato nome? E se Baphomet non era né Dio né Allah, chi o che cos'era?

In ogni caso, abbiamo trovato prove inconfutabili dell'accusa di celebrare riti segreti che riguardavano una testa. Anzi, l'esistenza di quella testa era uno dei temi dominanti che ricorrevano nei verbali dell'Inquisizione. Tuttavia, come per quel che concerne Baphomet, il significato della testa permane oscuro. Può darsi che avesse a che vedere con l'alchimia. Nel processo alchemico c'era una fase chiamata Caput Mortuum o « Testa di morto » : la nigredo o l'« annerimento » che si diceva avvenisse prima della precipita­zione della Pietra Filosofale. Secondo altri resoconti, però, la testa era quella di Hugues de Payen, fondatore e primo Gran maestro dell'Ordine; ed è indicativo il fatto che lo scudo di Hugues portas­se tre teste nere in campo d'oro. -

La testa potrebbe essere inoltre collegata alla famosa Sindone di Torino, che a quanto sembra rimase in possesso dei Templari fra il 1204 e il 1307 e che, ripiegata, sarebbe apparsa semplicemente come una testa. In effetti, nel presidio dei Templari aTemplecom-be, nel Somerset (Inghilterra) fu scoperta la riproduzione di una testa che presenta una rassomiglianza impressionante con il volto impresso sulla Sindone di Torino. Nel contempo, però, ipotesi recenti hanno collegato la testa a quella mozza di Giovanni Batti­sta; e certi autori hanno insinuato che i Templari erano stati « contagiati » dall'eresia giovannita o mandea, che denunciava Gesù come « falso profeta » e riconosceva in Giovanni il vero Messia. Durante le loro attività nel Medio Oriente i Templari avevano senza dubbio stabilito contatti con le sette giovannite, e la possibilità che nell'Ordine si fossero insinuate tendenze giovanni­te non è da escludere. Tuttavia non si può affermare che tali

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tendenze predominassero in tutto l'Ordine né che fossero accetta­te ufficialmente.

Durante gli interrogatori che seguirono gli arresti del 1307, si parlò di una testa in altre due occasioni. Secondo i verbali dell'In­quisizione, tra gli oggetti confiscati nel presidio di Parigi era stato trovato un reliquario a forma di testa di donna. La parte superiore era mobile, fissata a cardini, e conteneva strane reliquie. Ecco come viene descritta:

Una grande testa d'argento dorato, bellissima e lavorata a immagine di donna. Nell'interno vi erano due ossa del cranio, avvolte in un piccolo drappo di lino bianco, e quindi in un drappo rosso. Vi era fissata una targhetta recante la legenda caput LViiim. Le ossa all'interno erano di una donna piuttosto piccola.20

Una reliquia bizzarra, soprattutto per un'istituzione rigorosa­mente monastica e militare come quella dei Templari. Tuttavia un cavaliere interrogato, posto di fronte a questa testa femminile, dichiarò che non aveva alcuna relazione con la testa maschile barbuta usata nei riti dell'Ordine. Caput Lvmm - Testa 58m -rimane un enigma sconcertante. Vale tuttavia la pena di ricordare che la « m », potrebbe non essere affatto una « m » bensìfTJ, il simbolo astrologico della Vergine.21                                 ,,               ,

Una testa compare di nuovo in un altro episodio misterioso, tradizionalmente collegato ai Templari. È il caso di riportare una delle numerose varianti:

Una nobilissima dama di Maraclea era amata da un Templare, un Signore re di Sidone; ma ella morì giovane, e la notte in cui fu sepolta, il perverso amante penetrò nella tomba, esumò il cadavere e lo violò. Allora uscì dal nulla una voce che gli comandò di ritornare dopo nove mesi perché avrebbe trovato un figlio. Il cavaliere obbedì all'ingiunzione e al momento stabilito aprì di nuovo la tomba e trovò una testa sulle ossa delle gambe dello scheletro (teschio e ossa incrociate). La stessa voce gli comandò: « Custodiscila con ogni cura, poiché sarà dispensatrice di ogni bene ». Perciò egli la portò con sé. La testa divenne il suo genio protettore, ed egli potè sconfiggere i suoi nemici semplicemente mostrandola. A tempo debito, la testa entrò in possesso dell'Ordine.22

Questo macabro episodio si può far risalire fino a un certo Walter Map, che scrisse verso la fine del XII secolo. Tuttavia né Map né un altro autore, che riferisce la stessa storia quasi un secolo dopo, specificano che lo stupratore necrofilo era un Tem-

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piare.23 Ma nel 1307 la leggenda era ormai associata all'Ordine. È menzionata più volte nei verbali dell'Inquisizione e almeno due cavalieri interrogati confessarono di esserne a conoscenza. Nelle versioni successive, come quella citata più sopra, lo stupratore è identificato come Templare, e tale rimane nelle versioni traman­date dalla massoneria, che adottò il cranio e le ossa incrociate e spesso li usò come simboli sulle pietre tombali.

In parte, la leggenda potrebbe quasi sembrare una parodia grottesca dell'Immacolata Concezione. In parte sembra un confu­so resoconto simbolico di un rito d'iniziazione, un rito che com­portava figurativamente la morte e la resurrezione. Un cronista riferisce il nome della donna, Yse, che sembra chiaramente deri­vato da Iside. E senza dubbio, la leggenda evoca echi dei misteri associati a Iside, nonché di quelli di Tammuz e di Adone, la cui testa fu gettata in mare, e quello di Orfeo, la cui testa fu scagliata nel fiume della Via Lattea. Le proprietà magiche della testa, inoltre, ricordano quella di Bran il Beato della mitologia celtica e del Mabinogion. E il mistico paiolo di Bran è stato identificato da numerosi scrittori come il precursore pagano del Santo Graal.

Qualunque fosse il significato che si può ascrivere al « culto della testa », è evidente che l'Inquisizione lo riteneva importante. In un elenco di accuse redatto il 12 agosto 1308 è scritto:

Item, che in ogni provincia essi avevano idoli, cioè teste...         ,    ,

Item, che essi adoravano tali idoli...

Item, che essi affermavano che la testa poteva salvarli.

Item, che essa poteva produrre ricchezze...

Item, che faceva fiorire gli alberi.

Item, che faceva germogliare la terra.

Item, che essi cingevano o toccavano ogni testa dei predetti idoli con

funicelle, quindi le portavano indosso sulla camicia o sulla carne.24

La funicella menzionata nell'ultimo capo d'imputazione ricorda i Catari che, sembra', portavano anch'essi un sacro cordiglio. Ma il particolare più sorprendente dell'elenco è l'attribuzione alla testa della capacità di produrre ricchezze, far fiorire gli alberi e rendere fertile la terra. Queste proprietà coincidono in modo singolare con quelle attribuite dai romanzi al Santo Graal.

Tra tutte le accuse mosse contro i Templari, le più gravi erano quelle di blasfemia e di eresia: le accuse di rinnegare e calpestare la croce e di sputarvi sopra. Non è chiaro che cosa volesse significare esattamente questo presunto rito: che cosa ripudiavano, esatta­mente, i Templari? Rinnegavano Cristo? Oppure rinnegavano soltanto la Crocifissione? E qualunqup cosa ripudiassero, che cosa esaltavano, invece? Nessuno ha mai dato una risposta soddisfa­cente a questi interrogativi, ma sembra chiaro che avvenisse vera­mente un ripudio, e che questo fosse uno dei princìpi fondamentali dell'Ordine. Un cavaliere, ad esempio, testimoniò che, alla sua iniziazione nell'Ordine, gli era stato detto: « Tu credi erronea­mente, perché egli [Cristo] è in verità un falso profeta. Credi soltanto in Dio nel cielo, e non in lui ».25 Un altro Templare dichiarò che gli era stato detto: « Non credere che l'uomo Gesù, crocifisso dai Giudei in Outrerner, sia Dio e possa salvarti ».26 Un terzo cavaliere sostenne che era stato comandai ' di non credere in Cristo, falso profeta, ma soltanto in un « Dio superiore ». Quindi gli era stato mostrato un crocifisso, con queste parole: « Non riporre grande fede in questo, perché è troppo giovane ».27

Queste testimonianze sono abbastanza frequenti e coerenti per rendere credibile l'accusa. Ma erano anche relativamente blande; e se l'Inquisizione voleva fabbricare le prove, avrebbe potuto inventare qualcosa di molto più drammatico e incriminante. Sem­bra quindi che non vi siano dubbi: la posizione dei Templari nei confronti di Gesù non corrispondeva a quella dell'ortodossia cat­tolica, tuttavia non si sa con certezza quale fosse la posizione dell'Ordine. In ogni caso, vi sono indizi che il rito attribuito ai Templari - calpestare la croce e sputarvi sopra - era già nell'aria almeno mezzo secolo prima del 1307. Il contesto è confuso, ma è menzionato a proposito della Sesta Crociata, che ebbe luogo nel 1249.28

I Cavalieri Templari: l'aspetto nascosto

Se la fine dei Templari era carica di enigmi sconcertanti, la fonda­zione e la storia dei primi tempi dell'Ordine ci sembrava ancora più misteriosa. Eravamo già assillati da un gran numero di con­traddizioni e di inverosimiglianze. Nove cavalieri « poveri », ap­parivano all'improvviso e, fra tutti gli altri crociati che brulicavano in Terrasanta, ricevevano prontamente alloggio nel palazzo reale!

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Nove cavalieri « poveri », senza fare accedere nuove reclute nelle loro file, presumevano di difendere, da soli, le strade della Palesti­na. E non c'erano scritti che riferissero se avevano fatto qualcosa, neppure nell'opera di Fulk de Chartres, cronista ufficiale del re, che avrebbe dovuto conoscere la loro esistenza! Com'era possibile che la loro attività, il loro insediamento nel palazzo reale, ad esempio, fossero sfuggiti all'attenzione di Fulk? Sembra incredibi­le: ma il cronista non dice nulla. Nessuno dice nulla, anzi, fino a Guillaume de Tyre, mezzo secolo dopo. Cosa si poteva dedurre a proposito del servizio che veniva loro attribuito? Che forse svolge­vano attività più clandestine, delle quali non era informato neppu­re il cronista ufficiale? O che lo stesso cronista era stato costretto a tacere? Quest'ultima sembrava la spiegazione più plausibile. In­fatti, ai cavalieri si unirono ben presto due nobili molto illustri, la cui presenza non poteva certo passare inosservata.

Secondo Guillaume de Tyre, l'Ordine del Tempio fu fondato nel 1118; all'inizio contava nove cavalieri e per nove anni non accettò nuove reclute. Tuttavia è documentato in modo incontro­vertibile che il conte d'Angiò, padre di Goffredo Plantageneto, entrò nell'Ordine nel 1120, solo due anni dopo la presunta fonda­zione. E nel 1124 vi entrò il conte di Champagne, uno dei più ricchi potentati d'Europa. Se Guillaume de Tyre ha ragione, non avreb­bero dovuto esserci nuovi membri dell'Ordine fino al 1127; ma già nel 1126 i Templari avevano accolto nelle loro file altri quattro uomini.29 Guillaume sbaglia, quindi, quando afferma che per nove anni non furono ammessi nuovi cavalieri? O forse in questo ha ragione, e sbaglia nell'indicare la data della fondazione dell'Ordi­ne? Se il conte d'Angiò divenne Templare nel 1120 e se l'Ordine non ammise nuovi membri per nove anni dopo la fondazione, allora non era stato fondato nel 1118 ma, al più tardi, nel 1111 o nel 1112.

In effetti, questa conclusione è suffragata da una prova molto convincente. Nel 1114 il conte di Champagne si preparava a un viaggio in Terrasanta. Poco prima di partire, ricevette una lettera del vescovo di Chartres. A un certo punto, il vescovo scriveva: « Abbiamo appreso che... prima di partire per Gerusalemme avete fatto voto di entrare nella "milice du Christ", che desiderate arruolarvi  in  questo  esercito evangelico ».30 « La milice du

 

BRECCIA DEL 1099

NOSTRA

SIGNORA DI SION

(Cenacolo

e Tomba di Davide)

Area occupata dai Templari

Carta 5    Gerusalemme: il Tempio e l'area del Monte Slon alla meta del XII secolo.

 

Christ » era il nome con il quale vennero conosciuti in origine i Templari, il nome usato da san Bernardo per indicarli. Nel conte­sto della lettera del vescovo, l'appellativo non può assolutamente riferirsi a un'altra istituzione. Non può significare, ad esempio, che il conte di Champagne aveva semplicemente deciso di farsi crociato, perché il vescovo passa poi a parlare del voto di castità che la decisione comportava. E difficilmente un voto del genere poteva venire richiesto a un « comune » crociato. Dalla lettera del vescovo di Chartres, quindi, risulta chiaro che i Templari esisteva­no - o almeno la fondazione dell'Ordine era stata decisa - già nel 1114, quattro anni prima della data accettata generalmente; e che già nel 1114 il conte di Champagne intendeva entrarvi, come fece effettivamente un decennio più tardi. Uno storico che prese in considerazione la lettera ne trasse la conclusione piuttosto bizzar­ra che il vescovo non poteva affatto voler dire quel che diceva.31 Non poteva riferirsi ai Templari, sostiene lo storico in questione, perché l'Ordine fu fondato solo quattro anni dopo,,nel 1118. O forse il vescovo non conosceva l'anno del Signore in cui scriveva? Ma il vescovo morì nel 1115. Com'era possibile che, nel 1114, si riferisse « erroneamente » a qualcosa che non esisteva ancora? Il problema ha una sola soluzione possibile, del resto molto ovvia: non è il vescovo che sbaglia, bensì Guillaume de Tyre, e con lui tutti gli storici successivi che si ostinano a considerarlo irreprensi­bilmente autorevole.

Di per sé, una data anteriore per la fondazione dell'Ordine del Tempio non doveva essere inevitabilmente considerata sospetta. Ma esistono altre circostanze e coincidenze singolari che indubbia­mente lo sono. Almeno tre dei nove cavalieri fondatori, incluso Hugues de Payen, provenivano a quanto sembra da regioni adia­centi, avevano avuto legami familiari, si conoscevano in preceden­za ed erano stati vassalli dello stesso signore. E questo signore era il conte di Champagne, al quale il vescovo di Chartres inviò la lettera nel 1114 e che divenne Templare nel 1124, giurando obbe-dienza al proprio vassallo! Nel 1115 il conte di Champagne donò il terreno sul quale san Bernardo, protettore dei Templari, costruì la celebre abbazia di Clairvaux; e uno dei nove cavalieri fondatori, Andre de Montbard, era zio di san Bernardo.

Inoltre, a Troyes, alla corte del conte di Champagne, fin dal

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1070 era fiorita un'influente scuola di studi cabalistici ed esoteri­ci.12 Al Concilio di Troyes, nel 1128, i Templari furono ufficial­mente riconosciuti. Durante i due secoli successivi Troyes conti­nuò a essere un centro strategico dell'Ordine; e ancora oggi c'è un bosco, vicino alla città, chiamato Forèt du Temple. E fu a Troyes, corte del conte di Champagne, che nacque uno dei primi romanzi del Graal, forse il primo in assoluto, quello composto da Chrétien de Troyes.

In questa marea di dati, potevamo finalmente scorgere una tenue rete di collegamenti: uno schema che sembrava motivato da qualcosa di più di una semplice coincidenza. Se un tale schema esisteva veramente, senza dubbio avrebbe confermato il nostro sospetto che i Templari si dedicassero ad attività clandestine. Tuttavia, potevamo soltanto fare ipotesi sul carattere di queste attività. Una base per la nostra ipotesi era l'ubicazione specifica del domicilio dei cavalieri: l'ala del palazzo reale, il Monte del Tempio, che era stata loro concessa inspiegabilmente. Nel 70 d.C. il Tempio che sorgeva in quel luogo era stato saccheggiato dalle legioni romane comandate da Tito. II tesoro era stato portato a Roma, e in seguito era stato nuovamente predato e forse traspor­tato nei Pirenei. Ma... e se nel Tempio ci fosse stato anche qualco­sa d'altro, qualcosa ancora più importante del tesoro prelevato dai Romani? È certamente possibile che i sacerdoti del Tempio, di fronte all'avanzata degli invasori, avessero abbandonato il bottino che quelli si aspettavano di trovare. E se c'era qualcosa d'altro, poteva darsi che fosse nascosto nei pressi. Sotto il Tempio, per esempio.

Fra i Rotoli del Mar Morto a Qumràn, ce n'è uno conosciuto come il « Rotolo del Rame ». Decifrato alla Manchester Universi-ty nel 1955-56, fa riferimenti espliciti a grandi quantità di lingotti, vasellame sacro, altro materiale imprecisato e a un « tesoro » non meglio identificato. E cita ventiquattro tesori diversi sotto il Tem­pio.33

Intorno alla metà del XII secolo un pellegrino recatosi in Terra-santa, un certo Johann von Wurzburg, descrisse una visita alle cosiddette « Stalle di Salomone ». Le scuderie, situate diretta­mente sotto il Tempio, sono tuttora visibili. Erano abbastanza ampie, riferiva Johann, per ospitare duemila cavalli; ed era lì che i

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Templari tenevano le loro cavalcature. Secondo ciò che afferma almeno un altro storico, i Templari usavano già quelle scuderie per i loro animali nel 1124, quanto secondo la testimonianza di Guil-laume de Tyre dovevano essere soltanto nove. Sembra quindi verosimile che l'Ordine appena nato incominciasse subito a effet­tuare scavi sotto il Tempio.

Certi scavi potrebbero indicare che i cavalieri stavano effettiva­mente cercando qualcosa. Si potrebbe addirittura supporre che fossero stati inviati apposta in Terrasanta, con il compito di trova­re questo « qualcosa ». Se la supposizione è valida, spiegherebbe diverse anomalie: ad esempio, il loro insediamento nel palazzo reale e il silenzio del cronista. Ma se erano stati inviati in Palestina, chi li aveva mandati?

Nel 1104 il conte di Champagne si era incontrato con certi nobili di alto rango; almeno uno di loro era appena ritornato da Gerusa­lemme.34 Tra i partecipanti alla riunione c'erano i rappresentanti di alcune famiglie - Brienne, Joinville e Chaumont - che, come abbiamo scoperto in seguito, figuravano significativamente nella nostra storia. Era presente anche il signore feudale di Andre de Montbard, quell'Andre che fu uno dei fondatori del Tempio e zio di san Bernardo.

Poco dopo questo incontro, il conte di Champagne partì per la Terrasanta, dove rimase quattro anni; e ritornò nel 1108.35 Nel 1114 fece un secondo viaggio in Palestina, con l'intenzione di arruolarsi nella « milice du Christ »; poi cambiò idea e tornò in Europa dopo un anno. Appena rientrato, donò un appezzamento di terreno all'Ordine Cistercense, il cui portavoce era san Bernar­do. Su quel terreno san Bernardo costruì l'abbazia di Clairvaux, dove si stabilì e si adoperò per consolidare il suo Ordine.

Prima del 1112 i Cistercensi erano paurosamente vicini alla bancarotta. Poi, sotto la guida di san Bernardo, la loro sorte cambiò in modo sbalorditivo. In pochi anni furono fondate sei nuove abbazie. Nel 1153 erano più di trecento; e di queste, sessan­tanove erano state fondate personalmente da Bernardo. Questo straordinario sviluppo è parallelo a quello dell'Ordine del Tem­pio, che negli stessi anni si stava espandendo di pari passo. E come abbiamo già detto, uno dei co-fondatori dell'Ordine del Tempio era lo zio di san Bernardo, Andre de Montbard.

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Proviamo a riconsiderare questa complicata sequenza di avveni­menti. Nel 1104 il conte di Champagne partì per la Terrasanta dopo essersi incontrato con certi nobili, uno dei quali aveva legami con Andre de Montbard. Nel 1112 il nipote di Andre de Montbard, san Bernardo, entrò nell'Ordine Cistercense. Nel 1114 il conte di Champagne partì per un secondo viaggio in Palestina, con l'intenzione di entrare nell'Ordine del Tempio, che era stato fondato da un suo vassallo e da altri cavalieri, incluso Andre de Montbard, e che, come attesta la lettera del vescovo di Chartres, esisteva già o almeno era in fase di formazione. Nel 1115 il conte di Champagne ritornò in Europa, dopo essere rimasto lontano meno di un anno, e donò il terreno per costruire l'abbazia di Clairvaux, il cui abate era il nipote di Andre de Montbard. Negli anni successivi i Cistercensi e i Templari - cioè l'ordine di san Bernardo e quello di Andre de Montbard - diventarono immensamente ricchi e conob­bero una fase di straordinaria espansione.

Quando abbiamo preso in esame questa sequenza di avveni­menti, ci convincemmo sempre di più che c'era uno schema, un disegno, alla base di questa rete tanto intricata. Di certo, non appariva frutto del caso o di una serie di coincidenze. Al contrario, avevamo l'impressione di trovarci di fronte alle vestigia di un disegno complesso e ambizioso, i cui dettagli completi erano sva­niti dalla storia. Per ricostruire questi dettagli, elaborammo un'i­potesi di lavoro: uno « scenario », per così dire, che permettesse di inquadrare i fatti noti.

Abbiamo supposto che in Terrasanta, per caso o di proposito, fosse stato scoperto qualcosa, qualcosa d'importanza enorme che aveva suscitato l'interesse di alcuni dei più influenti nobili d'Euro­pa. Abbiamo supposto, inoltre, che questa scoperta comportasse, direttamente o indirettamente, una cospicua ricchezza potenziale, e forse anche qualcosa d'altro, qualcosa che doveva essere tenuto segreto e che poteva venire rivelato solo a un numero limitato di personaggi d'alto rango. Infine abbiamo supposto che questa sco­perta fosse stata riferita e discussa nella riunione del 1114.

Subito dopo, il conte di Champagne partì per la Terrasanta, forse per accertare di persona quanto aveva appreso, forse per mettere in pratica una certa linea di azione: ad esempio, la fonda­zione di quello che in seguito divenne l'Ordine del Tempio. Nel

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1114, se non addirittura prima, furono fondati i Templari, e il conte di Champagne ebbe un ruolo importantissimo in questo evento: forse ne fu l'ispiratore e il finanziatore. Nel 1115, il denaro stava già riaffluendo in Europa e nei forzieri dei Cistercensi che, sotto la guida di san Bernardo e da una nuova posizione di forza, assicuravano appoggi e credibilità al nuovo Ordine del Tempio.

Sotto il magistero di Bernardo, i Cistercensi acquisirono in Europa un grande ascendente spirituale. Sotto la guida di Hugues de Payen e di Andre de Montbard, i Templari acquisirono in Terrasanta un ascendente militare e amministrativo che si diffuse rapidamente anche in Europa. Dietro lo sviluppo dei due ordini torreggiava la presenza di zio e nipote, e la ricchezza, l'influenza e la protezione del conte di Champagne. Questi tre personaggi costituiscono un legame d'importanza vitale. Sono come segnali che affiorano alla superficie della storia, e indicano la configura­zione indistinta di un complesso disegno segreto.

Se esistette un disegno del genere, naturalmente non lo si può ascrivere soltanto a questi tre uomini. Al contrario, dovette richie­dere la collaborazione di altri personaggi e una vasta, meticolosa organizzazione. Forse la parola chiave è proprio organizzazione; perché, se la nostra ipotesi era esatta, avrebbe richiesto l'esistenza di un vero e proprio ordine: un terzo ordine segreto dietro a quelli noti e documentati dei Cistercensi e dei Templari. Gli in­dizi a conferma dell'esistenza di questo ordine non tardarono ad arrivare.

Nel frattempo, abbiamo dedicato la nostra attenzione all'ipote­tica « scoperta » in Terrasanta, la base teorica sulla quale aveva­mo creato il nostro « scenario ». Che cosa poteva essere stato ritrovato? Di quale segreto erano a conoscenza i Templari, insie­me a san Bernardo e al conte di Champagne? Alla fine della loro esistenza storica, i Templari serbarono inviolato il segreto dell'u­bicazione e della natura del loro tesoro. Non rimasero neppure i documenti. Se il tesoro aveva un carattere soltanto economico - se era costituito da lingotti, ad esempio - non sarebbe stato necessa­rio distruggere tutti gli annali, tutte le regole e tutti gli archivi. Si può dedurre che i Templari avessero in custodia qualcosa d'altro, qualcosa di tanto prezioso che neppure la tortura avrebbe potuto costringerli a rivelarlo. Le ricchezze non sarebbero certo bastate a

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spiegare una segretezza cosi unanime e assoluta. Qualunque cosa fosse, aveva a che fare con altre cose, come l'atteggiamento del­l'Ordine verso Gesù.

Il 13 ottobre 1307 tutti i Templari, in tutta la Francia, furono arrestati dai siniscalchi di Filippo il Bello. Tuttavia, questa affer­mazione non è esatta. I Templari di un presidio sfuggirono indenni alla rete del re: il presidio di Bezù, vicino a Rennes-le-Chàteau. Come e perché si salvarono? Per rispondere a questo interrogati­vo, siamo stati costretti a indagare sulle attività dell'Ordine nella zona di Bezù. Queste attività risultarono piuttosto vaste. Anzi, c'erano una mezza dozzina di presìdi e altre proprietà, in quell'a­rea che misurava all'incirca trenta chilometri per trenta.

Nel 1153 un nobile di quella regione, un uomo che simpatizzava per i Catari, divenne Gran maestro dell'Ordine del Tempio. Si chiamava Bertrand de Blanchefort, e la sua dimora avita era situata su una vetta a pochi chilometri da Bézu e da Rennes-le-Chàteau. Bertrand de Blanchefort, che presiedette l'Ordine dal 1153 al 1170, fu probabilmente il più interessante di tutti i Gran maestri dei Templari. Prima della sua elezione la gerarchia e la struttura amministrativa dell'Ordine erano a dir poco nebulose. Fu Bertrand a trasformare i Templari nell'istituzione gerarchica efficiente, bene organizzata e magnificamente disciplinata che la storia conosce. Fu Bertrand a lanciare l'Ordine nella diplomazia ad alto livello e nella politica internazionale. Fu Bertrand a creare per i Templari una vasta sfera di interessi in Europa, e soprattutto in Francia. E secondo la documentazione giunta fino a noi, il suo mentore era stato Andre de Montbard, che alcuni storici elencano addirittura come Gran maestro dell'Ordine immediatamente pri­ma di Bertrand.

Pochi anni dopo il riconoscimento ufficiale dei Templari, Ber­trand era entrato a farne parte: non solo, ma aveva donato loro terreni nei dintorni di Rennes-le-Chàteau e di Bézu. E nel 1156, quando Bertrand era Gran maestro, a quanto si dice l'Ordine fece arrivare nella zona un contingente di minatori di lingua tedesca. Questi operai erano soggetti a una disciplina severa, quasi milita­re. Era loro proibito di fraternizzare con la popolazione locale e venivano tenuti rigorosamente segregati. Fu addirittura creata una speciale istituzione giudiziaria, la «Judicature des Alle-

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mands », per dirimere i problemi legali che li riguardavano. Ufficialmente avevano il compito di sfruttare le miniere d'oro sulle pendici della montagna di Blanchefort: le miniere d'oro che erano state completamente esaurite dai Romani quasi mille anni pri­ma.36

Nel secolo XVII alcuni ingegneri ebbero l'incarico di studiare le prospczioni mineralogiche della zona e di redigere rapporti detta­gliati. Nel suo rapporto uno di loro, Cesar d'Arcons, parlò delle rovine che aveva trovato, ciò che restava dell'attività degli operai tedeschi. In base alle sue ricerche, dichiarò che i Tedeschi non dovevano avere estratto minerali.37 E allora, che cosa avevano fatto? Cesar d'Arcons non era sicuro: forse lavori di fusione, forse lavori di costruzione in metallo, forse addirittura lo scavo di una cripta sotterranea per creare una specie di deposito.

Qualunque fosse la soluzione di questo enigma, nelle vicinanze di Rennes-le-Chàteau c'era stata la presenza dei Templari almeno a partire dalla metà del XII secolo. Nel 1285 c'era un importante presidio a pochi chilometri da Bézu, a Campagne-sur-Aude. Tut­tavia, verso la fine del secolo XIII Pierre de Voisins, signore di Bézu e di Rennes-le-Chàteau, invitò nella zona un distaccamento di Templari, un distaccamento speciale che arrivò dalla provincia aragonese del Rossiglione.38 Il nuovo distaccamento si insediò sulla vetta della montagna di Bézu, dove costruì un posto di guardia e una cappella. Ufficialmente, i Templari del Rossiglione erano stati chiamati a Bézu per garantire la sicurezza della zona e proteggere la strada seguita dai pellegrini, che passavano attraver­so la valle per recarsi a Santiago de Compostela, in Spagna. Tuttavia, non si capisce perché fosse necessaria la presenza di questi cavalieri. Innanzi tutto, non potevano essere molto nume­rosi, e quindi difficilmente inoro apporto sarebbe stato decisivo. In secondo luogo, c'erano già molti Templari nei dintorni. Infine, Pierre de Voisins aveva le sue truppe che, insieme ai Templari già presenti, potevano garantire la sicurezza della zona. E allora, perché i Templari di Rossiglione erano andati a Bézu? Secondo una tradizione locale, c'erano andati per spiare. E per sfruttare o seppellire o custodire un tesoro.

Qualunque fosse la loro misteriosa missione, appare evidente che godevano di una speciale immunità. Infatti, tra tutti i Templari

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di Francia, furono i soli che non vennero molestati dai siniscalchi di Filippo il Bello, il 13 ottobre 1307. Quel giorno fatidico, il comandante del contingente dei Templari di Bézu era un certo Seigneur de Goth.39 E prima di assumere il nome di Clemente V, l'arcivescovo di Bordeaux, il debole pontefice manovrato da Filip­po il Bello, si chiamava Bertrand de Goth. Inoltre, la madre del pontefice era Ida de Blanchefort, della stessa famiglia di Bertrand de Blanchefort. Dunque il papa era a conoscenza di un segreto affidato alla custodia del suo casato: un segreto che rimase nella famiglia fino al XVIII secolo, quando l'abate Antoine Bigou, curato di Rennes-le-Chàteau e confessore di Marie de Blanche­fort, compose le pergamene ritrovate più tardi da Saunière? Se era così, poteva darsi che il papa avesse accordato una specie di immunità al suo parente che comandava i Templari di Bézu.

La storia dei Templari nella zona di Rennes-le-Chàteau era evidentemente piena di enigmi sconcertanti non meno della storia dell'Ordine in generale. Anzi, c'erano numerosi fattori - il ruolo di Bertrand de Blanchefort, ad esempio - che sembravano costi­tuire un evidente legame tra gli enigmi di carattere generale e quelli più localizzati.

Nel frattempo, però, ci trovammo di fronte a una serie impres­sionante di coincidenze, troppo numerose per essere coincidenze autentiche. Eravamo alle prese con un disegno calcolato? In que­sto caso, dovevamo chiederci chi l'aveva ideato, perché i disegni tanto complessi non si creano da soli. Tutte le prove a noi accessi­bili indicavano una pianificazione meticolosa e un'attenta organiz­zazione, tanto da convincerci che doveva esistere un gruppo spe­cifico di persone, forse una sorta di ordine, che operava assidua­mente dietro le quinte. Non dovemmo cercare la conferma dell'e­sistenza di quell'ordine. La conferma venne da sé.

Note

1  Runciman, History ofthe Crusades, voi. 2, p. 477.

2  Esquieu, « LesTempliers de Cahors », p. 147, n. 1, spiega che HuguesdePayen non era nato nello Champagne, bensì nello chàteau de Mahun, presso Annonay, nella bassa valle del Rodano (Ardèche). È stata trovata/la registrazione della sua

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nascita; la data è il 9 febbraio 1070. Si può presumere che in seguito si trasferisse nello Champagne.

3  Guillaume de Tyre, Storia delle gesta in Oltremare (nella versione inglese, William of Tyre, History ofDeeds Done Beyond thè Sea, voi. I, pp. 525 sgg.).

4  Addison, History of thè Knights Templars, p. 19. Per la copia della regola originale, cfr. Curzon, La règie du Temple,

5  Addison, History ofthe Knights Templars, p. 19.

6  La data è stata contestata; è stato sostenuto che non può essere anteriore al 1152.

7  Riccardo I era amico dell'Ordine, e visse presso i Templari durante il suo soggiorno ad Acri. Quando nel 1192 lasciò la Terrasanta, partì travestito da Templare, s'imbarcò su una nave dei Templari, accompagnato da quattro cavalieri dell'Ordine. Cfr. Addison, History ofthe Knights Templars, p. 148.

8  Daraul, History ofSecret Societies, pp. 46 sgg. Daraul non indica la fonte.

' Cfr. Piquet, Des banquieres mi moyen Sge. La funzione iniziale era facilitare ì pellegrinaggi in Terrasanta. Cfr. inoltre Melville, Vie des Templieres, pp. 87 sgg. Il primo prestito fu registrato nel 1135. Seward, TheMonksofWar, p. 213, dice: « La realizzazione più duratura dei Poveri Cavalieri, il loro contributo destinato a cambiare la posizione della Chiesa verso l'usura, fu di carattere economico Nessu­na istituzione medievale contribuì maggiormente alla nascita del capitalismo ».

L'usura era proibita, quindi gli interessi sui prestiti venivano calcolati in anticipo e inclusi nel totale della somma prestata. Se venivano dati terreni come garanzie accessorie, i Templari usufruivano di tutte le rendite di tali terreni fino all'estinzio­ne del debito.

10 Melville, Vie des Templiers, p. 220.

1 ' Cfr. Mazières, « La Venue et le séjour des Templiers », p. 235.

12  Blanchefort fu distrutto durante la Crociata contro gli Albigesi. Cadde poco prima del 1215; in quell'anno le sue terre furono cedute da Simone di Montfort a Pierre de Voisins. Il signore di Blanchefort aveva combattuto a fianco di Raymond-Roger Trencavel. il comandante dei Catari. Cfr. Fédié, Le comte deRazès, p. 151.

Bertrand de Blanchefort, spesso insieme ad altri Trencavel, fece donazioni di denaro e di beni immobili ai Templari. Queste transazioni avvennero prima che egli entrasse nell'Ordine, quando era ancora sposato con Fabrissa. Cfr. Albon, Cartulaire generai, p. 41 (Atto LVI, 1133-4). Nella stessa opera si può trovare menzione della moglie e dei due fratelli di Bertrand, Arnaud e Raymond, Atto CLX, 1138, p. 112.

13  Mazières, « La venue et le séjour des Templiers », pp. 243 sgg. Cfr. inoltre Mazières, « Recherches historiques », p. 276. Un documento trovato negli archivi della famiglia Bruyères e Mauléon prova che i Templari di Campagne e Albedune (Bézu) fondarono una casa-rifugio per i « bonhommes » Catari. Questo documen­to, insieme ad altri, scomparve durante la guerra, nel novembre 1942.

'4 Cfr   ad esempio Léonard, Introduction au cartulaire, p. 76. Il titolare del

 

presidio del Tempio a Tolosa, all'inizio della Crociata contro gli Albigesi, apparte­neva alla famiglia catara dei Trencavel.

15  L'Ordine potrebbe essere stato preavvertito dell'imminente repressione tramite Jean de Joinville, che era siniscalco di Champagne e quindi dovette ricevere da Filippo il Bello l'ordine segreto di effettuare gli arresti. Si sa che simpatizzava per i Templari, e suo zio Andre era stato cavaliere dell'Ordine e titolare del presidio di Payns tra il 1260 e il 1270 (Léonard, Introduction au cartulaire, p. 145). Jean scrisse di un misterioso giuramento in cui si parlava di sputi sulla croce, nel periodo in cui i Templari venivano appunto accusati di tale pratica. Inoltre, fa capire che san Luigi già cinquant'anni prima ne era a conoscenza e rifiutava di condannarla. (Cfr. Jean de Joinville, Vita di san Luigi, p. 254 dell'edizione in inglese Life ofSaint Louis). Jean organizzò una lega di nobili per contrastare gli eccessi del sovrano francese contro il Tempio. L'azione della lega divenne superflua alla morte del re.

16  Quando gli ufficiali incaricati degli arresti, accompagnati dal re in persona, presero il Tempio di Parigi nel 1307, non trovarono né il denaro dell'Ordine né i documenti. Il tesoriere dell'Ordine era Hugues de Peraud, che aveva come subor­dinato Gerard de Villers, responsabile del Tempio in Francia.

Nel 1308 settantadue Templari furono condotti a Poitiers per testimoniare davanti al papa (il numero dei cavalieri è indicato dalla Bolla pontificia Faciens misericordiam). Non tutte le deposizioni fatte in quell'occasione sono pervenute fino a noi. È possibile che molte sparissero quando gli archivi segreti del Vaticano, inclusi tutti i documenti relativi ai Templari, furono portati a Parigi per ordine di Napoleone. Il caos era così enorme che certi bottegai incartavano le merci con i preziosi documenti.

Trentatrè delle deposizioni di Poitiers furono pubblicate nel 1887 dallo storico tedesco Conrad Schottmuller, e altri sette da Heinrich Finke nel 1907. Quest'ulti­mo gruppo comprende una curiosa dichiarazione di Jean de Chalons. Questi affermò che Gerard de Villers era stato preavvertito degli arresti imminenti, era fuggito dal Tempio accompagnato da cinquanta cavalieri ed era salpato con diciot­to navi dell'Ordine. E aggiunse che Hugues de Chàlons era fuggito con tutto il tesoro di Hugues de Peraud, cum toto thesauro fratris Hugonis de Peraudo. Questo, disse quando gli venne chiesto, era rimasto segreto perché i Templari che ne erano al corrente temevano che sarebbero stati uccisi se avessero parlato. Cfr. Finke, Papsttum und Untergang des Templerordens, voi. II, p. 339.

Vi sono vari indizi che confermano l'affermazione. Quando i Templari furono arrestati all'alba, alcuni non erano presenti e vennero catturati dopo qualche giorno. Tra coloro che furono presi più tardi c'erano Gerard de Villers e Hugues de Chàlons. Cfr. Barber. M.. Trialoftlie Templars, p. 46.       \

17  L'episodio è riferito da Waite, New Encyclopaedia of Freemasonry, voi. 2, p. 223.

18  Wolfram von Eschenbach, Parzival, p. 251 (della versione inglese).

19  Shah, The Sufis, p. 225. Cfr. inoltre l'introduzione di Ropert Graves al libro di Shah, che a p. xix spiega il gioco di parole tra « nero » e j< sapiente » in arabo.

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Graves afferma che le tre teste nere nello stemma di famiglia di Hugues de Payen hanno quindi un duplice significato.

20  Oursel, Leprocès des Templiers, p. 208.

21   Lobineau, H., Dossierssecrets, tavolan. 4, OrdredeSion, riporta un brano dalla p. 292 del Lìyre des costitutions (dell'Ordine di Sion), dove la testa è chiamata caput lviii Hj-Testa 58 Virgo.

22  Questa versiohe è tratta da Ward, Freemasonry and theAncient Gods, p. 305.

23   Roger de Hoveden, Annals, voi. II, 248 sgg. Per una discussione dettagliata delle leggende di Yse, cfr. Barber, M., Trialofthe Templars, pp. 185 sgg, Barber non ritiene che l'episodio abbia relazione con la storia dei Templari, e ipotizza che si trattasse di una leggenda popolare usata come arma contro l'Ordine.

24  Barber, M., Trial ofthe Templars, p. 249. L'elenco è abbreviato.

25  Michelet, Procès des Templiers, voi. II, p. 384, deposizione di Jean de Chaumes.

26  Schottmiiller, Der Untergangdes Templer-Ordens, voi. Ili, p. 67, deposizione di Deodatus Jefet.

27  Michelet, Procès des Templiers, pp. 383 sgg., deposizione di Fulk de Troyes.

28   Jean de Joinville, Vita di san Luigi (p. 254 della versione inglese, Life ofSaint Louis). Cfr. inoltre cap. 3, n. 15.

29  Albon, Cartulaire generai, p. 2 (Atto IV, 1125) menziona un Templare chiamato Roberti, forse il Robert che divenne Gran maestro dopo la morte di Hugues de Payen. Ap. 3 (attoIV, U25)sonomenzionatiiTemplarif/enricoer/Jo6er(o. Sono quindi aggiunti i nomi di Fulk d'Angiò e Hugues de Champagne, e si hanno quindi almeno quattro reclute.

3U Bouquet, Recueil des Historiens, voi. 15 (Epistolae Ivonis Carnotensìs Episco­pi), p. 162, n. 245.

31   « La mitice du Christ, la milizia evangelica di questa lettera non è altro che l'Ordine del Tempio. Ma nel 1114 l'Ordine del Tempio non era ancora stato fondato... » Arbois de Jubainville, Histoire... de Champagne, voi. II, pp. 113-14, n. 1.

32  La scuola fu fondata dal famoso rabbi medievale Rashi (1040-1105).

33   Allegro, Treasure ofthe Copper Scroll, pp. 107 sgg.

34   Arbois de Jubainville, Histoire... de Champagne, voi. II, pp. 87 sgg.

35  Ibid., pp. 98 sgg., n. 1

36  Comunicazione personale dell'Abbé Mazières a Henry Lincoln.

37   Arcons, Du Flux et reflux, pp. 355 sgg. Cfr. inoltre Catel, Mémoires... du Languedoc, libro I, p. 51.

38  Mazières, « La venue et le séjour des Templiers », pp. 234 sgg.

39  Comunicazione personale dell'Abbé Mazières a Henry Lincoln.

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IV

Documenti segreti

La conferma dell'esistenza di un terzo ordine - un ordine che stava alle spalle tanto dei Templari quanto dei Cistercensi - si impose alla nostra attenzione. In un primo tempo, comunque, non la prendemmo sul serio. Sembrava giungere da una fonte troppo inattendibile, vaga e nebulosa. Non potevamo credere alle sue affermazioni, se prima non avessimo accertato la veridicità della fonte.

Nel 1956 incominciò ad apparire in Francia una serie di libri, articoli, opuscoli e altri documenti su Bérenger Saunière e l'enigr ma di Rennes-Ie-Chàteau. Questo materiale ha continuato a proli­ferare, e oggi è molto voluminoso. Anzi, è diventato la base di una vera e propria « industria ». E la sua stessa voluminosità, l'impe­gno e i fondi necessari per produrlo e diffonderlo, attestano impli­citamente l'esistenza di qualcosa d'importanza immensa ma tutto­ra inspiegata.

Non è affatto sorprendente che il « caso » abbia contribuito ad aguzzare l'appetito di numerosi ricercatori indipendenti, noi com­presi, le cui opere sono venute ad aggiungersi alla massa del materiale già esistente. Tuttavia, sembra che il materiale originale provenga da un'unica fonte. È evidente che qualcuno ha interesse a svolgere un'attività promozionale per Rennes-le-Chàteau, ad attirare,sulla vicenda l'attenzione del pubblico, a\ispirare ulteriori indagini. Comunque, non sembra trattarsi di un interesse econo­mico. Al contrario, ha piuttosto .carattere propagandistico: una propaganda che mira a dare credibilità a qualcosa. E quali che siano le persone responsabili di questa propaganda, si sono adope-

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rate per puntare i riflettori su certe questioni, pur restando scrupo­losamente nell'ombra.

A partire dal 1956, c'è stata una « fuga » di materiale pertinen­te, orchestrata in modo sistematico, frammento per frammento. In gran parte questi frammenti sembrano provenire, implicita­mente o esplicitamente, da una fonte « privilegiata ». Molti con­tengono ulteriori informazioni che integrano quanto già si sapeva e quindi aiutano a ricostruire l'intero rompicapo. Tuttavia, finora non sono stati indicati chiaramente la natura e il significato del rompicapo. Anzi, ogni nuovo frammento d'informazione è servito ad addensare il mistero, anziché a diradarlo. Il risultato è stato una rete sempre più complessa di allusioni affascinanti, di accenni provocatori, di riferimenti e di collegamenti indicativi. Di fronte alla massa di dati oggi disponibili, il lettore può facilmente avere l'impressione di essere preso in giro, o di venire ingegnosamente condotto da una conclusione all'altra per mezzo delle esche che gli vengono messe sotto il naso. E alla base di tutto c'è la continua, onnipresente allusione sottintesa a un segreto: un segreto di pro­porzioni monumentali, esplosive.

Il materiale diffuso a partire dal 1956 assume forme diverse. In parte è apparso in libri di carattere popolare o addirittura in best-sellers più o meno sensazionali, più o meno enigmaticamente avvincenti. Ad esempio, Gerard de Sède ha prodotto una serie di opere su argomenti in apparenza diversissimi come i Catari, i Templari, la dinastia merovingia, i Rosacroce, Saunière e Rennes-le-Chàteau. In questi libri, de Sède è spesso malizioso, insinuante, sconcertante ed evasivo. Il suo tono sottintende sempre che sa molto di più di quanto sta dicendo. Forse è un trucco per nascon­dere che in realtà non sa quanto finge di sapere. Ma i suoi libri contengono abbastanza dettagli riscontrabili per forgiare un anel­lo di congiunzione tra i vari temi. Qualunque cosa si possa pensare di lui, de Sède dimostra con efficacia che i diversi argomenti di cui si occupa sono in qualche modo intercollegati.

D'altra parte, non potevamo fare a meno di sospettare che le opere di de Sède si avvalessero in buona misura di notizie fornite da un informatore, e per la verità questo lo riconosce più o meno lo stesso de Sède. Per puro caso, noi siamo venuti a sapere chi era l'informatore. Nel 1971, quando abbiamo incominciato a realizza-

 

re il nostro primo documentario su Rennes-le-Chàteau per la BBC, abbiamo scritto all'editore parigino di de Sède per chiedere certo materiale iconografico. Le fotografìe che avevamo richiesto ci furono spedite. A tergo di ciascuna c'era un timbro: « Plantard ». A quel tempo, il nome non ci diceva molto. Ma l'appendice d'uno dei libri di de Sède consisteva nell'intervista con un certo Pierre Plantard. E in seguito abbiamo avuto la certezza che Pierre Plantard non era affatto estraneo ad alcune opere di de Sède. Pierre Plantard cominciò a imporsi come uno dei personaggi principali della nostra indagine.

Le informazioni disseminate dal 1956 in poi non sempre sono contenute in una forma popolare e accessibile come quella adotta­ta da de Sède. Alcune sono apparse in tomi poderosi, imponenti e addirittura pedanteschi, diametralmente opposti al piglio giornali­stico di de Sède. Una di queste opere è stata scritta da Rene Descadeillas, ex direttore della Biblioteca municipale di Carcas-sonne. Il libro di Descadeillas è rigorosamente antisensazionale. È dedicato alla storia di Rennes-le-Chàteau e dintorni, e contiene una quantità di minuziosi dettagli sociali ed economici: per esem­pio, le nascite, le morti, i matrimoni, le situazioni finanziarie, le tasse e le opere pubbliche nel periodo tra il 1730 e il 1820. ' Nel complesso, non potrebbe essere più diverso dai libri a carattere popolare di de Sède, che del resto Descadeillas assoggetta in altra sede a una critica spietata.2

Oltre ai libri pubblicati, inclusi quelli editi privatamente, sono apparsi numerosi articoli su quotidiani e riviste. Ci sono state interviste con varie persone che affermano di essere a conoscenza dell'uno o dell'altro aspetto del mistero. Ma in generale le infor­mazioni più interessanti e importanti noTv^ono apparse nei libri. Quasi tutte sono affiorate altrove, in documèntTe~opuscoli non destinati a una normale distribuzione. Molti di questi documenti e opuscoli sono stati depositati, in edizioni private a tiratura limita­ta, presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. Le pubblicazioni sono di un tipo realizzato a basso costo. Alcune sono addirittura fogli dattiloscritti, riprodotti con una fotocopiatrice. Ancora più delle opere diffuse sul normale mercato editoriale, questa massa di materiale sembra provenire da un'unica fonte. Mediante incisi e note  enigmatiche  che  si  riferiscono  a Saunière,  Rennes-le-

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Chàteau, Poussin, la dinastia merovingia e altri temi, ogni testo integra, amplia e conferma gli altri. Quasi sempre l'identità del­l'autore è incerta. C'è tutta una serie di pseudonimi trasparenti o allusivi: Madeleine Blancassal, ad esempio, Nicolas Beaucéan, Jean Delaude e Antoine l'Ermite. « Madeleine », ovviamente, allude a Maria Maddalena, alla quale sono dedicate la chiesa di Rennes-le-Chateau e la torre fatta costruire da Saunière. la Torre Magdala. « Blancassal » è formato dai nomi di due fiumicelli che convergono presso il villaggio di Rennes-les-Bains: Blanque e Sals. « Beaucéan » è una variante di « Beauséant », il grido di battaglia ufficiale e il motto dello stendardo dei Cavalieri Templa­ri. « Jean Delaude » è « Jean de l'Aude », o « Giovanni dell'Au-de », il dipartimento in cui si trovava Rennes-le-Chateau. E «An­toine l'Ermite » è sant'Antonio eremita, la cui statua orna la chiesa di Rennes-le-Chàteau, e la cui festa cade il 17 gennaio che è poi la data sulla tomba di Maria de Blanchefort e la data in cui Saunière ebbe l'attacco che lo portò alla morte.

L'opera attribuita a Madeleine Blancassal è intitolata Les de-scendants mérovingiens et l'énigme du Razès wisigoth (I discenden­ti merovingi e l'enigma del Razès visigoto): Razès è il vecchio nome della zona dove nacque e visse Saunière. Secondo il fronte­spizio, l'opera fu pubblicata per la prima volta in tedesco e tradot­ta in francese da Walter Celse-Nazaire, un altro pseudonimo ispirato ai santi Celso e Nazario ai quali è dedicata la chiesa di Rennes-les-Bains. E sempre secondo il frontespizio, l'editrice dell'opera era la Grande Loge Alpina, la suprema loggia della massoneria svizzera, l'equivalente svizzero della Grand Lodge britannica e del Grand Orient francese. Nulla indica perché mai una loggia massonica moderna debba dimostrare tanto interesse per il mistero che circonda un oscuro parroco francese del secolo XIX e la storia della sua parrocchia di millecinquecento anni prima. Uno dei nostri colleghi e un ricercatore indipendente chie­sero precisazioni ai dirigenti della Grande Loge Alpina: e questi affermarono di non saper nulla non soltanto della pubblicazione dell'opera ma addirittura della sua esistenza. Tuttavia, un ricerca­tore indipendente afferma di aver visto con i suoi occhi quel libro su uno scaffale della biblioteca dell'Alpina.3 E successivamente

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abbiamo scoperto che il nome dell'Alpina appariva anche su altri due opuscoli.

Fra tutti i documenti pubblicati privatamente e depositati pres­so la Bibliothèque Nationale, il più importante è una compilazione di scritti raccolti sotto il titolo collettivo di Dossiers segreti (Dos-siers secrets). Catalogata sotto il numero 4° lm' 249, oggi la compi­lazione è su microfiche. Fino a tempi recenti, però, era un volume scialbo e smilzo, una specie di fascicolo con la copertina rigida che conteneva un'accozzaglia eterogenea di materiale apparentemen­te irrelato: ritagli di giornali, lettere incollate su fogli, opuscoli, numerosi alberi genealogici e alcune pagine stampate estratte evidentemente da altre opere. Periodicamente, qualcuna delle pagine veniva asportata. In altri momenti, ne venivano aggiunte altre. Su certi fogli, qualche volta, venivano apportate aggiunte e correzioni a mano, in grafia minuscola. Successivamente, questi fogli venivano sostituiti da altri stampati, che includevano tutte le correzioni precedenti.

La parte più voluminosa dei Dossiers, che consiste di alberi genealogici, è attribuita a un certo Henri Lobineau, il cui nome appare nel frontespizio. Due testi inclusi nel fascicolo precisano che Henri Lobineau è un altro pseudonimo - forse tratto da una via, Rue Lobineau, che passa accanto a Saint Sulpice a Parigi - e che le genealogie sono in realtà opera di un certo Leo Schidlof, storico e antiquario austriaco vissuto in Svizzera e morto nel 1966. Sulla base di queste informazioni, cercammo eli scoprire il più possibile sul conto di Leo Schidlof.                     \.

Nel 1978 riuscimmo a rintracciare la figlia di Leo Schidlof, che viveva in Inghilterra. Suo padre, ci disse, era veramenteWstriaco. Però non era un genealogista, uno storico o un antiquario, bensì un esperto e commerciante di miniature, e aveva scritto due opere sull'argomento. Nel 1948 si era stabilito a Londra, dove aveva vissuto fino al 1966, l'anno in cui era morto a Vienna: l'anno e il luogo corrispondevano a quelli specificati nei Dossiers segreti.

La signorina Schidlof dichiarò con molta fermezza che suo padre non aveva mai nutrito alcun interesse per le genealogie, la dinastia merovingia e i misteriosi eventi della Francia meridiona­le. Tuttavia, continuò, certe persone erano convinte del contrario. Negli anni Sessanta, ad esempio, Leo Schidlof aveva ricevuto

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numerose lettere e telefonate da individui non identificati, che dall'Europa e dagli Stati Uniti chiedevano di incontrarsi con lui per discutere cose di cui non sapeva assolutamente nulla. Quando Schidlof era morto nel 1966 c'era stata una nuova ondata di lettere e telefonate, e quasi tutte avevano chiesto notizie delle sue carte.

Qualunque fosse la vicenda in cui il padre della signorina Schid­lof era rimasto involontariamente invischiato, sembrava aver de­stato l'attenzione del governo americano. Nel 1946-un decennio prima della data conclamata della compilazione dei Dossiers se­greti - Leo Schidlof aveva chiesto il visto per recarsi negli Stati Uniti. II permesso era stato respinto perché Schidlof risultava sospetto di spionaggio o di altre attività clandestine. Alla fine la cosa venne risolta, il visto fu concesso e Schidlof potè andare negli Stati Uniti. È possibile che si fosse trattato soltanto di uno dei soliti malintesi burocratici. Ma la signorina Schidlof sembrava sospetta­re che la vicenda fosse in qualche modo connessa agli interessi arcani stranamente attribuiti a suo padre.

Il racconto della signorina Schidlof ci fece riflettere. Il rifiuto del visto americano poteva non essere una semplice coincidenza, perché tra le carte dei Dossiers segreti c'erano allusioni che colle­gavano il nome di Leo Schidlof a un misterioso intrigo di spionag­gio internazionale. Nel frattempo, tuttavia, a Parigi era apparso un nuovo opuscolo che, nei mesi successivi, fu corroborato da altre fonti. Secondo l'opuscolo l'enigmatico Henri Lobineau non era Leo Schidlof, bensì un aristocratico francese d'illustre lignag­gio, il conte Henri de Lénoncourt.

Il problema della vera identità di Henri Lobineau non era l'unico enigma legato ai Dossiers segreti. C'era anche un testo che alludeva alla « borsa di pelle di Leo Schidlof». Questa borsa avrebbe contenuto un certo numero di documenti segreti che si riferivano a Rennes-le-Chàteau nel periodo tra il 1600 e il 1800. Poco dopo la morte di Schidlof, la borsa sarebbe passata nelle mani di un corriere, un certo Fakhar ul Isiam, che nel febbra­io 1967 doveva incontrarsi nella Germania orientale con un « agente delegato da Ginevra » per consegnargli la borsa stessa. Però, prima che l'incontro potesse avvenire, Fakhar ul Isiam sarebbe stato espulso dalla Germania orientale e sarebbe tornato a Parigi « per attendere nuovi ordini ». Il 20 febbraio 1967 il suo

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cadavere fu trovato sui binari della ferrovia a Melun: era stato gettato dall'espresso Parigi-Ginevra. La borsa, a quanto sembra, era sparita.

Ci accingemmo a controllare questa vicenda tragica, per quanto ci era possibile. Diverse notizie apparse su quotidiani francesi del 21 febbraio la confermavano quasi tutta.4 Un cadavere decapitato era stato effettivamente trovato sui binari a Melun. Era stato identificato come il corpo di un giovane pachistano, Fakhar ul Isiam. Per ragioni rimaste oscure, l'uomo era stato espulso dalla Germania orientale e stava andando da Parigi a Ginevra; sembra­va che fosse coinvolto in qualche attività spionistica. Secondo i quotidiani, le autorità sospettavano che si fosse trattato di un delitto e le indagini erano state affidate al DST (la Direzione della sorveglianza territoriale, il controspionaggio).

D'altra parte, i quotidiani non parlavano di Leo Schidlof, di una borsa di pelle, né di altre cose che potessero collegare la morte di Fakhar ul Isiam al mistero di Rennes-le-Chàteau. Ci trovavamo quindi di fronte a parecchi interrogativi. Da una parte, era possibi­le che la morte di Fakhar ul Isiam fosse legata a Rennes-le-Chàteau e che la notizia contenuta nei Dossiers segreti attingesse a « informazioni riservate » inaccessibili ai giornali. D'altronde, poteva darsi che la notizia dei Dossiers segreti fosse una voluta mistificazione. Basta trovare una morte inspiegata e sospetta ed attribuirla, dopo il fatto, a ciò che ci interessa. Ma se era davvero così, che scopo aveva quella manovra? Perchè-qualcuno doveva cercare di creare un'atmosfera di intrighi sinistri intornaaJRennes-le-Chàteau? Cosa si poteva guadagnare creando una simiìelfEfno-sfera? E chi poteva guadagnarci?

Questi interrogativi ci sconcertavano soprattutto perché la mor­te di Fakhar ul Isiam non era, apparentemente, un caso isolato. Meno di un mese dopo un'altra opera edita privatamente fu depo­sitata presso la Bibliothèque Nationale. Era intitolata Le serpent rouge, e portava la data significativa e simbolica del 17 gennaio. Il frontespizio l'attribuiva a tre autori: Pierre Feugère, Louis Saint-Maxent e Gaston de Koker.

Le serpent rouge è un'opera singolare. Contiene una genealogia merovingia e due carte geografiche della Francia dei tempi mero­vingi, più un commento affrettato e superficiale. Inoltre, contiene

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una pianta di Saint Sulpice a Parigi, che delinea le cappelle dei vari santi. Ma la parte principale del testo è costituita da tredici brevi poemi in prosa di livello letterario notevole: molti ricordano l'ope­ra di Rimbaud. Ognuna di queste poesie in prosa non supera la lunghezza di un capoverso, e ognuna corrisponde a un segno dello Zodiaco: uno Zodiaco di tredici costellazioni, perché la tredicesi­ma, Ofiuco o Serpentario, è inserita tra lo Scorpione e il Sagitta­rio.                                                                           '

Scritte in prima persona, le tredici poesie in prosa rappresenta­no una specie di pellegrinaggio simbolico o allegorico, che inco­mincia dall'Acquario e termina con il Capricorno che, come il testo precisa esplicitamente, presiede al 17 gennaio. Nel testo, per il resto enigmatico, ci sono riferimenti a temi già familiari: la famiglia Blanchefort, le decorazioni della chiesa di Rennes-le-Chàteau, alcune delle iscrizioni che Saunière vi fece apporre, Poussin e il quadro Les bergers d'Arcadie, il motto sulla tomba, « Et in Arcadia Ego ». A un certo punto si accenna a un serpente rosso « citato nelle pergamene » che si snoda attraverso i secoli: un'allusione esplicita, sembrerebbe, a una stirpe o a un lignaggio. Al segno astrologico del Leone è dedicato un capoverso enigmati­co che merita di essere citato integralmente:

Da colei che io desidero liberare esala verso di me la fragranza del profumo che impregna il Sepolcro. Un tempo qualcuno la chiamò iside, regina di tutte le fonti benefiche. venite a me, O voi tutti che soffrite e

SIETE AFFLITTI, E IO VI DARÒ PACE. Per altri, ella è MADDALENA, colei dal famoso vaso colmo di balsamo risanatore. Gli iniziati conoscono il suo vero nome: notre dame des cross.5

Le implicazioni di questo capoverso sono estremamente inte­ressanti. Iside, naturalmente, è la Dea Madre Egizia, patrona dei misteri: la « Regina Bianca » nei suoi aspetti benigni, la « Regina Nera » in quelli malefici. Molti autori che hanno scritto di mitolo­gia, antropologia, psicologia e teologia, hanno seguito il culto della Dea Madre dai tempi pagani fino all'epoca cristiana. E secondo questi autori Iside sarebbe sopravvissuta nel cristianesi­mo nell'aspetto della Vergine Maria, la « Regina del Cielo », come la chiamò san Bernardo, una designazione che nell'Antico Testamento è riferita alla Dea Madre Astarte, l'equivalente feni­cia di Iside. Ma, secondo il testo contenuto nel Serpent rouge, la

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Dea Madre del cristianesimo non sembra essere la Vergine. AI contrario, è la Maddalena, alla quale è dedicata la chiesa di Rennes-le-Chàteau e alla quale Saunière consacrò la sua torre. Inoltre, il testo sembra indicare che neppure il titolo di Nostra Signora « Notre Dame » spetta alla Vergine. Questo titolo altiso­nante, conferito a tutte le grandi cattedrali della Francia, sembre­rebbe riferirsi egualmente alla Maddalena. Ma perché mai la Maddalena dovrebbe essere venerata come « Nostra Signora », e soprattutto come Dea Madre? La maternità è proprio l'ultima cosa che si possa associare a Maddalena. Nella tradizione popola­re cristiana, Maddalena è una prostituta che si redime diventando seguace di Gesù. E spicca soprattutto nel Quarto Vangelo, dove è la prima persona che vede Gesù dopo la resurrezione. Di conse­guenza viene considerata una santa, soprattutto in Francia dove, secondo varie leggende medievali, avrebbe portato il Santo Graal. E infatti il « vaso colmo di balsano risanatore » potrebbe venire inteso con un'allusione al Graal. Ma collocare la Maddalena al posto solitamente riservato alla Vergine sembrerebbe come mini­mo un'eresia.

Qualunque fosse il loro intento, gli autori del Serpent rouge, o meglio i presunti autori, ebbero una sorte tragica quanto quella di Fakhar ul Isiam. Il 6 marzo 1967, Louis Saint-Maxent e Gaston de Koker furono trovati impiccati. E l'indomani, il 7 marzo, fu trova­to impiccato anche Pierre Feugère.                         ^~\

Naturalmente, si potrebbe immediatamente dedurre che\}ueste morti erano collegate in qualche modo alla composizione ^ pubblicazione del Serpent rouge. Tuttavia, come nel caso di Fak­har ul Isiam, non potevamo escludere una spiegazione alternativa. Se qualcuno vuole creare un'atmosfera sinistra e misteriosa, non è troppo difficile. Basta spulciare i giornali fino a quando ci si imbatte in una morte sospetta o, come in questo caso, in tre morti sospette. Dopo il fatto, si possono legare i nomi dei morti a un opuscolo di propria creazione e depositarlo presso la Bibliothèque Nationale, con una data antecedente (17 gennaio) sul frontespi­zio. Sarebbe virtualmente impossibile smascherare un falso del genere, che sicuramente creerebbe la sensazione voluta. Ma per­ché perpetrare un simile imbroglio? Perché qualcuno desiderava evocare un'atmosfera di violenza, di delitto e di intrigo? Difficil-

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nulla di nuovo. Ricapitolava succintamente la storia della contea di Razès, di Rennes-le-Chàteau e di Bérenger Saunière. Insom-ma, ripresentava tutti i particolari che noi conoscevamo già da molto tempo. Era impossibile immaginare perché mai qualcuno se ne fosse servito, tenendola « communiqué » per una settimana intera. E non sembrava che esistessero ragioni per negarcela. Ma la cosa più sconcertante era che l'opera non era originale. Eccet­tuate poche parole sostituite qua e là, era la riproduzione integra­le, composta in caratteri diversi e ristampata, di un capitolo di un fortunato tascabile: un tascabile vendutissimo, reperibile per po­chi franchi in tutte le edicole, che parlava dei tesori perduti in tutto il mondo. Quindi, o Antoine l'Ermite aveva sfacciatamente pla­giato il libro pubblicato, oppure l'autore del libro aveva plagiato Antoine l'Ermite.

Episodi del genere sono tipici della mistificazione che circonda il materiale apparso in Francia, frammento per frammento, a parti­re dal 1956. Altri ricercatori si sono imbattuti in enigmi molto simili. Nomi apparentemente plausibili sono risultati pseudonimi. Certi indirizzi, inclusi quelli delle case editrici e di organizzazioni, sono risultati inesistenti. Vi sono citazioni tratte da libri che nessu­no, a quanto ci consta, ha mai avuto modo di vedere. Vari docu­menti sono scomparsi, o^sono stati modificati, oppure sono stati Ìnspiegabilmente catalogati in modo erroneo nella Bibliothèque Nationale. Qualche volta viene da sospettare che si tratti di una beffa. Ma se questo è vero, si tratta di una beffa colossale, che comporta la disponibilità di risorse imponenti, finanziarie e non finanziarie. E chiunque stia perpetrando questa beffa, sembra prenderla molto sul serio.

Nel frattempo è apparso in continuazione materiale nuovo, con i soliti temi che ricorrono come leitmotifs: Saunière, Rennes-le-Chàteau, Poussin, Les bergers d'Arcadie, i Cavalieri Templari, Dagoberto II e la dinastia merovingia. Vi figurano allusioni alla viticoltura - l'innesto delle viti - presumibilmente in senso allego­rico. Ma nel contempo vengono aggiunte altre informazioni. Un esempio è l'identificazione di Henri Lobineau con il conte di Lénoncourt. Un altro è la crescente e inspiegata insistenza sull'im­portanza della Maddalena. E altre due località sono state poste

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ripetutamente in risalto, fino ad assumere un rilievo ormai parago­nabile a quello di Rennes-le-Chàteau. Una è Gisors, una fortezza situata in Normandia, che ebbe una vitale importanza strategica e politica1 al culmine delle Crociate. L'altra è Stenay, un tempo chiamata Satanicum, al limitare delle Ardenne: la vecchia capitale della dinastia merovingia, nei cui pressi fu assassinato nel 679 re Dagoberto II.

Il corpus del materiale oggi accessibile non può venire adegua­tamente esaminato o discusso in questo libro. È troppo denso, troppo confuso e sconnesso, e soprattutto è troppo copioso. Ma da questa mole di informazioni che continuano a proliferare emergo­no alcuni punti chiave che costituiscono la base per un'ulteriore ricerca. Sono presentati come fatti storici incontestabili, e si pos­sono riassumere così:

1)  Esisteva un ordine segreto che aveva creato i Templari per servirsene come braccio armato e amministrativo. Questo ordine, che aveva agito sotto una quantità di nomi diversi, è spesso cono­sciuto come il Priorato di Sion (Prieuré de Sion).

2)  II Priorato di Sion è stato diretto da una sequenza di Gran maestri i cui nomi sono tra i più illustri della storia e della cultura occidentale.

3) Anche se i Templari vennero annientati e scioltr-tra il 1307 e il 1314, il Priorato di Sion rimase indenne. Anche se è statooeriodi-camente dilaniato da lotte intestine e faziose, ha continuato a funzionare nel corso dei secoli. Agendo nell'ombra, tra le quirite, ha orchestrato alcuni degli eventi decisivi della storia dell'Occì* dente.                                                                                    \

4)  II Priorato di Sion esiste ancora ed è ancora operante. È influente, e ha un ruolo d'alto livello negli affari internazionali, nonché nelle vicende interne di certi paesi europei. In misura significativa, è responsabile della massa di informazioni diffuse dal 1956 in poi.

5)  Lo scopo dichiarato del Priorato di Sion è la restaurazione della dinastia e della stirpe merovingia, non soltanto sul trono di Francia, ma anche sui troni di altre nazioni europee.

6)  La restaurazione della dinastia merovingia è sanzionata e giustificabile, tanto legalmente quanto moralmente. Sebbene de­posta nell'VIII secolo, la stirpe merovingia non si è estinta. Al

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contrario, si è perpetuata in linea diretta a partire da Dagoberto II e suo figlio, Sigisberto IV. Per mezzo di alleanze dinastiche e di matrimoni, la stirpe include Goffredo di Buglione, che nel 1099 conquistò Gerusalemme, e altre famiglie nobili e reali del passato e del presente: Blanchefort, Gisors, Saint-Clair (Sinclair in Inghil­terra), Montesquiou, Montpézat, Poher, Lusignano, Plantard e Asburgo-Lorena. Al giorno d'oggi, la stirpe merovingia ha tuttora pretese legittime sull'eredità che le spetta.

Nel cosiddetto Priorato di Sion c'era una possibile spiegazione dei riferimenti a « Sion » contenuti nelle pergamene scoperte da Bérenger Saunière. E c'era anche la spiegazione della strana sigla « P.S. » che appariva su una di quelle pergamene e sulla tomba di Marie de Blanchefort.

Tuttavia, come moltissimi altri, eravamo estremamente scettici nei confronti delle « teorie delle cospirazioni nella storia », e quasi tutte le asserzioni elencate più sopra ci sembravano improbabili, non pertinenti e/o assurde. Ma restava pur sempre il fatto che certe persone le promulgavano con la massima serietà; e per giunta, come avevamo motivo di credere, le promulgavano da posizioni di considerevole potere. E quale che fosse la veridicità delle asserzioni, erano chiaramente connesse in qualche modo al mistero che circondava Saunière e Rennes-le-Chàteau.

Intraprendemmo perciò un esame sistematico di quelli che ave­vamo incominciato a chiamare ironicamente « i documenti del Priorato » e delle asserzioni che contenevano. Ci sforzammo di sottoporre tali asserzioni a uno scrupoloso esame critico per sco­prire se potevano essere suffragate in un modo o nell'altro. Lo facemmo con uno scetticismo cinico, quasi irridente, pienamen­te convinti che quelle stravaganti pretese si sarebbero sgretola­te di fronte ad un'indagine anche superficiale e affrettata. Seb­bene a quel tempo non lo sapessimo, ci attendevano molte gran­di sorprese.

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Note

1   Descadeillas, Rennes etses derniers seigneurs.

2  Cfr. Descadeillas, « Mythologie » e de Sède, Le vrai dossier.

3  Paoli, Les dessous, p. 86.

4  « Le Monde » (21 febbr. 1967), p. 11. « Le Monde » (22 febbr. 1967), p. 11. « Paris-Jour » (21 febbr. 1967), n. 2315, p. 4.

5  Feugère, Saint-Maxent e Koker, Le serpenl rouge, p. 4.

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Parte seconda

La società segreta

 

V

L'ordine nell'ombra

Avevamo già sospettato che, dietro ai Cavalieri Templari, ci fosse un gruppo di individui, se non un « ordine » vero e proprio. L'affermazione che i Templari erano stati creati dal Priorato di Sion ci sembrava quindi un po' più plausibile delle altre asserzioni contenute nei « documenti del Priorato ». Perciò incominciammo l'esame da questa affermazione.

Il Priorato di Sion era stato menzionato già nel 1962, brevemen- \ te e in modo enigmatico, in un'opera di Gerard de Sède. Il primo riferimento particolareggiato che trovammo, però, fu una pagina dei Dossiers segreti. Nella parte superiore della pagina c'è una citazione tratta da Rene Grousset, una delle massime autorità del nostro secolo sulla storia delle Crociate; la sua opera monumenta­le sull'argomento, pubblicata negli anni Trenta, è considerata fondamentale da storici moderni come Sir Steven Runciman. La citazione parla di Baldovino I, fratello minore di Goffredo di Buglione, duca di Lorena e conquistatore della Terrasanta. Alla morte di Goffredo, Baldovino accettò la corona che gli veniva offerta e diventò quindi ufficialmente il primo re di Gerusalemme. Secondo Rene Grousset esisteva, tramite Baldovino I, una « tra­dizione reale ». E poiché era « fondata sulla Pietra di Sion »,' questa tradizione era « eguale » alle dinastie regnanti dell'Euro­pa: la dinastia capetingia in Francia, la dinastia anglo-normanna (i Plantageneti) in Inghilterra, le dinastie Hohenstauffen e Asburgo che regnavano sulla Germania e il Sacro romano impero.

Ma Baldovino e i suoi discendenti erano re elettivi, non sovrani per diritto di sangue. Perché, allora, Grousset aveva parlato di una

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« tradizione reale » che « esisteva per suo tramite »? Grousset non lo spiega. E non spiega neppure perché questa tradizione, essendo « fondata sulla Pietra di Sion », fosse « eguale » alle più importanti dinastie europee.

Sulla pagina dei Dossiers segreti, la citazione di Grousset è seguita da un'allusione al misterioso Priorato di Sion, o Ordine di Sion, come veniva apparentemente chiamato a quel tempo. Se­condo il testo, l'Ordine di Sion fu fondato da Goffredo di Buglione nel 1090, nove anni prima della conquista di Gerusalemme, ben­ché altri « documenti del Priorato » indichino come data della fondazione il 1099. Secondo il testo, Baldovino, fratello minore di Goffredo, « doveva il suo trono » all'Ordine. E sempre secondo il testo, la sede ufficiale dell'Ordine, il suo « quartier generale » era un'abbazia: l'abbazia di Nostra Signora del Monte di Sion, a Gerusalemme. O forse era situata nei dintorni immediati di Geru­salemme, sul monte Sion, il famoso « alto colle » a sud della città.

Consultammo tutte le opere più autorevoli del XX secolo sulle Crociate, ma non trovammo nessuna menzione dell'Ordine di Sion. Ci accingemmo perciò ad accertare se quell'Ordine era veramente esistito, e se poteva aver avuto il potere di conferire un regno. Fummo quindi costretti a frugare tra fasci di documenti antichi. Non ci limitavamo a cercare riferimenti espliciti all'Ordi­ne; cercavamo anche qualche traccia della sua eventuale influenza e delle sue attività. E ci sforzammo di accertare se c'era stata o no un'abbazia chiamata Nostra Signora del Monte di Sion.

A sud di Gerusalemme torreggia « l'alto colle » di Sion. Nel 1099, quando Gerusalemme fu conquistata dai crociati di Goffre­do di Buglione, sul colle c'erano le rovine di una vecchia basilica bizantina, che risaliva presumibilmente al IV secolo ed era chia­mata « la Madre di tutte le Chiese », un titolo molto suggestivo e indicativo. Secondo numerosi documenti, cronache e resoconti del tempo pervenuti fino a noi, sul sito delle rovine fu costruita un'abbazia, per ordine di Goffredo di Buglione. Doveva essere un edificio imponente, una comunità autosufficiente. Secondo un cronista che scriveva nel 1172, era saldamente fortificata, munita di mura, torri e bastioni. E veniva chiamata abbazia di Nostra Signora del Monte di Sion.

Ovviamente, doveva essere occupata da qualcuno. Poteva trat-

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tarsi di un « ordine » autonomo che prendeva il nome dalla locali­tà? Era possibile che l'abbazia ospitasse veramente l'Ordine di Sion? Non era un'ipotesi irragionevole. I cavalieri e i monaci che occuparono la chiesa del Santo Sepolcro, egualmente installata da Goff redo, costituivano un « ordine » ufficiale e debitamente rico­nosciuto, l'Ordine del Santo Sepolcro. Lo stesso principio poteva essere valido anche per gli inquilini dell'abbazia del Monte Sion; e infatti sembra che fosse così. Secondo il massimo esperto in mate­ria del secolo XIX, l'abbazia era « abitata da un capitolo di canoni­ci agostiniani, incaricati di servire i santuari sotto la direzione di un abate. La comunità assunse il duplice nome di "Santa Maria del Monte Sion e del Santo Spirito" ».2 E un altro storico, che scriveva nel 1698, era ancora più esplicito: « Vi erano in Gerusalemme, durante le Crociate... cavalieri legati all'abbazia di Nostra Signora di Sion, che presero il nome di "Cavalieri dell'Ordine di Nostra Signora di Sion" ».3

Come se questo non rappresentasse una conferma sufficiente, scoprimmo anche documenti dell'epoca - documenti originali -che portavano il sigillo e la firma di vari priori di « Nostra Signora di Sion ». Cen'è uno, ad esempio, firmato da un priore Arnaldus e datato 19 luglio 1116.4 Su un altro, datato 2 maggio 1125, il nome di Arnaldus appare abbinato a quello di Hugues de Payen, il primo Gran maestro del Tempio.5

Fin lì i « documenti del Priorato » si erano dimostrati validi, e potevano affermare che alla fine del secolo XII era esistito vera­mente un Ordine di Sion. Tuttavia, restava ancora da accertare quando l'ordine era stato fondato. Non si sa esattamente che cosa venisse per primo, l'ordine o il complesso che l'ospitava. I Cister-censi, ad esempio, presero il nome da una località, Citeaux. D'al­tra parte, i Francescani e i Benedettini - per citare due esempi -presero il nome dai fondatori, e incominciarono a esistere prima di avere una sede fissa. Potevamo dire soltanto, perciò, che intorno al 1100 esisteva un'abbazia e che ospitava un ordine dallo stesso nome... che poteva essere stato fondato in precedenza.

I « documenti del Priorato » sottintendono che era appunto così, e vi sono indizi che'lo confermano, sia pure in modo vago e indiretto. Si sa che nel 1070, ventinove anni prima della conquista di Gerusalemme, un gruppo di monaci provenienti dalla Calabria

 

era arrivato nella Foresta delle Ardenne, parte dei domìni di Goffredo di Buglione.6 Secondo Gerard de Sède, i monaci erano capeggiati da un certo « Ursus », un nome che i « documenti del Priorato » associano spesso alla stirpe merovingia. Giunti nelle Ardenne, i monaci calabresi ottennero la protezione di Madide di Toscana, duchessa di Lorena, zia e, in pratica, madre adottiva di Goffredo di Buglione. Da Matilde, i monaci ebbero in dono un appezzamento di terreno a Orval, non lontano da Stenay, dove cinquecento anni prima era stato assassinato Dagoberto II. Per alloggiarli, fu costruita un'abbazia. I monaci, però, non rimasero a Orval per molto tempo. Nel 1108 erano misteriosamente scompar­si, e non si sa dove si fossero trasferiti. Secondo la tradizione, sarebbero ritornati in Calabria. Nel 1131 Orval era già feudo di san Bernardo.

Può darsi che, prima di abbandonare Orval, i monaci calabresi avessero lasciato un'impronta cruciale nella storia dell'Occidente. Secondo de Sède, tra loro c'era un uomo divenuto famoso più tardi come Pietro l'Eremita. Se è vero, sarebbe estremamente significativo, poiché molti ritengono che Pietro l'Eremita fosse l'istitutore personale di Goffredo di Buglione.7 Ma non è questo a conferirgli la fama più grande. Nel 1095, insieme al papa Urbano II, Pietro si fece conoscere in tutta la cristianità predicando con ardore carismatico la necessità di una crociata, una guerra santa per liberare il sepolcro di Cristo e la Terrasanta dalle mani degli infedeli musulmani. Oggi Pietro l'Eremita è considerato uno dei principali ispiratori delle Crociate.

Basandoci sugli accenni contenuti nei « documenti del Priorato », cominciammo a domandarci se poteva esserci una sorta di continuità fra i monaci di Orval, Pietro l'Eremita e l'Ordine di Sion. Senza dubbio, sembra evidente che i monaci di Orval non fossero semplicemente un gruppo di religiosi itineranti. Al contra­rio, i loro movimenti - l'arrivo nelle Ardenne dalla Calabria e la loro misteriosa sparizione in massa - attestano una sorta di coesio­ne e di organizzazione, e forse l'esistenza di una base permanente situata altrove. E se Pietro faceva parte di questo gruppo di monaci, la sua predicazione per invocare una crociata forse non era stata una manifestazione di fanatismo scatenato, ma di finalità politiche ben calcolate. Se era stato l'istitutore di Goffredo, inol-

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tre, poteva benissimo aver contribuito a indurre il suo allievo a intraprendere la conquista della Terrasanta. E quando i monaci sparirono da Orval, è possibile che non ritornassero in Calabria. Potrebbero essersi stabiliti a Gerusalemme, forse nell'abbazia di Nostra Signora di Sion.

Naturalmente, questa era soltanto un'ipotesi, senza la minima conferma documentale. Anche in questo caso, però, trovammo presto indizi circostanziali che la confermavano. Si sa che, quando s'imbarcò per la Terrasanta, Goffredo di Buglione era accompa­gnato da un gruppo di personaggi anonimi che fungevano da consiglieri e amministratori: in pratica era l'equivalente di uno stato maggiore moderno. Ma quella di Goffredo non fu l'unica armata cristiana che partì per la Palestina. Ce n'erano altre tre, e ognuna era comandata da un illustre e influente potentato occi­dentale. Se la Crociata avesse raggiunto il suo scopo, se Gerusa­lemme fosse caduta e se si fosse fondato un regno franco, ognuno dei quattro potentati avrebbe avuto le carte in regola per aspirare al trono. Sembra tuttavia che Goffredo sapesse in anticipo di essere il prescelto. Unico tra tutti i comandanti europei, rinunciò ai suoi feudi, vendette tutti i suoi beni e lasciò capire chiaramente che la Terrasanta sarebbe diventata il suo dominio per il resto della sua vita.

Nel 1099, subito dopo la caduta di Gerusalemme, certi perso­naggi anonimi si riunirono in un congresso segreto. La loro identi­tà ha eluso tutte le ricerche storiche, anche se Guillaume deTyre, che scrisse tre quarti di secolo più tardi, riferisce che tra loro il più importante era « un vescovo venuto dalla Calabria » .8 In ogni caso, lo scopo della riunione era chiaro: eleggere il re di Gerusa­lemme. E nonostante le convincenti rivendicazioni di Raimondo, conte di Tolosa, i misteriosi ed evidentemente influentissimi elet­tori si affrettarono a offrire il trono a Goffredo di Buglione. Dando prova di una modestia che non gli era affatto caratteristica, Goffredo rifiutò il titolo di sovrano e accettò invece quello di « Difensore del Santo Sepolcro ». In altre parole, divenne re di fatto, anche se non di nome. E quando morì, nel 1100, suo fratello Baldovino non esitò ad accettare il titolo regale.

È possibile che i misteriosi individui riunitisi per eleggere Gof­fredo fossero i monaci di Orval, incluso forse anche Pietro l'Ere-

 

mita che a quel tempo era in Terrasanta e godeva di un'autorità considerevole? È possibile che costoro avessero occupato l'abba­zia sul Monte Sion? Insomma, è possibile che questi tre gruppi apparentemente diversi — i monaci di Orval, gli elettori di Goffre-do e gli occupanti di Nostra Signora di Sion - fossero in realtà uno solo? È una possibilità che non può essere dimostrata, ma non può neppure venire scartata a cuor leggero. E se questo è vero, confer­merebbe sicuramente la potenza dell'Ordine di Sion: una potenza che includeva il diritto di conferire titoli sovrani.

Il mistero che circonda la fondazione dei Templari

II testo incluso nei Dossiers segreti parla poi dell'Ordine del Tem­pio. I fondatori del Tempio sono elencati esattamente così: « Hu-gues de Payen, Bisol de St. Omere Hugues, conte di Champagne, unitamente a certi membri dell'Ordine di Sion, Andre de Montbard, Archambaud de Saint-Agnan, Nivard de Montdidier, Gondemar eRossal ».9

Conoscevamo già Hugues de Payen e Andre de Montbard, lo zio di san Bernardo. Conoscevamo anche Hugues, conte di Champa­gne, che donò il terreno su cui sorse l'abbazia di Bernardo a Clairvaux, divenne Templare nel 1124 (giurando fedeltà al pro­prio vassallo) e ricevette dal vescovo di Chartres la lettera citata nel III capitolo. Ma sebbene i legami fra il conte di Champagne e i Templari fossero ben noti, non lo avevamo mai visto citato come uno dei fondatori: e invece figura tra costoro nei Dossiers segreti. E Andre de Montbard, lo zio di san Bernardo, figura come appar­tenente all'Ordine di Sion, cioè a un altro Ordine, che esisteva prima di quello dei Templari e che ebbe un ruolo fondamentale nella creazione di quest'ultimo.

E non è tutto. Il testo contenuto nei Dossiers afferma che nel marzo 1117 Baldovino I « che doveva il suo trono a Sion », fu « obbligato » a negoziare la costituzione dell'Ordine del Tempio, nella località di Saint Léonard d'Acri. Le nostre ricerche rivelaro­no che Saint Léonard era in effetti uno dei feudi dell'Ordine di Sion. Ma non sapevamo perché mai Baldovino fosse stato « obbli­gato » a negoziare la costituzione del Tempio. In francese, il verbo indica indiscutibilmente una coercizione o una pressione. E l'impli-

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cazione contenuta nei Dossiers era che tale pressione venne eserci­tata dall'Ordine di Sion, al quale Baldovino « doveva il suo trono ». Se era veramente così, l'Ordine di Sion doveva essere un'organizzazione influente e potentissima: un'organizzazione che non soltanto poteva conferire titoli sovrani, ma evidentemen­te poteva costringere un re all'obbedienza.

Se era stato effettivamente l'Ordine di Sion a fare eleggere Goffredo di Buglione, allora Baldovino, fratello minore di Gof-fredo, avrebbe « dovuto il trono » alla sua influenza. Inoltre, come avevamo già scoperto, c'erano le prove incontestabili che l'Ordine del Tempio esisteva, almeno in forma embrionale, già quattro anni prima della data generalmente accettata per la sua fondazione, il 1118. Nel 1117 Baldovino era malato, prossimo alla morte. È quindi possibile che i Cavalieri Templari fossero in attività, sia pure ex officio, molto prima del 1118, magari come braccio armato o amministrativo dell'Ordine di Sion, arroccato nella sua abbazia fortificata. Ed è possibile che re Baldovino, sul letto di morte, fosse costretto - dalla sua infermità, dall'Ordine di Sion o dall'una e dall'altro - a concedere ai Templari un riconosci­mento ufficiale, ad accordare loro una costituzione e rendere pubblica la loro organizzazione.

Già mentre svolgevamo le ricerche sui Templari, avevamo inco­minciato a intravedere una rete di legami intricati e sfuggenti, forse le vestigia nebulose di un disegno molto ambizioso. Sulla base di questi collegamenti avevamo formulato un'ipotesi. Non potevamo sapere se questa ipotesi fosse esatta o no: ma le vestigia di un vasto disegno erano diventate ormai più evidenti. Radunam­mo i frammenti in questo modo:

1)  Verso la fine del secolo XI un misterioso gruppo di monaci calabresi appare nelle Ardenne e riceve un'ottima accoglienza, ottiene pretezione e un appezzamento di terreno a Orval dalla zia e madre adottiva di Goffredo di Buglione.

2)  Un membro di questo gruppo potrebbe essere stato l'istitu­tore di Goffredo e potrebbe aver contribuito a ispirare la Prima Crociata.

3) Qualche tempo prima del 1108 i monaci abbandonano Orval e scompaiono. Benché non ci sia traccia della loro destinazione, può darsi che fosse Gerusalemme. È certo che Pietro l'Eremita s'im-

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barcò per la Terrasanta; e se era uno dei monaci di Orval, è probabile che in seguito i suoi confratelli lo raggiungessero.

4)  Nel 1099 cade Gerusalemme e il trono viene offerto a Gof-fredo da un consesso anonimo, uno dei cui capi, come i monaci di Orval, è di origine calabrese.

5)  Per volontà di Goffredo viene costruita sul Monte Sion un'abbazia, che ospita un ordine dallo stesso nome: un ordine di cui forse facevano parte i personaggi che gli avevano offerto il trono.

6)  Nel 1114 i Cavalieri Templari sono già attivi, forse come braccio armato dell'Ordine di Sion; ma la loro costituzione viene negoziata soltanto nel 1117, e il loro ordine non viene reso pubbli­co fino all'anno successivo.

7)  Nel 1115 san Bernardo - membro dell'Ordine cistercense, che a quel tempo era sull'orlo dello sfacelo economico - s'impone come principale portavoce della cristianità. E i Cistercensi, già ridotti in miseria, diventano una delle istituzioni più eminenti, ricche e influenti d'Europa.

8)  Nel 1131 san Bernardo riceve in dono l'abbazia di Orval, abbandonata diversi anni prima dai monaci venuti dalla Calabria. Orval diventa una sede dei Cistercensi.

9)  Contemporanemente,  certi personaggi oscuri sembrano muoversi di continuo tra questi eventi, componendo l'intero araz­zo in un modo non del tutto chiaro. Il conte di Champagne, ad esempio, dona il terreno per l'abbazia di san Bernardo a Clair-vaux, tiene corte a Troyes, dove nascono in seguito i romanzi del Graal e, nel 1114, progetta di entrare nei Templari, il cui primo Gran maestro, secondo i documenti, è Hugues de Payen, suo vassallo.

10)  Andre de Montbard, zio di san Bernardo e presunto mem­bro dell'Ordine di Sion, insieme a Hugues de Payen fonda ì Templari. Poco dopo, due fratelli di Andre raggiungono san Ber­nardo a Clairvaux.

11)  San Bernardo diviene un ardente propagandista dei Tem­plari, contribuisce al loro riconoscimento ufficiale e alla redazione della loro regola, che è in sostanza quella dei Cistercensi, l'ordine dello stesso Bernardo.

12)  Approssimativamente tra il 1115 e il 1140, i Cistercensi e i

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Templari cominciano a prosperare, e acquisiscono ingenti somme di denaro e grandi proprietà terriere.

Ancora una volta, non potevamo fare a meno di chiederci se questa moltitudine di legami intricati era dovuta soltanto a coinci­denze. Ci trovavamo di fronte a un certo numero di personaggi, di avvenimenti e di fenomeni sostanzialmente irrelati che, per puro caso, di tanto in tanto si sovrapponevano e si incrociavano? Oppu­re si trattava di qualcosa che non era per nulla casuale e incidenta­le? Eravamo alle prese con una specie di piano, concepito e congegnato da un'organizzazione umana? E quell'organizzazione poteva essere stata l'Ordine di Sion?

Era possibile che dietro san Bernardo e i Templari ci fosse veramente l'Ordine di Sion? Era possibile che l'uno e gli altri agissero secondo una precisa strategia politica scrupolosamente pianificata?

Luigi VII e il Priorato di Sion

I « documenti del Priorato » non fornivano indicazioni circa le attività dell'Ordine di Sion tra il 1118 - anno della fondazione pubblica dei Templari - e il 1152. Durante l'intero periodo, sem­brerebbe, l'Ordine di Sion conservò la sua base in Terrasanta, nell'abbazia presso Gerusalemme. Poi, al suo ritorno dalla Secon­da Crociata, Luigi VII di Francia, a quanto si dice, condusse con sé novantacinque membri dell'Ordine. Non si sa a che titolo accom­pagnassero il re, e neppure perché questi dimostrasse loro tanta benevolenza* Ma se l'Ordine di Sion era veramente la potenza che stava dietro ai Templari, questa sarebbe una spiegazione: dato che Luigi VII era debitore nei confronti del Tempio, che gli aveva fornito denaro e aiuti militari. In ogni caso l'Ordine di Sion, creato mezzo secolo prima da Goffredo di Buglione, nel 1152 si insediò -o si reinsediò - in Francia. Secondo il testo, sessantadue membri dell'Ordine furono installati nel « Grande priorato » di Saint-Samson a Orleans, donato loro da re Luigi. Sette entrarono, sembra, nelle file militanti dei Templari. E ventisei- due gruppi di tredici - entrarono invece nel « Piccolo priorato del Monte di Sion », situato a Saint Jean le Blanc, alla periferia di Orleans.'0 . Quando cercammo conferme di queste affermazioni, ci trovam-

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della Giarrettiera. Tuttavia altri resoconti confermano l'avveni­mento, anche se non i suoi dettagli specifici.

Secondo un'altra cronaca, sembra che Filippo avesse informato Enrico della sua intenzione di abbattere l'albero. Enrico reagì rinforzando il tronco dell'olmo con fasce di ferro. L'indomani i Francesi si armarono e formarono una falange di cinque squadro­ni, comandati da altrettanti nobili illustri, che avanzarono verso l'olmo, accompagnati da frombolieri, nonché dai carpentieri che brandivano scuri e martelli. Seguì uno scontro, al quale prese parte Riccardo Cuor di Leone, figlio maggiore ed erede di Enrico II, che cercò di difendere l'olmo con grande spargimento di san­gue. Alla fine della giornata, comunque, i Francesi erano padroni del campo; e l'albero fu abbattuto.

Questa seconda versione indica qualcosa di più di una meschina ripicca o di una scaramuccia. Indica una battaglia in piena regola che coinvolse un gran numero di combattenti e presumibilmente costò perdite rilevanti. Tuttavia nessuna biografia di Riccardo attribuisce molta importanza all'episodio, e tanto meno l'appro­fondisce.

Ancora una volta, comunque, i « documenti del Priorato » trovavano conferma nella storia documentata e nella tradizione; se non altro, è certo che nel 1188 a Gisors ebbe luogo una strana disputa che comportò l'abbattimento di un olmo. Non ci sono conferme « esterne » che questo avvenimento fosse in qualche modo collegato ai Templari o all'Ordine di Sion. D'altra parte, le versioni dell'episodio giunte fino a noi sono troppo vaghe, troppo succinte, troppo incomprensibili e contraddittorie per venire ac­cettate come definitive. È estremamente probabile che fossero presenti alcuni Templari: Riccardo I era spesso accompagnato da Cavalieri dell'Ordine, e inoltre Gisors, trent'anni prima, era stata affidata al Tempio.

In base alle prove esistenti è senza dubbio possibile, se non probabile, che il taglio dell'olmo riguardasse qualcosa di più o qualcosa di diverso rispetto a ciò che rivelano le versioni traman­date ai posteri. Anzi, data la stranezza dei resoconti pervenuti fino a noi, non sarebbe sorprendente se si fosse trattato di qualcosa d'altro, qualcosa su cui si preferì sorvolare, o che forse non venne mai reso di dominio pubblico: insomma, qualcosa di cui le versioni

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oggi esistenti formano una sorta di allegoria, nella quale viene contemporaneamente accennato e nascosto un avvenimento mol­to più importante.

Ormus

Dal 1188 in poi, affermano i « documenti del Priorato », i Templa­ri furono autonomi, non più sottoposti all'autorità dell'Ordine di Sion, e non agirono più come il suo braccio militare e amministra­tivo. Dal 1188 in poi, i Templari furono ufficialmente liberi di perseguire i loro obiettivi e di percorrere il loro cammino durante il secolo o poco più della loro esistenza, fino alla tragica conclusio­ne del 1307. E nel frattempo, sempre a partire dal 1188, l'Ordine di Sion avrebbe subito un'importante ristrutturazione amministra­tiva.

Fino al 1188 l'Ordine di Sion e l'Ordine del Tempio avrebbero avuto lo stesso Gran maestro. Hugues de Payen e Bertrand de Blanchefort, ad esempio, avrebbero presieduto contemporanea­mente le due istituzioni. Tuttavia, a partire dal 1188, dopo « il taglio dell'olmo », l'Ordine di Sion si sarebbe scelto un Gran maestro che non aveva alcun rapporto con i Templari. II primo di questi Gran maestri, secondo i « documenti del Priorato » fu Jean de Gisors.

Nel 1188, inoltre, l'Ordine di Sion avrebbe modificato il suo nome, adottando quello che porterebbe tuttora: Priorato di Sion. E come una sorta di sottotitolo, avrebbe adottato lo strano nome di « Ormus ». Questo sottotitolo sarebbe stato usato fino al 1306, un anno prima dell'arresto dei Templari francesi. L'emblema di « Ormus » era ì^, una specie di acrostico o di anagramma che unisce un certo numero di parole chiave e di simboli. Ours, in francese, significa orso, ilrsus in latino ; come risultò evidente in seguito, era un'eco di Dagoberto II e della dinastia merovingia. Orme, in francese, significa « olmo ». Or, naturalmente, è « oro ». E la «M» che forma la cornice racchiudente le altre lettere non è soltanto una «M»: è anche il simbolo astrologico della Vergine, che nel linguaggio dell'iconografia medievale rappresen­ta Notre Dame.

Le nostre ricerche non portarono alla scoperta di riferimenti a

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un ordine o un'istituzione medievale che avesse portato il nome « Ormus ». In questo caso non potemmo trovare conferme ester­ne per il testo incluso dei Dossiers segreti, e neppure indizi circo­stanziali che permettessero di affermare la veridicità. D'altra par­te, « Ormus » ricorre in altri due contesti radicalmente diversi. Figura nel pensiero zoroastriano e nei testi gnostici, dove è sinoni­mo del principio della luce. E riaffiora di nuovo nelle discendenze vantate dalla massoneria del tardo secolo XVII. Secondo gli inse­gnamenti massonici, Ormus era il nome di un saggio e mistico egizio, un « adepto » gnostico di Alessandria, che sarebbe vissuto nei primi anni dell'era cristiana. Nel 46 d.C. Ormus e sei suoi seguaci sarebbero stati convertiti a una forma di cristianesimo da uno dei discepoli di Gesù, che le versioni più numerose identifica­no come san Marco. Da questa conversione sarebbe nata una nuova setta, o un ordine, che fondeva il credo del cristianesimo di quei tempi con gli insegnamenti di altre scuole misteriche ancora più antiche. A quanto ne sappiamo, questo episodio non trova conferme documentali. Tuttavia è certamente plausibile. Durante il I secolo d.C, Alessandria era una vera fucina di attività misti­che, un crogiolo nel quale le dottrine giudaiche, mitraiche, zoroa-striane, pitagoriche, ermetiche e neoplatoniche aleggiavano nel­l'aria e si fondevano con innumerevoli altre. Abbondavano i mae­stri di ogni tipo possibile e immaginabile; e non sarebbe affatto sorprendente se uno di loro avesse adottato un nome ispirato al principio della luce.

Secondo la tradizione massonica, nel 46 d.C. Ormus avrebbe assegnato al suo « ordine di iniziati » appena costituito uno specia­le simbolo d'identificazione: una croce rossa o rosa. Certo, la croce rossa avrebbe in seguito trovato un'eco nel blasone dei Templari ; ma il significato del testo incluso nei Dossiers segreti e in altri « documenti del Priorato » è inequivocabilmente chiaro. Si deve vedere in Ormus l'origine dei cosiddetti Rosacroce. E nel 1188 il Priorato di Sion avrebbe adottato un secondo sottotitolo, oltre a « Ormus »: avrebbe preso il nome di «Ordre de la Rose-Croix Veritas ».

A questo punto abbiamo avuto l'impressione di trovarci su un terreno molto infido, e il testo contenuto nei « documenti del Priorato » incominciò ad apparire assai sospetto. Conoscevamo le

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affermazioni dei moderni « Rosacroce » della California e di altre organizzazioni contemporanee, i quali rivendicavano a posteriori una discendenza che si perde tra le nebbie dell'antichità e che include quasi tutti i più grandi uomini del mondo. Un « Ordine della Rosacroce » datato 1188 appariva altrettanto spurio.

Come aveva dimostrato in modo convincente Frances Yates, non vi sono a quanto si sa, documenti che provino l'esistenza dei « Rosacroce » (almeno sotto questo nome) prima dell'inizio del XVII secolo, o al massimo prima della fine del XVI.12 Il mito che circonda quest'ordine leggendario 'risale approssimativamente al 1605 e incominciò a prendere slancio un decennio più tardi, con la pubblicazione di tre esaltanti trattati. Questi trattati, che apparve­ro rispettivamente nel 1614,1615 e 1616, proclamavano l'esistenza di una confraternita segreta di « iniziati » mistici, fondata da un certo Christian Rosenkreuz, il quale, si affermava, era nato nel 1378 ed era morto nel 1484, alla bella età di 106 anni. Christian Rosenkreuz e la sua confraternita segreta oggi vengono general­mente considerati fittizi: una specie di falso ideato per qualche scopo che finora nessuno è riuscito a spiegare in modo soddisfa­cente, anche se a quei tempi non fu privo di ripercussioni politiche. Inoltre, oggi si conosce l'autore di uno dei tre trattati, Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz, apparso nel 1616. L'autore era Johann Valentin Andrea, uno scrittore e teologo tedesco vissuto a Wurttemberg, il quale confessò di aver composto Le nozze chimi-che come « Iudibrium »: uno « scherzo », o forse una « comme­dia ,» intesa nel senso dantesco e balzacchiano della parola. Vi è motivo di credere che fosse Andrea, o un suo collaboratore, a comporre anche gli altri trattati « rosacrociani » ; ed è a questa fonte che si può far risalire il « rosacrocianesimo » nella forma in cui si è evoluto ed è conosciuto oggi.

Se i « documenti del Priorato » erano attendibili, tuttavia, avremmo dovuto riconsiderare queste conclusioni e dedurre che non si trattava di un falso del secolo XVII. Avremmo dovuto pensare a una società segreta o a un ordine segreto esistito vera­mente, un'autentica confraternita clandestina. Non era necessario che avesse un carattere interamente o fondamentalmente mistico. Avrebbe anche potuto essere soprattutto politico. Ma sarebbe esistito ben 425 anni prima che'il suo nome divenisse di dominio

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pubblico, e due secoli prima del tempo in cui sarebbe vissuto il suo leggendario fondatore.

Ancora una volta non trovammo indizi o tracce a conferma. Senza dubbio la rosa era un simbolo mistico da tempo immemora­bile, e aveva avuto un particolare spicco durante il Medioevo, ad esempio nel famoso Roman de la Rose di Jean de Meung e nel Paradiso di Dante. Anche la croce rossa era un motivo simbolico tradizionale. Non soltanto era il blasone dei Cavalieri Templari, ma in seguito era diventata la Croce di san Giorgio e, quindi, era stata adottata dall'Ordine della Giarrettiera, istituito una trentina d'anni dopo la caduta del Tempio. Ma anche se le rose e le croci rosse abbondavano come emblemi simbolici, non c'era nulla che indicasse l'esistenza di un'istituzione o di un ordine, e tanto meno di una società segreta legata ad esse.

D'altra parte, Frances Yates sostiene che erano in attività varie società segrete molto tempo prima della nascita dei « rosacrocia-ni » nel secolo XVII e che quelle società erano in effetti « rosacro-ciane » nell'orientamento politico e filosofico, se non nel nome.13 Parlando con uno dei nostri ricercatori, ad esempio, Frances Yates disse che Leonardo era stato un « rosacrociano » usando il termine in senso metaforico per definire la sua mentalità e i suoi valori.

E non basta. Nel 1629, quando in Europa l'interesse per i « rosacrociani » era al culmine, un certo Robert Denyau curato di Gisors, compose una storia minuziosa di Gisors e della famiglia de Gisors. Nel manoscritto, Denyau afferma esplicitamente che la società della Rosacroce era stata fondata da Jean de Gisors nel 1188. In altre parole, esiste una conferma del secolo XVII per le affermazioni contenute nei « documenti del Priorato ». Certo, il manoscritto di Denyau fu redatto ben quattro secoli e mezzo dopo la presunta fondazione. Tuttavia costituisce un indizio estrema­mente importante. E il fatto che provenga da Gisors lo rende più importante ancora.14                                                     c

Comunque, quella che ci trovavamo per le mani non era una conferma, ma soltanto una possibilità. Fino a quel momento, però, i « documenti del Priorato » avevano dato prova di essere sorprendentemente esatti sotto ogni aspetto. Quindi, sarebbe sta­ta una decisione avventata liquidarli con leggerezza. Non eravamo

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disposti ad accettarli per fede, a occhi chiusi. Ma ci sentivamo in dovere di riservarci il giudizio.

Il Priorato a Orleans

Oltre alle loro affermazioni più grandiose, i « documenti del Prio­rato » contenevano informazioni di un tipo molto diverso, minu­zie in apparenza così banali e inconseguenti che il loro significato ci sfuggiva. Nel contempo, proprio la scarsa importanza di queste notizie appariva come un punto a favore della loro veridicità. Sembrava che non vi fosse nessun motivo per inventare o manipo­lare dettagli tanto trascurabili. E soprattutto, era possibile trovare conferma dell'autenticità di molti di quei dettagli.

Ad esempio, nei « documenti del Priorato » è detto che Girard, abate del « Piccolo Priorato » di Orleans tra il 1239 e il 1244, aveva ceduto un appezzamento di terreno, ad Acri, ai Cavalieri Teutoni­ci. Non si capisce perché questo fatto debba meritare una menzio­ne: tuttavia è indiscutibilmente documentato. Esiste l'atto di ces­sione, che porta la data del 1239 e la firma di Girard.

Informazioni dello stesso genere, anche se più indicative, ven­gono date sul conto di un abate di nome Adam, che nel 1281 presiedeva il « Piccolo Priorato » di Orleans. In quell'anno, se­condo i « documenti del Priorato », Adam cedette un terreno presso Orval ai monaci che allora vivevano in quell'abbazia, i Cistercensi che vi si erano trasferiti, sotto l'egida di san Bernardo, un secolo e mezzo prima. Non riuscimmo a trovare conferme documentali di questa cessione, ma appare piuttosto plausibile: esistono atti che attestano parecchie altre transazioni del genere. A renderla interessante, ovviamente, è il nome di Orval, che era già prima apparso nella nostra indagine. Inoltre, sembra che il terreno in questione avesse una particolare importanza, perché i « documenti del Priorato » ci dicono che a causa di questa dona­zione Adam incorse nell'ira del confratelli di Sion, al punto che fu costretto a dimettersi. L'atto di abdicazione, secondo i Dossiers segreti, ebbe come testimone Thomas de Sainville, Gran maestro dell'Ordine di San Lazzaro. Subito dopo, Adam si era recato ad Acri; quindi era fuggito quando la città era caduta nelle mani del Saraceni, ed era morto in Sicilia nel 1291.

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Non riuscimmo a trovare l'atto di abdicazione di Adam. Ma Thomas de Sainville era Gran maestro dell'Ordine di San Lazzaro nel 1281 e la sede centrale di San Lazzaro era nei pressi di Orleans, dove avrebbe avuto luogo l'abdicazione di Adam. E non ci sono dubbi circa il fatto che Adam si recò ad Acri: in quella città firmò due proclamazioni e due lettere, le prime nell'agosto 1281,IS le seconde nel marzo 1289. '6

La « testa » dei Templari

Secondo i « documenti del Priorato », il Priorato di Sion non era, a stretto rigore, un organismo che perpetuava o continuava l'Ordi­ne del Tempio; al contrario, il testo sottolinea enfaticamente che la separazione tra i due ordini risale al «taglio dell'olmo » avvenu­to nel 1188. Apparentemente, però, continuarono a esistere rap­porti, e « nel 1307 Guillaume de Gisors ricevette la testa d'oro, Caput LVIII  JTJ, dall'Ordine del Tempio ». "

La nostra indagine sui Templari ci aveva già fatto conoscere questa testa misteriosa. Tuttavia, il collegamento con Sion e con l'importante famiglia de Gisors ci appariva dubbio, come se i « documenti del Priorato » cercassero di stabilire legami potenti ed evocativi. Eppure fu precisamente su questo punto che trovam­mo una delle conferme più concrete e inquietanti. Secondo i verbali dell'Inquisizione:

11 custode e amministratore dei beni del Tempio a Parigi, dopo gli arresti, era un uomo del re, chiamato Guillaume Pidoye. L'11 maggio 1308, davanti agli inquisitori, egli dichiarò che al tempo dell'arresto dei Cava­lieri Templari, aveva ricevuto, insieme al suo collega Guillaume de Gisors e a un certo Raynier Bourdon, l'ordine di presentare all'Inquisizione tutte le statue di metallo o di legno che avessero trovato. Tra i beni del Tempio essi avevano rinvenuto una grande testa d'argento dorato... l'immagine di una donna, che 1*11 maggio Guillaume presentò all'Inquisizione. La testa portava una dicitura, « caput Lvnim ».18

Se la testa continuava a lasciarci perplessi, il contesto in cui compariva Guillaume de Gisors era non meno sconcertante. È citato esplicitamente come un collega di Guillaume Pidoye, uno degli uomini del re Filippo. In altre parole, sembrerebbe che, come Filippo, fosse ostile ai Templari e partecipasse all'attacco sferrato contro di loro. Tuttavia, secondo i « documenti del Prio-

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rato », a quel tempo Guillaume era Gran maestro del Priorato di Sion. Questo significa che Sion appoggiò l'azione intrapresa da Filippo contro il Tempio, e che forse vi collaborò addirittura? Vi sono certi « documenti del Priorato » che sembrano confermare questa possibilità: Sion, in modi che non sono specificati, consentì e contribuì allo scioglimento dei suoi indisciplinati ex-protetti. D'altra parte, i « documenti del Priorato » indicano anche che Sion protesse paternamente almeno certi Templari durante gli ultimi tempi dell'esistenza dell'Ordine. Se questo è vero, è ben possibile che Guillaume de Gisors facesse il doppio gioco. Potrebbe essere stato lui il responsabile della « fuga di notizie » circa le intenzio­ni di Filippo, avvertendo in anticipo i Templari delle macchinazio­ni del re. Se, dopo la separazione ufficiale del 1188, Sion ave­va continuato effettivamente a esercitare una specie di control­lo clandestino sulle attività del Tempio, è possibile che Guillaume de Gisors fosse in parte responsabile della meticolosa distruzione dei documenti dell'Ordine... e dell'inspiegata sparizione del suo tesoro.

I Gran maestri dei Templari

Oltre alle notizie frammentarie discusse più sopra, il testo conte­nuto nei Dossiers segreti include tre elenchi di nomi. Il primo è abbastanza semplice; è il meno interessante e il meno soggetto a controversie e dubbi, poiché è soltanto un elenco degli abati che presiedettero sulle terre di Sion in Palestina tra il 1152 e il 1281. Le nostre ricerche ne confermarono la veridicità; l'elenco appare altrove, indipendentemente dai Dossiers segreti, in fonti accessibi­li e inoppugnabili. '9 Gli elenchi riportati in queste fonti concorda­no con quello dei Dossiers segreti; nelle fonti mancano soltanto due nomi. In questo caso, dunque, i « documenti del Priorato » non soltanto concordano con la storia accertata, ma sono più completi perché colmano certe lacune.

Il secondo elenco dei Dossiers è un elenco dei Gran maestri dei Cavalieri Templari del 1118 al 1190: in altre parole, dalla fonda­zione pubblica del Tempio fino alla sua separazione da Sion e al « taglio dell'olmo » a Gisors. A prima vista, l'elenco non aveva nulla di insolito o di straordinario. Ma quando lo comparammo

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con altri elenchi, ad esempio quelli citati da storici autorevoli, affiorarono subito alcune evidenti discrepanze.

Secondo quanto affermano virtualmente tutti gli altri elenchi conosciuti, tra il 1118 e il 1190 vi furono dieci Gran maestri. Secondo i Dossiers furono soltanto otto. Secondo quasi tutti gli altri elenchi, Andre de Montbard, lo zio di san Bernardo, non fu soltanto uno dei fondatori dell'Ordine, ma anche il suo Gran maestro tra il 1153 e il 1156. Invece, secondo i Dossiers, Andre non divenne mai Gran maestro; sembra che continuasse a eserci­tare la sua influenza restando nell'ombra, come aveva sempre fatto. Secondo quasi tutti gli altri elenchi, Bertrand de Blanche-fort fu il sesto Gran maestro del Tempio, e assunse la carica dopo Andre de Montbard, nel 1156. Nei Dossiers, Bertrand non fu il sesto in ordine di successione, bensì il quarto, e divenne Gran maestro nel 1153. C'erano altre discrepanze e contraddizioni, e non sapevamo cosa pensarne. Dovevamo considerare errato l'e­lenco dei Dossiers perché non concordava con quelli compilati da storici autorevoli?

Dobbiamo ricordare che non esiste un elenco ufficiale o definiti­vo dei Gran maestri del Tempio: non è stato conservato e traman­dato ai posteri. I documenti del Tempio furono distrutti o fatti sparire, e la più antica compilazione conosciuta dei Gran maestri dell'Ordine è del 1342: trent'anni dopo la soppressione dell'Ordi­ne stesso, e duecento venticinque anni dopo la sua fondazione. Di conseguenza, gli storici che compilarono elenchi dei Gran maestri si sono basati sui cronisti coevi, ad esempio su un autore che, scri­vendo nel 1170, accenna di sfuggita a un « Maestro » o « Gran maestro » del Tempio. Altre prove si possono trovare esaminando i documenti e gli atti di quel periodo, nei quali l'uno o l'altro dignitario dei Templari aggiungeva il suo titolo alla firma. Perciò è tutt'altro che sorprendente che la sequenza e le date di Gran maestri generino incertezze e confusioni; e che la sequenza e le date divergano, a volte clamorosamente, da un autore all'altro, da un'opera all'altra.

C'erano tuttavia alcuni dettagli importantissimi - come quelli riassunti più sopra - in cui i « documenti del Priorato » deviavano in modo significativo da tutte le altre fonti. Quindi non potevamo ignorare tali deviazioni. Dovevamo accertare, per quanto era

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possibile, se l'elenco dei Dossiers segreti era inficiato dalla trascu­ratezza o dall'ignoranza; o per contro se l'elenco era veramente definitivo, basato su informazioni « interne », non accessibili agli storici. Se Sion aveva creato i Cavalieri Templari e se Sion (o almeno il suo archivio) era sopravvissuto fino ai nostri giorni, si poteva ragionevolmente supporre che fosse a conoscenza di detta­gli non reperibili altrove.

Quasi tutte le discrepanze tra l'elenco dei Dossiers segreti e quelli delle altre fonti si possono spiegare abbastanza facilmente. A questo punto, non è il caso di approfondirle e di chiarirle una a una. Ma un solo esempio dovrebbe bastare a illustrare come e perché tali discrepanze poterono prodursi. Oltre al Gran maestro, il Tempio aveva una quantità di Maestri locali: uno per l'Inghilter­ra, per la Normandia, l'Aquitania, per tutti i territori dove si trovavano i suoi domìni. C'era anche un Maestro per l'Europa e, a quanto sembra, un Maestro marittimo. Nei documenti e negli atti, questi maestri locali e regionali si firmavano invariabilmente « Magister Templi », « Maestro del Tempio ». E molto spesso il Gran maestro, per modestia, noncuranza, indifferenza o alterigia, si firmava semplicemente « Magister Templi ». In altre parole, Andre de Montbard, Maestro del territorio di Gerusalemme, in un documento avrebbe avuto, dopo il suo nome, la stessa designa­zione del Gran maestro, Bertrand de Blanchefort.

Non è difficile, quindi, capire come uno storico, lavorando in base a uno o due documenti e senza controllare le fonti, possa interpretare in modo errato la vera posizione di Andre nell'Ordi­ne. Appunto a causa di questi errori, molti elenchi dei Gran maestri includono un certo Everard des Barres. Ma il Gran mae­stro, secondo le costituzioni del Tempio, doveva essere eletto da un capitolo generale a Gerusalemme, e doveva risiedere in quella città. Le nostre ricerche rivelarono che Everard des Barres era un Maestro regionale, eletto in Francia e residente in Francia, e non si era recato in Terrasanta se non molto più tardi. Perciò poteva venire escluso dall'elenco dei Gran maestri, come infatti era esclu­so nei Dossiers segreti. E appunto in queste sottigliezze accademi-che i « documenti del Priorato » dimostravano una meticolosa precisione, che non potevamo immaginare certo costruita a poste­riori.

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Impiegammo più di un anno per esaminare e comparare i vari elenchi dei Gran maestri Templari. Consultammo tutte le opere sull'Ordine, in inglese, in francese e in tedesco, e poi controllam­mo le loro fonti. Esaminammo le cronache del tempo - come quella di Guillaume de Tyre - e altre notizie coeve. Consultammo tutti gli atti che riuscimmo a trovare, e ci procurammo informazio­ni precise su tutti quelli che risultavano ancora esistenti; Compa­rammo le firme e i titoli su numerosi editti, proclamazioni, atti di proprietà e altri documenti dei Templari. Al termine di questa approfondita indagine, risultò evidente che l'elenco dei Dossiers segreti era più esatto di tutti gli altri, non solo per quanto riguarda­va l'identità dei Gran maestri, ma anche le date e la durata dei rispettivi incarichi. Se esisteva un elenco definitivo dei Gran mae­stri del Tempio, era appunto quello dei Dossiers.20

L'esattezza dell'elenco non era importante soltanto in se stessa. Le implicazioni erano molto più vaste. Certo, l'elenco poteva essere stato compilato da un ricercatore estremamente attento e scrupoloso; ma sarebbe stata un'impresa monumentale. Ci sem­brava molto più probabile che un elenco tanto preciso attestasse l'esistenza di un patrimonio di notizie privilegiate, inaccessibili agli storici.

Fossero o no giustificate le nostre conclusioni, ci trovavamo di fronte a un fatto incontestabile: qualcuno, chissà come, aveva avuto accesso a un elenco più preciso di tutti gli altri. E poiché quell'elenco, sebbene divergesse da altri accettati dagli storici, risultava tanto spesso esatto, conferiva una considerevole credibi­lità ai « documenti del Priorato » nel loro complesso. Se i Dossiers erano dimostrabilmente attendibili sotto questo aspetto importan­tissimo, c'erano meno ragioni di dubitarne in altri casi.

Questa assicurazione era tempestiva e necessaria. Altrimenti, forse avremmo scartato a prima vista il terzo elenco dei Dossiers, quello dei Gran maestri del Priorato di Sion. Questo terzo elenco, infatti, appariva assurdo anche a un esame superficiale.' ^

Note

1   Grousset, Histoire des croisades, voi. III., p. XIV.

2  Voglie, Les eglises, p. 326.

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3 Vincent, Histoìre de l'anciene image, pp. 92 sgg. ■* Ròhricht, « Regesta », p. 19, n. 83.

5  Ibid.,p. 25, n. 105.

6  Tillière, Histoire... d'Ornai, pp. 3 sgg.

7   Jeantin, Les chroniques, voi. 1, p. 398. In Le vra< e/ le fatue sur Pierre l'Hermite, di Hagenmeyer, si afferma che prima di diventare monaco Pietro era un nobile, possedeva il feudo di Achères presso Amiens ed era vassallo di Eustachio di Boulogne, il padre di Goffredo. Cfr. pp. 58 sgg. Hagenmeyer, tuttavia, non crede che Pietro fosse l'istitutore di Goffredo.                                          '       i

È evidente che Pietro godeva di un grande prestigio perché dopo la presa di Gerusalemme l'esercito crociato intraprese un'altra campagna e lasciò la città affidata a lui.

8  Guillaume de Tyre, Storia delle gesta in Oltremare (nella versione inglese, WilliamofTyre, History of DeedsDoneBeyondthèSea, voi. l,p. 380). Cfr. inoltre Runciman, History ofthe Crusades, voi. 1, p. 292. Lo stesso vescovo venuto dalla Calabria era amico di un certo Arnulf (Arnolfo), un oscuroecclesiastico che, con l'aiuto del vescovo, in seguito fu eletto primo patriarca latino di Gerusalemme!

Dalla precedente « crociata del popolo » sopravvisse uno strano gruppo, quello dei Tafur, che acquisirono una certa notorietà quando alcuni di loro furono accusati di cannibalismo dall'emiro di Antiochia1. Questo gruppo aveva un « colle­gio » interno presieduto da un Re Tafur. Le cronache contemporanee presentano il Re Tafur come un uomo al quale gli stessi principi crociati si accostano con umiltà e reverenza. Si dice che fu questo Re Tafur a incoronare Goffredo di Buglione. Inoltre, si afferma che avesse legami con Pietro l'Eremita. È possibile che questo gruppo ristretto e il re fossero i rappresentanti venuti dalla Calabria? Il nome Tafur, con la sostituzione di una lettera, potrebbe essere l'anagramma di Artus, un nome rituale. Per un riepilogo relativo all'influenza dei Tafur eh. Cohn, Pursnitof thè Millennium, pp. 66 sgg.

9  Lobineau, H., Dossiers secrets, planche n. 4.

10  Ibid.

". Archives du Loiret, sèrie D. 357. Cfr. anche Rey, E.-G., «Chartes...du Mont-Sion », pp. 31 sgg. e Le Maire, Histoire et Antiquitez, parte 2, cap. XXVI, pp. 96 sgg-

12  Yates, Rosicrucian Enlightenmenì.                                                           '

13  Cfr. ad esempio Yates, Giordano Bruno, pp. 312 sgg., e Yates, OccultPhilqsop-hy, p, 38. Nelle due opere Frances Yates esplora la trasmissione del pensiero ermetico e le società segrete sorte intorno ai personaggi centrali.                , i

14  Questa notizia è stata fornita da fonti del Priorato. Abbiamo visto il manoscritto nella Bibliothèque de Rouen, Histoire polytique de Gisors etdupaysde Vulcsain, di Robert Denyau, 1629 (Collezione Montbret 2219, V 14a). È molto difficile accer­tare l'esattezza delle informazioni. Delle 575 pagine manoscritte, moltissime sono appena leggibili e molte mancano, mentre altre sono state tagliate, oppure parzial-

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VI

I Gran maestri e il fiume sotterraneo

Nei Dossiers segreti sono elencati i seguenti personaggi che, in ordine cronologico, hanno portato il titolo di Gran maestro del Priorato di Sion o più esattamente, per usare il termine ufficiale, il titolo di « Nautonnier », una vecchia parola francese che significa « navigatore », « timoniere » o « nocchiero » :

Jean de Gisors

1188-1220

Marie de Gisors

1220-1266

Guillaume de Gisors

1266-1307

Edouard de Bar

1307-1336

Jeanne de Bar

1336-1351

Jean de Saint-Clair

1351-1366

Bianche d'Evreux

1366-1398

Nicolas Flamel

1398-1418

Rene d'Anjou

1418-1480

Iolande de Bar

1480-1483

Sandro Filipepi

1483-1510

Léonard de Vinci

1510-1519

Connétable de Bourbon

1519-1527

Ferdinand de Gonzague

1527-1575

Louis de Nevers

1575-1595

Robert Fludd

1595-1637

J. Valentin Andrea

1637-1654

Robert Boyle

1654-1691

Isaac Newton

1691-1727

Charles Radclyffe

1727-1746

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Charles de Lorraine

1746-1780

Maximilien de Lorraine

1780-1801

Charles Nodier

1801-1844

Victor Hugo

1844-1885

Claude Debussy

1885-1918

Jean Cocteau

1918-

La prima volta che lo vedemmo, questo elenco suscitò subito il nostro scetticismo. Da una parte include molti nomi che ci si aspetterebbe automaticamente di trovare, nomi di personaggi famosi legati a tradizioni « occulte » o « esoteriche ». Dall'altra, comprende anche molti nomi illustri e improbabili, personaggi che, in certi casi, non immagineremmo mai a capo di una società segreta. Nel contempo, però, molti di questi ultimi nomi appar­tengono esattamente alla categoria che certe organizzazioni del XX secolo hanno spesso cercato di « annettersi » per crearsi una sorta di genealogia spuria. Ad esempio, vi sono elenchi pubblicati dall'AMORC, il moderno ordine « rosacrociano » con base in Cali-fornia, che includono virtualmente tutti i personaggi importanti della storia e della cultura occidentale i cui valori, anche se tangen­zialmente, coincidevano con quelli dell'Ordine. Spesso una con­vergenza di mentalità e di princìpi viene sfruttata e presentata come l'appartenenza alla società segreta. Perciò ci sentiamo dire che Dante, Shakespeare, Goethe e innumerevoli altri erano «ro-sacrociani », il che implicherebbe che erano regolarmente iscritti e pagavano le quote associative.

All'inizio, la nostra presa di posizione nei confronti dell'elen­co riprodotto più sopra fu altrettanto scettica. Anche qui vi sono nomi prevedibili, associati a tradizioni « occulte » ed « esote­riche ». Nicolas Flamel, ad esempio, è forse il più famoso degli alchimisti medievali, e quello sul quale esiste la documentazione più probante. Robert Fludd, filosofo vissuto nel secolo XVII, era un esponente del pensiero ermetico e di altre tradizioni arcane. Johann Valentin Andrea, tedesco e contemporaneo di Fludd, scrisse tra l'altro alcune delle opere dalle quali nacque il mito del favoloso Christian Rosenkreuz. E vi sono anche personaggi come Leonardo da Vinci e Sandro Filipepi, meglio noto come Botticelli. Vi sono i nomi di illustri scienziati, come Robert Boyle e Isaac

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Newton. E negli ultimi due secoli, tra i Gran maestri del Priorato di Sion vi sarebbero stati importanti esponenti della cultura e del­l'arte come Victor Hugo, Claude Debussy e Jean Cocteau.

Poiché includeva questi nomi, l'elenco dei Dossiers segreti non poteva non apparire sospetto. Era quasi inconcepibile che alcuni dei personaggi citati avessero presieduto una società segreta, e in particolare una società segreta votata a interessi « occulti » ed « esoterici ». Boyle e Newton, ad esempio, non sono affatto nomi che il pubblico del XX secolo può associare all'occultismo e all'e­soterismo. E anche se Hugo, Debussy e Cocteau si interessavano attivamente a queste discipline, sembrano troppo ben conosciuti, grazie alle ricerche e alle documentazioni, per essere stati « Gran maestri » di un ordine segreto senza che qualcosa trapelasse.

D'altra parte, i nomi illustri non sono i soli che appaiono nell'e­lenco. Quasi tutti gli altri appartengono a nobili europei, molti dei quali sono estremamente oscuri, sconosciuti o quasi non soltanto al grosso pubblico ma persino agli storici. C'è Guillaume de Gi-sors, ad esempio, che nel 1306 avrebbe organizzato il Priorato di Sion come una « massoneria ermetica ». E c'è il nonno di Guillau­me, Jean de Gisors, che viene presentato come il primo Gran maestro indipendente di Sion, e che avrebbe assunto la carica nel 1188, dopo il « taglio dell'olmo » e la separazione dal Tempio. Non c'è dubbio, che Jean de Gisors sia veramente esistito. Nacque nel 1133 e morì nel 1220. È menzionato in vari documenti, ed era signore, almeno nominalmente, della famosa fortezza normanna, dove si svolgevano per tradizione gli incontri fra i re d'Inghilterra e di Francia, e dove avvenne nel 1188 l'episodio del « taglio dell'ol­mo ». Sembra che Jean fosse un proprietario terriero molto ricco e potente, e fino al 1193 fu vassallo del re d'Inghilterra. Si sa inoltre che possedeva proprietà in Inghilterra, e precisamente nel Sussex, oltre al maniero di Titchfield nello Hampshire.2 Secondo i Dos­siers segreti, nel 1169 s'incontrò a Gisors con Tommaso Becket, sebbene non sia indicato lo scopo del colloquio. Trovammo la conferma che Becket andò effettivamente a Gisors nel 1169,3 e quindi è probabile che avesse qualche contatto con il signore della fortezza; ma non riuscimmo a trovare documenti che provassero un effettivo incontro fra i due.

Insomma, a parte pochi dettagli, Jean de Gisors restava virtual-

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mente nebuloso. Sembrava che non avesse lasciato tracce nella storia, a parte la sua esistenza e il suo titolo. Non riuscimmo a scoprire che cosa avesse fatto di importante, che cosa giustificasse la sua elezione a Gran maestro di Sion. Se l'elenco dei presunti Gran maestri di Sion era autentico, cosa aveva fatto Jean per meritarsi un posto? E se l'elenco era un falso recente, perché doveva includere un personaggio tanto oscuro?

Ci parve che vi fosse una sola spiegazione possibile, anche se in pratica non spiegava molto. Come tutti gli altri aristocratici inclusi nell'elenco dei Gran maestri di Sion, Jean de Gisors appariva nelle complicate genealogie che figuravano in altri « documenti del Priorato ». Non diversamente da questi altri nobili altrettanto elusivi, apparteneva alla stessa intricatissima foresta di alberi ge­nealogici, tutti discesi, in apparenza, dalla dinastia merovingia. Perché ci sembrava evidente che il Priorato di Sion, almeno in misura significativa, fosse una faccenda di famiglia. In un certo senso, l'Ordine sembrava intimamente legato a una stirpe e a un lignaggio. E forse l'appartenenza a questa stirpe giustificava la presenza dei vari nomi titolati nell'elenco dei Gran maestri.

In base all'elenco riportato all'inizio di questo capitolo, sembre­rebbe che la carica di Gran maestro di Sion passasse in modo ricorrente tra due gruppi di individui essenzialmente distinti. Da una parte ci sono i personaggi di statura monumentale che, tramite l'esoterismo, le arti o le scienze, hanno esercitato un influsso sulla tradizione, la storia e la cultura dell'Occidente. Dall'altra vi sono annoverati i membri di una specifica rete di famiglie intercollega-te, nobili e talvolta reali. In una certa misura, questa strana giustapposizione conferiva plausibilità all'elenco. Se qualcuno avesse semplicemente voluto « inventare » una discendenza idea­le per Sion, non avrebbe avuto motivo di includervi tanti aristocra­tici sconosciuti o dimenticati. Non avrebbe avuto senso, ad esem­pio, includere un personaggio come Carlo di Lorena, feldmare­sciallo austriaco del secolo XVIII, cognato dell'imperatrice Maria Teresa, che si mostrò straordinariamente inetto sul campo di battaglia e fu sconfitto in uno scontro dopo l'altro da Federico il Grande di Prussia.

Almeno sotto questo punto di vista, il Priorato di Sion darebbe prova di modestia e di realismo. Non sostiene di svolgere la sua

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attività sotto gli auspici di geni non meglio qualificati, di « Maestri » sovrumani, di « iniziati » illuminati, di santi, saggi o immortali. Al contrario, riconosce che i suoi Gran maestri sono stati esseri umani fallibili, rappresentativi dell'intera umanità: qualche genio, qualche notabile, qualche « individuo medio », qualche nullità e persino qualche incapace.

Non potevamo fare a meno di domandarci: un elenco falsificato o inventato di sana pianta avrebbe incluso una simile gamma? Se qualcuno voleva fabbricare un elenco di Gran maestri, perché non scegliere tutti nomi illustri? Se aspirava a inventare una successio­ne che includesse Leonardo, Newton e Victor Hugo, perché non includervi anche Dante, Michelangelo, Goethe eTolstoj, anziché personaggi oscuri come Edouard de Bar e Massimiliano di Lore-na? E ancora, perché nell'elenco c'erano tanti individui « minori »? Perché uno scrittore relativamente di secondo piano come Charles Nodier, anziché un suo contemporaneo come Byron o Puskin? Perché un « eccentrico » come Cocteau anziché uomini di prestigio internazionale come Andre Gide o Albert Camus? E perché venivano omessi personaggi come Poussin, il cui legame con il mistero era già stato accertato? Questi interrogativi ci assil­lavano, e indicavano che l'elenco meritava un attento esame, prima che fosse possibile liquidarlo come un falso sfacciato.

Intraprendemmo quindi un lungo, dettagliato studio dei pre­sunti Gran maestri: le loro biografie, le loro attività, le loro quali­tà. Svolgendo tale studio cercammo, per quanto era possibile, di sottoporre ogni nome dell'elenco al vaglio di certi interrogativi critici:

1) C'era qualche contatto personale, diretto o indiretto, tra ogni presunto Gran maestro, il suo immediato predecessore e il suo immediato successore?

2) Esisteva qualche affiliazione, di sangue o no, tra ogni presun­to Gran maestro e le famiglie che figuravano nelle genealogie dei « documenti del Priorato », con le famiglie di pretesa discendenza merovingia, e in particolare con la casa ducale diLorena?

3)  Ogni presunto Gran maestro era collegato in qualche modo con Rennes-le-Chàteau, Gisors, Stenay, Saint Sulpice o qualcuna delle altre località che ricorrevano precedentemente nella nostra indagine?

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4) Se Sion si autodefiniva « una massoneria ermetica », ognuno dei presunti Gran maestri mostrava una propensione per il pensie­ro ermetico o aveva legami con qualche società segreta?

Anche se era difficile e talvolta impossibile procurarsi informa­zioni sui presunti Gran maestri prima del 1400, l'indagine che svolgemmo sui personaggi del periodo successivo diede risultati coerenti e sorprendenti. Molti di loro erano collegati, in un modo o nell'altro, con una o più di una delle località che apparivano tanto importanti: Rennes-le-Chàteau, Gisors, Stenay o Saint Sul-pice. Quasi tutti i personaggi dell'elenco avevano legami di sangue con la casa di Lorena, o vi erano associati in qualche altro modo; persino Robert Fludd, ad esempio, era stato istitutore dei figli del duca di Lorena. A partire da Nicolas Flamel ogni individuo elen­cato, senza eccezione, conosceva molto bene il pensiero ermetico, e spesso era legato a società segrete, e questo valeva anche per uomini che istintivamente nessuno penserebbe di associare a tali attività, come Boyle e Newton. E con una sola eccezione, ognuno dei presunti Gran maestri aveva qualche contatto — a volte diretta­mente , a volte tramite amici intimi comuni - con quello che l'aveva preceduto e con quello che era venuto dopo di lui. Per quanto potemmo accertare, c'era una sola apparente « frattura nella cate­na ». E anche questa, che sembra avvenisse al tempo della Rivolu­zione francese, fra Massimiliano di Lorena e Charles Nodier, non è per nulla provata.

Nel contesto di questo capitolo non è possibile discutere detta­gliatamente ognuno dei presunti Gran maestri. Alcuni dei perso­naggi più oscuri assumono un significato solo sullo sfondo di una data epoca, e per spiegare compiutamente questo significato sa­rebbero necessarie lunghe digressioni tra gli angoli dimenticati nella storia. Nel caso dei nomi più famosi, sarebbe impossibile render loro giustizia in poche pagine. Perciò, il materiale biografi­co pertinente relativo ai presunti Gran maestri e ai legami tra loro è stato incluso nell'appendice. Il presente capitolo si occuperà invece degli'sviluppi sociali e culturali più ampi, nei quali ebbero una parte collettiva alcuni dei presunti Gran maestri. Fu appunto in questi sviluppi sociali e culturali che le nostre ricerche rivelaro­no in apparenza una traccia riconoscibile dell'influenza del Priora­to di Sion.                                                       '

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Renato d'Angiò

Sebbene oggi sia poco noto, Renato d'Angio - « il buon re Rene », come veniva chiamato - fu uno dei personaggi più impor­tanti della cultura europea negli anni immediatamente precedenti al Rinascimento. Nato nel 1408, nel corso della sua vita divenne detentore di una sfilza impressionante di titoli. Fra i più importanti c'erano i seguenti: conte di Bar, di Provenza, di Piemonte, e di Guisa, duca di Calabria, d'Angiò, e di Lorena, re d'Ungheria, di Napoli e Sicilia, d'Aragona, di Valenza, di Maiorca e Sardegna, e, quello forse più altisonante di tutti, di Gerusalemme. Natural­mente, quest'ultimo era un titolo soltanto nominale. Tuttavia indicava una continuità che risaliva a Goffredo di Buglione, ed era riconosciuto dagli altri potentati europei. Una delle figlie di Rena­to, Margherita d'Angiò, sposò nel 1445 Enrico VI d'Inghilterra, ed ebbe un ruolo di grande rilievo nella Guerra delle due rose.

Nei primi tempi della sua « carriera », Renato d'Angiò sembra legato in modo piuttosto oscuro a Giovanna d'Arco. A quanto si sa, Giovanna era nata nel paesetto di Domrémy, nel ducato di Bar, e quindi era suddita di Renato. Si impose per la prima volta all'attenzione della storia del 1429, quando arrivò alla fortezza di Vaucouleurs, situata sulla Mosa a pochi chilometri più a monte di Domrémy. Si presentò al comandante della fortezza e annunciò la sua « missione divina » : salvare la Francia dagli invasori inglesi e far sì che il delfino, il futuro Carlo VII, fosse incoronato re. Per adempiere tale missione, avrebbe dovuto raggiungere il delfino alla sua corte di Chinon, sulla Loira, molto più a sud-ovest. Ma Giovanna non chiese al comandante di Vaucouleurs i mezzi per raggiungere Chinon; chiese invece di essere ricevuta dal duca di Lorena, suocero e prozio di Renato.

L'udienza fu accordata a Giovanna nella capitale del duca, Nancy. Quando la Pulzella vi arrivò, si sa che Renato d'Angiò era presente. E quando il duca di Lorena le chiese che cosa desidera­va, Giovanna rispose esplicitamente con parole che hanno sempre sconcertato gli storici: « Vostro figlio [genero], un cavallo e alcuni uomini valenti per portarmi in Francia ».4

A quei tempi, non meno che in seguito, correvano voci di ogni sorta circa la natura dei rapporti tra Renato e Giovanna. Secondo

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alcune fonti, probabilmente inesatte, i due erano amanti. Ma resta il fatto che si conoscevano, e che Renato era presente quando Giovanna intraprese la sua missione. Inoltre, i cronisti del tempo affermano che quando Giovanna partì per raggiungere la corte del delfino a Chinon, Renato l'accompagnò. E non è tutto. Gli stessi cronisti riferiscono che Renato era a fianco dell'eroina durante l'assedio di Orleans.5 Nei secoli che seguirono, sembra siano stati fatti tentativi sistematici per espungere ogni traccia del possibile ruolo avuto da Renato nella vita di Giovanna. Tuttavia i biografi di Renato non sono in grado di spiegare dove fosse e cosa facesse tra il 1429 e il 1431, al culmine della « carriera » di Giovanna. Di solito si sottintende tacitamente che Renato vegetava alla corte ducale, a Nancy: ma non c'è nulla che lo confermi.

Le circostanze indicano che Renato accompagnò Giovanna a Chinon. Infatti, se a quel tempo c'era a Chnu n una personalità dominante, era Iolanda d'Angiò. Era Iolanda che incoraggiava e sosteneva incessantemente il debole, febbrile delfino. Fu Iolanda ad autoproclamarsi, inspiegabilmente, protettrice e garante ufficiale di Giovanna. Fu Iolanda a vincere la diffidenza della corte nei confronti della fanciulla visionaria e le ottenne l'autorizzazio­ne ad accompagnare l'esercito a Orleans. Fu sempre Iolanda a convincere il delfino che Giovanna poteva essere la salvatrice che affermava di essere. Fu Iolanda a combinare il matrimonio del delfino con la propria figlia. E Iolanda era la madre di Renato d'Angiò.

Mentre studiavamo questi dettagli, ci convincemmo sempre di più, come tanti storici moderni, che dietro le quinte si stesse svolgendo qualcosa di misterioso, un complicato intrigo ad alto livello, un disegno audace. E più l'approfondivamo, e più la carriera breve e folgorante di Giovanna d'Arco sembrava far pensare a una « montatura », come se qualcuno, sfruttando le leggende popolari che parlavano di una « vergine di Lorena » e giocando abilmente sulla psicologia delle masse, avesse congegna­to e orchestrato la cosiddetta missione della Pulzella d'Orléans. Naturalmente, questo non presupponeva l'esistenza di una società segreta, ma la rendeva senza dubbio più plausibile. E se questa società segreta esisteva, l'uomo che la presiedeva poteva benissi­mo essere Renato d'Angiò.

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Renato e il tema dell'Arcadia

Anche se Renato aveva avuto qualche legame con Giovanna d'Arco, il resto della sua vita fu in generale molto meno bellicoso. A differenza di tanti suoi contemporanei, Renato era più un uomo di corte che di guerra. Sotto questo aspetto era fuori posto nella sua epoca; era insomma in anticipo sui tempi, un antesignano dei coltissimi principi italiani del Rinascimento. Era molto dotto, scriveva parecchio e miniava di persona i suoi libri. Compose opere poetiche e allegorie mistiche, nonché un compendio di regole dei tornei. Si adoperò per promuovere l'avanzamento della conoscenza, e a un certo momento assunse al suo servizio Cristo-foro Colombo. Era versato nella tradizione esoterica, a alla sua corte viveva un astrologo, medico e cabalista ebreo, conosciuto come Jean de Saint-Rémy. Secondo numerose fonti, Jean de Saint-Rémy era il nonno di Nostradamus, il famoso profeta del XVI secolo, che a sua volta sarebbe apparso nella nostra storia.

Renato nutriva anche un vivo interesse per la cavalleria e i romanzi arturiani e del Graal. Anzi, sembra che il Graal lo affasci­nasse in modo particolare. Andava molto fiero, si dice, di una magnifica coppa di porfido rosso che secondo le sue affermazioni era stata usata alle nozze di Cana, e che si era procurato a Marsi­glia, dove secondo la tradizione era sbarcata la Maddalena, por­tando con sé il Graal. Altri cronisti parlano di una coppa di proprietà di Renato - forse la stessa - che portava incisa lungo l'orlo un'iscrizione misteriosa:6

Qui bien beurra

Dieu voira.

Qui beurra tout d'une baleine

Voira Dieu et la Madeleine.*

Non sarebbe esagerato considerare Renato d'Angiò tra coloro che diedero lo slancio iniziale al fenomeno oggi chiamato Rinasci­mento. Trascorse diversi anni in Italia, dove aveva numerosi possedimenti, e tramite gli Sforza di Milano, suoi intimi amici, entrò in contatto con i Medici di Firenze. C'è motivo di ritenere

*(Chi ben berrà / Dio vedrà. / Chi berrà tutto d'un fiato / Vedrà la Maddalena e il Re del Creato.) [N.d.R.]

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che fosse soprattutto l'influenza di Renato a spingere Cosimo de' Medici a intraprendere una serie di progetti ambiziosi, destinati a trasformare la civiltà occidentale.

Nel 1439, mentre Renato si trovava in Italia, Cosimo de' Medici incominciò a inviare agenti in tutto il mondo, alla ricerca di mano­scritti antichi. Poi, nel 1444, Cosimo fondò la prima biblioteca pubblica d'Europa, la Biblioteca di San Marco, e cominciò così a sfidare il monopolio sulla cultura che la Chiesa deteneva da tanto tempo. Per espresso incarico di Cosimo, il corpus del pensiero platonico, neoplatonico, pitagorico, gnostico ed ermetico fu tra­dotto per la prima volta e divenne facilmente accessibile. Inoltre, Cosimo ordinò che l'Università di Firenze incominciasse a inse­gnare il greco, per la prima volta in Europa dopo ben sette secoli. E creò un'accademia di studi pitagorici e platonici. L'accademia di Cosimo generò in breve tempo una quantità di istituzioni analoghe in tutta la penisola italiana, che divennero bastioni della tradizione esoterica occidentale. Fu là che incominciò a fiorire la grande cultura del Rinascimento.

■ Renato d'Angiò non si limitò a contribuire alla formazione delle accademie ma, sembra, trasmise loro uno dei prediletti temi sim­bolici, quello dell'Arcadia. Certamente, è nell'esistenza di Renato che il motivo dell'Arcadia appare per la prima volta nella cultura occidentale post-cristiana. Nel 1449, ad esempio, nella sua corte di Tarascona, Renato organizzò una serie di pas d'armes, bizzarri ibridi fra il torneo e il masque, nei quali i cavalieri si scontravano e, nel contempo, recitavano una specie di dramma o commedia. Uno dei più famosi pas d'armes di Renato era il « Pas d'armes della Pastora ». Impersonata dalla sua amante in carica, la « Pastora » era una figura esplicitamente arcadica, e incarnava attributi ro­mantici e filosofici; presiedeva a un torneo nel quale i cavalieri assumevano identità allegoriche che rappresentavano valori e idee contrastanti. Era una singolare fusione tra il romanzo pastorale arcadico, il fasto della Tavola Rotonda e i misteri del Santo Graal.

L'Arcadia figura anche nell'opera di Renato. Spesso è denotata da una fonte o da una pietra tombale, entrambe associate a un fiume sotterraneo. Di solito, questo fiume viene identificato con l'Alfeo, che scorre nella parte centrale dell'attuale Arcadia, in Grecia, si inabissa nel suolo e, si dice, riemerge nella Fonte di

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Aretusa in Sicilia. Dalla più remota antichità fino alla celebre poesia « Kubla Khan » di Coleridge, il fiume Alfeo è sempre stato ritenuto sacro. Il suo nome deriva dalla stessa radice della lettera greca « alfa », che significa « primo », « inizio » o « fonte ».

Sembra che, agli occhi di Renato, il motivo del fiume sotterra­neo fosse ricchissimo di echi simbolici e allegorici. Tra l'altro, parrebbe connotare la tradizione esoterica « sotterranea » del pensiero pitagorico, gnostico, cabalistico ed ermetico. Ma potreb­be anche connotare qualcosa di più di un corpus di insegnamenti, forse anche un'informazione concreta e specifica: un « segreto », trasmesso clandestinamente di generazione in generazione. E po­trebbe connotare anche una stirpe non riconosciuta e quindi « sot­terranea ».

Nelle accademie italiane, all'immagine del « fiume sotter­raneo » erano attribuiti, a quanto sembra, tutti questi significati. Ricorre di frequente, tanto che spesso le stesse accademie veniva­no chiamate « Arcadia ». Nel 1502 fu pubblicata un'opera impor­tante, il lungo poema intitolato Arcadia, di Jacopo Sannazzaro: e l'entourage italiano di Renato d'Angiò, diversi anni prima, aveva incluso un certo « Jacques Sannazar » che era probabilmente il padre del poeta. Nel 1553 il poema di Sannazzaro fu tradotto in francese. E venne dedicato, cosa piuttosto interessante, al cardi­nale di Lénoncourt, antenato del conte di Lénoncourt che nel XX secolo avrebbe compilato le genealogie contenute nei « documen­ti del Priorato ».

Nel XVI secolo l'Arcadia e il « fiume sotterraneo » divennero una dilagante moda culturale. In Inghilterra ispirarono l'opera più importante di Sir Philip Sidney, Arcadia? in Italia ispirarono letterati illustri come Torquato Tasso, il cui capolavoro, la Geru­salemme liberata, canta la conquista della Città Santa ad opera di Goffredo di Buglione. Nel XVII secolo, il tema dell'Arcadia trovò il suo culmine in Nicolas Poussin e Les bergers d'Arcadie.

Più approfondivamo le ricerche, e più appariva evidente che il « fiume sotterraneo » alludeva costantemente a qualcosa: una tradizione, una gerarchia di valori, forse un particolare corpus di informazioni. L'immagine sembra avere assunto proporzioni os­sessive agli occhi di certe eminenti famiglie dell'epoca; e tutte, direttamente o indirettamente, figurano nelle genealogie dei « do-

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cumenti del Priorato ». E sembra che queste famiglie trasmettes­sero l'immagine agli artisti da loro protetti. Da Renato d'Angiò, sembra che qualcosa venisse passato ai Medici, agli Sforza, agli Estensi e ai Gonzaga; e questi ultimi, secondo i « documenti del Priorato », diedero a Sion due Gran maestri, Ferrante e Luigi, duca di Nevers. Sembra inoltre che, da queste grandi famiglie, il tema sia passato nell'opera dei poeti e dei pittori più illustri del tempo, inclusi il Botticelli e Leonardo da Vinci.

I manifesti dei Rosacroce

Una disseminazione di idee abbastanza simile si ebbe nel XVII secolo, dapprima in Germania e quindi in Inghilterra. Nel 1614 apparve il primo dei cosiddetti « manifesti dei Rosacroce », segui­to un anno dopo da un secondo trattato. A quel tempo i manifesti suscitarono grande clamore: attirarono i fulmini della Chiesa e in particolare dei Gesuiti, e trovarono appoggio entusiastico da parte degli ambienti liberali dell'Europa protestante. Fra gli esponenti più eloquenti e influenti del pensiero « rosacrociano » vi fu Robert Fludd, che è elencato come sedicesimo Gran maestro del Priorato di Sion, dal 1595 al 1637.

Tra le altre cose, i « manifesti rosacrociani » 8 promulgavano la storia del leggendario Christian Rosenkreuz. Dicevano di proma­nare da una confraternita segreta, « invisibile » di « iniziati » esistente in Germania e in Francia. Promettevano la trasforma­zione del mondo e della conoscenza umana secondo i principi esoterici ed ermetici: il « fiume sotterraneo » che da Renato d'An­giò era affluito nel Rinascimento. Veniva annunciata un'epoca nuova di libertà spirituale, un'epoca nella quale l'uomo si sarebbe emancipato dalle catene, avrebbe dischiuso i « segreti della natu­ra » e avrebbe governato il proprio destino in armonia con le leggi cosmiche. Nel contempo, i manifesti erano politicamente esplosi­vi, e attaccavano con violenza la Chiesa cattolica e il Sacro romano impero. Oggi si ritiene, in generale, che i manifesti fossero stati scritti da un teologo ed esoterista tedesco, Johann Valentin An-drea, elencato come Gran maestro del Priorato di Sion dopo Robert Fludd. Se non fu Andrea a scriverli, fu sicuramente qual­cuno dei suoi amici e collaboratori.

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Nel 1616 apparve un terzo trattato « rosacrociano », Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz. Come le due opere precedenti, Le nozze chimiche era di autore anonimo; ma in seguito la stesso Andrea confessò di averlo composto come « scherzo » o comme­dia.

Le nozze chimiche è una complessa allegoria ermetica, che più tardi fece sentire la sua influenza su opere come il Faust di Goethe. Come ha dimostrato Frances Yates, contiene echi inconfondibili delFesoterista inglese John Dee, che influenzò anche Robert Fludd. L'opera di Andrea evoca inoltre certe risonanze dei ro­manzi del Graal e dei Cavalieri Templari: ad esempio, è detto che Christian Rosenkreuz portava una tunica bianca con una croce rossa sulla spalla. Nello svolgimento della narrazione viene rap­presentato un dramma, un'allegoria all'interno di un'allegoria. Il dramma parla di una principessa d'imprecisato lignaggio « reale », i cui legittimi domìni sono stati usurpati dai Mori e che viene gettata a riva entro una cassa di legno. Il resto del dramma narra le sue vicissitudini e le sue nozze con un principe che l'aiute­rà a riconquistare la sua eredità.

Le nostre ricerche rivelarono vari collegamenti di seconda e 'di terza mano tra Andrea e le famiglie che figurano nelle genealogie dei « documenti del Priorato ». Tuttavia, non scoprimmo nessun legame diretto o di prima mano, eccettuato forse Federico, eletto­re palatino della Renania. Federico era nipote di un importante esponente del protestantesimo francese, Enrico de la Tour d'Au-vergne, visconte di Turenne e duca di Buglione: l'antico titolo di Goff redo, il conquistatore di Gerusalemme. Enrico era inoltre imparentato con la famiglia dei LongueviUe, che avevano un posto eminente tanto nei « documenti del Priorato » quanto nelle nostre indagini. E nel 1591, questo personaggio s'era dato molto da fare per acquisire la cittadina di Stenay.

Nel 1613 Federico del Palatinato aveva sposato Elisabetta Stuart, figlia di Giacomo I d'Inghilterra, nipote della famosa Ma­ria Stuarda regina di Scozia, e pronipote di Maria di Guisa; e Guisa era il ramo cadetto della casa di Lorena. Maria di Guisa, un secolo prima, aveva sposato il duca di LongueviUe e poi, alla morte di questi, Giacomo V di Scozia. Questo fatto aveva creato un'alleanza dinastica fra gli Stuart e i Lorena. Di conseguenza, gli

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Stuart incominciarono ad apparire, sia pure marginalmente, nelle genealogie dei « documenti del Priorato » ; e Andrea, come i tre presunti Gran maestri che vennero dopo di lui, mostrò un notevo­le interesse per la casa reale scozzese. In questo periodo la casa di Lorena era in fase di eclisse. Se Sion era un ordine organizzato e attivo, a quei tempi, è possibile che avesse trasferito la sua devo­zione, almeno in parte e temporanemente, alla più potente dina­stia degli Stuart.

Comunque Federico del Palatinato, dopo il matrimonio con Elisabetta Stuart, creò nella sua capitale, Heidelberg, una corte dalle tendenze esoteriche. Come scrive Frances Yates:

Nel Palatinato si andava formando una cultura che derivava direttamente dal Rinascimento, ma con l'aggiunta di tendenze più recenti, una cultura che potrebbe venire definita con l'aggettivo « rosacrociana ». Il principe intorno al quale turbinavano queste correnti profonde era Federico, l'elet­tore palatino, e i loro esponenti speravano in un'espressione politico-religiosa delle loro aspirazioni... Il movimento federiciano... era un tenta­tivo di dare a queste correnti un'espressione politico-religiosa, di realizza­re l'ideale della riforma ermetica, incentrata su un vero principe... Creò una cultura, uno stato « rosacrociano », con la corte insediata a Heidel­berg.»

Insomma, sembra che gli anonimi « rosacrociani » e i loro sim­patizzanti avessero circondato Federico con l'aureola di una mis­sione spirituale e politica. E a quanto pare, Federico accettò volentieri il ruolo che gli veniva imposto, con tutte le speranze e le attese che comportava. Perciò nel 1618 accettò la corona di Boe-mia che gli era stata offerta dai nobili ribelli di quella terra; e incorse nell'ira del papato e del Sacro romano impero, causando la disastrosa Guerra dei trent'anni. Due anni dopo, Federico ed Elisabetta fuggirono esuli in Olanda, e Heidelberg fu invasa dalle truppe cattoliche. Per un quarto di secolo la Germania divenne il teatro del conflitto più feroce, sanguinoso e costoso di tutta la storia d'Europa prima del XX secolo: un conflitto in cui poco mancò che la Chiesa riuscisse a imporre nuovamente l'egemonia di cui aveva goduto durante il Medioevo.

Mentre intorno a lui infuriava il tumulto, Andrea creò una rete di società più o meno segrete, conosciute come Unioni cristiane. Secondo il modello proposto da Andrea, ogni società era capeg­giata da un anonimo principe, assistito da altri dodici, suddivisi in

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gruppi di tre; e ognuno di loro doveva essere specialista in un dato campo dello scibile.10 Lo scopo originario delle Unioni cristiane era quello di conservare la conoscenza minacciata, soprattutto i progressi scientifici più recenti che in maggioranza erano conside­rati eretici dalla Chiesa. Nel contempo, però, le Unioni cristiane servivano anche da rifugio per quanti cercavano di sottrarsi all'In­quisizione che accompagnava gli eserciti cattolici invasori e mirava a sradicare ogni traccia del pensiero « rosacrociano ». Perciò pa­recchi studiosi, scienziati, filosofi ed esoteristi trovarono rifugio nelle istituzioni create da Andrea. Grazie ad esse, molti di loro furono condotti clandestinamente al sicuro in Inghilterra, dove stava incominciando a formarsi la massoneria. In un certo senso, è possibile che le Unioni cristiane di Andrea abbiano contribuito all'organizzazione del sistema delle logge massoniche.

Tra gli europei che ripararono in Inghilterra c'erano numerosi amici personali di Andrea: ad esempio Samuel Hartlib, Adam Komensky, più noto come Comenius, con il quale Andrea intrat­tenne una continua corrispondenza; Theodore Haak, che era inoltre amico personale di Elisabetta Stuart ed era in corrispon­denza con lei; e il dottor John Wilkins, già cappellano di Federico del Palatinato e successivamente vescovo di Chester.

Giunti in Inghilterra, questi uomini si legarono strettamente agli ambienti massonici. Ad esempio, erano in ottimi rapporti con Robert Moray, la cui iniziazione in una loggia massonica, avvenu­ta nel 1641, è una delle più antiche che si conoscano; con Elias Ashmole, studioso d'antichità ed esperto conoscitore degli ordini cavaliereschi, che fu iniziato nel 1646; e con il giovane e precoce Robert Boyle che, pur non essendo massone, era membro di un'altra, più misteriosa società segreta." Non ci sono prove con­crete che questa società fosse il Priorato di Sion; ma secondo i « documenti del Priorato », Boyle divenne Gran maestro di Sion succedendo ad Andrea.

Durante il Protettorato di Cromwell, questi personaggi inglesi e continentali formarono quello che Boyle - riecheggiando voluta-mente i manifesti « rosacrociani » - chiamò un « collegio invisibi­le ». E con la restaurazione della monarchia nel 1660, il « collegio invisibile » diventò la Royal Society,12 sotto il patronato del sovra­no Stuart, Carlo II. Virtualmente tutti i membri fondatori della

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Royal Society erano massoni. Si potrebbe persino sostenere che la stessa Royal Society, almeno all'inizio, era un'istituzione massoni­ca, derivata dalla « confraternita invisibile rosacrociana » tramite le Unioni cristiane di Andrea. Ma non sarebbe stato questo, il culmine del « fiume sotterraneo ». Al contrario, questo sarebbe affluito da Boyle a Isaac Newton, elencato come suo successore nella carica di Gran maestro di Sion, e quindi nella complessa rete della massoneria del XVIII secolo.

La dinastia Stuart

Secondo i « documenti del Priorato », il successore di Newton come Gran maestro di Sion fu Charles Radclyffe. Per noi, era un nome assai meno altisonante di quello di Newton, di Boyle o dello stesso Andrea. Anzi, all'inizio non riuscivamo a capire esattamen­te chi fosse Charles Radclyffe. Quando incominciammo a svolgere ricerche su di lui, tuttavia, apparve come un personaggio che aveva avuto un'importanza considerevole, anche se sotterranea, nella storia culturale del XVIII secolo.

A partire dal XVI secolo i Radclyffe erano stati un'influente famiglia del Northumberland. Nel 1688, poco prima di venire deposto, Giacomo II li aveva creati conti di Derwentwater. Char­les Radclyffe era nato nel 1693. Sua madre era figlia naturale di Carlo II e di Moli Davies. Perciò, per parte di madre, Radclyffe era di sangue reale; era nipote del penultimo sovrano Stuart, cugino del « Bonnie Prince Charlie » e di George Lee, conte di Lichfield, altro nipote illegittimo di Carlo II. Non è quindi sor­prendente che Radclyffe dedicasse la sua vita alla causa degli Stuart.

Nel 1715, questa causa era incarnata dal « Vecchio pretenden­te », Giacomo III, allora in esilio a Bar-le-Duc, sotto la protezione del duca di Lorena. Radclyffe e suo fratello maggiore, James, parteciparono alla ribellione scozzese di quell'anno. Entrambi furono catturati, e James fu giustiziato. Charles, aiutato a quanto sembra,dal conte di Lichfield, evase clamorosamente dal carcere di Newgate, e si rifugiò tra i giacobiti, in Francia. Negli anni seguenti divenne il segretario personale del « Giovane pretenden­te », il « Bonnie Prince Charlie ».

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Nel 1745, quest'ultimo sbarcò in Scozia e intraprese un tentativo donchisciottesco di reinsediare gli Stuart sul trono britannico. Nello stesso anno Radclyffe, mentre si recava a raggiungerlo, fu catturato a bordo di una nave francese al largo del Dogger Bank. Un anno dopo, nel 1746, il « Giovane pretendente » subì una disastrosa disfatta nella battaglia di Culloden Moor. Pochi mesi dopo, Charles Radclyffe fu decapitato nella Torre di Londra.

Durante il loro soggiorno in Francia, gli Stuart avevano avuto legami profondi con la diffusione della massoneria. Anzi, in gene­rale vengono ritenuti la fonte di quella particolare forma di masso­neria che è conosciuta come « Rito scozzese ». La massoneria di « Rito scozzese » introdusse gradi più elevati di quelli offerti dagli altri sistemi massonici del tempo. Prometteva l'iniziazione a mi­steri più grandi e profondi: misteri che si diceva fossero conservati e tramandati in Scozia. Stabiliva legami più diretti tra la massone­ria e le varie attività - alchimia, cabalismo e pensiero ermetico, ad esempio — che venivano considerate « rosacrociane ». E poneva in grande risalto non solo l'antichità ma anche l'illustre lignaggio dell'« arte ».

È probabile che la massoneria di « Rito scozzese » fosse stata promulgata, se non addirittura ideata, da Charles Radclyffe. Co­munque, nel 1725 Radclyffe avrebbe fondato la prima loggia massonica sul continente, a Parigi. Lo stesso anno, o forse l'anno successivo, sembra che venisse riconosciuto Gran maestro di tutte le logge francesi; è ancora citato come tale un decennio più tardi, nel 1736. In ultima analisi, la diffusione della massoneria nel XVIII secolo si deve a Radclyffe più che a chiunque altro.

La cosa non appare sempre evidente perché Radclyffe, soprat­tutto dopo il 1738, non si tenne relativamente nell'ombra. Sem­bra che operasse soprattutto per mezzo di intermediari e << porta­voce ». Il più importante e famoso era un personaggio enigmatico, conosciuto come il cavalier Andrew Ramsay.13

Ramsay era nato in Scozia tra il 1680 e il 1690. In gioventù aveva fatto parte di una società un po' massonica e un po' « rosacrocia-na », quella dei Philadelphians. Tra i membri di questa società c'erano almeno due amici intimi di Newton. Lo stesso Ramsay nutriva per Newton un'immensa reverenza, e lo considerava una

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sorta di grande « iniziato » mistico, un uomo che aveva riscoperto e ricostruito le verità eterne celate negli antichi misteri.

Ramsay aveva altri legami con Newton. Era in buoni rapporti con Jean Desaguliers, uno dei più cari amici dello scienziato. Nel 1707 studiò matematica con Nicolas Fatio de Duillier, il più intimo tra tutti i compagni di Newton. Come Newton, mostrava interesse e simpatia per i Camisards, una setta di eretici che nutrivano concezioni affini a quelle dei Catari e che in quel periodo venivano perseguitati nella Francia meridionale: e i Camisards erano una specie di cause célèbre per Fatio de Duillier.

Dal 1710 Ramsay era a Cambrai, dove intrattenne ottimi rap­porti con il filosofo mistico Fénolon, ex curato di Saint Sulpice, che già a quei tempi era un bastione di discutibile ortodossia. Non si sa esattamente quando Ramsay incontrò Charles Radclyffe; ma già prima del 1730 si era legato alla causa giacobita. Per qualche tempo fu persino istitutore del « Bonnie Prince Charlie ».

Pur avendo avuto rapporti con i giacobiti, nel 1729 Ramsay tornò in Inghilterra, dove nonostante l'apparente mancanza di adeguati requisiti, fu prontamente ammesso nella Royal Society. Inoltre, divenne membro di un'istituzione piuttosto oscura, il Gentleman's Club di Spalding. Questo « club » annoverava uomi­ni come Desaguliers, Alexander Pope e, fino alla sua morte avvenu­ta nel 1727, anche Isaac Newton.

Col 1730, Ramsay era di nuovo in Francia ed espletava un'inten­sa attività in favore della massoneria. Si sa che presenziò a parec­chie riunioni in diverse logge, insieme a numerosi personaggi degni di nota, incluso Desaguliers. Godeva della protezione dei Tour d'Auvergne, visconti di Turenne e duchi di Buglione che, tre quarti di secolo prima, si erano imparentati con Federico del Palatinato. Ai tempi di Ramsay, il duca di Buglione era un cugino del« Giovane pretendente », ed esponente illustre della massone­ria. Il duca donò a Ramsay una tenuta e una casa e lo nominò istitutore di suo figlio.

Nel 1737 Ramsay tenne la sua famosa « Orazione », una lunga disquisizione sulla storia della massoneria, che in seguito divenne uno dei documenti fondamentali delF« arte ».M Grazie all'« Ora­zione », Ramsay divenne il principale portavoce della massoneria dei suoi tempi. Le nostre ricerche, tuttavia, ci convinsero che il

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vero ispiratore era Charles Radclyffe, il quale presiedeva la loggia dove Ramsay tenne il suo discorso e nel 1743 figurò come principa­le firmatorio al funerale dì Ramsay. Ma se Radclyffe era la vera forza che agiva per mezzo di Ramsay, sembra che Ramsay fosse il collegamento tra Radclyffe e Newton.

Nonostante la morte prematura di Radclyffe nel 1746, i semi che aveva gettato in Europa continuarono a dar frutti. Poco dopo il 1750 apparve un nuovo ambasciatore della massoneria, un tedesco che si chiamava Karl Gottlieb von Hund. Hund affermava di essere stato iniziato nel 1742, un anno prima della morte di Ram­say, e quattro anni prima di quella di Radclyffe. Nell'iniziazione, diceva, era stato introdotto a un nuovo sistema massonico, confidatogli da « superiori sconosciuti ».15 Questi « superiori sco­nosciuti », sosteneva Hund, erano strettamente legati alla causa giacobita. Anzi, all'inizio aveva creduto persino che l'uomo che presiedeva alla sua iniziazione fosse il «Bonnie Prince Charlie». E sebbene poi risultasse che non era così, Hund rimase convinto che il personaggio in questione fosse intimamente legato al «Giovane pretendente». Sembra ragionevole supporre che si trattasse in realtà di Charles Radclyffe.

II sistema massonico al quale fu introdotto Hund, un'altra estensione del « Rito scozzese », fu in seguito chiamato « Stretta osservanza ». Il nome derivava dal giuramento che veniva richie­sto, un giuramento di incrollabile e indiscussa obbedienza ai mi­steriosi « superiori sconosciuti ». E il credo fondamentale della « Stretta osservanza » era che questa discendeva direttamente dai Cavalieri Templari, alcuni dei quali, sopravvissuti all'epurazione del 1307-14, avevano perpetuato il loro Ordine in Scozia.

Conoscevamo già questa affermazione. E in base alle nostre ricerche, potevamo riconoscerle un certo fondamento di verità. Un contingente di Templari, sembra, aveva combattuto a fianco di Robert Bruce nella battaglia di Bannockburn. Poiché la Bolla pontificia che scioglieva i Templari non era mai stata promulgata in Scozia, là l'Ordine non era stato ufficialmente soppresso. E noi stessi avevamo rintracciato quello che sembrava un cimitero tem­plare nell'Argyllshire. La più antica delle pietre tombali in questo cimitero risaliva al XIII secolo, le più recenti al XVIII. Le lapidi più antiche presentavano certi rilievi unici e certi simboli identici a

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quelli che si trovano nei presìdi del Tempio in Inghilterra e in Francia. Le pietre più tarde univano a questi simboli vari motivi tipicamente massonici, e attestavano quindi una specie di fusione. Perciò non era impossibile, concludemmo, che l'Ordine si fosse perpetuato nel territorio desolato delI'Argyll medievale, mante­nendo un'esistenza semiclandestina, secolarizzandosi a poco a poco per associarsi finalmente tanto con le confraternite massoni-che quanto con il predominante sistema dei clan.

Il lignaggio che Hund rivendicava alla « Stretta osservanza », quindi, non ci appariva del tutto improbabile. Tuttavia, con suo grande imbarazzo e disonore, Hund non fu mai in grado di spiega­re meglio il nuovo sistema massonico. Perciò i suoi contemporanei la considerarono un ciarlatano e lo accusarono di aver inventato l'episodio della sua iniziazione, l'incontro con i « superiori scono­sciuti », e il mandato di diffondere la « Stretta osservanza ». A queste accuse, Hund potè rispondere soltanto che i suoi « superio­ri sconosciuti » lo avevano inspiegabilmente abbandonato. Ave­vano promesso di mettersi ancora in contatto con lui e di fornirgli altre istruzioni, diceva, ma poi non l'avevano fatto. Fino alla fine della sua vita, Hund proclamò la sua buona fede, asserendo di essere stato abbandonato dai superiori che, asseriva, erano vera­mente esistiti.

Più consideravamo le affermazioni di Hund e più ci sembravano

credibili; sembrava che fosse vittima non tanto di un tradimento premeditato quanto di una serie di circostanze. Hund era stato iniziato nel 1742, quando i giacobiti rappresentavano una notevole forza politica sul continente. Ma nel 1746 Radclyffe era morto; erano morti anche molti suoi colleghi, mentre altri erano in carce­re o in esilio, in certi casi addirittura in Nord America. Se i « superiori sconosciuti » di Hund non avevano ristabilito i contatti con il loro iniziato, sembra che l'omissione non fosse volontaria. Il fatto che Hund venisse abbandonato subito dopo la disfatta della causa giacobita sembra, se mai, confermare la sua versione.

C'è un altro indizio frammentario che conferisce credibilità non soltanto alle affermazioni di Hund ma anche ai « documenti del Priorato ». Si tratta di un elenco di Gran maestri dei Cavalieri Templari, che secondo Hund gli era stato consegnato dai « supe­riori sconosciuti ».16 In base alle nostre ricerche, avevamo conclu-

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so che l'elenco dei Gran maestri dei Templari contenuto nei Dossiers segreti era esatto, tanto esatto che sembrava derivare da « informazioni privilegiate ». Ora, se si esclude l'ortografia di un solo cognome, l'elenco mostrato da Hund concordava con quello dei Dossiers segreti. Insomma, Hund aveva ricevuto un elenco dei Gran maestri del Tempio più esatto di tutti gli altri conosciuti ai suoi tempi. Inoltre, l'aveva ricevuto quando molti dei documenti su cui noi ci eravamo basati - atti, proclamazioni, ecc. - erano ancora sottochiave in Vaticano e nessun estraneo poteva consul­tarli. Questo parrebbe confermare che i « superiori sconosciuti » di Hund non erano un'invenzione. Inoltre, sembra indicare che questi « superiori sconosciuti » erano straordinariamente infor­mati circa l'Ordine del Tempio, assai più di quanto avrebbero potuto esserlo se non avessero avuto accesso a « fonti privilegiate ».

Comunque, nonostante le accuse che gli venivano rivolte, Hund non era rimasto senza amici. Dopo la sconfitta della causa giacobi-ta trovò un protettore premuroso e un amico addirittura nel Sacro romano imperatore. A quel tempo il Sacro romano imperatore era Francesco, duca di Lorena che, sposando nel 1735 Maria Teresa d'Austria, aveva unito le case di Asburgo e di Lorena, inauguran­do la dinastia degli Asburgo-Lorena. E secondo i « documenti del Priorato », fu il fratello di Francesco, Carlo di Lorena, a succedere a Radclyffe come Gran maestro di Sion.

Francesco fu il primo principe europeo che divenne massone e proclamò pubblicamente la sua affiliazione. Fu iniziato nel 1731 all'Aia, che era una roccaforte delle attività esoteriche fin da quando vi si erano installati i « rosacrociani » durante la Guerra dei trent'anni. E l'uomo che presiedette all'iniziazione di France­sco fu Jean Desaguliers, amico intimo di Newton, Ramsay e Radclyffe. Inoltre, poco dopo la sua iniziazione, Francesco sog­giornò a lungo in Inghilterra; là divenne membro di un'istituzione dal nome innocuo, che abbiamo già ricordato: il Gentleman's Club di Spalding.

Negli anni che seguirono, Francesco di Lorena favorì la diffusio­ne della massoneria più di qualunque altro signore europeo. La sua corte, a Vienna, diventò in un certo senso la capitale massoni­ca dell'Europa, e il centro di un'intera gamma di altre attività

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esoteriche. Lo stesso Francesco era un alchimista praticante, e aveva un suo laboratorio nel palazzo imperiale, l'Hofburg. Alla morte dell'ultimo dei Medici divenne granduca di Toscana, e sventò abilmente le persecuzioni dell'Inquisizione contro i masso­ni fiorentini. Tramite Francesco, Charles Radclyffe, fondatore della prima loggia massonica sul continente, aveva lasciato un'ere­dità destinata a durare.

Charles Nodier e il suo circolo

Rispetto agli importanti personaggi della cultura e della politica che lo avevano preceduto, e persino rispetto a un uomo come Char­les Radclyffe, Charles Nodier appariva come un candidato invero­simile alla carica di Gran maestro. Lo conoscevamo soprattutto come una sorta di curiosità letteraria: un autore minore, saggista piuttosto garrulo, romanziere e novellista di second'ordine nella tradizione bizzarra di E.T.A. Hoffmann e, più tardi, di Edgar Allan Poe. Ai suoi tempi, però, Nodier era considerato un impor­tante esponente della cultura, e la sua/influenza era enorme. Inoltre, scoprimmo che era collegato alla nostra indagine in molti modi sorprendenti.

Nel 1824 Nodier era già un letterato celebre. Quell'anno fu nominato capo bibliotecario della Biblioteca dell'Arsenale, dove si conserva la più grande raccolta francese di manoscritti medievali e occulti. Fra i suoi vari tesori, si diceva che l'Arsenale avesse incluso le opere alchemiche di Nicolas Flamel, l'alchimista medie­vale elencato come uno dei Gran maestri di Sion. L'Arsenale comprendeva anche la biblioteca del cardinale Richelieu, un'im­ponente collezione di opere sul pensiero magico, cabalistico ed ermetico. E c'erano anche altri tesori. Allo scoppio della Rivolu­zione francese, in tutto il paese i monasteri erano stati saccheggia­ti, e tutti i'iibri e i manoscritti erano stati inviati a Parigi. Nel 1810 Napoleone, che ambiva a creare una biblioteca mondiale, confiscò e portò a Parigi quasi tutto l'archivio del Vaticano. Erano più di tremila casse di materiale, che in parte era stato richiesto espressa­mente? ad esempio, tutti i documenti riguardanti i Templari. Anche se una parte dei documenti fu in seguito restituita a Roma, molti rimasero in Francia! Ed era appunto questo materiale - libri

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attività molte società segrete, dichiara Nodier. Ma ce n'è una, aggiunge, che ha la precedenza su tutte le altre, anzi, presiede a tutte. Secondo Nodier, questa società segreta « suprema » è chia­mata « i Philadelphes ». Nel contempo, tuttavia, egli parla del « giuramento che mi lega ai Philadelphes e mi vieta di farli cono­scere sotto il vero nome della società ».22 Tuttavia, c'è un accenno a Sion in discorso citato da Nodier e che sarebbe stato pronunciato a un'assemblea di Philadelphes da uno dei congiurati contro Na­poleone. L'uomo in questione sta parlando del figlio neonato:

È troppo giovane per legarsi a voi con il giuramento di Annibale; ma ricordate che io l'ho chiamato Eliacin, e che delego a lui la custodia del tempio e dell'altare, se dovessi morire prima di aver veduto cadere dal trono l'ultimo degli oppressori di Gerusalemme.21

Il libro di Nodier apparve sulla scena quando la paura delle società segrete aveva assunto proporzioni virtualmente patologi-che. Spesso queste società venivano accusate di aver istigato la Rivoluzione francese; e sotto molti aspetti l'atmosfera dell'Euro­pa post-napoleonica era simile a quella del periodo maccarthista negli Stati Uniti durante gli anni Cinquanta. La gente vedeva cospirazioni dappertutto, o credeva di vederle. Imperversavano le cacce alle streghe. Ogni disordine, ogni evento anomalo, ogni fatto spiacevole veniva attribuito all'« attività sovversiva », all'o­pera di organizzazioni clandestine che lavoravano insidiosamente dietro le quinte, corrodendo le istituzioni e perpetrando ogni sorta di subdolo sabotaggio. Questa mentalità portò a misure estrema­mente repressive. E la repressione, spesso diretta contro una minaccia fittizia, generava a sua volta oppositori autentici, auten­tici gruppi di cospiratori sovversivi, che potevano formarsi ispiran­dosi ai modelli fattizi. Anche come creature dell'immaginazione, le società segrete fomentavano una diffusa paranoia agli alti livelli dei governi; e di frequente questa paranoia causava più danni di quanti avrebbe potuto farne qualunque società segreta. Non c'è dubbio che il mito della società segreta, se non la società segreta vera e propria, ebbe un ruolo importante nella storia dell'Europa nel secolo XIX. E uno dei principali architetti del mito, e forse di una realtà che stava dietro il mito, fu Charles Nodier.24

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Debussy e la Rosacroce

Le tendenze che trovarono espressione in Nodier - un interesse affascinato per le società segrete e la rinnovata passione per l'eso­terismo - continuarono ad acquisire influenza e seguaci per tutto il XIX secolo. Entrambe le tendenze raggiunsero il culmine nella Parigi fin de siede, l'ambiente in cui visse Claude Debussy,presun­to Gran maestro di Sion al tempo in cui, nel 1891, Bérenger Saunière scoprì le misteriose pergamene a Rennes-Ie-Chàteau.

Sembra che Debussy avesse conosciuto Victor Hugo tramite il poeta simbolista Paul Verlaine. In seguito, mise in musica diverse opere di Hugo. Inoltre, entrò nei circoli simbolisti che, nell'ultimo decennio del secolo, finirono per dominare la vita culturale parigi­na. Di questi circoli facevano parte il giovane ecclesiastico Émile Hoffet ed Emma Calve; e fu per loro tramite che Debussy conob­be Saunière. C'era anche l'enigmatico mago della poesia simboli­sta francese, Stéphane Mallarmé, del quale Debussy musicò uno dei capolavori, L'Après-Midi d'un Faun. C'era il commediografo simbolista Maurice Maeterlinck, il cui dramma merovingio, Pel-léas et Mélisande, venne trasformato da Debussy in un'opera famosa in tutto il mondo. C'era il pittoresco conte Philippe Augu­ste Villiers de l'Isle-Adam, il cui dramma « rosacrociano » Axel diventò una specie di Bibbia per l'intero movimento simbolista. Sebbene la morte, avvenuta nel 1918, gli impedisse di completare il lavoro, Debussy aveva incominciato a comporre un libretto tratto dal dramma occulto di Villiers, con l'intenzione di ricavarne un'opera. Tra gli altri c'erano anche le celebrità che frequentava­no i famosi martedì di Mallarmé: Oscar Wìlde, W.B. Yeats, Stefan George1, Paul Valéry, il giovane Andre Gide e Marcel Proust.                                                        ,

I circoli di Debussy e di Mallarmé erano letteralmente impre­gnati di esoterismo. Nel contempo, avevano contatti con ambienti ancora più esoterici. Quindi Debussy frequentava virtualmente tutti i nomi più eminenti del cosiddetto « revival occulto » france­se. Uno di questi personaggi era il marchese Stanislas de Guaìta, intimo di Emma Calve e fondatore del cosiddetto Ordine cabalisti­co della Rosacroce. Un altro era Jules Bois, famigerato satanista, anche lui intimo di Emma Clave e amico di MacGregor Mathers.

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Ispirato da Jules Bois, Mathers fondò la più famosa società occulta inglese del periodo, l'Ordine della Golden Dawn.

Un altro occultista conosciuto da Debussy era il dottor Gerard Encausse, meglio noto come Papus,25 che sotto questo nome pubblicò un'opera sui Tarocchi ancora oggi considerata fonda­mentale. Papus era non soltanto membro di numerosi ordini se­greti e società segrete, ma era anche confidente dello zar Nicola e della zarina Alessandra di Russia. E tra gli amici più intimi di Papus c'era un personaggio che era già apparso nella nostra inda­gine: Jules Doinel. Nel 1890, Doinel era diventato bibliotecario a Carcassonne e aveva fondato nella Linguadoca una chiesa neoca­tara; della quale fungevano da vescovi lui e Papus. Doinel, anzi, si autoproclamava vescovo gnostico di Mirepoix, che includeva la parrocchia di Montségur, e di Alet, che includeva la parrocchia di Rennes-le-Chàteau.

La chiesa di Doinel sarebbe stata consacrata da un vescovo orientale a Parigi, nella casa di Lady Caithness, moglie del conte di Caithness, Lord James Sinclair: e questo è piuttosto interessante. Vista in retrospettiva, sembra che questa chiesa fosse una delle tante sette innocue che fiorirono verso la fine del secolo scorso, A quel tempo, però, suscitò un notevole allarme negli ambienti ufficiali. Per il Santo Uffizio venne preparata persino una specia­le relazione sulla « rinascita delle tendenze catare ». E il papa promulgò una condanna esplicita dell'Istituzione di Doinel, denunciandola energicamente come una nuova manifestazione dell'« antica eresia albigese ».

Nonostante la condanna del Vaticano, Doinel, verso il 1895, era attivo nel territorio di Saunière, proprio nel periodo in cui il curato di Rennes-le-Chàteau incominciava a ostentare la sua ricchezza. Può darsi che i due uomini fossero stati presentati da Debussy o da Emma Calve. Oppure dall'abate Henri Boudet, curato di Rennes-les-Baines, ottimo amico di Saunière e collega di Doinel nella Società delle arti e scienze di Carcassonne.

Debussy era in stretto contatto con Joséphin Péladan, un altro amico di Papus e, cosa abbastanza prevedibile, intimo di Emma Calve. Nel 1889 Péladan partì per la Terrasanta. Al suo ritorno, affermò di aver scoperto la tomba di Gesù, non già nel sito tradizionale del Santo Sepolcro, bensì sotto la moschea di Ornar,

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che anticamente aveva fatto parte dell'enclave dei Templari. Per ripetere le parole di un ammiratore entusiasta, la pretesa scoperta di Péladan era « così sbalorditiva che in qualunque altra epoca avrebbe scosso il mondo cattolico fino alle fondamenta ».26 Ma Péladan e i membri della sua cerchia non spiegavano in che modo fosse stato possibile identificarla con assoluta certezza, e neppure perché la scoperta avrebbe dovuto scuotere il mondo cattolico; a meno che, ovviamente, contenesse qualcosa di significativo, sen­sazionale o forse addirittura esplosivo. Comunque, Péladan non fornì particolari sulla sua presunta scoperta. Ma, sebbene si di­chiarasse cattolico, insisteva nell'affermare che Gesù era stato mortale.

Nel 1890 Péladan fondò un nuovo ordine, l'Ordine cattolico della Rosacroce, del Tempio e del Graal. E diversamente dalle altre istituzioni rosacrociane di quell'epoca, l'ordine sfuggì alla condanna papale. Nel frattempo, Péladan rivolse sempre più la sua attenzione alle arti. L'artista, dichiarava, doveva essere « un . cavaliere in armatura, impegnato nella cerca simbolica del Santo Graal ». E in omaggio a questo principio, Péladan intraprese una vera e propria crociata estetica, che si concretò in una serie molto pubblicizzata di mostre annue, con il nome di Salon de la Rose + Croix, che aveva lo scopo conclamato di « rovinare il realismo, riformare il gusto latino e creare una scuola d'arte idealista ». A questo fine, certi temi venivano respinti autocriticamente e som­mariamente come indegni, « anche se eseguiti bene o persino in modo perfetto ». L'elenco dei temi respinti includeva la pittura storica « prosaica », la pittura patriottica e militare, le rappresen­tazioni della vita contemporanea, i ritratti, le scene agresti e « tutti i paesaggi, eccettuati quelli composti alla maniera di Poussin ».27

Péladan non si accontentò della pittura. Cercò di promulgare la sua estetica anche nel campo della musica e del teatro. Fondò una sua compagnia teatrale, per rappresentare opere composte appo­sitamente su temi come Orfeo, gli Argonauti e la ricerca del Vello d'oro, il « Mistero della Rosacroce » e il « Mistero del Graal ». Uno dei promotori e patroni di queste realizzazioni era Claude Debussy.

Tra coloro che erano legati a Péladan e a Debussy figurava anche Maurice Barrès che, in gioventù, aveva fatto parte di un

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circolo « rosacrociano » insieme a Victor Hugo. Nel 1912 Barrès pubblicò il suo romanzo più noto, La colline inspirée (La collina ispirata). Certi commentatori odierni ritengono che l'opera sia un'allegoria appena velata di Bérenger Saunière e di Rennes-Ie-Chàteau. Senza dubbio, vi sono paralleli che appaiono troppo evidenti per essere semplici coincidenze. Ma Barrès non ambienta gli eventi da lui narrati a Rennes-le-Chàteau o in qualche altra parte della Linguadoca. Al contrario, la « collina ispirata » del titolo è un colle sovrastato da un villaggio, in Lorena. E il paesetto è Sion, vecchio centro di pellegrinaggi.

Jean Cocteau

Ancora più di Charles Radclyffe e di Charles Nodier, Jean Coc­teau, a prima vista, ci sembrava un candidato inverosimile per la carica di Gran maestro di un'influente società segreta. Nei casi di Radclyffe e di Nodier, però, le nostre indagini avevano rivelato certi collegamenti di interesse considerevole. Nel caso di Cocteau ne scoprimmo pochissimi.

Senza dubbio era cresciuto in un ambiente vicino ai « corridoi del potere » ; la sua famiglia era politicamente eminente e suo zio era un illustre diplomatico. Ma Cocteau, almeno in apparenza, aveva abbandonato quel mondo, andandosene di casa a quindici anni e tuffandosi nella subcultura marsigliese. Dal 1908 si era fatto un nome negli ambienti artistici bohémiens. A poco più di vent'an-ni cominciò a frequentare Proust, Gide e Maurice Barrès. Era inoltre amico intimo del pronipote di Victor Hugo, Jean, con il quale si lanciò in varie escursioni nel mondo dello spiritismo e dell'occultismo. Ben presto divenne molto versato nella cultura esoterica, e il pensiero ermetico ispirò non soltanto gran parte della sua opera, ma tutta la sua estetica. Nel 1912, se non anche prima, aveva incominciato a frequentare Debussy, al quale allude spesso, sebbene in modo non molto indicativo, nei suoi diari. Nel 1926 disegnò le scene per una rappresentazione dell'opera Pelléas et Mélisande perché, secondo un commentatore, « non seppe resistere alla tentazione di legare per sempre il suo nome a quello di Claude Debussy ».

La vita privata di Cocteau, tra la droga euna serie di amori

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omosessuali, fu notoriamente eccentrica, e gli conferì l'immagine di un individuo volubile e irresponsabile. In realtà, però, teneva molto alla sua immagine pubblica e faceva in modo che le sue avventure personali non gli impedissero di frequentare personaggi potenti e influenti. Come ammetteva senza esitare, aveva sempre aspirato a riconoscimenti pubblici, agli onori, alla stima, addirittu­ra all'ammissione all'Accademia di Francia. E si preoccupò di mostrarsi conformista quanto bastava per ottenere ciò che voleva. Per questo restò sempre nell'orbita di personalità eminenti come Jacques Maritain e Andre Malraux. Anche se ufficialmente non si occupò mai di politica, durante l'ultima guerra denunciò il gover­no di Vichy e, a quanto sembra, ebbe rapporti con la Resistenza. Nel 1949 fu nominato cavaliere della Legion d'Onore. Nel 1958 fu inviato dal fratello di de Gaulle a tenere un discorso ufficiale sulla Francia. Non è il ruolo che di solito si attribuisce a Cocteau, tuttavia sembra che lo recitasse abbastanza di frequente e con molta soddisfazione.

Per buona parte della sua vita Cocteau fu legato, a volte stretta­mente, a volte in modo marginale, agli ambienti cattolici realisti. Lì frequentava molti esponenti della vecchia aristocrazia, inclusi alcuni amici e protettori di Proust. Nel contempo, però, il cattoli­cesimo di Cocteau era molto sospetto, molto poco ortodosso, e sembra che il suo impegno avesse un carattere più estetico che religioso. Nell'ultima parte della sua vita consacrò molte energie al restauro e alla nuova decorazione di varie chiese: forse una strana eco delle attività di Bérenger Saunière. Tuttavia, anche in questo caso la sua pietà era molto dubbia: « Mi credono un pittore religioso perché ho decorato una cappella. Sempre la solita mania di etichettare la gente ».28

Come Saunière, nelle sue nuove decorazioni Cocteau introdu-ceva dettagli curiosi e suggestivi. Alcuni si possono vedere nella chiesa di Notre Dame de France, presso Leicester Square a Lon­dra. La chiesa fu eretta nel 1865 ed è possibile che, al tempo della sua consacrazione, avesse legami massonici. Nel 1940, durante i bombardamenti tedeschi, fu gravemente danneggiata, ma conti­nuò a essere il centro culturale preferito da molti esponenti di rilievo delle Forze della Francia libera; e dopo la guerra fu restau­rata e decorata a nuovo da artisti provenienti da ogni parte della

Francia. Fra questi vi fu Cocteau che nel 1960, tre anni prima di morire, eseguì un affresco raffigurante la Crocifissione. È una Crocifissione molto singolare. C'è un sole nero, e nell'angolo inferiore destro spicca una figura non identificata, sinistra e colo­rata di verde. C'è un solo soldato romano con uno scudo ornato da un uccello estremamente stilizzato che ricorda l'Horus egizio. Tra le donne dolenti e i centurioni che giocano a dadi, vi sono due figure incongruamente moderne: una è lo stesso Cocteau che, significativamente, volge le spalle alla croce. La cosa più sorpren­dente è che l'affresco mostra soltanto la parte inferiore della croce. Colui che vi è appeso è visibile solo fino alle ginocchia, e quindi non si vede il suo viso, e non è possibile accertarne l'identi­tà. Alla croce, immediatamente sotto i piedi della vittima anoni­ma, è fissata una enorme rosa, in pratica l'emblema della Rosacro­ce. Un motivo molto singolare per una chiesa cattolica.

I due Giovanni XXIII

I Dossiers segreti, nei quali appariva l'elenco dei presunti Gran maestri di Sion, portavano la data del 1956. Cocteau morì più tardi, nel 1963. Perciò nulla indicava chi poteva essere stato il suo successore, chi fosse colui che oggi potrebbe presiedere il Priorato di Sion. Ma lo stesso Cocteau poneva un altro problema di interes­se immenso.

Fino al « taglio dell'olmo » avvenuto nel 1188, secondo le affer­mazioni dei « documenti del Priorato », Sion e l'Ordine del Tem­pio avevano avuto sempre lo stesso Gran maestro. Dopo il 1188, ci viene detto, Sion scelse i suoi Gran maestri; il primo fu Jean de Gisors. Secondo i « documenti del Priorato » ogni Gran maestro, nell'assumere la carica, adottava il nome di Jean (Giovanni) o di Jeanne (Giovanna), poiché vi furono anche quattro donne. Perciò i Gran maestri di Sion avrebbero incluso una continua successione di Jean e di Jeanne, dal 1188 al presente. Chiaramente, questa successione rappresenta una sorta di papato esoterico ed ermetico fondato su Giovanni, in contrasto e forse in opposizione con il papato essoterico fondato su Pietro.

Un interrogativo fondamentale, naturalmente, era: quale Gio­vanni? Giovanni Battista? Giovanni Evangelista, il « discepolo

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prediletto » del Quarto Vangelo? Oppure Giovanni, autore del­l'Apocalisse? Sembrava che dovesse essere uno dei tre, perché Jean de Gisors, nel 1188, avrebbe assunto il nome di Jean II. E allora, chi era Jean I?

Qualunque fosse la risposta a questo interrogativo, Jean Coc-teau figurava nell'elenco dei presunti Gran maestri di Sion come Jean XXIII. Nel 1958, quando Cocteau deteneva ancora presumi­bilmente il titolo di Gran maestro, il papa Pio XII morì e il conclave elesse come nuovo pontefice il cardinale Angelo Roncal-li, patriarca di Venezia. Poiché per tradizione il pontefice, appena eletto, si sceglie il nuovo nome, il cardinale Roncalli suscitò una notevole costernazione quando scelse quello di Giovanni XXIII. La costernazione non era ingiustificata. Innanzitutto, il nome Giovanni era implicitamente escluso da quando era stato portato, all'inizio del secolo XV, da un antipapa. E poi, c'era già stato un Giovanni XXIII. L'antipapa che aveva abdicato nel 1415 e che -ecco un particolare abbastanza interessante - in precedenza era stato vescovo di Alet, era appunto Giovanni XXIII. Quindi era a dir poco strano che il cardinal Roncalli assumesse lo stesso nome.

Nel 1976 fu pubblicato in Italia un libro enigmatico, che poco dopo venne tradotto in francese. È intitolato Le profezie di papa Giovanni* e contiene una compilazione di oscure poesie in prosa di carattere profetico che sarebbero state composte dal pontefice morto tredici anni prima, nel 1963, lo stesso anno di Cocteau. Quasi tutte queste « profezie » sono impenetrabili e sfidano ogni interpretazione coerente. È dubbio, inoltre, che siano veramente opera di Giovanni XXIII. Ma l'introduzione afferma che sono proprio di papa Giovanni; e inoltre sostiene che Giovanni XXIII era segretamente membro della « Rosacroce » alla quale si sareb­be affiliato nel 1935, quando era nunzio apostolico in Turchia.

È superfluo aggiungere che questa affermazione sembra incre­dibile. Di certo non può essere provata, e noi non trovammo nessun indizio che la suffragasse. Ma, ci chiedemmo, perché mai era stata fatta un'affermazione del genere?

Possibile che fosse vera? Possibile che contenesse almeno un granello di verità? Nel 1188 il Priorato di Sion avrebbe adottato il

*Pier Carpi, Le profezìe dipapa Giovanni, Roma 1976. [N.d.R.]

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« sottotitolo » di « Rose-Croix Veritas ». Se papa Giovanni era affiliato a un'organizzazione « rosacrociana », e se tale organizza­zione era il Priorato di Sion, le implicazioni sarebbero estrema­mente sconcertanti. Tra l'altro suggerirebbero che il cardinale Roncalli, salendo al soglio pontificio, avrebbe scelto perse il nome del suo Gran maestro segreto, in modo che, per qualche ragione simbolica, vi fosse simultaneamente un Giovanni XXIII a presie­dere tanto Sion che il papato.

In ogni caso, il regno contemporaneo di un Giovanni (o Jean) XXIII su Sion e su Roma sembrerebbe una coincidenza straordi­naria. Non è possibile che i « documenti del Priorato » contenes­sero un elenco inventato allo scopo di creare questa coincidenza: un elenco che culminava con Jean XXIII proprio quando un uomo con lo stesso nome occupava il trono di san Pietro. Infatti l'elenco dei presunti Gran maestri di Sion era stato composto e depositato presso la Bibliothèque Nationale non più tardi del 1956, tre anni prima dell'elezione di Giovanni XXIII.

C'era poi un'altra coincidenza singolare. Nel XII secolo un monaco irlandese, Malachia, compilò una serie di profezie alla Nostradamus. In queste profezie - che, sia detto per inciso, sem­bra siano tenute in gran conto da molti illustri cattolici, incluso l'attuale papa, Giovanni Paolo II - Malachia enumera i pontefici destinati a occupare il soglio di Pietro nei secoli futuri. E da, per ogni pontefice, un motto descrittivo. Il motto di Giovanni XXIII, « Pastor et Nauta », tradotto in francese è « Pasteur et Nauton-nier » (« Pastore e Navigatore »).29 Il titolo ufficiale del presunto Gran maestro di Sion è appunto « Nautonnier ».

Qualunque sia la verità che costituisce il substrato di queste strane coincidenze, non c'è dubbio che papa Giovanni XXIII fu responsabile più di ogni altro di un nuovo orientamento della Chiesa cattolica: e come spesso hanno osservato i commentatori, fu lui a portarla nella realtà del XX secolo. In gran parte, questo fu dovuto alle riforme del Concilio Vaticano II, voluto e inaugurato da Giovanni. Nel contempo, però papa Giovanni fu responsabile di altri cambiamenti. Modificò la posizione della Chiesa nei con­fronti della massoneria, ad esempio, rompendo almeno due secoli di tradizione consolidata e dichiarando che un cattolico poteva essere massone. E nel giugno 1960 promulgò una lettera apostoli-

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ca profondamente significativa.30 Verteva sul tema del « Preziosis­simo sangue di Gesù » al quale attribuiva un'importanza senza precedenti. Sottolineava le sofferenze di Gesù come essere uma­no, e affermava che la redenzione dell'umanità era stata compiuta mediante lo spargimento del suo sangue. Nel contesto della lettera di papa Giovanni la passione umana di Gesù e lo spargimento del suo sangue assumono un rilievo maggiore della Resurrezione e della stessa meccanica della Crocifissione.

Le implicazioni sono enormi. Come ha osservato un commenta­tore, modificano la base stessa della fede cristiana. Se la redenzio­ne dell'umanità fu compiuta dallo spargimento del sangue di Ge­sù, la sua morte e la sua resurrezione diventano incidentali, se non addirittura superflue. Con questo documento papa Giovanni sot­tintende infatti che la morte di Gesù sulla croce non è più una dottrina irrinunciabile della fede cattolica. Non è necessario che Gesù sia morto sulla croce perché tale fede conservi la sua validità.

Note

1  Lobineau, H., Dossiersecrets, planche n. 4, Ordre de Sion.

2  Loyd, Origins of Anglo-Norman Famihes, pp. 45 sgg. E Powicke, Loss of Normandy, p. 340.

3  Roger de Hoveden, Annali, voi. 1, p. 322. « Tommaso, arcivescovo di Canter-bury, e alcuni dei suoi compagni d'esilio, vennero a un incontro con i legati, l'ottava di san Martino, tra Gisors e Trie... » Questo luogo d'incontro tra i due castelli vicini è il sito dove cresceva il famoso olmo abbattuto più tardi. Nei suoi Voyages pittoresques (Normandie, voi. 2, p. 138); Charles Nodier dice che « San Tommaso di Canterbury si preparò là (sotto l'olmo di Gisors) per il suo martirio ». Non è esattamente chiaro che cosa intenda questa frase, ma è suggestiva.

4  Lecoy de la Marche, Le RoiRené, voi. I, p. 69. Il duca di Lorena non aveva figli maschi, e secondo le convenzioni del tempo Giovanna si riferiva a Renato.

5  Cfr. Staley, King Rene d'Anjou, pp. 153 sgg.

6  Staley, King Rene d'Anjou, p. 29. Fu lo stesso Renato a incidere l'iscrizione.

7  Sir Philip Sidney era amico di John Dee, e come lui era versato nel pensiero ermetico. Frances Yates ritiene che John Dee fosse la fonte dei manifesti rosacro-ciani. Yates, OccultPhilosophy, pp. 170 sgg. Per ulteriori notizie su Sidney e Dee, cfr. French, John Dee. Sidney conosceva quindi il « fiume sotterraneo » che scorreva nella cultura europea.

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8  Tutti i manifesti sono riprodotti in Waite, Real History ofthe Rosicrucians,

9  Yates, Rosicrucian Enlightenment, p. 125.

10  Ibid.,p. 192.

1 ' Esistono lettere, conservate presso la Royal Society, scritte da Robert Boyle a proposito di un gruppo chiamato Sacred Cabalistic Society of Philosophers, che lo accolse quale membro. Sembra che avesse sede in Francia. Cfr. Maddison, Life of... Robert Boyle, pp. 166 sgg.

12   Yates, Rosicrucian Enlightenment, pp. 223 sgg. Frances Yates spiega i legami tra il movimento dei Rosacroce e la Royal Society.

13   Per ulteriori notizie su Ramsay, cfr. Walker, TheAncient Theology, pp. 231 sgg. eHenderson, ChevalierRamsay,

14  II testo dell'orazione è pubblicato in Gould, Histoty of Freemasonry, voi. 5, pp. 84 sgg.

15   Waite, New Encyclopaedia of Freemasonry, voi. 2, pp. 353 sgg., e Le Forestier, La Franc-Maconnerie, pp. 126 sgg.

16   Questo elenco è riprodotto in Thory, Acta Latomomm, voi. 2, p. 282. L'elenco segue quello di Sion solo fino alla scissione del 1188. A quel tempo il Gran maestro era Gerard de Ridefort.

17  Nodier, Voyages Pittoresques, Normandie, voi. 2, pp. 137 sgg.

18  Pingaud, La Jeunesse de Charles Nodier, p. 39.

19  Ibid., pp. 231 sgg., contiene lo statuto della società. Alcune delle regole sono curiose. La regola 18 dice: « I fratelli della Societé dei Philadelphes hanno una particolare predilezione per il colore azzurro cielo, la figura del pentagramma e il numero 5 ».

Ibid., p. 47.

21   Nodier, Comes, pp. 4 sgg.

22  Nodier, History ofthe Secret Societies ofthe Army,p. 105. » Ibid., p. U6.

24 II personaggio più significativo delle società segrete del tempo fu Filippo Miche­le Buonarroti (discendente del fratello di Michelangelo) che incominciò la carriera come paggio del granduca di Toscana (figlio di Francesco di Lorena) e si levò alla Massoneria. Allo scoppio della Rivoluzione francese andò in Corsica, dove rimase fino al 1794 e conobbe Napoleone. Nei primi anni del 1800 creò tutta una serie di società segrete. Ne fondò tante che gli storici non sanno esattamente quante fossero. Uno di loro osserva che « Buonarroti era una vera divinità, se non onnipotente almeno onnipresente » : Eisenstein, The First Professional Revolutio-nist... Buonarroti, p. 48, citando Lehning. Buonarroti aveva molti amici in comune con Nodier e Hugo: Petrus-Borel, Louis Blanc, Célestin Nanteuil, Jehan Dusei-gneur, Jean Gigoux, quindi è molto probabile che si conoscessero. Anzi, l'assenza di ogni notizia su di loro eventuali incontri è molto sospetta, data la posizione che Buonarroti assunse più tardi a Parigi.

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Cfr. inoltre Roberts, Mythology of thè Secret Societies, pp. 233 sgg.: « Per trent'anni, senza arrestarsi mai, come un ragno nella sua tana, tessendo le fila di una cospirazione che tutti i governi hanno di volta in volta spezzato, e che non si stanca mai di ritessere. » Eisenstein, The First Professional Revolutiomst... Buonarroti. p.51.

E molto probabile che tanto Buonarroti quanto Nodier appartenessero al Prio­rato di Sion, dato soprattutto che una delle organizzazioni di Buonarroti era quella dei Philadelphes, lo stesso nome usato da Nodier per il suo ordine.

-5 Cfr. la nota 33 del capitolo VII.

26   Lucie-Smith, Symbolist Art, p. 110. Per quanto riguarda la vita e i rapporti di Péladan, cfr. Pincus-Witten, Occult Symbolism in France.

27   Lucie-Smith, Symbolist Art, p. 111.

28   Questo fu il suo commento, quando venne invitato a eseguire il dipinto che ora fa parte di una cappella della chiesa di Notre Dame de France a Londra.

29   Cfr. Bander, Prophecies ofSt. Malachy, p. 93. La frase latina è Pastor et nmita: la parola nauta può significare tanto « marinaio » quanto « navigatore », che in francese antico è « nautonnier ».

30   « Inde a primis », pubblicata dall'a Osservatore Romano » (2 luglio 1960), p. 1. Una traduzione inglése si trova in « Review for Religious », voi. 20 (1961), pp. 3 sgg-

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VII

Una cospirazione attraverso i secoli

Come dovevamo sintetizzare le prove e gli indizi che avevamo accumulato? Grati parte della nostra documentazione era impres­sionante e sembrava indicare qualcosa: uno schema, un disegno coerente. L'elenco dei presunti Gran maestri di Sion, sebbene all'inizio fosse sembrato improbabile, aveva rivelato certi fattori coerenti e sconcertanti. Quasi tutti i personaggi elencati, ad esem­pio, erano legati per parentela di sangue o per associazioni perso­nali alle famiglie le cui genealogie figuravano nei « documenti del Priorato », e in particolare alla casa di Lorena. Quasi tutti i personaggi elencati avevano avuto rapporti con vari ordini o socie­tà segrete. Virtualmente tutti, anche quando erano cattolici, ave­vano nutrito credenze religiose poco ortodosse. Tutti erano legati al pensiero e alla tradizione dell'esoterismo. E in quasi tutti i casi c'erano stati stretti contatti fra ogni Gran maestro, il suo predeces­sore e il suo successore.

Tuttavia questi fattori, per quanto sensazionali, non provavano nulla. Non provavano, ad esempio, che il Priorato di Sion, del quale avevamo accertato l'esistenza durante il Medioevo, fosse veramente sopravvissuto nei secoli successivi. E tanto meno pro­vavano che gli individui citati come Gran maestri lo fossero stati davvero. Ci sembrava ancora incredibile che alcuni di loro potes­sero aver ricoperto tale carica. Certo, era possibile che Edouard de Bar fosse stato eletto Gran maestro a cinque anni, o Renato d'Angiò a otto, in base a qualche principio ereditario. Ma questo principio non sembrava valido per Robert Fludd e Charles No-dier, entrambi diventati Gran maestri a ventun anni, o per Claude

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Debussy, che lo sarebbe divenuto a ventitré. Questi personaggi non avevano avuto il tempo di « salire la scala », come avverrebbe ad esempio nella massoneria. Al tempo della loro presunta elezio­ne, non si erano ancora affermati neppure nei rispettivi campi. In apparenza, questa anomalia non aveva senso. A meno di presu­mere che il ruolo di Gran maestro di Sion fosse spesso puramente simbolico, una posizione rituale occupata da un prestanome: un prestanome che forse non era neppure a conoscenza dell'onore assegnatogli.

Tuttavia, era inutile formulare speculazioni e ipotesi, almeno sulla base delle informazioni in nostro possesso. Perciò ci rivol­gemmo di nuovo alla storia, cercando notizie del Priorato altrove, al di fuori dall'elenco dei presunti Gran maestri. In particolare, ci occupammo delle fortune della casa di Lorena e di alcune delle altre famiglie citate nei « documenti del Priorato ». Cercammo di verificare altre affermazioni contenute in quei documenti. E cer­cammo altri indizi a conferma dell'opera di una società segreta che agisse più o meno nascostamente dietro le quinte.

Se era davvero una società segreta, naturalmente non potevamo aspettarci di trovare il Priorato di Sion menzionato in modo espli­cito con questo nome. Se aveva continuato a operare nel corso dei secoli, doveva averlo fatto sotto una quantità di camuffamenti e di maschere e di « facciate », come aveva operato per un certo tempo, a quanto veniva affermato, sotto il nome di Ormus, in seguito abbandonato. Inoltre, non avrebbe rivelato un'unica poli­tica, ovvia e specifica, una posizione o un atteggiamento predomi­nante. Anzi, una posizione unificata, se fosse stato possibile rico­struirla, sarebbe apparsa molto sospetta. Se eravamo alle prese con un'organizzazione sopravvissuta per nove secoli, dovevamo attribuirle una flessibilità e un'adattabilità considerevoli. La sua sopravvivenza doveva dipendere da queste qualità; senza di esse sarebbe degenerato in una forma vana e priva di potere autentico come, ad esempio, gli Yeomen della Guardia in Inghilterra. In-somma, il Priorato di Sion non poteva essere rimasto rigorosa­mente immutabile in tutto il corso della sua storia. Al contrario, sarebbe stato costretto a cambiare periodicamente, a modificare se stesso e le sue attività, ad adattare i propri obiettivi al mutevole caleidoscopio della realtà del mondo, come le unità della cavalle-

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ria, durante l'ultimo secolo, sono state costrette ad abbandonare i cavalli per passare ai carri armati e ai mezzi corazzati. Nelle sue capacità di adeguarsi a una data epoca sfruttandone la tecnologia e le risorse, Sion avrebbe costituito un parallelo di quella che sem­brava la sua rivale essoterica, la Chiesa cattolica di Roma; o forse, per citare un esempio sinistro, all'organizzazione conosciuta come mafia. Naturalmente, non vedevamo il Priorato di Sion come una congrega di malvagi. Ma la mafia dimostrava come, adattandosi via via ai tempi, una società segreta poteva continuare a esistere e ad avere un grande potere.

Il Priorato di Sion in Francia

Secondo i « documenti del Priorato », tra il 1306 e il 1480 Sion aveva nove commanderies. Nel 1481, quando morì Renato d'An-giò, il numero era salito, sembra, a ventisette. Le più importanti sono elencate come situate a Bourges, Gisors, Jarnac, Mont-Saint-Michel, Montréval, Parigi, Le Puy, Solesmes e Stenay. Inol­tre, aggiungono enigmaticamente i Dossiers segreti, vi era « un'ar­ca chiamata Beth-Ania - casa di Anna - situata a Rennes-le-Chàteau ».' Non è molto chiaro cosa significhi questo passo: ma Rennes-le-Chàteau sembrerebbe godere di una posizione molto particolare. E senza dubbio non può essere una coincidenza il fatto che Saunière costruisse Villa Bethania.

Secondo i Dossiers segreti, la commanderie di Gisors risaliva al 1306 ed era situata in rue de Vienne. A quanto sembra, per mezzo di un passaggio segreto, era in comunicazione con il cimitero locale e la cappella sotterranea di Sainte-Catherine, ubicata sotto la fortezza. Nel secolo XVI la cappella, o forse una cripta adiacen­te, sarebbe diventata il deposito degli archivi del Priorato di Sion, custoditi in trenta forzieri.

Nei primi mesi del 1944, quando Gisors fu occupata dai Tede­schi, da Berlino fu inviata una speciale missione militare con il compito di intraprendere una serie di scavi sotto la fortezza. L'invasione degli Alleati in Normandia interruppe i lavori; ma non molto più tardi un operaio francese, un certo Roger Lhomoy, incominciò a scavare per conto proprio. Nel 1946 Lhomoy riferì al sindaco di Gisors di aver trovato una cappella sotterranea che

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conteneva diciannove sarcofagi di pietra e trenta forzieri di metal­lo. La sua richiesta di proseguire gli scavi e di rendere pubblica la scoperta fu ostacolata - si direbbe di proposito - da una quantità di complicazioni burocratiche. Finalmente, nel 1962, Lhomoy in­cominciò gli scavi a Gisors. I lavori si svolsero sotto gli auspici di Andre Malraux, che a quel tempo era il ministro francese della Cultura, e gli scavi non furono ufficialmente aperti al pubblico. Non furono trovati né sarcofagi né forzieri. Si è molto discusso, sulla stampa e in vari libri, se la cappella venne trovata o no. Lhomoy sosteneva che aveva ritrovato la strada per giungere alla cappella, ma che nel frattempo il contenuto era stato asportato. Comunque stiano le cose, la cappella sotterranea di Sainte-Catherine è menzionata in due vecchi manoscritti, uno datato 1696, l'altro 1375.2

Su questa base, la versione di Lhomoy diviene plausibile, e lo diviene anche l'affermazione che la cappella sotterranea fosse il deposito degli archivi di Sion. Nelle nostre ricerche, infatti, tro­vammo la prova certa che il Priorato di Sion continuò a esistere per almeno tre secoli dopo la fine delle Crociate e lo scioglimento dei Cavalieri Templari. Tra l'inizio del XIV secolo e l'inizio del XVII, ad esempio, vari documenti relativi a Orleans e alla sede di Sion a Saint-Samson fanno riferimenti sporadici all'Ordine. È documen­tato che all'inizio del XVI secolo alcuni membri del Priorato di Sion a Orleans, violando la loro « regola » e « rifiutandosi di vivere comunitariamente », incorsero nella collera del papa e del re di Francia. Verso la fine del XV secolo, i membri dell'Ordine furono accusati di numerose colpe; non rispettavano la loro rego­la, vivevano « individualmente » anziché « in comune », erano licenziosi, risiedevano fuori dalle mura di Saint-Samson, boicotta­vano i servizi divini e trascuravano di ricostruire l'edificio che era stato gravemente danneggiato nel 1562. Col 1619, a quanto sem­bra, le autorità persero la pazienza. Quell'anno, secondo i docu­menti, il Priorato di Sion fu espulso da Saint-Samson e la sede passò ai Gesuiti.3

Dal 1619 in poi non riuscimmo a trovare riferimenti al Priorato di Sion, almeno sotto questo nome. Ma, se non altro, potevamo provare che era esistito fino al XVII secolo. Tuttavia la prova, se tale la si poteva considerare, sollevava molti interrogativi. Innan-

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zitutto, i riferimenti che avevamo trovato non gettavano alcuna luce sulle vere attività, gli obiettivi, gli interessi e l'eventuale influenza di Sion. In secondo luogo questi riferimenti, sembrava, attestassero soltanto cose poco importanti: l'esistenza di una sfug­gente confraternita di monaci o di devoti il cui comportamento, per quanto poco ortodosso e forse clandestino, aveva un peso relativamente trascurabile. Non riuscivamo a riconciliare i negli­genti inquilini di Saint-Samson con i famosi, leggendari Rosacro­ce, o con un gruppo di strani monaci appartenenti a un'istituzione i cui Gran maestri includevano alcuni dei personaggi più illustri della storia e della cultura occidentale. Secondo i « documenti del Priorato », Sion era un'organizzazione potente e influente, che aveva creato i Templari e manovrato l'andamento degli affari internazionali. I riferimenti che avevamo scoperto non indicavano nulla di simile.

Una possibile spiegazione, naturalmente, era, che Saint-Samson, a Orleans, fosse soltanto una sede isolata, probabilmente minore, delle attività di Sion. E infatti nell'elenco delle comman-deries più importanti di Sion, contenuto nei Dossiers segreti, Or­leans non è neppure inclusa. Se Sion era veramente una forza ragguardevole, Orleans poteva essere soltanto un piccolo fram­mento di un disegno molto più vasto. E in questo caso, avremmo dovuto cercare altrove le tracce dell'Ordine.

I duchi di Guisa e Lorena

Nel XVI secolo la casa di Lorena e il suo ramo cadetto, la casa di Guisa, fecero un tentativo deciso e concertato per rovesciare la dinastia dei Valois in Francia e impadronirsi del trono. In diverse occasioni il tentativo arrivò vicinissimo al successo.

In una trentina d'anni tutti i sovrani, gli eredi e i principi Valois furono spazzati via, e la stirpe si estinse.

Il tentativo di impadronirsi del trono francese impegnò tre generazioni dei Lorena e dei Guisa. Giunse molto vicino al succes­so tra il 1550 e il 1570, sotto gli auspici di Carlo, cardinale di Lorena, e di suo fratello Francesco, duca di Guisa. Carlo e France­sco erano imparentati con i Gonzaga di Mantova e con Carlo di Montpensier, connestabile di Borbone: elencato nei Dossiers se-

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CONFEDERAZIONE ELVETICaV

'   Carta 6    II ducato di Lorena alla metà del XVI secolo.

greti come Gran maestro di Sion fino al 1527. Inoltre Francesco, duca di Guisa, aveva sposato Anna d'Este, duchessa di Gisors. E nelle sue macchinazioni per impadronirsi del trono sembra che ricevesse l'aiuto clandestino e l'appoggio di Ferrante Gonzaga, presunto Gran maestro di Sion dal 1527 al 1575.

Gli stòrici hanno stigmatizzato Francesco e suo fratello, il cardi­nale di Lorena, come cattolici fanatici e bigotti, intolleranti, bruta­li e assetati di sangue. Ma molti indizi concreti fanno pensare che questa reputazione fosse alquanto immeritata, almeno per quanto riguarda la loro fedeltà al cattolicesimo. Appare evidente che Francesco e suo fratello fossero sfacciati e abili opportunisti, che corteggiassero tanto i cattolici quanto i protestanti nella speranza di realizzare il loro disegno.4 Nel 1562, ad esempio, al Concilio di Trento il cardinale di Lorena lanciò una proposta di decentrare il papato, di conferire autonomia ai vescovi locali e di restaurare la gerarchia ecclesiastica così come era stata ai tempi dei Merovingi.

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to profezie, ma si riferivano esplicitamente al passato: ai Cavalieri Templari, alla dinastia Merovingia, alla storia della casa di Lore-na. Un numero sorprendente di queste « profezie » riguarda il Razès, la vecchia contea di Rennes-le-Chàteau.7 E le numerose quartine che parlano dell'avvento di « le Grand Monarch » indica­no che questo sovrano verrà dalla Linguadoca.

Le ricerche rivelarono un altro indizio frammentario che colle­gava Nostradamus alla nostra indagine in modo ancora più diret­to. Secondo Gerard de Sède,8 come pure secondo la leggenda popolare, Nostradamus, prima di incominciare la carriera di pro­feta, trascorse diverso tempo in Lorena. Sembra che fosse una specie di noviziato, un periodo di prova, al termine del quale sarebbe stato « iniziato » a un grande segreto. Più precisamente si dice che gli fu mostrato un antico libro arcano, sul quale basò tutta la sua opera successiva. E questo libro gli sarebbe stato mostrato in un luogo molto significativo: la misteriosa abbazia di Orval, donata dalla madre adottiva di Goffredo di Buglione, dove secon­do le nostre ricerche poteva essere nato il Priorato di Sion. Co­munque, per altri due secoli Orval continuò a essere associata al nome di Nostradamus. Ancora ai tempi della Rivoluzione france­se e nel periodo napoleonico vari libri di profezie, presentati come opera di Nostradamus, uscivano da Orval.

Il tentativo di impadronirsi del trono di Francia

Alla metà del decennio 1620-30, sul trono di Francia sedeva Luigi XIII. Ma il vero detentorc del potere, il vero architetto della politica francese, era il primo ministro, il cardinale Richelieu. In generale, Richelieu è considerato l'arci-Machiavelli, il supremo genio delle macchinazioni del suo tempo. Può darsi che fosse anche qualcosa di più.

Mentre Richelieu dava alla Francia una stabilità che non aveva precedenti, il resto dell'Europa, soprattutto la Germania, era in preda alla terribile Guerra dei trent'anni. In origine, la causa della Guerra dei trent'anni non era religiosa; ma ben presto il conflitto si polarizzò sotto questa luce. Da una parte c'erano le forze della Spagna e dell'Austria, fervidamente cattoliche, dall'altra c'erano gli eserciti protestanti della Svezia e dei principati tedeschi, inclusi

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il Palatinato del Reno, i cui sovrani, l'elettore Federico e sua moglie, Elisabetta Stuart, erano in esilio all'Aia* Federico e i suoi alleati erano sostenuti e appoggiati dai pensatori e scrittori « rosa-crociani », tanto sul continente quanto in Inghilterra.

Nel 1633 il cardinale Richelieu intraprese una politica audace e in apparenza incredibile. Fece entrare la Francia nella Guerra dei trent'anni, ma non dalla parte che ci si potrebbe aspettare. Agli occhi di Richelieu, molte considerazioni ebbero il sopravvento sui suoi doveri religiosi di principe della Chiesa. Aspirava a imporre all'Europa la superiorità della Francia. Mirava a neutralizzare la continua, tradizionale minaccia rappresentata per la Francia dal­l'Austria e dalla Spagna. E sognava di annientare l'egemonia spagnola che si era instaurata da più di un secolo, soprattutto nell'antica terra merovingia dei Paesi Bassi e in varie parti della moderna Lorena. A causa di questi fattori, l'Europa venne colta alla sprovvista dall'azione inaudita di un cardinale cattolico, vir­tualmente padrone di una nazione cattolica, che inviava truppe cattoliche a combattere a fianco dei protestanti contro altri cattoli­ci. Nessuno storico ha mai insinuato che Richelieu fosse un « rosa-crociano ». Ma certamente non avrebbe potuto fare niente che si armonizzasse meglio con la mentalità dei « rosacrociani » o che meritasse di più la loro approvazione.

Nel frattempo la casa di Lorena aveva ricominciato ad aspirare al trono di Francia, anche se in modo più obliquo. Questa volta il pretendente era Gastone d'Orléans, fratello minore di Luigi XIII. Gastone non apparteneva, ovviamente, alla casa di Lorena, ma nel 1632 aveva sposato la sorella del duca di Lorena. Quindi il suo erede avrebbe avuto nelle vene il sangue dei Lorena per parte materna; e se Gastone fosse asceso al trono, dopo una generazio­ne un discendente dei Lorena sarebbe diventato re di Francia. Questa prospettiva bastò per mobilitare un vasto appoggio. Fra coloro che sostenevano il diritto di Gastone alla successione ritro­vammo un personaggio che avevamo già incontrato: Carlo, duca di Guisa. Carlo aveva avuto come istitutore il giovane Robert Fludd. E aveva sposato Enrichetta-Caterina de Joyeuse, proprie-taria di Couiza e Arques: dove si trova la tomba identica a quella raffigurata nel quadro di Poussin.

I tentativi di deporre Luigi e di sostituirgli Gastone fallirono; ma

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associati alla Compagnia sono quelli di intermediari o di membri di basso rango della sua gerarchla, gli « uomini di paglia », per così dire, che agivano in base a istruzioni impartite dall'alto. Uno di costoro era il fratello della duchessa di Longueville. Un altro era Charles Fouquet, fratello del sovrintendente delle Finanze di Luigi XIV. E c'era lo zio del filosofo Fénelon che, mezzo secolo più tardi, avrebbe esercitato una profonda influenza sulla masso­neria tramite il cavalier Ramsay. Tra i personaggi più eminenti legati alla Compagnia c'erano quell'individuo misterioso che oggi è conosciuto come san Vincenzo di Paola, Nicolas Pavillon, vesco­vo di Alet, la cittadina situata a pochi chilometri da Rennes-le-Chàteau, e Jean-Jacques Olier, fondatore del seminario di Saint Sulpice. Anzi, oggi si ritiene in genere che Saint Sulpice tósse il « centro operativo » della Compagnia.9

Nell'organizzazione e nelle attività, la Compagnia riecheggiava l'Ordine del Tempio e prefigurava la massoneria. Dal centro di Saint Sulpice creò una complessa rete di sedi provinciali, o capito­li. I membri provinciali ignoravano l'identità dei loro superiori, e spesso venivano manovrati nell'interesse di obiettivi che non con­dividevano. Era loro vietato di avere contatti l'uno con l'altro se non attraverso Parigi, e questo assicurava un controllo estrema­mente centralizzato. E persino a Parigi gli ideatori della società restavano sconosciuti a coloro che li servivano. Insomma, la Com­pagnia costituiva un'organizzazione simile a un'idra, con un cuo­re invisibile. Ancora oggi non si sa chi fosse quel cuore, o che cosa lo costituisse. Ma si sa che quel cuore batteva al ritmo di un grande segreto. Le notizie contemporanee parlano esplicitamente del « Segreto che è il nucleo della Compagnia ». Secondo uno degli statuti della società, scoperto molto tempo dopo, « il canale fon­damentale che plasma lo spirito della Compagnia e che è per esso essenziale, è il Segreto ».10

Per i membri novizi non iniziati, la Compagnia era ufficialmente dedita ad attività caritatevoli, soprattutto nelle zone devastate dalle guerre di religione e successivamente dalla Fronda, ad esem­pio in Piccardia, Champagne e Lorena. Oggi tuttavia viene gene­ralmente ammesso che queste « attività caritatevoli » fossero sol­tanto una comoda, ingegnosa facciata, e che avessero poco a che vedere con la vera raison d'ètre della Compagnia. La vera raison

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d'éfre.era duplice: esercitare quello che veniva chiamato « pio spionaggio », raccogliere informazioni e infiltrarsi nelle cariche più importanti della nazione e negli ambienti più vicini al trono.

Sembra che la Compagnia conseguisse considerevoli successi in entrambi gli obiettivi. Quale membro del « Consiglio di coscienza » reale, ad esempio, Vincenzo di Paola diventò confes­sore di Luigi XIII, In seguito fu consigliere di Luigi XIV, fino a quando la sua opposizione a Mazzarino lo costrinse a dimettersi. E la regina madre Anna d'Austria era, sotto molti aspetti, un'ignara pedina nelle mani della Compagnia che, almeno per qualche tempo, riuscì a metterla contro Mazzarino. Ma la Compagnia non si limitava ad agire nell'entourage del trono. Verso la metà del XVII secolo esercitava un notevole potere tramite l'aristocra­zia, il parlement, la magistratura e la polizia, al punto che in di­verse occasioni queste istituzioni osarono sfidare apertamente il sovrano.

Nelle nostre ricerche constatammo che nessuno storico, di quel tempo o dei tempi successivi, dava una spiegazione adeguata della Compagnia del Santo Sacramento. Molti autori la dipingono come un'organizzazione militante arcicattolica, un bastione intransigen­te dell'ortodossia. Gli stessi autori sostengono che era votata all'estirpazione degli eretici. Ma perché, in un paese devotamente cattolico, un'organizzazione del genere avrebbe dovuto agire nel­la più stretta segretezza? E chi era « eretico » a quel tempo? I protestanti? I giansenisti? Ma c'erano numerosi protestanti e gian­senisti proprio nelle file della Compagnia.

Se la Compagnia era tanto cattolica, in teoria avrebbe dovuto appoggiare il cardinal Mazzarino, il quale, dopotutto, incarnava gli interessi cattolici di quel tempo. Invece la Compagnia osteggia­va energicamente Mazzarino al punto che il cardinale perse la pazienza e giurò che avrebbe fatto tutto il possibile per annientar­la. E c'è di più: la Compagnia destò una vigorosa ostilità anche in altri ambienti rigorosamente cattolici. I Gesuiti, ad esempio, ne fecero l'oggetto di una. assidua campagna. Altre autorità cattoli-che accusavano la Compagnia di « eresia » : per l'appunto ciò che la Compagnia stessa affermava di contrastare. Nel 1651 il vescovo di Tolosa accusò la Compagnia di « pratiche empie » e accennò a gravi irregolarità nelle sue cerimonie d'iniziazione", una bizzarra

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eco delle accuse formulate contro i Templari. E minacciò addirit­tura di scomunica i membri della Compagnia. Molti di loro sfida­rono con impudenza la minaccia: una reazione estremamente singolare da parte di cattolici che si proclamavano tanto « pii ».

La Compagnia era stata fondata quando era ancora al culmine lo scalpore suscitato dai « rosacrociani ». A quei tempi si credeva che la « confraternita invisibile » fosse onnipresente, e ciò dava origine non soltanto a un panico paranoico, ma anche alle inevita­bili cacce alle streghe. Tuttavia, non è mai stata trovata traccia di un « rosacrociano » regolarmente iscritto: in nessun luogo, e tanto meno nella cattolicissima Francia. Per quanto riguardava la Fran­cia, i « rosacrociani » restavano il prodotto dell'allarmistica fanta­sia popolare. Ma lo erano veramente? Se esistevano davvero « rosacrociani » decisi a insediarsi in Francia, quale facciata più conveniente poteva esservi di un'organizzazione dedita a stanare i « rosacrociani »? Insomma, è possibile che i « rosacrociani » mi­rassero a realizzare i loro obiettivi, e acquisissero un seguito in Francia spacciandosi per i nemici implacabili di se stessi.

La Compagnia sfidò con successo Mazzarino e Luigi XIV. Nel 1660, pochi mesi prima della morte del cardinale, il re si pronunciò ufficialmente contro la Compagnia e ne ordinò la scioglimento. Nei cinque anni che seguirono, la Compagnia ignorò sfrontata­mente l'editto reale. Alla fine, nel 1665, pervenne alla conclusione che non poteva continuare a operare nella « forma presente ». Perciò tutti i documenti relativi alla società furono richiamati e nascosti a Parigi in un deposito segreto. Il deposito non è mai stato individuato, anche se in genere si ritiene che fosse Saint Sulpice.12 Se era veramente così, gli archivi della Compagnia dovettero essere accessibili, più di due secoli dopo, a uomini come l'abate Émile Hoffet.

Ma anche se la Compagnia smise di esistere in quella che era allora la sua « forma presente », continuò egualmente a operare almeno fino all'inizio del secolo successivo e a costituire una spina nel fianco di Luigi XIV. Secondo certe tradizioni non confermate, sopravvisse fino al XX secolo.

Sia vera o no quest'ultima affermazione, non c'è dubbio che la Compagnia sopravvisse al presunto scioglimento del 1665. Nel 1667 Molière, fedelissimo di Luigi XIV, la attaccò con varie allu-

 

sioni velate ma pungenti nel Tartufo, Benché fosse apparentemen­te estinta, per rappresaglia la Compagnia riuscì a far proibire la commedia per due anni, nonostante la protezione reale di cui godeva Molière. E sembra che la Compagnia avesse i propri portavoce letterari. Si dice, ad esempio, che includesse La Roche-foucauld, il quale ebbe certamente una parte nella Fronda. Secon­do Gerard de Sède, anche La Fontaine era membro della Compa­gnia, e le sue incantevoli favole, in apparenza tanto innocue, erano attacchi allegorici contro il trono. La cosa non è inconcepi­bile. Luigi XIV nutrì sempre una profonda antipatia per La Fon­taine, e si oppose energicamente alla sua ammissione all'Accade­mia di Francia. Inoltre tra i padroni e protettori di La Fontaine figuravano il duca di Guisa, il duca di Buglione, il visconte di Turenne e la vedova di Gastone d'Orleans.

Nella Compagnia del Santo Sacramento avevamo quindi trova­to un'autentica società segreta, la cui storia era ben documentata. Era ufficialmente cattolica, ma era legata ad attività nettamente anticattoliche. Era associata a certe importanti famiglie aristocra-tiche, che erano state attive nella Fronda e le cui genealogie figuravano nei « documenti del Priorato ». Aveva stretti collega­menti con Saint Sulpice. Operava principalmente mediante l'infil­trazione e aveva finito per esercitare un'influenza enorme. Infine si opponeva attivamente al cardinale Mazzarino. Sotto tutti questi aspetti corrispondeva in modo quasi perfetto all'immagine del Priorato di Sion, come veniva presentato dai « documenti del Priorato ». Se Sion era davvero attivo durante il XVII secolo, potevamo ragionevolmente presumere che fosse stato sinonimo della Compagnia, o forse il potere che stava dietro alla Compa­gnia.

Chàteau Barberie

Secondo i « documenti del Priorato », l'opposizione di Sion a Mazzarino aveva provocato la rabbiosa rappresaglia del cardinale. Tra le vittime più illustri sarebbe stata la famiglia Plantard, discen­dente in linea retta da Dagoberto II e dalla dinastia Merovingia. Nel 1548, affermano i « documenti del Priorato », Jean des Plan­tard aveva sposato Marie de Saint-Clair formando così un altro

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legame tra la sua famiglia e quella dei Saint-Clair-Gisors. A quel tempo, inoltre, la famiglia Plantard si era stabilita in un certo Chàteau Barberie presso Nevers, nel Nivernese. Il castello sareb­be stato la residenza ufficiale dei Plantard durante il secolo succes­sivo. Poi, l'il luglio 1659, secondo i « documenti del Priorato », Mazzarino ordinò di radere al suolo il castello. Nell'incendio, la famiglia Plantard avrebbe perduto tutti i suoi averi.'1

Nessun testo di storia, nessuna biografia di Mazzarino confer­mava queste asserzioni. Nelle nostre ricerche non trovammo men­zione di una famiglia Plantard nel Nivernese e, all'inizio, neppure di Chàteau Barberie. Tuttavia Mazzarino, per qualche ragione imprecisata, aveva messo gli occhi sul Nivernese e sul ducato di Nevers. Alla fine riuscì a ottenerli, e il contratto di cessione porta la data dell'll luglio 1659,'4 lo stesso giorno in cui sarebbe stato distrutto Chàteau Barberie.                                                 '

Questo ci indusse ad approfondire le indagini. Alla fine riesu­mammo alcune prove frammentarie. Non bastavano a spiegare tutto, ma confermavano la veridicità dei « documenti del Priora­to ». In una compilazione delle tenute del Nivernese, datata 1506, era effettivamente menzionata una Barberie. E un atto del 1575 nominava un villaggio del Nivernese chiamato Les Plantards.'5

Cosa ancora più convincente, scoprimmo che l'esistenza di Chà­teau Barberie era stata definitivamente accertata. Nel 1874-75 alcuni membri della Società delle lettere, scienze e arti di Nevers intrapresero scavi esplorativi sul sito di certe rovine. Fu un'impre­sa difficile, perché le rovine erano pressoché irriconoscibili; le pietre erano state vetrificate dal fuoco e la località era invasa dagli alberi. Alla fine, tuttavia, furono scoperti i resti delle mura e di un castello. Oggi si ammette che in quel luogo sorgesse Barberie. Prima della distruzione, a quanto pare, consisteva di una cittadina fortificata e di un castello '6 che si trova a poca distanza dal vecchio villaggio di Les Plantards.

Adesso potevamo affermare che Chàteau Barberie era indiscu­tibilmente esistito ed era stato distrutto da un incendio. E data l'esistenza del villaggio di Les Plantards, non c'è motivo di dubita­re che appartenesse a una famiglia che portava questo nome. La cosa strana è che non sia documentata la data della distruzione del castello, né chi lo distrusse. Se il responsabile fu Mazzarino,

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sembra che si fosse dato molto da fare per eliminare tutte le tracce della sua azione. Anzi, evidentemente c'era stato un tentativo sistematico per cancellare Chàteau Barberie dalle carte geografi­che e dalla storia. Perché intraprendere una simile opera di cancel­lazione, se non c'era qualcosa da nascondere?

Nicolas Fouquet

Mazzarino aveva altri nemici, oltre ai frondisti e alla Compagnia del Santo Sacramento. Tra i più potenti c'era Nicolas Fouquet, che nel 1653 era divenuto sovrintendente delle Finanze di Luigi XIV. Fouquet, ambizioso, dotato e precoce, in pochi anni diventò l'uo­mo più ricco e potente del regno. Qualche volta veniva addirittura chiamato « il vero re di Francia ». E non gli mancavano le aspira­zioni politiche. Correva voce che intendesse trasformare la Breta-gna in un ducato indipendente e farsene signore.

La madre di Fouquet era un membro eminente della Compa­gnia del Santo Sacramento, e lo era anche suo fratello Charles, arcivescovo di Narbona in Linguadoca. Anche il fratello minore, Louis, era un ecclesiastico. Nel 1656 Nicolas Fouquet inviò Louis a Roma per ragioni che - anche se non sono necessariamente miste­riose - non sono mai state spiegate. Da Roma, Louis scrisse l'enigmatica lettera citata nel primo capitolo, la lettera che parla di un incontro con Poussin e di un segreto che « persino i re stente­rebbero grandemente a ottenere da lui ». E infatti, se Louis era indiscreto nella sua corrispondenza, Poussin non lasciò trapelare nulla. Il suo sigillo personale portava il motto « Tenet Confiden-tiam ».

Nel 1661 Luigi XIV ordinò l'arresto di Nicolas Fouquet. Le imputazioni erano estremamente generiche e nebulose. C'erano vaghe accuse di malversazione e altre, ancora più vaghe, di sedi­zione. In base a queste accuse, tutti i beni e le proprietà di Fouquet furono posti sotto sequestro reale. Ma il re vietò ai suoi funzionari di toccare le carte e la corrispondenza di Fouquet. Pretese di esaminare questi documenti personalmente e in privato.

Il processo si trascinò per quattro anni e fece molto scalpore in Francia, dividendo violentemente l'opinione pubblica. Louis Fou­quet, che si era incontrato con Poussin e aveva inviato la lettera da

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Roma, nel frattempo era morto. Ma la madre del sovrintendente e l'altro fratello mobilitarono la Compagnia del Santo Sacramento, della quale faceva parte anche uno dei giudici. La Compagnia appoggiò in pieno il sovrintendente, influenzando i tribunali e la pubblica opinione. Luigi XIV, che di solito non era assetato di sangue, esigeva una condanna a morte. Rifiutando di lasciarsi intimidire, il tribunale pronunciò una sentenza di bando perpetuo. Infuriato, il re, che continuava a pretendere una condanna capita­le, destituì i giudici recalcitranti e li sostituì con altri più docili; ma sembra che la Compagnia continuasse ad adoperarsi attivamente, sfidandolo. Alla fine, nel 1665 Fouquet fu condannato al carcere a vita. Per ordine del re, fu tenuto in rigoroso isolamento. Gli era proibito scrivere e non poteva comunicare con nessuno. E sembra che i soldati che parlavano con lui venissero mandati alle galere o, in alcuni casi, venissero addirittura impiccati.17

Nel 1665, l'anno della condanna di Fouquet, Poussin morì a Roma. Negli anni successivi, Luigi XIV cercò ostinatamente, per mezzo di suoi agenti, di procurarsi un quadro: Les bergers d'Arca­die. Nel 1685 ci riuscì, ma il quadro non fu messo in mostra, neppure nella residenza reale. Venne chiuso negli appartamenti privati del re, dove nessuno poteva vederlo senza espressa autoriz­zazione del sovrano.

La storia di Fouquet ha un seguito perché la sua disgrazia, per quanto enorme, non ricadde sui suoi figli. Verso la metà del secolo successivo il nipote di Fouquet, il marchese di Belle-Isle, era diventato l'uomo più importante di Francia. Nel 1718 il marchese cedette alla corona Belle-Isle, un'isola fortificata al largo della costa bretone. In cambio ottenne certi territori interessanti. Uno era Longueville, i cui duchi e duchesse figuravano spesso nelle nostre indagini. E un altro era Gisors. Nel 1718 il marchese di Belle-Isle divenne conte di Gisors. Nel 1742 diventò duca di Gisors. E nel 1748 Gisors fu elevato al rango di primo ducato.

Nicolas Poussin                                      r v

Poussin nacque nel 1594 in un paesetto, Les Andelys, situato a pochi chilometri da Gisors in Normandia. Da giovane lasciò la Francia e si stabilì a Roma, dove trascorse tutta la vita, ritornando

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una sola volta nella sua terra natale. Rientrò in Francia poco dopo il 1640, su richiesta del cardinale Richelieu, che l'aveva invitato ad affidargli una particolare commissione.

Sebbene non fosse coinvolto attivamente nella politica- e pochi storici hanno accennato ai suoi interessi in questo campo-Poussin era strettamente legato alla Fronda. Non lasciò il rifugio romano. Ma la sua corrispondenza del periodo rivela che era profondamen­te votato al movimento anti-Mazzarino e che era in rapporti sorprendentemente amichevoli con un gran numero di frondisti influenti, al punto che, parlando di loro, usa più volte il pronome « noi », includendo quindi anche se stesso.18

Avevamo già fatto risalire i motivi del fiume sotterraneo Alfeo, dell'Arcadia e dei pastori arcadi, a Renato d'Angiò. Ci accingem­mo, adesso, a cercare un antecedente per la frase che appare nel quadro di Poussin, Et in Arcadia Ego. La stessa frase compariva in un precedente quadro dello stesso Poussin, dove la tomba è sovra­stata da un teschio e non costituisce una costruzione a sé, ma è inserita in una parete rocciosa. In primo piano, un barbuto dio delle acque è atteggiato in posa meditabonda: è il dio fluviale Alfeo, signore del fiume sotterraneo. L'opera risale al 1630 o al 1635, quindi a cinque o dieci anni prima del più noto Les bergers d'Arcadie.

La frase « Et in Arcadia Ego » fece la sua prima apparizione pubblica tra il 1618 e il 1623, in un quadro di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, un quadro che costituisce la base dell'opera di Poussin. Nel dipinto del Guercino due pastori, en­trando in una radura, si sono imbattuti in un sepolcro di pietra, che reca l'iscrizione ormai famosa. Sul sepolcro spicca un grosso cra­nio. Qualunque sia il significato simbolico di quest'opera, il Guer­cino presentava un certo numero di interrogativi. Non soltanto era versato nella tradizione esoterica, ma sembra anche che conosces­se bene quella delle società segrete, e alcuni dei suoi dipinti hanno temi chiaramente massonici... vent'anni prima che le logge comin­ciassero a proliferare in Inghilterra e in Scozia. Un quadro, II risveglio del Maestro, si riferisce esplicitamente alla leggenda mas­sonica di Hiram Abiff, architetto e costruttore del Tempio di Salomone. E fu dipinto quasi un secolo prima che la leggenda di

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Hiram, a quanto si sa, entrasse nel patrimonio della tradizione massonica.19

Nei « documenti del Priorato » si dice che « Et in Arcadia Ego » fosse il motto ufficiale della famiglia Plantard almeno dal XII secolo, quando Jean de Plantard sposò Idoine de Gisors. Secondo una fonte citata nei « documenti del Priorato », è ripor­tato nel 1210 da una certo Robert, abate di Mont-Saint-Michel.20 Non ci fu permesso di consultare gli archivi di Mont-Saint-Michel, e quindi non potemmo accertare la fondatezza dell'affermazione. Le ricerche ci convinsero, comunque, che la data del 1210 era errata. Per l'esattezza, nel 1210 non c'era un abate di Mont-Saint-Michel che si chiamasse Robert. D'altre parte, un certo Robert de Torigny fu abate di Mont-Saint-Michel tra il 1154 e il 1186. E si sa che Robert de Torigny fu uno storico assiduo e prolifico, che si compiaceva di collezionare motti, stemmi, blasoni e armi delle famiglie nobili di tutta la cristianità.21

Qualunque fosse l'origine della frase, « Et in Arcadia Ego » sembra aver avuto per il Guercino e Poussin un significato più importante di un semplice verso elegiaco. Chiaramente, doveva avere un rilevante significato segreto, riconoscibile per certe altre persone: insomma, l'equivalente di un segno o di una parola d'ordine massonica. È appunto in questi termini che un'afferma­zione contenuta nei « documenti del Priorato » definisce il carat­tere dell'arte simbolica o allegorica:

Le opere allegoriche hanno questo vantaggio: una sola parola basta a illuminare connessioni che la moltitudine non può afferrare. Tali opere sono accessibili a tutti, ma il loro significato si rivolge a un'elite. Al di sopra e al di là delle masse, mittente e destinatario si comprendono. Il successo inspiegabile di certe opere deriva da questa qualità di allegoria, che costituisce non già una semplice moda, ma una forma di comunicazio­ne esoterica.22

Nel suo contesto, questa affermazione veniva fatta con riferi­mento a Poussin. Tuttavia, come ha dimostrato Frances Yates, potrebbe venire applicata con la stessa validità alle opere di Leo­nardo, del Botticelli e di altri artisti rinascimentali. E potrebbe venire applicata anche a personaggi vissuti più tardi: Nodier, Hugo, Debussy, Cocteau, e ai loro rispettivi circoli.

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Figura 1    Lo stemma della famiglia Piantarci

La cappella di Rosslyn e Shugborough Hall

Nel corso delle precedenti ricerche avevamo scoperto una quanti­tà di legami importanti fra i presunti Gran maestri di Sion del XVII e del XVIII secolo e la massoneria europea. Durante il nostro studio sulla massoneria scoprimmo anche certi altri legami. Questi collegamenti non riguardavano i presunti Gran maestri, ma altri aspetti della nostra indagine.

Ad esempio, incontrammo ripetuti riferimenti alla famiglia Sin­clair, il ramo scozzese della famiglia normanna Saint-Clair-Gisors. Il suo dominio, a Rosslyn, era a pochi chilometri dall'antico quar-tier generale scozzese dei Cavalieri Templari, e la cappella di Rosslyn, costruita tra il 1446 e il 1486, da molto tempo è stata associata tanto alla massoneria quanto ai Rosacroce. In un atto che si ritiene risalga al 1601, inoltre, i Sinclair sono riconosciuti come « Gran maestri ereditari della massoneria scozzese ».23 Questo è il primo documento specificamente massonico che si conosca. Tuttavia, secondo fonti massoniche, il titolo ereditario di Gran maestro fu conferito ai Sinclair da Giacomo II, che regnò tra il 1437 e il 1460, all'epoca di Renato d'Angiò.

Un altro pezzo, ancora più misterioso, del nostro rompicapo emerse egualmente in Gran Bretagna, questa volta nello Stafford-shire, che era stato un vivaio di attività massoniche nella prima metà del XVII secolo. Quando Charles Radclyffe, presunto Gran maestro di Sion, evase dal carcere di Newgate nel 1714, fu aiutato dal cugino, il conte di Lichfleld. Nello stesso secolo, la famiglia dei conti di Lichfield si estinse, e il titolo rimase adespoto. All'inizio del XIX secolo fu acquistato dai discendenti della famiglia Anson, che sono gli attuali conti di Lichfield.

La sede dei conti di Lichfield, oggi, è Shugborough Hall, nello Staffordshire. Già residenza vescovile, Shougborough fu acquista­ta dalla famiglia Anson nel 1697. Durante il secolo che seguì, fu la residenza del fratello di George Anson, il celebre ammiraglio che circumnavigò il globo. Quando George Anson morì nel 1762, venne letta in Parlamento una elegia. Una stanza della poesia dice:

Su quel marmo istoriato posa l'occhio.

La scena strappa un sospiro morale.

Fin nelle piane elisie dell'Arcadia,

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.   Tra le ninfe ridenti e i pastori, Vedi la gioia festosa che si spegne, E la pietà surrogare il sorriso; Dove le danze, e il liuto, e le feste, La passione che vibra in cuori ardenti, Nel giovanile fiore della vita, Sta la ragione e indica la tomba!24

Sembra un'allusione esplicita al quadro di Poussin e all'iscrizio­ne « Et in Arcadia Ego », fino al dettaglio della « ragione che indica la tomba ». E nei terreni di Shugborough c'è un imponente bassorilievo marmoreo, eseguito per ordine della famiglia Anson tra il 1761 e il 1767. Il bassorilievo è una riproduzione - rovesciata come in uno specchio - dei Bergers d'Arcadie di Poussin. E sotto c'è un'iscrizione enigmatica che nessuno ha mai decifrato in modo soddisfacente:

O.U.O.S.V.A.V.V. D                             M

La lettera segreta del papa

Nel 1738 il pontefice Clemente XII emanò una Bolla che condan­nava e scomunicava tutti i massoni, dichiarati « nemici della Chie­sa di Roma ». Non è mai stato completamente chiarito perché dovessero essere considerati tali, tanto più che molti di loro, come i giacobiti di quel tempo, erano ufficialmente cattolici. Forse il papa era a conoscenza del collegamento che anche noi avevamo scoperto fra la massoneria e i « rosacrociani » anticattolici del XVII secolo. Comunque, sul problema può gettare un po' di luce una lettera resa accessibile e pubblicata per la prima volta nel 1962. La lettera era stata scritta da Clemente XII a un destinatario sconosciuto. Il papa vi afferma che il pensiero massonico è fondato su un'eresia che noi avevamo già incontrato più volte: la negazione della divinità di Gesù. Inoltre, asserisce che gli ispiratori, le « menti » che stanno dietro la massoneria, sono gli stessi che aveva­no provocato la Riforma luterana.25 È possibile che il papa fosse paranoico; ma è importante notare che non parla affatto di nebu­losi correnti di pensiero o di tradizioni vaghe. Al contrario, parla di un gruppo di individui ben organizzati, una setta, un ordine, una

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società segreta che, nel corso dei secoli, si è impegnata per sovver­tire l'edificio del cristianesimo cattolico.

La Pietra di Sion

Nel tardo secolo XVIII, quando proliferavano a getto continuo i più diversi sistemi massonici, apparve il cosiddetto Rito orientale di Memphis.26 In questo rito ricorreva per la prima volta- a quanto ci risultava - il nome Ormus: il nome che sarebbe stato adottato dal Priorato di Sion tra il 1188 e il 1307. Secondo il Rito orientale di Memphis, Ormus era un saggio egiziano che, intorno all'anno 46 d.C., fuse i misteri pagani e cristiani e fondò la Rosacroce.

In altri riti massonici del XVIII secolo vi sono ripetuti riferimen­ti alla « Pietra di Sion », la stessa Pietra di Sion che, secondo i « documenti del Priorato », rendeva la « tradizione reale » stabili­ta da Goffredo e Baldovino di Buglione « eguale » a quella di tutte le altre dinastie regnanti in Europa. Avevamo presunto, in prece­denza, che la Pietra di Sion fosse semplicemente il Monte Sion, I'« alto colle » a sud di Gerusalemme dove Goffredo costruì un abbazia per accogliere l'ordine divenuto poi il Priorato di Sion. Ma le fonti massoniche attribuiscono alla Pietra di Sion un altro si­gnificato. Dato il loro interesse per il Tempio di Gerusalemme, non è sorprendente che rimandino a passi precisi della Bibbia. E in questi passi la Pietra di Sion è qualcosa di più di un colle. È una particolare pietra, trascurata o ingiustificatamente dimenticata durante la costruzione del Tempio, che deve essere recuperata e incorporata come testata d'angolo. Secondo il Salmo 118, ad esempio:

La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo. In Matteo 21:42 Gesù allude espressamente a questo salmo:

Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d'angolo.

Nella lettera ai Romani 9:33 c'è un altro riferimento, più ambi­guo:

Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d'inciampo ; ma chi crede in lui non sarà deluso.

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Negli Atti degli Apostoli 4:11 la Pietra di Sion può essere interpretata come una metafora che indica lo stesso Gesù:

nel nome di Gesù Cristo il Nazareno... costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi costruttori, è diventata testata d'angolo.

Nella Lettera degli Efesini 2:20, l'equazione tra Gesù e la Pietra di Sion diviene più evidente:

edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù.

E nella I Lettera di Pietro 2:3-8 l'equazione viene resa ancora più esplicita:

come è buono il Signore. Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacer­dozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà confuso. Onore dunque a voi che credete: ma per gli increduli, la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare, sasso d'inciampo e pietra di scandalo. Loro v'inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati.

Nel versetto successivo, il testo pone in risalto temi il cui signifi­cato ci apparve evidente solo più tardi. Parla di una stirpe eletta di re che sono capi spirituali e secolari, una stirpe di re-sacerdoti:

Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato...

Cosa dovevamo dedurre da questi passi sconcertanti? Cosa dovevamo pensare della Pietra di Sion, la pietra angolare del Tempio, che sembrava avere un posto tanto saliente nei « segreti interni » della massoneria? Come dovevamo interpretare l'esplici­ta identificazione tra la pietra angolare e lo stesso Gesù? E come dovevamo intendere la « tradizione regale » che, essendo fondata sulla Pietra di Sion e lo stesso Gesù, era « eguale » alle dinastie dei regnanti in Europa durante le Crociate?27

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Il movimento modernista cattolico

Nel 1833 Jean Baptiste Pitois, già discepolo di Charles Nodier alla Biblioteca dell'Arsenale, era funzionario del ministero della Pub­blica Istruzione.28 Quell'anno il ministero intraprese un progetto ambizioso: pubblicare tutti i documenti relativi alla storia della Francia che in precedenza erano rimasti inaccessibili. Furono istituite due commissioni incaricate di occuparsi del progetto. Delle commissioni facevano parte, tra gli altri, Victor Hugo, Jules Michelet e un'autorità in fatto di Crociate, il barone Emmanuel Rey.

Tra le opere pubblicate successivamente sotto gli auspici del ministero della Pubblica Istruzione, vi fu il monumentale Procès des Templìers di Michelet, un'esauriente compilazione dei verbali dell'Inquisizione relativi ai processi dei Cavalieri Templari. Sotto gli stessi àuspici, il barone Rey pubblicò diverse opere sulle Cro­ciate e il regno franco di Gerusalemme. In queste opere vennero stampati per la prima volta atti originali relativi al Priorato di Sion. In certi punti, i testi che Rey cita coincidono quasi parola per parola con brani dei « documenti del Priorato ».

Nel 1875 il barone Rey fu co-fondatore della Société de l'Orient Latin. La società, che aveva sede a Ginevra, si dedicò ad ambiziosi progetti archeologici. Pubblicò una sua rivista, la « Revue de l'Orient Latin », che oggi è una delle fonti principali per gli storici moderni come Sir Steven Runciman. La « Revue de l'Orient Latin » riprodusse un certo numero di altri atti del Priorato di Sion.

Le ricerche di Rey erano tipiche di una nuova metodologia di studi storici che stava nascendo a quei tempi in Europa, soprattut­to in Germania, e che costituiva una minaccia estremamente seria per la Chiesa. La diffusione del pensiero darwiniano e dell'agno­sticismo aveva già prodotto una « crisi di fede » nella seconda metà del XIX secolo, e la nuova ricerca storica ingigantiva tale crisi. In passato, la ricerca storica era stata quasi sempre inattendi­bile, basata su fondamenta molto tenui, sulla leggenda e sulla tradizione, sulle memorie personali, sulle esagerazioni promulga­te nell'interesse delFuna o dell'altra causa. Solo nel XIX secolo gli studiosi tedeschi incominciarono a introdurre le tecniche rigorose

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e meticolose che oggi vengono accettate come gli strumenti nor­mali di ogni storico serio. L'interesse per l'esame critico, le indagi­ni sulle fonti di prima mano, i dati a conferma e la cronologia esatta crearono l'immagine convenzionale del pedante teutonico. Ma se gli scrittori tedeschi di quel periodo tendevano a perdersi nella minuzie, fornivano anche una solida base per le indagini. E anche per un buon numero di grandiose scoperte archeologiche. L'esempio più famoso, naturalmente, è la scoperta dell'antica Troia effettuata da Heinrich Schliemann.

Era solo questione di tempo, prima che le tecniche tedesche venissero applicate con la stessa diligenza anche alla Bibbia. E la Chiesa, che si basava sull'accettazione indiscussa del dogma, si rendeva perfettamente conto che la Bibbia poteva anche non reggere a un simile esame critico. Nella sua famosa e discussa Vita di Gesù, Ernest Rénan aveva già applicato la metodologia tedesca al Nuovo Testamento, e per Roma i risultati erano estremamente imbarazzanti.

Il movimento modernista cattolico nacque inizialmente in rispo­sta a questa nuova sfida. Il suo obiettivo originario era produrre una generazione di esperti ecclesiastici, versati nella tradizione tedesca, capaci di difendere la verità letterale delle Scritture con i mezzi dell'erudizione critica. Tuttavia, le cose non andarono come si sperava. Più la Chiesa si sforzava di dotare ecclesiastici più giovani degli strumenti per combattere il mondo polemico moder­no, e più gli stessi ecclesiastici cominciavano a disertare la causa per la quale erano reclutati. L'esame critico della Bibbia rivelava una quantità di contraddizioni, di discrepanze e di implicazioni decisamente avverse al dogma' romano. E alla fine del secolo i modernisti non erano più le truppe scelte d'assalto su cui aveva aspirato la Chiesa, ma disertori ed eretici potenziali. Anzi, costi­tuirono la minaccia più grave che la Chiesa avesse incontrato dopo Martin Luterò, e portarono l'intero edificio del cattolicesimo sul­l'orlo di uno scisma che non aveva precedenti da secoli.

La fucina dell'attività modernista era Saint Sulpice, a Parigi, che era già stato la culla della Compagnia del Santo Sacramento. Anzi, una delle voci più risonanti del movimento modernista fu l'uomo che dal 1852 al 1884" diresse il seminario di Saint Sulpice. Da Saint Sulpice, il pensiero modernista si diffuse rapidamente nel resto

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della Francia, in Italia e in Spagna. Secondo questo pensiero, i testi biblici non erano inoppugnabilmente autorevoli, ma andava­no intesi nel contesto specifico dei loro tempi. Inoltre i modernisti si ribellavano alla crescente centralizzazione del potere ecclesiasti­co, e soprattutto alla dottrina dell'infallibilità del papa, imposta di recente,30 che contrastava in modo clamoroso con le nuove ten­denze. In breve tempo, il pensiero modernista venne diffuso non soltanto da ecclesiastici intellettuali, ma anche da scrittori illustri e influenti. Personaggi come Roger Martin du Gard in Francia e Miguel de Unamuno in Spagna furono tra i principali portavoce del modernismo.

La Chiesa, prevedibilmente, reagì con iroso vigore. I moderni­sti vennero accusati d'essere massoni. Molti di loro furono sospesi a divinis o addirittura scomunicati, e i loro libri furono messi all'Indice. Nel 1903 papa Leone XIII istituì la Pontificia commis­sione biblica per controllare l'opera degli studiosi delle Scritture. Nel 1907 papa Pio X pronunciò una formale condanna contro il modernismo. E il 1° settembre 1910 la Chiesa pretese dai suoi religiosi un giuramento contro le tendenze moderniste.

Il modernismo continuò a fiorire fino a che la Prima guerra mondiale dirottò l'attenzione del pubblico su altri e più gravi avvenimenti. Fino al 1914 rimase una cause célèbre. Un autore modernista, l'abate Turmel, si dimostrò un personaggio partico­larmente insidioso. Mentre in apparenza si comportava in modo impeccabile nella sua cattedra d'insegnamento in Bretagna, pub­blicò una serie di opere moderniste sotto ben quattordici pseudo­nimi diversi. Furono tutte messe all'Indice, ma solo nel 1929 il loro autore venne identificato in Turmel. È superfluo aggiungere che fu immediatamente scomunicato.

Nel frattempo il modernismo si era diffuso in Gran Bretagna, dove fu accolto a braccia aperte dalla Chiesa anglicana. Fra i suoi seguaci anglicani vi fu William Temple, poi divenuto arcivescovo di Canterbury, il quale dichiarava che « quasi tutta le gente istruita crede già nel modernismo ».M Uno dei collaboratori di Temple era il canonico A.L. Lilley. E Lilley aveva conosciuto l'ecclesiastico dal quale avevamo ricevuto quella lettera sensazionale: la lettera in cui si parlava della « prova incontrovertibile » del fatto che Gesù non era morto sulla croce.

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Come già sapevamo, Lilley aveva lavorato per diverso tempo a Parigi, dove aveva conosciuto l'abate Émile Hoffet, l'uomo al quale Saunière portò le pergamene trovate a Rennes-le-Chàteau. Con la sua conoscenza della storia, delle lingue e della linguistica, Hoffet era il tipico giovane erudito modernista del suo tempo. Tuttavia, non aveva studiato a Saint Sulpice. Al contrario, aveva studiato in Lorena. Al seminario di Sion: La colline inspirée.™

I protocolli di Sion

Una delle testimonianze più persuasive che noi trovammo circa l'esistenza e le attività del Priorato di Sion risaliva alla fine del XIX secolo. È una testimonianza piuttosto nota, ma non è riconosciuta come tale. Al contrario, è sempre stata associata a cose molto più sinistre.

Ha avuto un ruolo esecrabile nella storia recente e ancora oggi tende a suscitare sentimenti così violenti, rabbiosi antagonismi e lugubri ricordi, che quasi tutti gli autori preferiscono liquidarla sommariamente. Data la misura in cui questa testimonianza ha contribuito a fomentare i pregiudizi umani e a causare sofferenze, tale reazione è del tutto comprensibile. Ma se la testimonianza è stata usata in modo criminoso, le nostre ricerche ci convinsero che era anche stata gravemente fraintesa.

Il ruolo di Rasputin alla corte di Nicola e Alessandra di Russia è in generale più o meno noto. Tuttavia, non è altrettanto noto che alla corte russa, molto tempo prima di Rasputin, vi furono gruppi esoterici influenti o addirittura molto potenti. Tra il 1890 e il 1910, uno di questi gruppi si formò intorno a un personaggio conosciuto come Monsieur Philippe, e intorno al suo mentore, che fece visite periodiche alla corte imperiale di Pietroburgo. E il mentore di Monsieur Philippe non era altro che l'uomo chiamato Papus," l'e-sotensta francese legato a Jules Doinel (fondatore della chiesa neocatara in Linguadoca), Péladan (che affermava di aver scoper­to la tomba di Gesù), Emma Calve e Claude Debussy. Insomma, la « rinascita dell'occultismo francese » della fine del XIX secolo non soltanto era arrivata a Pietroburgo, ma i suoi esponenti gode­vano del ruolo privilegiato di confidenti dello zar e della zarina.

Tuttavia, il gruppo esoterico di Papus e di Monsieur Philippe

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era attivamente contrastato da altri potenti interessi: c'era ad esempio la granduchessa Elisabetta, impegnata a installare i suoi favoriti intorno al trono imperiale. Uno dei favoriti della grandu­chessa era un individuo piuttosto spregevole, conosciuto dai po­steri sotto lo pseudonimo di Serghei Nilus. Intorno al 1903 Nilus presentò allo zar un documento estremamente polemico che, a quanto sembrava, attestava l'esistenza di una pericolosa cospira­zione. Ma se Nilus si aspettava che lo zar gli fosse grato per la rivelazione, rimase amaramente deluso. Lo zar affermò che il documento era un falso vergognoso, e ordinò la distruzione di tutte le copie. E Nilus fu bandito dalla corte.

Naturalmente il documento, o almeno una sua copia, sopravvis­se. Nel 1903 fu pubblicato su un quotidiano, ma non suscitò interesse. Nel 1905 fu ripubblicato, questa volta come appendice a un libro di un illustre filosofo mistico, Vladimir Soloviov. A questo punto cominciò a destare attenzione. Negli anni che seguirono divenne uno dei documenti più famigerati del XX secolo.

Il documento era un trattato o, a stretto rigore, un presunto programma sociale e politico. È apparso sotto titoli diversi, tra i quali il più comune è Iprotocolli degli anziani di Sion.M I Protocol­li, si affermava, provenivano da fonti specificatamente ebree. E per molti antisemiti, a quel tempo, costituivano la prova convin­cente di una « cospirazione giudaica internazionale ». Nel 1919, ad esempio, furono distribuiti alle truppe dell'armata bianca rus­sa; e nei due anni successivi quelle truppe massacrarono ben 60.000 Ebrei, ritenuti responsabili della Rivoluzione del 1917. Nel 1919 i Protocolli, vennero fatti circolare anche da Alfred Rosen-berg, destinato a diventare il principale teorico e propagandista del razzismo per conto del Partito nazionalsocialista tedesco. In Mein Kampf Hitler si servì dei Protocolli per alimentare i suoi pregiudizi fanatici, e sembra che credesse ciecamente nella loro autenticità. In Inghilterra i Protocolli furono immediatamen­te presi sul serio dalla « Morning Post ». Persino il « Times », nel 1921, li prese altrettanto sul serio, e solo più tardi ammise il proprio errore. Oggi gli esperti concordano nel ritenere — e a ragione, secondo le nostre conclusioni - che i Protocolli, alme-' no nella forma attuale, siano un falso perverso e insidioso. Tutta­via sono ancora in circolazione nell'America Latina, in Spagna

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e persino in Gran Bretagna, come propaganda antisemita.35 I Protocolli presentano a grandi linee niente meno che un pro­gramma per la dominazione totale del mondo. A una prima lettura appaiono come il programma machiavellico - una specie di memo­randum interno, per così dire - di un gruppo di individui decisi a imporre un nuovo ordine mondiale e a diventarne i despoti supre­mi. Il testo propugna una cospirazione tentacolare, votata al disor­dine e all'anarchia e mirante a rovesciare certi regimi esistenti, a infiltrarsi nella massoneria e in altre organizzazioni del genere, e infine ad assumere il controllo assoluto delle istituzioni sociali, politiche ed economiche del mondo occidentale. E gli autori ano­nimi dei Protocolli dichiararono esplicitamente di aver « mano­vrato » interi popoli « secondo un piano politico che nessuno ha mai neppure intuito nel corso di molti secoli ».M

A un lettore moderno i Protocolli possono apparire ideati da un'organizzazione fittizia, come la SPECTRE, l'avversaria di James Bond nei romanzi di Ian Fleming. Quando furono pubblicati perla prima volta, però, i Protocolli vennero presentati come redatti durante un Congresso giudaico internazionale svoltosi a Basilea nel 1897. L'affermazione è stata confutata ormai da molto tempo. Si sa che le prime copie dei Protocolli furono scritte in francese, e al Congresso di Basilea, nel 1897, non era presente neppure un delegato francese. Inoltre, si sa che una copia dei Protocolli circo­lava già nel 1884, ben tredici anni prima del Congresso di Basilea. La copia del 1884 apparve nelle mani di un membro di una loggia massonica, la stessa di cui Papus era membro, e di cui divenne in seguito Gran maestro.37 Inoltre, nella stessa loggia era apparsa per la prima volta la tradizione di Ormus, il leggendario saggio egizia­no che avrebbe amalgamato i misteri pagani e cristiani e avrebbe fondato i Rosacroce.

Gli studiosi moderni hanno accertato che i Protocolli, nella versione pubblicata, sono basati almeno in parte su un'opera satirica scritta e stampata a Ginevra nel 1864. L'opera fu redatta, per attaccare Napoleone III, da un certo Maurice Joly, che in seguito fu arrestato. Joly viene presentato come appartenente a un ordine rosacrociano. Fosse vero o no, è comunque certo che era amico di Victor Hugo; e Hugo, che condivideva le antipatie di Joly per Napoleone III, faceva parte di un ordine rosacrociano.

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Si può quindi provare in modo indiscutibile che i Protocolli non uscirono dal Congresso giudaico di Basilea del 1897. L'interrogati­vo ovvio, perciò, è questo: da dove provenivano? Gli studiosi moderni li ritengono un falso, un documento interamente spurio fabbricato da antisemiti decisi a screditare il giudaismo. Tuttavia, gli stessi Protocolli confutano tale conclusione. Ad esempio, con­tengono un certo numero di riferimenti enigmatici, che chiara­mente non sono giudaici. Ma questi riferimenti sono così palese­mente non giudaici che non possono neppure essere stati plausibil­mente fabbricati da un falsario. Nessun falsario antisemita dotato di un minimo d'intelligenza avrebbe inventato riferimenti del genere per screditare il giudaismo, perché nessuno sarebbe stato disposto a credere che fossero d'origine giudaica.

Ad esempio, il testo dei Protocolli termina con queste parole: « Firmati dai rappresentanti di Sion del 33° Grado ».38

Perché un falsario antisemita avrebbe inventato questa espres­sione? Perché non avrebbe cercato invece d'incriminare tutti gli Ebrei, anziché i pochi « rappresentanti di Sion del 33° Grado »? Perché non avrebbe dichiarato che il documento era stato firmato, poniamo, dai rappresentanti del Congresso giudaico internaziona­le? Anzi, i « rappresentanti di Sion del 33° Grado » non sembrano aver alcun legame con il giudaismo o con una « cospirazione internazionale ebraica ». Se mai, sembrano riferirsi a qualcosa di specificamente massonico. E il 33° grado della massoneria è quello della cosiddetta « Stretta osservanza », il sistema massonico intro­dotto da Hund per ordine dei suoi « superiori sconosciuti », uno dei quali sembra fosse Charles Radclyffe.

I Protocolli contengono anomalie ancora più flagranti. Il testo parla ripetutamente, ad esempio, dell'avvento di un « regno mas­sonico » e di un « re del sangue di Sion » che presiederà questo « regno massonico ». Afferma che il futuro sovrano sarà « delle radici dinastiche di re Davide ». Asserisce che « il re dei Giudei sarà il vero papa » e « il patriarca di una chiesa internazionale ». E conclude, in modo molto enigmatico: « Certi membri del seme di Davide prepareranno i re e i loro eredi... Solo il re e i tre che furono suoi garanti sapranno ciò che avverrà».39

Quali espressioni del pensiero giudaico, autentico o inventato, queste affermazioni sono clamorosamente assurde. Dopo i tempi

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biblici, nella tradizione giudaica non figura più nessun re, e lo stesso principio della regalità è divenuto del tutto irrilevante. Il concetto di un re sarebbe stato privo di senso per gli Ebrei nel 1897 quanto lo sarebbe oggi; e questo nessun falsario poteva ignorarlo. Anzi, i riferimenti citati sembrerebbero più cristiani che giudaici. Negli ultimi due millenni, l'unico « re dei Giudei » è stato soltanto Gesù; e Gesù, secondo i Vangeli, era delle « radici dinastiche di Davide ». Se qualcuno fabbrica un documento per attribuirlo a una cospirazione ebraica, perché vi include echi tanto avidamente cristiani? Perché parla di un concetto specificatamente e inequivo­cabilmente cristiano come quello di un papa? Perché parla di una « chiesa internazionale » anziché di una sinagoga o di un tempio internazionale? E perché include l'enigmatica allusione al « re e i tre che furono suoi garanti », una frase che fa pensare non tanto al giudaismo e al cristianesimo quanto alle società segrete di Johann Valentin Andrea e di Charles Nodier? Se i Protocolli erano intera­mente frutto di un'immaginazione propagandistica antisemita, è difficile concepire un propagandista tanto inetto, ignorante e di­sinformato.

In base a una ricerca lunga e sistematica, siamo pervenuti a certe conclusioni circa i Protocolli degli anziani di Sion. Eccole:

1)  Esisteva un testo originale sul quale si basava la versione pubblicata dei Protocolli. Questo testo originale non era un falso. Al contrario, era autentico. Ma non aveva nulla a che fare con il giudaismo o una « cospirazione giudaica internazionale ». Prove­niva piuttosto da un'organizzazione massonica o da una società segreta d'orientamento massonico che incorporava la parola « Sion ».

2) II testo originale sul quale si basava la versione pubblicata dei Protocolli non doveva essere inevitabilmente provocatorio e in­fiammato nel linguaggio. Ma poteva includere un programma per acquisire potere, per infiltrare la massoneria, per controllare le istituzioni sociali, politiche ed economiche. Un simile programma sarebbe stato perfettamente in armonia con le società segrete del Rinascimento, con la Compagnia del Santo Sacramento e le istitu­zioni di Andrea e di Nodier.

3) II testo originale sul quale si basava la versione pubblicata dei Protocolli era finito nella mani di Serghei Nilus. Nilus, inizialmen-

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te, non intendeva screditare il giudaismo. Al contrario, portò i Protocolli allo zar con l'intenzione di screditare il gruppo esoterico alla corte imperiale, il gruppo di Papus, Monsieur Philippe e altri membri della società segreta in questione. Prima di farlo, quasi sicuramente modificò il linguaggio, rendendolo molto più veleno­so e infiammato di quanto fosse inizialmente. Quando lo zar lo respinse, Nilus consegnò per la pubblicazione i Protocolli nella versione manipolata. Non erano serviti allo scopo primario di compromettere Papus e Monsieur Philippe, ma potevano ancora essere utili per uno scopo secondario: fomentare l'antisemitismo. Anche se i suoi principali bersagli erano Papus e Monsieur Philip­pe, Nilus era ostile anche al giudaismo.

4) La versione esistente dei Protocolli, quindi, non è un testo completamente falso. Piuttosto, è un testo radicalmente modifica­to. Ma nonostante le alterazioni si possono scorgere certe vestigia della versione originale, come in un palinsesto o in certi passi della Bibbia. Queste vestigia - che si riferivano a un re, un papa, una chiesa internazionale e a Sion - probabilmente significavano poco o nulla per Nilus. Sicuramente, non le avrebbe inventate lui. Ma se erano presenti, Nilus, data la sua ignoranza, non avrebbe avuto motivo di eliminarle. E se queste vestigia non erano pertinenti al giudaismo, potevano esserlo a una società segreta. Come appren­demmo in seguito erano, e sono tuttora, di estrema importanza per il Priorato di Sion.

L'Hiéron du Val d'Or

Mentre proseguivamo la nostra ricerca indipendente, erano ap­parsi nuovi « documenti del Priorato ». Alcuni - stampati privata­mente , come i Dossiers segreti, e destinati a una diffusione limitata - furono messi a nostra disposizione grazie ai buoni uffici di vari amici in Francia o tramite la Bibliothèque Nationale. Altri appar­vero in libri appena pubblicati e messi per la prima volta sul mercato.

Alcune di queste opere contenevano altre notizie sul tardo secolo XIX, e specialmente su Berenger Saunière. Secondo uno di questi resoconti « aggiornati », Saunière non scoprì per puro caso le fatidiche pergamene nella sua chiesa. Al contrario, si afferma,

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fu messo sulle loro tracce da emissari del Priorato di Sion, che si recarono a trovarlo a Rennes-le-Chàteau e si servirono di lui come factotum. Verso la fine del 1916, si aggiunge, Saunière sfidò gli emissari di Sion e si mise in contrasto con loro.'10 Se questo è vero, la morte del curato nel gennaio 1917 assume un aspetto molto più sinistro di quanto si ritenga di solito. Dieci giorni prima di morire, Saunière era in ottima salute. Tuttavia, dieci giorni prima della sua morte, fu ordinata una bara per lui. La ricevuta per la bara, datata 13 gennaio 1917, è firmata dalla governante e confidente di Sau­nière, Marie Denarnaud.

Una pubblicazione più recente del Priorato, e apparentemente più autorevole, si dilunga sulla storia di Saunière e sembra confer­mare, almeno in parte il racconto più sopra. Secondo questa pubblicazione, Saunière era poco più di una pedina, e la parte che ebbe nel mistero di Rennes-le-Chàteau è stata molto esagerata. La vera forza motrice degli eventi accaduti nel villaggio di montagna sarebbe stato l'amico di Saunière, l'abate Henri Boudet, curato del vicino villaggio di Rennes-les-Bains.41

Sarebbe stato Boudet a fornire a Saunière tutto il denaro, per un totale di 13 milioni di franchi, fra il 1887 e il 1915. E sarebbe stato Boudet a guidare Saunière nei suoi vari progetti: le opere pubbli­che, la costruzione di Villa Bethania e della Torre Magdala. Inoltre, sarebbe stato lui a sovrintendere ai restauri della chiesa di Rennes-le-Chàteau e a ideare le sconcertanti Stazioni della Via Crucis di Saunière: come una specie di versione illustrata di un suo libro enigmatico.

Secondo questa recente pubblicazione del Priorato, Saunière sarebbe rimasto sostanzialmente all'oscuro del vero segreto di cui era stato custode, fino a quando Boudet, prossimo alla morte, glielo confidò nel marzo del 1915. Secondo la stessa pubblicazio­ne, Marie Denarnaud, la governante di Saunière, era in realtà l'agente di Boudet. Era per suo tramite che Boudet avrebbe trasmesso le istruzioni a Saunière. E tutto il denaro veniva pagato a lei. O almeno, quasi tutto. Si afferma infatti che Boudet, tra il 1885 e il 1901, avrebbe pagato 7.655.250 franchi al vescovo di Carcassonne, l'uomo che mandò a proprie spese Saunière a Parigi con le pergamene. Sembrerebbe che anche il vescovo fosse quindi, in un certo senso, alle dipendenze di Boudet. E senza dubbio una

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situazione incongrua: un vescovo importante al servizio retribuito di un umile parroco di campagna. E il parroco? Per chi lavorava Boudet? Quali interessi rappresentava? Che cosa gli dava il potere di assicurarsi i servigi e il silenzio del suo superiore ecclesiastico? E chi poteva avergli fornito risorse finanziarie così enormi da dispen­sare con tanta prodigalità? Questi interrogativi non trovano rispo­ste esplicite: ma la risposta è continuamente implicita: il Priorato diSion.

Una nuova luce sull'argomento venne gettata da un'altra opera recente che, come quelle che l'avevano preceduta, sembrava at­tingere a « fonti privilegiate » d'informazione. L'opera è Le trésor du triangle d'or (II tesoro del triangolo d'oro) di Jean-Lue Chau-meil, pubblicata nel 1979. Secondo Chaumeil, numerosi ecclesia­stici coinvolti nell'enigma di Rennes-le-Chàteau - Saunière, Bou­det, molto probabilmente altri come Hoffet, lo zio di Hoffet a Saint Sulpice e il vescovo di Carcassonne - erano affiliati a una forma di massoneria di « Rito scozzese ». Questa massoneria, sostiene Chaumeil, differiva da quasi tutte le altre forme perché era « cristiana, ermetica e aristocratica ». Insomma, a differenza di tanti riti della massoneria, non consisteva soprattutto di liberi pensatori e di atei. Al contrario, sembra che fosse profondamente religiosa e orientata verso la magia, ed esaltasse una sacra gerar-chia sociale e politica, un ordine divino, un piano cosmico fonda­mentale. E i gradi superiori di questa massoneria, secondo Chau­meil, erano i gradi inferiori del Priorato di Sion.42

Nelle nostre ricerche, avevamo già incontrato una massoneria come quella descritta da Chaumeil. Anzi, la sua descrizione si potrebbe applicare al « Rito scozzese » introdotto da Charles Radclyffe e dal suo gruppo. Tanto la massoneria di Radclyffe quanto quella descritta da Chaumeil sarebbero state accettabili, nonostante la condanna papale, per i devoti cattolici: tanto per i giacobiti del XVIII secolo quanto per i preti francesi del XIX. In entrambi i casi, Roma disapprovò, e con grande veemenza. Tutta­via i personaggi coinvolti, sembra, non soltanto continuarono a considerarsi cristiani e cattolici, ma a giudicare dagli indizi accessi­bili, avevano ricevuto una nuova, esaltante trasfusione di fede: una trasfusione che permetteva loro, se mai, di considerarsi più autenticamente cristiani del papato.

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Sebbene Chaumeil sia vago ed evasivo, fa capire chiaramente che negli anni precedenti al 1914 la massoneria di cui facevano parte Boudet e Saunière si fuse con un'altra istituzione esoterica: un'istituzione che potrebbe spiegare gli strani riferimenti a un sovrano contenuti nei Protocolli degli anziani di Sion, soprattutto se, come accenna Chaumeil, il vero potere che stava dietro a questa seconda istituzione era sempre il Priorato di Sion.

L'istituzione si chiamava l'Hiéron du Val d'Or, che sembrereb­be un anagramma di un sito che ricorre spesso nella nostra storia: Orval.43 L' Hiéron du Val d'Or era una specie di società segreta fondata, sembra, nel 1873. A quanto pare, aveva molte cose in comune con altre organizzazioni esoteriche di quel tempo. Ad esempio, c'era il caratteristico risalto attribuito alla geometria sacra e a vari luoghi sacri. C'era una particolare insistenza sulla verità mistica o gnostica alla base dei motivi mitologici. C'era un interesse per le origini degli uomini, delle razze, delle lingue e dei simboli, come nella teosofia. E come molte altre sette e società del tempo, l'Hiéron du Val d'Or era simultaneamente cristiano e « transcristiano ». Esaltava l'importanza del Sacro cuore, ad esempio, tuttavia collegava il Sacro cuore ad altri simboli precri­stiani. Come avrebbe fatto il leggendario Ormus, cercava di conci­liare i misteri pagani e cristiani. E attribuiva una speciale impor­tanza al pensiero druidico che, come molti esperti moderni, rite­neva parzialmente pitagorico. Tutti questi temi sono adombrati nell'opera pubblicata dell'amico di Saunière, l'abate Henri Bou­det.

Ai fini della nostra indagine, l'Hiéron du Val d'Or risultò inte­ressante, grazie alla formulazione di ciò che Chaumeil chiama « una geopolitica esoterica »eun« ordine mondiale etnarchico ». Tradotto in linguaggio più semplice, questo comportava in pratica la fondazione di un nuovo Sacro romano impero nell'Europa del XIX secolo: un Sacro romano impero rivitalizzato e ricostruito, uno Stato laico che unificasse tutti i popoli e avesse fondamenta spirituali più che sociali, politiche o economiche. A differenza del primo, questo nuovo Sacro romano impero sarebbe stato autenti­camente « sacro », autenticamente « romano » e autenticamente « imperiale », anche se il significato specifico di questi termini sarebbe stato radicalmente diverso dal significato accettato dalla

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tradizione convenzionale. Questo Stato avrebbe realizzato il so­gno antichissimo di un « regno celeste » sulla terra, una copia o immagine speculare dell'ordine, dell'armonia e della gerarchia del cosmo. Avrebbe realizzato l'antica premessa ermetica « Come lassù, così quaggiù ». E non era neppure una concezione del tutto ingenua o utopistica. Al contrario, era almeno lontanamente rea­lizzabile nel contesto dell'Europa alla fine del XIX secolo.

Secondo Chaumeil, gli obiettivi dello Hiéron du Val d'Or erano:

una teocrazia nel cui ambito le nazioni non sarebbero state altro che province, e i loro dirigenti non sarebbero stati altro che proconsoli al servizio di un governo mondiale occulto formato da un'elite. Per l'Euro­pa, il regime del Grande re comportava una duplice egemonia del papato e dell'impero, del Vaticano e degli Asburgo, che sarebbero stati il braccio destro del Vaticano.44

Nel XIX secolo, naturalmente, gli Asburgo erano ormai sinoni­mi della casa di Lorena. Il concetto di un « Grande re » avrebbe così costituito la realizzazione delle profezie di Nostradamus. Inoltre, avrebbe concretato, almeno in un certo senso, il program­ma monarchico delineato nei Protocolli degli anziani di Sion. Nel contempo, la realizzazione di un disegno tanto grandioso avrebbe comportato numerosi cambiamenti nelle istituzioni esistenti. Il Vaticano, ad esempio, sarebbe stato presumibilmente molto di­verso da quello ubicato in Roma. E gli Asburgo sarebbero stati più che imperiali capi di Stato. Sarebbero divenuti, in effetti, una dinastia di re-sacerdoti, come i faraoni dell'antico Egitto. O come il Messia atteso dagli Ebrei agli albori dell'era cristiana.

Chaumeil non chiarisce se e come gli Asburgo fossero coinvolti attivamente in questi ambiziosi disegni clandestini. Tuttavia, vi sono moltissimi indizi, inclusa la visita di un arciduca asburgico a Rennes-le-Chàteau, che sembrano attestare almeno una certa partecipazione. Ma, quali che fossero i piani in preparazione, erano destinati a essere sventati dalla Prima guerra mondiale che, tra l'altro, rovesciò gli Asburgo.

Come li spiegava Chaumeil, gli obiettivi dello Hiéron du Val d'Or - o del Priorato di Sion - avevano un certo senso logico nel contesto di ciò che noi avevamo scoperto. Gettavano nuova luce sui Protocolli degli anziani di Sion. Concordavano con i fini dichia-

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rati di varie società segrete, incluse quelle di Charles Radclyffe e di Charles Nodier. E soprattutto erano conformi alle aspirazioni politiche che, nel corso dei secoli, noi avevamo osservato nella casa di Lorena.

Ma se gli obiettivi dello Hiéron du Val d'Or avevano un senso logico, non avevano nessun senso politico pratico. Su quale base, ci chiedevamo, gli Asburgo avrebbero rivendicato il diritto di essere una dinastia di re-sacerdoti? A meno di ottenere un travol­gente appoggio popolare, non avrebbero potuto asserire un tale diritto contro il governo repubblicano della Francia, per non parlare poi delle dinastie imperiali allora regnanti in Russia, Ger­mania e Gran Bretagna. E come sarebbe stato possibile ottenere l'indispensabile appoggio popolare?

Nel contesto delle realtà politiche del XIX secolo, un disegno del genere, per quanto coerente dal punto di vista logico, ci sembrava effettivamente assurdo. Forse, concludemmo, avevamo male interpretato lo Hiéron du Val d'Or. O forse i membri dello Hiéron du Val d'Or erano matti.

In attesa di procurarci ulteriori informazioni, non potevamo far altro che accantonare la cosa. Nel frattempo, rivolgemmo l'atten­zione al presente, per accertare se il Priorato di Sion esisteva ancora. Come scoprimmo molto presto, esisteva. I suoi membri non erano matti, e nel XX secolo, dopo due guerre mondiali, perseguivano ancora un programma sostanzialmente simile a quello perseguito nel secolo precedente dallo Hiéron du Val d'Or.

Note

1  Lobineau, H., Dossiers secrets, planche n. 4, Ordre de Sion.

2  De Sède, Les Templiers, pp. 220 sgg. Per l'episodio di Lhomoy, cfr. de Sède, pp. 20 sgg. e 231 sgg. Cfr. inoltre Chaumeil, Trjangle d'or, pp. 19 sgg.

3  Le Maire, Histoire et Antiquitez, parte 2, cap. XXVI, pp. 96 sgg.

4  Fu il cardinale di Lorena a ispirare l'amnistia concessa agli Ugonotti ad Amboise il 7 marzo 1560. Inoltre, il cardinale forniva segretamente somme di denaro a certi gruppi protestanti.

5  Fu con Renato d'Angiò che la doppia croce venne associata alla casa di Lorena. Renato aveva adottato questa croce come suo emblema e la usava sui sigilli e sulle

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monete. La popolarità della croce risale al tempo in cui venne usata da Renato II, duca di Lorena, nella battaglia di Nancy nel 1477. Cfr. Marot, Le symbolisme, pp. 1 sgg-

6  Nostradamus frequentava ambienti legati alla casa di Lorena. Visse per alcuni anni ad Agen, e a quel tempo Giovanni di Lorena era vescovo di Agen e presiedeva all'Inquisizione in Francia. Le ricerche indicano che Nostradamus fu preavvertito dell'interesse dell'Inquisizione nei suoi confronti, e tutti i fattori inducono a supporre che a informarlo fosse stato Giovanni, cardinale di Lorena. Inoltre Scaliger, l'amico di Nostradamus ad Agen, era anche amico del cardinale, e conosceva bene Giulio Camillo, ermetista e creatore del « Teatro della Memoria » (cfr. Yates, Art of Memory, cap. 6). Il cardinale di Lorena conosceva Camillo. Inoltre, due poeti di corte, Pierre de Ronsard e Jean Dorat, erano amici di Nostradamus. Ronsard scrisse diverse poesie in lode di Nostradamus e del cardina­le. Il cardinale finanziava entrambi i poeti. Fu Jean Dorat che mandò Jean-Aimé de Chavigny presso Nostradamus come segretario. Molte delle ricerche al riguardo sono presentate nel romanzo The Dreamer of thè Vine di Liz Greene (London 1979).

7  La quartina V: 74, ad esempio, si riferisce probabilmente a Carlo Martello che respinge i Saraceni e li sconfigge nella battaglia di Poitiers, nel 732. La quartina III: 83 può alludere ai lungichiomati re merovingi che presero il regno d'Aqui-tania dopo il 507. Molte quartine menzionano il Rases, che sembra essere un gio­co di parole sulla zona del Razés e sui conti esiliati, i « rasati », discendenti dei Merovingi.

8  De Sède, La racefabuleuse, pp. 106 sgg. La credibilità di de Sède, in questo libro, è alquanto inficiata dall'asserzione che i Merovingi erano extraterrestri! In un colloquio, gli fu chiesto quale fosse la fonte della sua affermazione, secondo la quale Nostradamus trascorse qualche tempo a Orval. Rispose che un certo Eric Muraise aveva un manoscritto che lo provava, e che l'aveva visto personalmente.

Interrogammo alcuni monaci dell'abbazia di Orval circa la possibilità che No­stradamus vi avesse soggiornato. Scrollarono le spalle e risposero che quella era la tradizione, ma non avevano nessun documento che potesse confermarlo o confu­tarlo. Era possibile, disse uno di loro in tono rassegnato.

' Allier, La cabale, pp. 99 sgg. L'autore afferma che fu la Compagnia a consigliare a Oher di fondare Saint Sulpice.

10  Allier, op. cit.,p. 33.

11  Auguste, La Compagnie... à Toulouse, pp. 20 sgg.

12  Allier, op. cit.,p. 33.

13  Lobineau, H., Dossiers secrets, planche n. 1, 1100-1600, planche n. 19, 1800-1900.

14  Sainte-Marie, Recherches historiques, p. 243.

15  Soultrait (a cura di), Dictionnaire topographiques... de la Nièvre, pp. 8, 146. Il villaggio di Les Plantards era situato presso Sémelay, dove nacque poi Jean XXII des Plantard.

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16  Cfr. « Bulletin de la société nivernais des lettres, sciences et arts », 2eme sèrie, tome VII (1876), pp. 110,139,140-1,307. Cfr. inoltre Chaumeil, Triangle d'or, pp. 80 sgg. e le illustrazioni delle monete scoperte sul luogo.

17  Questi sono esémpi dei fattori che hanno indotto gli autori successivi a conside­rare Fouqùet come il candidato più verosimile al ruolo della Maschera di ferro. Esistono molti indizi convincenti che suffragano questa ipotesi.

18  Blunt, Poussin, voi. I, p. 170.

19  II quadro è illustrato in Ward, Freemasonry and theAncient Gods, di fronte a p. 134. E di proprietà del Supreme Grand Royal Arch Chapter of Scotland, Edin-burgh.                                         '                                                                       '

20  Delaude, Cercle d'Ulysse, p. 3

21   Gout, Mont-Saint-Michel, pp. 141 sgg. Robert de Torigny! abate dal 1154 al 1186, scrisse circa 140 volumi, molti dei quali dedicati alla storia della regione. Sotto di lui il numero dei monaci nell'abbazia raddoppiò, e Mont-Saint-Michel divenne un « santuario della scienza ». Robert era amico intimo tanto di Enrico II quanto di Becket, e dati i loro stretti rapporti con il Priorato di Sion, i Templari e Gisors, sarebbe sorprendente che Robert non sapesse qualcosa. Se la famiglia Plantard usava veramente il motto come viene indicato, sarebbe logico attendersi che Robert lo avesse registrato, dato che non soltanto sembra che i Plantard risiedessero in Bretagna a quel tempo, ma Jean VI des Plantard sposò nel 1156 (secondo Henri Lobineau) Moine de Gisors, sorella di Jean de Gisors, nono Gran maestro dell'Ordine di Sion, fondatore dell'Ordine della Rosacroce. La storia ricorda Idoine, ma non suo marito, quindi non ci è stato possibile scoprire quale titolo portasse nel XII secolo la famiglia Plantard.

Non riuscimmo a trovare nessuna menzione della famiglia Plantard, né tracce delle ricerche genealogiche di Robert. I suoi manoscritti sono andati dispersi, ma ne esistono elenchi sebbene nessuno includa, a quanto sembra, materiale genealo­gico. In seguito ci fu detto che il manoscritto in questione si trovava negli archivi « privati » di Saint Sulpice a Parigi. Non è certo una conclusione soddisfacente per questa indagine.

22  Myriam, « Les bergers d'Arcadie », in « Le Charivari », n. 18, pp. 49 sgg.

23  Thory, Acta Latomorum, voi. 2, pp. 15 sgg. Gould, History of Freemasonry, voi. 2, p. 383.

2« Erdeswìvk, A Survey of Staffordshire, p. 189.

23 Peyrefitte, « La Lettre Secrète », pp. 197 sgg. La lettera in questione era allegata a una Bolla di scomunica emanata dal papa il 28 aprile 1738.

26 II Rito orientale di Memphis apparve per la prima volta nel 1838, quando Jacques Etienne Marconis de Nègre fondò la Grande loggia Osiris a Bruxelles. La leggenda alla base del Rito affermava che il Rito stesso discendeva dai misteri dionisiaci ed egizi. Il saggio Ormus avrebbe fuso questi misteri con il cristianesimo, creando la prima Rosacroce. II Rito orientale di Memphis era un sistema con novantasette gradi, e comprendeva titoli altisonanti come Comandante del Trian­golo luminoso, Sublime principe del Mistero reale, Sublime pastore dell'Hutz,

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Dottore dei Planisferi, ecc. Cfr. Waite, New Encyclopaedia ofFreemasonry, voi. 2, pp. 241 sgg. Il Rito fu successivamente ridotto a trentatré gradi e prese il nome di Rito antico e primitivo. Fu poi introdotto negli Stati Uniti intorno al 1845-6 da H. J. Seymour, e in Inghilterra nel 1872 da John Yarker. In seguito fu associato all'Ordo Templi Orientis. La pubblicazione del Rito di Memphis, VOriflamme, faceva propaganda all'O.T.O. Nel 1875 il Rito si fuse con il Rito diMisraim. In History of thè Antìent and Primitive Rite of Memphis (London 1875), si afferma che il Rito di Memphis deriva da quello dei Filadelfi di Narbona, fondato nel 1779.

27  Cfr. inoltre Genesi (28:18), dove Giacobbe unge una colonna di pietra.

28  Pitois, bibliotecario del Ministero della Pubblica istruzione, ebbe l'incarico di esaminare e suddividere tutti i libri provenienti dai monasteri e dalle biblioteche provinciali portati a Parigi. Pitois e Charles Nodier li studiarono e dichiararono che ogni giorno avevano avuto modo di fare scoperte interessanti.

29   Jean-BaptisteHogan.

30  È possibile che la dottrina dell'infallibilità del papa, formulata ufficialmente per la prima volta il 18 luglio 1870, facesse parte della reazione della Chiesa di Roma alle tendenze moderniste, oltre che al pensiero darwiniano e alla crescente potenza continentale della Prussia luterana.

31   Iremonger, William Temple, p. 490.

32  Una breve biografia di Hoffet è contenuta in Descadeillas, Mythologie, pp. 85 sgg. Hoffet nacque a Schiltingheim, in Alsazia, l'I 1 maggio 1873. Nel 1884 iniziò gli studi a Parigi presso la Maìtrise de Montmartre, e in seguito li continuò presso il Petit Séminaire de Notre-Dame de Sion, dove si preparò alla carriera ecclesiastica. Incominciò il noviziato a Saint-Gerlach in Olanda, ed entrò nell'ordine religioso degli Oblats de Marie nel 1892. Fu ordinato sacerdote a Liegi nel 1898. Fu quindi missionario, prima in Corsica e poi di nuovo in Francia. Nel 1903-4 fu a Roma. Tornò a stabilirsi a Parigi nel 1914, e vi morì nel marzo 1946. Fu uno scrittore prolifico e collaborò soprattutto a riviste specializzate nella storia religiosa. Era un linguista e conosceva perfettamente il greco, l'ebraico e il sanscrito. De Sède, Le vrai dossier, pp. 33 sgg., riferisce che Descadeillas, pur ridicolizzando in pubblico l'idea di un « mistero » di Rennes, nel 1966 scrisse ai superiori degli Oblats de Marie per chiedere se c'erano prove che Hoffet avesse predicato a Rennes-le-Chàteau. Come riferisce de Sède, l'archivista dell'Ordine di Hoffet scrisse: « Hof­fet è autore di alcune opere interessantissime sulla massoneria, che aveva studiato con particolare attenzione, e io ho ritrovato numerosi suoi manoscritti... Ho disposto perché questi documenti tanto interessanti venissero messi al sicuro ». Cfr. inoltre Chaumeil, Triangle d'or, pp. 106 sgg.

33  Papus nacque in Spagna il 13 luglio 1865. Nel 1887 entrò nell'Associazione teosofica, ma nel 1888 l'abbandonò per formare il suo gruppo, basato sui principii martinisti. Nello stesso anno fu uno dei membri fondatori dell'Ordre Kabbalistic de la Rose-Croix, insieme a Péladan e Stanislas de Guaita. Nel 1889, con questi ultimi e Villers de l'Isle-Adams, fondò la rivista « L'Initiation ». Nel 1891 si formò a Parigi un « consiglio supremo » dell'ordine martinista, con Papus come Gran maestro. Più o meno nello stesso periodo, Papus aiutò Doinel a fondare la Chiesa

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cattolica gnostica. Nel 1895 Doinel si ritirò, lasciando la chiesa alle cure di Papus e di altri due, sotto la giurisdizione di un patriarca; quindi si trasferì a Carcassonne. Lo stesso anno Papus entrò nell'Ordine della Golden Dawn, nella loggia parigina Ahatiioor. Tra il 1890 e il 1900 Papus fu amico di Emma Calve. Nel 1899 uno dei suoi amici più intimi, Philippe de Lyon, si recò in Russia e fondò una loggia martinista alla corte imperiale. Nel 1900 anche Papus si recò a Pietroburgo, dove diventò confidente dello zar e della zarina. Visitò la Russia almeno altre tre volte; l'ultima fu nel 1906. Conobbe anche Rasputin.

Più tardi, Papus divenne Gran maestro, in Francia, dell'Ordo Templi Orientis della Loggia di Memphis e Misraim. Morì il 25 ottobre 1916.

34   Nilus, Protocols. Negli anni Sessanta, quest'opera aveva già avuto ben ottanta-tré edizioni, e questo indicherebbe che l'antisemitismo è molto diffuso in Gran Bretagna. La casa editrice, Briton Publishing (che ora è stata incorporata dall'Au-gustine Publishing, cattolica tradizionalista) aveva in catalogo anche titoli come Jews' Rilual Slaughter (Gli omicidi rituali degli Ebrei) e Jews and thè White Slave Traffic (Gli Ebrei e la tratta delle bianche).

35   Per la storia dei Protocolli, cfr. Cohn, Warrantfor Genocide, e Bernstein, Trulli about « The Protocols», che riproduce integralmente le traduzioni delle varie possibili fonti dei Protocolli. La storia antisemita è esposta dettagliatamente in Fry, Waters Flowing Eastward, un documento controverso da ogni punto di vista. Fra le altre cose, pubblica una fotografia che « prova » come lo zar Nicola II sarebbe stato assassinato in un omicidio rituale da un cabalista ebreo! Vedere pubblicato ancora nel 1965 questo tipo di letteratura è sconcertante.

36  Nilus, Protocols, n. 13.

37  Loggia di Memphis e Misraim. Cfr. nota 33 di questo capitolo.

38  Nilus, Protocols n. 24. Questa affermazione non appare in alcune precedenti edizioni dei Protocolli.

39  Nilus, Protocols, n. 24.

40  Blancasall, Les descendants, p. 6.

41   Cfr. la prefazione di Pierre Plantard de Saint-Clair nella ristampa, fatta nel 1978 da Belfond, di Boudet, La vraie langue celtique.

42   Chaumeil, Triangle d'or, p. 136.

43   Cfr. Rosnay, Le Hiéron du Val d'Or.

44  Chaumeil, Triangle d'or, pp. 139 sgg.

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Vili

La società segreta oggi

II « Journal Officiel » francese è una pubblicazione settimanale governativa nella quale devono dichiararsi tutti i gruppi, le società e le organizzazioni del paese. Nel « Journal Officiel » della setti­mana del 20 luglio 1956 (numero 167) c'è questa registrazione:

25 juin 1956. Déclaration à la sour-préfecture de Saint-Julien-en-Genevois. Prieuré de Sion. But: études et entr'aide des membres. Siège social: Sous-Cassan, Annemasse (Haute Savoie).

(25 giugno 1956. Dichiarazione alla sottoprefettura di Saint-Julien-en-Genevois. Priorato di Sion. Finalità: studi e mutua assistenza tra i soci. Sede sociale: Sous-Cassan, Annemasse, Alta Savoia.)

Il Priorato di Sion era ufficialmente registrato presso la polizia. Comunque, sembrava la prova definitiva della sua esistenza nel nostro tempo: anche se ci pareva un po' strano che una presunta società segreta si mettesse in mostra. Ma forse non era poi tanto strano. Il Priorato di Sion non figurava in nessun elenco telefonico della Francia. L'indirizzo era troppo vago per permetterci di iden­tificare con precisione un ufficio, una casa, un edificio, o almeno una via. E alla sottoprefettura, quando telefonammo, non ci furo­no di grande aiuto. C'erano state molte richieste d'informazioni, dissero in tono stanco e rassegnato. Ma non erano in grado di dire altro. A quanto risultava a loro, l'indirizzo non era rintracciabile. Questo ci indusse a riflettere. Fra le altre cose, ci chiedemmo com'era possibile che certi individui fossero riusciti a registrare presso la polizia un indirizzo fittizio o inesistente e poi, apparente­mente, a sottrarsi alle conseguenze del loro operato. La polizia era

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davvero indifferente e noncurante come sembrava? Oppure Sion, in un modo o nell'altro, s'era assicurato la sua collaboraziozne e la sua discrezione?

Su nostra richiesta, la sottoprefettura ci fornì una copia del presunto statuto del Priorato di Sion. Il documento, che consiste­va di ventun articoli, non era né misterioso né particolarmente illuminante. Ad esempio, non chiariva le finalità dell'Ordine. Non forniva indicazioni sull'eventuale influenza di Sion, sui suoi iscritti o sulle sue risorse. Nel complesso era piuttosto anodino, e nello stesso tempo ingigantiva le nostre perplessità. A un certo punto, ad esempio, lo statuto affermava che l'ammissione all'Ordine non era condizionata dalla lingua, l'origine sociale, l'ideologia politica o di classe. In un altro punto dichiarava che tutti i cattolici oltre i ventun anni potevano essere candidati. Per la verità, in generale lo statuto sembrava emanato di un'istituzione fervidamente cattoli­ca. Eppure i presunti Gran maestri di Sion e la sua storia, come eravamo riusciti a ricostruirla, non davano certo prova di un cattolicesimo ortodosso. E del resto anche i moderni « documenti del Priorato », molti dei quali erano stati pubblicati contempora­neamente allo statuto, avevano un orientamento non tanto cattoli­co quanto ermetico o addirittura gnostico. La contraddizione sembrava priva di senso, a meno che Sion, come i Templari e la Compagnia del Santo Sacramento, richiedesse l'adesione al catto­licesimo come requisito esoterico, che poi veniva trasceso in seno all'Ordine. Comunque Sion, come il Tempio e la Compagnia del Santo Sacramento, esigeva apparentemente un'obbedienza che, nel suo carattere assoluto, comprendeva tutti gli altri impegni laici o spirituali. Secondo l'articolo VII dello statuto, « II cadidato deve rinunciare alla propria personalità per dedicarsi a un alto apostola­to morale ».

Lo statuto dichiara inoltre che Sion ha come sottotitolo « Che-valerie d'institutions et règles catholiques, d'union indépendante et traditionaliste » (Cavalleria di istituzioni e regole cattoliche dell'unione indipendente e tradizionalista). La sigla è CIRCUIT,1 la testata di una rivista che, secondo lo statuto, viene pubblicata dall'Ordine e distribuita agli iscritti.

L'informazione forse più interessante contenuta nello statuto è che dopo il 1956 il numero degli aderenti al Priorato di Sion

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sarebbe quasi quintuplicato. Secondo una pagina riprodotta nei Dossìers segreti e stampata prima del 1956, Sion aveva in totale 1093 membri, ripartiti in sette gradi. La struttura era tradizionale, a piramide. Alla sommità c'era il Gran maestro o « Nautonnier ». C'erano tre persone nel grado a lui inferiore (« Prince Noachite de Notre Dame »), nove in quello successivo (« Croisé de Saint-Jean »). Ogni grado, in ordine discendente, contava un numero di persone tre volte superiore a quello precedente: 27,81,243,729.1 tre gradi più alti - il Gran maestro e i dodici subordinati immediati - costituivano i tredici « Rose-croix ». Naturalmente, questo nu­mero poteva alludere simbolicamente a qualunque cosa, da una congrega satanica a Gesù e i suoi dodici discepoli.

Secondo la statuto post-1956, Sion aveva un totale di 9841 membri, suddivisi non già in sette gradi, bensì in nove. Sembra che la struttura fosse rimasta sostanzialmente la stessa, anche se appa­riva più chiara, e due nuovi gradi erano stati introdotti alla base della gerarchla, isolando ancora di più la leadership dietro una più vasta rete di novizi. Il Gran maestro conservava il titolo di « Nau­tonnier ». I tre « Princes Noachites de Notre Dame » erano sem­plicemente « Siniscalchi ». I nove « Croisés de Saint-Jean » veni­vano chiamati « Connestabili ». L'organizzazione dell'Ordine, nel gergo enigmatico e altisonante dello statuto, era la seguente:

L'assemblea generale è composta da tutti i membri dell'associazione. Consiste di 729 province, 27 commanderies e un'Arca designata come « Kyria ».

Ognuna delle commanderies, come pure l'Arca, deve consistere di quaranta membri, ogni provincia di tredici membri.

I membri sono divisi in due gruppi effettivi:

a)  La Légion, incaricata dell'apostolato.

b)  La Phalange, custode della Tradizione.

I membri formano una gerarchia di nove gradi. La gerarchia di nove gradi consiste di:

a)  nelle 729 province

1.  Novices:                                       6561 membri

2.  Croisés:                                        2187 membri

b)  nelle 27 commanderies

3.  Preux:                                              729 membri

4.  Ecuyers:                                           243 membri

5.  Chevaliers:                                         81 membri

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6.  Commandeurs:                             27  membri e) nell'Arca « Kyria »

7.  Connétables:                                  9  membri

8.  Sénéchaux:                                    3  membri

9.  Nautonnier:                                   1   membro 2

Apparentemente a fini ufficiali, burocratici e legali, quattro individui erano elencati come facenti parte del « consiglio ». Tre dei nomi ci erano sconosciuti, e forse erano pseudonimi: Andre Bonhomme, nato il 7 dicembre 1934, presidente; Jean Deleaval, nato il 7 marzo 1931, vicepresidente; Armand Defagot, nato l'I 1 dicembre 1928, tesoriere. Ma c'era un nome che avevamo già incontrato: Pierre Plantard, nato il 18 marzo 1920, segretario generale. Secondo le ricerche di un altro autore, il titolo ufficiale di Monsieur Plantard era segretario generale del Dipartimento documentazione: il che sottintende, ovviamente, che vi sono an­che altri dipartimenti.

Alain Poher

All'inizio degli anni Settanta il Priorato di Sion era diventato una modesta cause célèbre in certi ambienti francesi. Se ne parlava in numerosi articoli su varie riviste e su alcuni giornali. Il 13 febbraio

1973, il « Midi Libre » pubblicò un lungo servizio su Sion, Sauniè-re e il mistero di Rennes-le-Chàteau. Il servizio collegava specifi­camente Sion a una possibile sopravvivenza della stirpe merovin­gia fino al XX secolo. Inoltre affermava che tra i discendenti Merovingi era incluso un « vero pretendente al trono di Francia » e lo identificava come Alain Poher.3

Sebbene non sia molto noto all'estero, Alain Poher era (ed è tuttora) un personaggio ben conosciuto in Francia. Durante la Seconda guerra mondiale meritò la Medaglia della Resistenza e la Croce di guerra. Dopo le dimissioni di de Gaulle, fu presidente provvisorio della Francia dal 28 aprile al 19 giugno 1969. E lo fu di nuovo alla morte di Georges Pompidou, dal 2 aprile al 27 maggio

1974.  Nel 1973, quando uscì il servizio sul « Midi Libre », Poher era presidente del Senato francese.

A quanto ci risulta, Poher non ha mai fatto dichiarazioni di

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nessun genere sui suoi presunti legami con il Priorato di Sion e con la stirpe merovingia. Tuttavia, nelle genealogie incluse nei « docu­menti del Priorato », viene menzionato Arnaud, conte di Poher che, tra l'894 e l'896, sposò una dama della famiglia dei Plantard, i presunti discendenti diretti di Dagoberto II. Il nipote di Arnaud de Poher, Alain, divenne duca di Bretagna nel 937. Indipendente­mente dal fatto che l'attuale Alain Poher riconosca o no Sion, sembra quindi chiaro che Sion riconosce lui, almeno come discen­dente dei Merovingi.

Il Re Perduto

Nel frattempo, mentre proseguivano le nostre ricerche e i mass-media francesi dedicavano periodicamente la loro attenzione al­l'intera vicenda, continuavano ad apparire nuovi « documenti del Priorato ». Come in precedenza, alcuni apparivano come libri, altri come opuscoli o articoli pubblicati privatamente e depositati presso la Bibliothèque Nationale. E contribuivano a -infittire il mistero. Era evidente che qualcuno forniva quel materiale, ma il vero scopo restava oscuro. A volte eravamo tentati di considerare l'intero caso come uno scherzo complesso, un falso di proporzioni colossali. Ma se era così, era un falso che sembrava durare da secoli: e se c'è chi investe tanto tempo, tante energie e risorse in un falso, si può davvero parlare di falso? L'intero intrico dei « docu­menti del Priorato » appariva non come1 uno scherzo ma come un'opera d'arte, uno sfoggio di ingegnosità, suspense, genialità, conoscenze storiche e complessità architettoniche degno, ponia­mo, di James Joyce. E anche se Finnegans Wake può essere considerato una sorta di scherzo, non c'è dubbio che il suo creato­re la prendesse molto sul serio.

È importante osservare che i « documenti del Priorato » non costituivano una tipica moda sbocciata in un'industria lucrosa, con tanto di seguiti, antefatti e altre derivazioni. Non si poteva parago­narli, ad esempio, ai Carri degli Dei di von Daniken, ai vari libri sul Triangolo delle Bermude o alle opere di Carlos Castaneda. Qua­lunque fosse il movente dei « documenti del Priorato », evidente­mente non era il lucro. Anzi, il denaro sembrava soltanto un fattore accidentale, se pure era un fattore. Anche se, apparsi in

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volume, sarebbero stati estremamente redditizi, i « documenti del Priorato » più importanti non erano pubblicati in questa forma. Nonostante il loro potenziale commerciale, erano circoscritti a pubblicazioni private, edizioni limitate, e venivano depositati con molta discrezione presso la Bibliothèque Nationale, dove non sempre risultavano disponibili. E le informazioni che apparivano nei libri non erano casuali o arbitrarie, e per la maggior parte non erano opera di ricercatori indipendenti. Quasi tutto il materiale sembrava provenire da un'unica fonte, ed era basato sulla testimo­nianza di informatori che misuravano con il contagocce le nuove rivelazioni secondo un piano prestabilito. Ogni nuovo frammento apportava almeno una modifica, aggiungeva un altro pezzo al rompicapo complessivo. Molti di questi frammenti apparivano sotto nomi diversi. Si aveva così l'impressione superficiale che esistesse una schiera di autori, ognuno dei quali confermava e suffragava gli altri.

Ci sembrava che questo modo di procedere avesse una sola motivazione plausibile: attirare l'attenzione del pubblico su certe cose, dimostrare le credibilità, destare interesse, creare un'atmo­sfera psicologica che induceva la gente ad attendere con il fiato sospeso nuove rivelazioni. Insomma, i « documenti del Priorato » sembrano studiati apposta per « spianare la strada » a una rivela­zione sensazionale. Qualunque potesse essere, alla fine, tale rive­lazione, sembrava rendere necessario un lungo processo di prepa­razione nei confronti dell'opinione pubblica. E in ogni caso, dove­va riguardare in un modo o nell'altro la dinastia merovingia, la perpetuazione di quella stirpe dinastica fino ai giorni nostri e una sovranità clandestina. Ad esempio, in un articolo apparso su una rivista e scritto in apparenza da un membro del Priorato di Sion, trovammo questa affermazione: « Senza i Merovingi, il Priorato di Sion non esisterebbe, e senza il Priorato di Sion la dinastia merovingia sarebbe estinta ». La relazione fra l'Ordine e la stirpe viene in parte chiarita e in parte ulteriormente confusa da questa elaborazione:

II Re è nel contempo pastore. Talvolta egli invia qualche geniale ambascia­tore al suo vassallo al potere, il suo factotum, che ha la fortuna d'essere soggetto alla morte. Così Renato d'Angiò, il connestabile di Borbone, Nicolas Fouquet... e numerosi altri, la cui sorprendente fortuna fu seguita

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da un'inspiegabile sventura... poiché questi emissari sono nel contempo terribili e vulnerabili. Custodi di un segreto, si può soltanto esaltarli o annientarli. Ecco quindi personaggi come Gilles de Rais [il « Barbablù » storico], Leonardo da Vinci, Giuseppe Balsamo, i duchi di Nevers e Gonzaga, la cui ascendenza è circondata da un profumo di magia nel quale lo zolfo si mescola all'incenso: il profumo della Maddalena.

Se re Carlo VII, all'ingresso di Giovanna d'Arco nella grande sala del suo castello di Chinon, si nascose tra la folla dei cortigiani, non lo fece per un gioco frivolo - che ci sarebbe stato di divertente? - bensì perché già sapeva di chi ella era ambasciatrice. E sapeva che, dinnanzi a lei, era poco più di un cortigiano tra i tanti. Il segreto che ella gli rivelò in privato era contenuto in queste parole:* Dolce signore, io vengo in nome del Re ».4

Le implicazioni di questo brano sono provocatorie e affascinan­ti. Una è che il Re - il « Re Perduto », presumibilmente della stirpe dei Merovingi - continua in pratica a regnare, solo in virtù di ciò che è. Un'altra implicazione, forse ancora più sorprendente, è che i sovrani temporali sanno della sua esistenza, Io riconoscono, lo rispettano e lo temono. Una terza implicazione è che il Gran maestro del Priorato di Sion, o qualche altro membro dell'Ordine, funge da ambasciatore tra il « Re Perduto » e i suoi sostituti temporali. E questi ambasciatori, sembrerebbe, sono considerati sacrificabili.

Strani testi conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi

Nel 1966 ebbe luogo uno strano scambio di lettere a proposito della morte di Leo Schidlof, l'uomo che, si affermava a quel tempo, aveva compilato con lo pseudonimo di Henri Lobineau le genealogie contenute in alcuni « documenti del Priorato ». La prima lettera, che fu pubblicata sul « Settimanale cattolico di Ginevra », porta la data del 22 ottobre 1966. È firmata da un certo Lionel Burrus, che afferma di parlare a nome di un'organizzazio­ne chiamata Gioventù cristiana svizzera. Burrus annuncia che Leo Schidlof, alias Henri Lobineau, è morto a Vienna la settima­na prima, il 17 ottobre. Quindi passa a difendere il defunto da una calunnia che, dice, è apparsa in un recente bollettino cattoli­co. Burrus esprime la sua indignazione per l'attacco. Fa l'elogio di Schidlof e dichiara che questi, sotto il nome di Henri Lobineau, aveva compilato nel 1956 « un notevolissimo studio...sulla genea-

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logia dei re merovingi e il mistero di Rennes-le-CMteau ».

Il Vaticano, asserisce Burrus, non aveva osato calunniare Schid­lof finché questi era vivo, sebbene avesse un esauriente dossier su di lui e sulle sue attività. Ma anche ora, nonostante la sua morte* gli interessi dei Merovingi continuano a essere difesi. Per provare questa affermazione; .Burrus sconfina nell'assurdo. Cita quello che nel 1966 era l'emblemadell'Antar, unadelle.maggiorisocietà petrolifere francesi. Questo emblema, dice, include uno stemma merovingio e raffigura, sia pure nello stile dei cartoni animati, un re merovingio. Secondo Burrus, l'emblema dimostra che la propa­ganda a favore dei Merovingi continua con efficacia e che il clero francese - aggiunge ,con notevole incoerenza - non sempre si precipita a obbedire al cenno del Vaticano. In quanto a Leo Schidlof, Burrus conclude, riecheggiando la massoneria e il pen­siero cataro: « Per quanti conoscevano Henri Lobineau, grande viaggiatore e grande ricercatore, uomo leale e buono, egli rimane nel cuore come il simbolo del "maitre parfait", degno di rispetto e di venerazione » .5

La lettera di Lionel Burrus sembrerebbe decisamente eccentri­ca. Di certo è molto curiosa. Ancora più curioso, però, è il presun­to attacco calunnioso contro Schidlof contenuto in un bollettino cattolico, che Burrus cita a lungo. Il bollettino, secondo Burrus, accusa Schidlof di essere « un filosovietico, notoriamente masso­ne » e di « preparare attivamente la strada per una monarchia popolare in Francia ».6 E un'accusa singolare e in apparenza con-traddittoria, poiché di solito un simpatizzante filosovietico non si adopera per cercare di insediare una monarchia. Tuttavia il bollet­tino che Burrus sostiene di citare, formula accuse ancora più stravaganti:

I discendenti dei Merovingi sono sempre stati gli ispiratori di tutte le eresie, dall'arianesimo ai Catari e ai Templari, fino alla massoneria. All'inizio della Riforma protestante, nel luglio 1659, il cardinale Mazzari-no fece distruggere il loro castello di Barberie, che risaliva al XII secolo. Perché la famiglia in questione, nel corso dei secoli, non aveva generato altro che agitatori segreti ostili alla Chiesa.7

Burrus non precisava quale fosse il bollettino cattolico che avrebbe pubblicato questo brano da lui citato, e quindi non po­temmo  accertarne l'autenticità.  Tuttavia, se fosse autentico,

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avrebbe un significato considerevole. Costituirebbe infatti una testimonianza indipendente, da parte di fonti cattoliche, della distruzione di Chàteau Barberie nel Nivernais. Inoltre, sembre­rebbe indicare almeno una raison d'ètre parziale per il Priorato di Sion. Avevamo già concluso che Sion e le famiglie legate all'Ordi­ne, avevano manovrato per impadronirsi del potere, e per questo si erano scontrati più. volte con la Chiesa. Secondo il brano sopra riportato, però, l'opposizione alla Chiesa non sarebbe dovuta al caso, alle circostanze o alla politica. Al contrario, sembrerebbe una linea precisa di comportamento. E questo ci poneva di fronte a un'altra contraddizione. Infatti lo statuto del Priorato di Sion, almeno ufficialmente, era quello di un'istituzione saldamente cat­tolica.                     .                   l

Poco tempo dopo la pubblicazione di questa lettera, Lionel Burrus morì in un incidente d'auto che fece altresei vittime. Poco prima della sua morte, tuttavia; la lettera ebbe una risposta ancora più curiosa e provocatoria del testo scritto da lui. La risposta fu pubblicata in un opuscolo stampato privatamente sotto il nome di S. Roux.8

Sotto certi aspetti il testo di S. Roux sembra riecheggiare l'attac­co contro Schidlof che avrebbe ispirato la lettera di Burrus. Rim­provera a quest'ultimo di essere giovane, troppo zelante, irre­sponsabile e incline a parlare troppo. Ma, sebbene in apparenza condanni la posizione di Burrus, l'opuscolo di S. Roux non soltan­to conferma le sue affermazioni, ma le integra. Leo Schidlof, afferma S. Roux, era un dignitario della Grande Loge Alpina svizzera, la loggia massonica che figura come editrice di certi « documenti del Priorato ». Secondo S. Roux, « non nascondeva i suoi sentimenti di amicizia per il blocco orientale »,'J In quanto-alle affermazioni di Burrus nei riguardi della Chiesa, S. Roux continua così:

Non si può dire che la Chiesa ignori la stirpe del Razès, ma si deve ricordare che tutti i suoi discendenti, a partire da Dagoberto, sono stati agitatori segreti, ostili tanto alla casa reale francese quanto alla Chiesa-e che sono stati la fonte di tutte le eresie. Il ritorno al potere di un discenden­te merovingio comporterebbe per la Francia la proclamazione di una monarchia popolare alleata all'URSS, e il trionfo della massoneria: in­somma, la scomparsa della libertà religiosa10

 

Se tutto questo appare abbastanza straordinario, le affermazioni conclusive dell'opuscolo di S. Roux lo sono ancora di più:

Per quanto riguarda la propaganda merovingia in Francia, tutti sanno che la pubblicità dell'Antar, con un re merovingio che tiene in mano un Giglio e un Cerchio, rappresenta un appello in favore del ritorno al potere dei Merovingi. E non si può fare a meno di chiedersi che cosa stesse preparan­do Lobineau a Vienna, poco prima di morire, alla vigilia di profondi cambiamenti in Germania. Non è vero, inoltre, che Lobineau aveva preparato in Austria un futuro accordo reciproco con la Francia? Non era questa la base dell'accordo franco-russo?"

Logicamente, restammo sbalorditi e ci chiedemmo di cosa dia­volo stesse parlando S. Roux, che sembrava aver superato Burrus in fatto di assurdità. Come il bollettino che Burrus aveva attacca­to^. Roux collega tra loro obiettivi apparentemente diversi e incompatibili come l'egemonia sovietica e la monarchia popolare. Si spinge più in là di Burrus, dichiarando che « tutti sanno » che l'emblema di una società petrolifera è una sottile forma di propa­ganda in favore di una causa sconosciuta e in apparenza ridicola. Accenna a cambiamenti sensazionali in Francia, Germania e Au­stria come se fossero già in programma o addirittura faits accom-pli. E parla di un misterioso accordo « franco-russo » come se fosse di dominio pubblico.

A una prima lettura, l'opuscolo di S. Roux sembrava del tutto privo di senso. Un esame più attento ci convinse che in realtà era un altro ingegnoso « documento del Priorato », studiato di propo­sito per sconcertare, confondere, stuzzicare, seminare allusioni a qualcosa di clamoroso e monumentale. Comunque, in quel suo modo sfrenatamente eccentrico, lasciava intravedere l'enormità del gioco. Se S. Roux aveva ragione, l'oggetto della nostra indagi­ne non era limitato alle attività di un moderno ordine cavalieresco, misterioso ma innocuo; se aveva ragione, l'oggetto della nostra indagine era in qualche modo legato ai più alti livelli della politica internazionale.

Il tradizionalismo cattolico

Nel 1977 apparve un nuovo « documento del Priorato » partico­larmente significativo: un opuscoletto di sei pagine intitolato Le

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cercle d'Ulysse e scritto da un certo Jean Delaude. Nel testo, l'autore si rivolge esplicitamente al Priorato di Sion. E sebbene faccia un rimpasto di molto materiale più vecchio, fornisce anche alcuni dettagli nuovi relativi all'Ordine:

Nel marzo 1117 Baldovino fu costretto, a Saint Léonard d'Acri, a negozia­re e a preparare la costituzione dell'Ordine del Tempio, secondo le direttive del Priorato di Sion. Nel 1118 l'Ordine del Tempio venne poi fondato da Hugues de Payen. Dal 1118 al 1188 il Priorato di Sion e l'Ordine del Tempio ebbero gli stessi Gran maestri. Dopo la separazione tra le due istituzioni, avvenuta nel 1188, il Priorato di Sion ha avuto fino a oggi ventisette Gran maestri. I più recenti sono:

Charles Nodier          dal 1801 al 1844

Victor Hugo              dal 1844 al 1885

Claude Debussy         dal 1885 al 1918

Jean Cocteau             dal 1918 al 1963

e dal 1963 fino all'avvento del nuovo ordine, l'abate Ducaud-Bourget.

Che cosa sta preparando il Priorato di Sion? Non so: ma rappresenta una potenza in grado di confrontarsi con il Vaticano nei giorni futuri. Monsignor Lefebvre ne è un membro attivissimo e temibile, capace di dire: « Tu fammi papa e io ti farò re ».12

Questo brano contiene due importanti informazioni nuove. Una è la presunta affiliazione al Priorato di Sion dell'arcivescovo Marcel Lefebvre. Monsignor Lefebvre, naturalmente, rappresen-■ ta l'ala conservatrice più estrema della Chiesa cattolica. Si espres­se apertamente e con molta decisione contro papa Paolo VI, e lo sfidò clamorosamente. Nel 1976 e nel 1977, anzi, fu esplicitamente minacciato di scomunica; e la sua assoluta indifferenza di fronte alla minaccia rischiò di causare un vero e proprio scisma in seno alla Chiesa. Ma come potevamo conciliare un cattolico militante e intransigente come monsignor Lefebvre con un movimento e un Ordine dall'orientamento ermetico se non apertamente eretico? Sembrava che la contraddizione fosse inspiegabile: a meno che monsignor Lefebvre fosse un moderno esponente della massone­ria ottocentesca associata allo Hiéron du Val d'Or, la « massone­ria cristiana, aristocratica ed ermetica » che si considerava più cattolica del papa.

Il secondo punto interessante del brano sopra citato è natural­mente l'identificazione del Gran maestro del Priorato di Sion in carica  a  quel tempo  con l'abate Ducaud-Bourget.  Francois

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Ducaud-Bourget nacque nel 1897 e studiò - abbastanza prevedi­bilmente - nel seminario di Saint Sulpice. Quindi è verosimile che avesse conosciuto molti dei modernisti che vi brulicavano a quel tempo, probabilmente anche Émile Hoffet. In seguito divenne cappellano conventuale del Sovrano ordine di Malta. Per la sua attività durante la Seconda guerra mondiale fu insignito della Medaglia della Resistenza e della Croce di guerra. Oggi è ricono­sciuto come letterato illustre, membro dell'Accademia di Francia, autore di biografie di importanti scrittori cattolici francesi come Paul Claudel e Frangois Mauriac, e poeta molto apprezzato lui stesso.

Come monsignor Lefebvre, l'abate Ducaud-Bourget assunse un atteggiamento di opposizione aperta nei confronti di papa Paolo VI. Come monsignor Lefebvre, è un sostenitore della messa tri-dentina. Come monsignor Lefebvre si è dichiarato « tradizionali­sta », incrollabilmente contrario alle riforme ecclesiastiche e a ogni tentativo di « modernizzare » il cattolicesimo. Il 22 maggio 1976 gli fu vietato di confessare e di impartire l'assoluzione; e come monsignor Lefebvre sfidò arditamente il divieto impostogli dai superiori. Il 27 febbraio 1977 guidò i mille cattolici tradizionali­sti che occuparono a Parigi la chiesa di Saint-Nicolas-du-Chardonnet.

Se Marcel Lefebvre e Francois Ducaud-Bourget appaiono teo­logicamente « dj destra », sembra che lo siano anche politicamen­te. Prima della Seconda guerra mondiale, monsignor Lefevbre era legato all'Action frangaise, che a quel tempo rappresentava l'e­strema destra politica in Francia, e aveva certe posizioni in comu­ne con il nazionalsocialismo tedesco. In tempi più recenti, l'« arci­vescovo ribelle » si guadagnò una considerevole notorietà appog­giando clamorosamente il regime militare argentino. Quando fu interrogato su questa sua presa di posizione, rispose che aveva sbagliato: non aveva inteso riferirsi all'Argentina, bensì al Cile! Francois Ducaud-Bourget sembrerebbe meno estremista; e le decorazioni da lui meritate attestano un'attività patriottica antite­desca durante la guerra. Tuttavia, si era espresso in termini di grande considerazione nei confronti di Mussolini, e aveva dichia­rato di sperare che la Francia ritrovasse « il suo senso dei valori sotto la guida di un nuovo Napoleone ».13

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Il nostro primo sospetto fu che Marcel Lefebvre e Francois Ducaud-Bourget non fossero veramente affiliati al Priorato di Sion, e che qualcuno avesse tentato di metterli in imbarazzo collegandoli proprio alle forze alle quali, in teoria, avrebbero dovuto opporsi vigorosamente. Eppure, secondo lo statuto che ci aveva procurato la polizia francese, il sottotitolo del Priorato di Sion era « Chevalerie d'institutions et règles catholiques, d'union indépendante et traditionaliste ». Un'istituzione con un nome simile poteva benissimo includere personaggi come Marcel Lefeb­vre e Frangois Ducaud-Bourget.

Ci sembrava inoltre che fosse possibile una seconda spiegazio­ne, un po' astrusa, certo, ma che almeno avrebbe giustificato la contraddizione. Forse Marcel Lefebvre e Frangois Ducaud-Bourget non erano ciò che sembravano. Forse erano qualcosa d'altro. Forse erano in realtà agents provocateurs, e miravano a creare sistematicamente scalpore, a seminare dissensi, a fomenta­re uno scisma incipiente che minacciava il pontificato di Paolo VI. Una tattica del genere sarebbe stata in armonia con le società segrete descritte da Charles Nodier e con i Protocolli degli anziani di Sion. E in tempi recenti numerosi commentatori - giornalisti ed ecclesiastici - hanno affermato che l'arcivescovo Lefebvre lavora per altri, o viene manovrato da altri.14

Per quanto potesse essere astrusa la nostra ipotesi, aveva una sua logica coerente. Se papa Paolo VI fosse stato considerato « il nemico », e qualcuno avesse voluto costringerlo ad assumere posi­zioni più liberali, come si sarebbe dovuto procedere? Non certo avanzando rivendicazioni di carattere liberale: sarebbe servito soltanto a indurre il ponteficie a trincerarsi ancora più fermamente dietro i suoi princìpi conservatori. Ma se qualcuno avesse adottato pubblicamente una posizione più incrollabilmente conservatrice di quella di papa Montini non lo avrebbe spinto, nonostante i suoi desideri contrari, verso atteggiamenti sempre più liberali? E senza dubbio fu appunto questo ciò che ottennero l'arcivescovo Lefeb­vre e i suoi seguaci: riuscirono nell'impresa senza precedenti di far apparire liberale il papa.

Fossero o no valide le nostre conclusioni, sembrava chiaro che l'arcivescovo Lefebvre, come tanti altri personaggi incontrati nel­la nostra indagine, era a conoscenza di un grande, esplosivo segre-

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to. Nel 1976, ad esempio, la sua scomunica appariva imminente. La stampa se l'attendeva da un giorno all'altro perché Paolo VI, di fronte a una sfida ripetuta e aperta, sembrava non avere alternati­ve. Eppure, all'ultimo momento, il papa indietreggiò. Ancora oggi non si sa di preciso il perché: ma il seguente brano tratto dal « Guardian » del 30 agosto 1976 suggerisce un indizio:

I preti che in Inghilterra si sono schierati con l'arcivescovo... ritengono che il loro capo spirituale abbia ancora una potentissima arma ecclesiastica da usare nella sua disputa con il Vaticano. Nessuno di loro è disposto a lasciar trapelare di che si tratti, ma padre Peter Morgan, leader di questro gruppo... sostiene che è qualcosa che « sconvolgerebbe la terra ».15

Quale informazione « che sconvolgerebbe la terra », quale « arma segreta » potrebbe incutere tanto timore al Vaticano? Quale spada di Damocle, invisibile agli occhi del grosso pubblico, veniva tenuta sospesa sulla testa del pontefice? Qualunque cosa fosse, sicuramente si è dimostrata efficace. Si direbbe anzi che abbia reso l'arcivescovo del tutto invulnerabile alle rappresaglie di Roma. Come scriveva Jean Delaude, Marcel Lefebvre sembrava ' veramente rappresentare « una potenza in grado di confrontarsi con il Vaticano » : se necessario in uno scontro frontale.

Ma a chi mai Lefebvre avrebbe detto o dovrebbe dire: « Tu fammi papa e io ti farò re »?

Il Convento del 1981 e lo Statuto di Cocteau

In tempi più recenti, alcune delle questioni riguardanti Frangois Ducaud-Bourget sembrano essersi chiarite. Il chiarimento è venu­to dall'improvvisa attenzione di cui il Priorato di Sion, tra la fine del 1980 e l'inizio del 1981, è divenuto oggetto in Francia da parte dell'opinione pubblica. E questa attenzione ha reso notissimo il suo nome.

Nell'agosto 1980 la rivista « Bonne Soirée », un rotocalco a grande tiratura, pubblicò un servizio in due puntate sul mistero di Rennes-le-Chàteau e il Priorato di Sion. In questo servizio Marcel Lefebvre e Francois Ducaud-Bourget vengono collegati in modo esplicito con Sion. Entrambi, si afferma, avrebbero fatto recente­mente visita a uno dei luoghi sacri di Sion, il villaggio di Sainte Colombe nel Nivernais, dove sorgeva Chàteau Barberie, la rocca

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dei Plantard, prima che nel 1659 Scardinale Mazzarino ne ordi­nasse la distruzione.

Nel frattempo, noi avevamo stabilito contatti telefonici ed epi­stolari con l'abate Ducaud-Bourget. Fu piuttosto cortese; ma le sue risposte a gran parte delle nostre domande furono vaghe se non addirittura evasive; cosa tutt'altro che sorprendente, smentì di avere rapporti con il Priorato di Sion. La smentita fu ripetuta in una lettera che l'abate inviò poco tempo dopo a « Bonne Soirée ».

Il 22 gennaio 1981 apparve sulla stampa francese un breve articolo16 che merita di essere citato in buona parte: Una vera e propria società segreta formata da 121 dignitari, il Priorato di Sion, fondato a Gerusalemme da Goffredo di Buglione nel 1099, ha enumerato tra i suoi Gran maestri Leonardo da Vinci, Victor Hugo e Jean Cocteau. Quest'Ordine si è riunito in Convento a Blois il 17 gennaio 1981 (il precedente Convento si tenne il 5 giugno 1956 a Parigi).

Nel corso del recente Convento di Blois, Pierre Plantard de Saint-Clair è stato eletto Gran maestro dell'Ordine con 83 voti su 92, al terzo scruti­nio.

Questa scelta del Gran maestro segna un passo decisivo nell'evoluzione della concezione e dello spirito dell'Ordine nei confronti del mondo; infatti i 121 dignitari del Priorato di Sion sono tutti eminenze grige dell'alta finanza e di varie organizzazioni politiche e filosofiche internazionali; Pierre Plantard discende direttamente, tramite Dagoberto II, dai re Mero­vingi. La sua discendenza è stata provata legalmente dalle pergamene della regina Bianca di Castiglia, scoperte dell'abate Saunière nella sua chiesa di Rennes-le-.Chàteau (Aude) nel 1891.

Nel 1965 questi documenti furono venduti dalla nipote del sacerdote al capitano Roland Stanmore e a Sir Thomas Frazer, e depositati in una cassetta di sicurezza della Lloyds Bank Europe Limited di Londra.17

Poco prima che la stampa pubblicasse questa notizia, noi aveva­mo scritto a Philippe de Chérisey, con il quale eravamo già entrati in contatto e che figurava, non meno frequentemente di Pierre Plantard, come portavoce del Priorato di Sion. Rispondendo a una delle domande che gli avevamo rivolte, Monsieur de Chérisey dichiarò che Frangois Ducaud-Bourget non era stato eletto Gran maestro con il quorum necessario. Inoltre, aggiunse, l'abate Ducaud-Bourget aveva ripudiato pubblicamente la sua affiliazio­ne all'Ordine. Quest'ultima affermazione ci sembrò poco chiara. Ma aveva più senso nel contesto del documento che Philippe de Chérisey accludeva alla sua lettera.

Qualche tempo prima avevamo ottenuto dalla sottoprefettura

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di Saint-Julien lo statuto del Priorato di Sion. Una copia dello stesso statuto era stata pubblicata nel 1973 da una rivista france­se.18 Ma a Parigi Jean-Lue Chaumeil ci aveva detto che quello statuto era fraudolento. Nella sua lettera, Philippe de Chérisey allegò una copia di quello che, diceva, era il vero statuto del Priorato di Sion, tradotto dal latino. Lo statuto portava la firma di Jean Cocteau; e a meno che fosse stata fatta da un falsario straor­dinariamente abile, quella firma era autentica. Di conseguenza, siamo propensi ad accettare come autentico anche lo statuto che reca la firma.19 Eccolo:

Articolo I - Viene istituito, tra i firmatari di questa costituzione e quanti successivamente vi aderiranno e adempiranno le seguenti condizioni, un ordine iniziatico cavalieresco, i cui usi e costumi si basano sulla fondazione stabilita a Gerusalemme da Goffredo VI detto il Pio, duca di Buglione, nel 1099, e riconosciuta nel 1100.

Articolo il - L'ordine è chiamato « Sionis Prioratus » o « Priorato di Sion ».

Articolo ih - II Priorato di Sion ha come scopi la perpetuazione dell'ordine . tradizionalista della cavalleria, il suo insegnamento iniziatico e la mutua assistenza morale e materiale tra i suoi membri, in ogni circostanza.

Articolo rv - La durata del Priorato di Sion è illimitata.

Articolo v - II Priorato di Sion adotta, quale ufficio di rappresentanza, il domicilio del segretario generale nominato dall'Assemblea. Il Priorato di Sion non è una società segreta. Tutti i suoi decreti, e così pure i suoi documenti e le sue nomine, sono a disposizione del pubblico nel testo latino.

Articolo vi - II Priorato di Sion comprende 121 membri. Entro questi limiti, è aperto a tutti gli adulti che ne riconoscono le finalità e accettano gli obblighi specificati in questa costituzione. I membri sono ammessi senza alcun pregiudizio relativo al sesso, alla razza o alle idee filosofiche, politi­che o religiose.

Articolo vn - Tuttavia, nel caso che un membro designi per iscritto a succedergli uno dei suoi discendenti, l'Assemblea accoglierà la richiesta e, nel caso che si tratti di un minore, potrà assumersi il compito di provvedere all'istruzione del designato.

Articolo vm - Un futuro membro deve procurarsi, a proprie spese, per l'investitura del primo grado, una veste bianca con cordiglio. Dal momen­to della sua ammissione al primo grado, il membro ha diritto di voto. All'atto dell'ammissione, il nuovo membro deve giurare di servire l'Ordi­ne in ogni circostanza, nonché di lavorare per la pace e il rispetto della vita

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Articolo IX - All'atto dell'ammissione, il nuqvo membro deve pagare una quota simbolica, il cui ammontare è a sua discrezione. Ogni anno deve versare alla Segreteria generale un contributo volontario per l'Ordine, il cui ammontare verrà egualmente deciso da lui.

Articolo X - All'atto dell'ammissione, il nuovo membro deve presentare un certificato di nascita e depositare la sua firma.

Articolo XI - Un membro del Priorato di Sion contro il quale sia stata pronunciata da un tribunale una sentenza per un reato comune può essere sospeso dai suoi doveri e dai suoi titoli e dall'appartenenza all'Ordine.

Articolo XII - L'assemblea generale dei membri è chiamata Convento. Nessuna deliberazione del Convento sarà ritenuta valida se il numero dei membri presenti è inferiore a ottantuno. Il voto è segreto e viene dato per mezzo di palline bianche e nere. Per essere adottate, le mozioni devono ricevere ottantuno palline bianche. Tutte le mozioni che non ricevono almeno sessantuno palline bianche nel corso di una votazione non possono essere ripresentate.

Articolo xin - II Convento del Priorato di Sion è il solo organo cui spetta decidere, con una maggioranza di 81 voti su 121 membri, tutte le modifi­che della costituzione e il regolamento interno cerimoniale.

Articolo xrv - Tutte le ammissioni saranno decise dal « Consiglio dei tredici Rosacroce ». I titoli e i doveri saranno assegnati dal Gran maestro del Priorato di Sion. I membri sono ammessi a vita alla loro carica. I loro titoli passano di diritto a uno dei loro figli, scelto da loro stessi indipenden­temente dal sesso. Il figlio così designato può fare atto di rinuncia dei propri diritti, ma non può compiere tale rinuncia in favore di un fratello, di una sorella, di un parente o di un'altra persona. Non può venire inoltre riammesso nel Priorato di Sion.

Articolo XV - Entro ventisette giorni, due membri saranno tenuti a metter­si in contatto con il futuro membro per ottenere il suo assenso o la sua rinuncia. In mancanza di un atto d'accettazione dopo un periodo di riflessione della durata di ottantun giorni, sarà legalmente riconosciuta la rinuncia e il posto sarà considerato vacante.

Articolo XVI - In virtù del diritto ereditario confermato dai precedenti articoli, i doveri e i titoli di Gran maestro del Priorato di Sion saranno trasmessi al suo successore secondo le stesse prerogative. Nel caso si renda vacante la carica di Gran maestro in assenza di un successore diretto, il Convento dovrà procedere all'elezione entro ottantun giorni.

Articolo xvn - Tutti i decreti devono essere votati dal Convento e venire convalidati dal Sigillo del Gran maestro. Il segretario generale viene nominato dal Convento per tre anni, rinnovabili per tacito consenso. Il segretario generale deve avere il grado di Comandante per intraprendere le sue mansioni. Le funzioni e le mansioni non sono retribuite.

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Articolo XVin - La gerarchla del Priorato di Sion è composta di cinque gradi:

1° Nautonnier numero: 1 2° Croisé            numero:    3

3° Commandeur numero: 9 4° Chevalier numero: 27 5° Ecuyer           numero:  81

totale             numero: 121

Arca dei 13 Rosacroce

Le nove Commanderies del Tempio

Articolo XIX - Vi sono 243 Liberi fratelli, chiamati Preux, o, a partire dall'anno 1681, Enfants de Saint Vincent, che non partecipano né alle votazioni né ai Conventi, ma ai quali il Priorato di Sion accorda certi diritti e privilegi conformemente al decreto del 17 gennaio 1681.

Articolo XX -1 fondi del Priorato di Sion sono costituiti dalle donazioni e dalle quote versate dai membri. Una riserva, chiamata il « patrimonio dell'Ordine », è affidata al Consiglio dei tredici Rosacroce. Tale tesoro può essere usato solo in caso di assoluta necessità e di grave pericolo per il Priorato e i suoi membri.

Articolo XXI - II Convento viene convocato dal segretario generale quan­do il Consiglio dei Rosacroce lo ritiene utile.

Articolo XXII - La smentita dell'appartenenza al Priorato di Sion, manife­stata pubblicamente e per iscritto, senza causa o pericolo personale, comporterà l'esclusione del membro in questione, che verrà decisa dal Convento.

Testo della costituzione in ventidue articoli, conforme all'originale e alle modifiche decise dal Convento del 5 giugno 1956.

Firma del Gran maestro JEAN COCTEAU

In certi dettagli, questo statuto è in contrasto tanto con lo statuto che avevamo ricevuto dalla polizia francese quanto con le informazioni relative a Sion contenute nei « documenti del Priora­to ». Queste ultime indicano un totale di 1093 membri, lo statuto fornitoci dalla polizia un totale di 9841. Secondo gli articoli sopra riportati, il numero complessivo dei membri di Sion, inclusi i 243 « Figli di san Vincenzo », sono soltanto 364. I « documenti del Priorato », inoltre, stabiliscono una gerarchia di sette gradi. Nello statuto che avevamo avuto dalla polizia francese, questa gerarchia risulta ampliata a nove gradi. Secondo gli articoli citati più sopra, i gradi sono soltanto cinque. E gli appellativi specifici di tali gradi sono diversi da quelli che compaiono nelle altre due fonti.

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Queste contraddizioni potrebbero indicare una specie di sci­sma, compiuto o incipiente, all'interno del Priorato di Sion e avvenuto intorno al 1956, l'anno in cui i « documenti del Priorato » incominciarono ad apparire nella Bibliothèque Natio-nale. E infatti Philippe de Chérisey allude a uno scisma, in un recente articolo.20 Ebbe luogo tra il 1956 e il 1958, egli dice, e minacciò di assumere le stesse proporzioni della scissione tra Sion e l'Ordine del Tempio nel 1188, la scissione contrassegnata dal « taglio dell'olmo ». Secondo de Chérisey, lo scisma fu scongiura­to dall'abilità diplomatica di Pierre Plantard, che riuscì a ricondur­re all'ovile i potenziali transfughi. In ogni caso, e quale che fosse la politica interna del Priorato di Sion, l'Ordine, al Convento del gennaio 1981, sembrerebbe costituire un organismo unito e com­patto.

Se Francois Ducaud-Bourget era stato il Gran maestro del Priorato di Sion, apparirebbe evidente che oggi non lo è più. De Chérisey dichiarò che non era stato eletto dal quorum necessario. Questo potrebbe significare che era stato eletto dai potenziali scismatici. Non è chiaro se gli sia stata imputata la violazione dell'articolo XXII dello statuto. Possiamo comunque presumere che, comunque stessero le cose in passato, non sia più affiliato a Sion.

Lo statuto sopra citato sembrerebbe chiarire la posizione di Frangois Ducaud-Bourget. In ogni caso chiarisce il principio di selezione che governa i Gran maestri del Priorato di Sion. Ora si comprende perché vi sono stati Gran maestri di cinque o otto anni. Si comprende inoltre perché la carica di Gran maestro debba passare, attraverso una particolare stirpe, a una particolare rete di genealogie intercollegate. In linea di principio, il titolo sembre­rebbe ereditario, trasmesso nel corso dei secoli attraverso un gruppo strettamente relato di famiglie che rivendicavano, tutte, di discendere dai Merovingi. Tuttavia, quando non vi era un preten­dente eleggibile o quando il pretendente designato rifiutava la nomina, la carica di Gran maestro, presumibilmente in armonia con le procedure delineate nello statuto, veniva conferita a un estraneo. Sarebbe per questa ragione, quindi, che personaggi come Leonardo, Newton, Nodier e Cocteau figurano nell'elenco.

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Pierre Plantard de Saint-Clair

Tra i nomi che ricorrevano più spesso e con particolare risalto nei « documenti del Priorato » c'era quello della famiglia Plantard. E fra i numerosi personaggi legati al mistero di Saunière e di Rennes-le-Chàteau, il più autorevole sembrava essere Pierre Plantard o, come si firma oggi, Pierre Plantard de Saint-Clair.21 Secondo le genealogie dei « documenti del Priorato », Pierre Plantard è un discendente diretto di re Dagoberto II e della dinastia merovingia. Secondo le stesse genealogie, è anche discendente diretto dei proprietari di Chàteau Barberie, fatto distruggere nel 1659 dal cardinale Mazzarino.

Nel corso di tutta la nostra indagine avevamo incontrato più volte il nome di Pierre Plantard. Anzi, per quanto riguarda la diffusione delle notizie durante gli ultimi venticinque anni, più o meno, tutte le piste sembravano condurre a lui. Nel 1960, ad esempio, fu intervistato da Gerard de Sède e parlò di un « segreto internazionale » nascosto a Gisors.22 Durante il decennio successi­vo sembra sia stato una delle principali fonti di notizie per i libri di de Sède su Gisors e Rennes-le-Chàteau.23 Secondo rivelazioni recenti, il nonno di Pierre Plantard conosceva personalmente Bérenger Saunière. E lo stesso Plantard dimostrò di essere pro­prietario di numerosi terreni nei pressi di Rennes-le-Chàteau e di Rennes-les-Bains, incluso il monte di Blanchefort. Quando inter­vistammo l'antiquario locale a Stenay, nelle Ardenne, venimmo a sapere che anche il sito della Chiesa Vecchia di Saint Dagobert era di proprietà del signor Plantard. E secondo lo statuto che ci aveva passato la polizia francese, Pierre Plantard era registrato come segretario generale del Priorato di Sion.

Nel 1973 una rivista francese pubblicò quella che sembra la trascrizione di un'intervista telefonica col signor Plantard. Com'e-ra prevedibile, l'intervistato non lasciava trapelare molte cose. Le sue affermazioni erano allusive, enigmatiche e provocatorie, e in effetti sollevavano più interrogativi di quanti non ne risolvessero. Ad esempio, parlando della stirpe merovingia e dei suoi diritti regali, Plantard dichiarò: « Dovete esplorare le origini di certe grandi famiglie francesi, e allora comprenderete come un perso­naggio chiamato Henri de Montpézat potrebbe un giorno diventa-

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re re ».24 E quando gli fu chiesto quali erano gli obiettivi del Priorato di Sion, Pierre Plantard rispose in modo prevedibilmente evasivo: « Questo non posso dirvelo. La società cui sono legato è antichissima. Io succedo semplicemente ad altri, sono un punto in una sequenza. Noi siamo i custodi di certe cose. E senza pubblici­tà ».25

La stessa rivista francese pubblicò inoltre un profilo di Pierre Plantard, scritto dalla sua prima moglie, Anne Lea Hisler, morta nel 1971. Se si deve credere alla rivista, il profilo era apparso per la prima volta in « Circuit », la pubblicazione interna del Priorato di Sion, per la quale il signor Plantard, a quanto viene affermato, avrebbe scritto regolarmente con lo pseudonimo di « Chyren »:

Non dimentichiamo che questo psicologo fu amico di personaggi diversis-simi come il conte Israèl Monti, uno dei fratelli del Santo Vehm, Gabriel Trarieux d'Egmont, uno dei tredici membri della Rosacroce, Paul Lecour, il filosofo che scrisse sull'Atlantide, l'abate Hoffet del Servizio documen­tazione del Vaticano, Th. Moreaux, direttore del Conservatorio di Bour-ges, ecc. Ricordiamo che durante l'occupazione fu arrestato, torturato dalla Gestapo e internato come prigipniero politico per lunghi mesi. Quale dottore in scienze arcane, ha imparato ad apprezzare il valore delle informazioni segrete, e questo senza dubbio ha contribuito a fargli asse­gnare il titolo di membro onorario di numerose società ermetiche. Tutto ciò è servito a formare un personaggio singolare, un mistico della pace, un apostolo della libertà, un asceta il cui ideale è servire il bene dell'umanità. È sorprendente, quindi, che dovesse diventare una delle eminenze grigie alle quali i grandi di questo mondo chiedono consiglio? Invitato nel 1947 dal governo federale svizzero, per diversi anni è vissuto nei pressi del lago Lemano, dove si radunano numerosi chargés de missions e delegati di tutto il mondo.26

Indubbiamente, la signora Hisler era convinta che questo fosse un ritratto luminoso. Tuttavia, ne emerge soprattutto la sensazio­ne di trovarsi di fronte a un personaggio singolare. In alcuni punti il linguaggio usato dalla signora Hisler diventa vago e nel contem­po iperbolico. Inoltre, le diverse persone citate come illustri cono­scenze di Pierre Plantard sono a dir poco strane.

D'altra parte, le disavventure con la Gestapo sembrano indicare che Pierre Plantard svolgesse attività encomiabili durante l'occu­pazione. E le nostre ricerche produssero le prove documentali. Già nel 1941 Plantard aveva incominciato a dirigere un giornale della resistenza, « Vaincre », pubblicato in un sobborgo di Parigi.

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Fu prigioniero della Gestapo per più di un anno, dall'ottobre 1943 alla fine del 1944.27

Scoprimmo che fra gli amici e i conoscenti di Pierre Plantard figuravano personalità molto più famose di quelle citate dalla signora Hisler. C'erano, tra gli altri, Andre Malraux e Charles de Gaulle. In effetti, le conoscenze di Pierre Plantard si estendevano nei « corridoi del potere ». Nel 1958, ad esempio, l'Algeria insor­se e il generale de Gaulle cercò di riottenere la presidenza della Repubblica francese. A quanto sembra, si rivolse a Plantard e chiese il suo aiuto. Pierre Plantard, insieme ad Andre Malraux e ad altri, mobilitò i cosiddetti « Comitati di salute pubblica », che contribuirono in modo notevolissimo a riportare de Gaulle alI'Eli-seo. In una lettera datata 29 luglio 1958, de Gaulle ringraziò personalmente Pierre Plantard per i servigi resi. In una seconda lettera, datata cinque giorni più tardi, il generale invitò Plantard a sciogliere i comitati, che avevano realizzato il loro obiettivo. Con un comunicato ufficiale diffuso dalla stampa e dalla radio, Plan­tard sciolse i comitati.28

È superfluo aggiungere che, con il progredire delle nostre inda­gini, eravamo sempre più ansiosi di conoscere Plantard. All'inizio, però non sembrò molto probabile che potessimo riuscire nell'in­tento. Pierre Plantard era irreperibile e pareva che non esistesse la minima possibilità di rintracciarlo a livello privato. Poi, nella primavera del 1979, incominciammo a preparare un altro docu­mentario su Rennes-le-Chàteau per conto della BBC, che mise a nostra disposizione le sue risorse. E finalmente, sotto gli auspici della BBC, riuscimmo a metterci in contatto con Pierre Plantard e il Priorato di Sion.

Le ricerche iniziali furono intraprese da un'inglese, una giorna­lista residente a Parigi, che aveva lavorato diverse volte per la BBC e aveva in tutta la Francia un gran numero di conoscenze, tramite le quali cercò di rintracciare il Priorato de Sion. All'inizio, mentre svolgeva la sua indagine tra le logge massoniche e la « subcultura » esoterica parigina, incontrò com'era prevedibile una cortina fumogena di informazioni fuorvianti e di contraddizio­ni. Un giornalista, ad esempio, l'avvertì che quanti si mostravano troppo curiosi sul conto del Priorato di Sion prima o poi venivano

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uccisi. Un altro giornalista disse che Sion era veramente esistito nel Medioevo, ma ai giorni nostri non esisteva più. Un funzionario della Grande Loge Alpina, d'altra parte, le riferì che Sion esiste­va, ma era un'organizzazione moderna: in passato, le disse, non era mai esistito.

Destreggiandosi in questa specie di labirinto, la nostra ricerca-trice si mise finalmente in contatto con Jean-Lue Chaumeil, che aveva intervistato Pierre Plantard per conto di una rivista e aveva scritto parecchio su Saunière, Rennes-le-Chàteau e il Priorato di Sion. Chaumeil le disse che lui non era un membro di Sion, tuttavia poteva contattare il signor Plantard e forse anche combi­nare un incontro con noi. Nel frattempo, fornì alla nostra ricerca-trice altre notizie frammentarie. Secondo Chaumeil il Priorato di Sion non era, a stretto rigore, una « società segreta ». Semplice­mente, preferiva circondare di un'atmosfera di discrezione la sua esistenza, le sue attività e i nomi dei suoi aderenti. La registrazione apparsa sul « Journal Officiel », dichiarò Chaumeil, era spuria, opera di certi « transfughi » dall'Ordine. E secondo lui anche lo statuto depositato presso la polizia era spurio, e proveniva dagli stessi « transfughi ».

Chaumeil confermò quanto avevamo sospettato, e cioè che Sion aveva piani politici ambiziosi per il prossimo futuro. Entro pochi anni, asserì, vi sarebbe stato un cambiamento sensazionale nel governo francese: un cambiamento che avrebbe spianato la strada a una monarchia popolare, con un sovrano merovingio. E Sion, affermò, sarebbe stato il responsabile di questo cambiamento, come lo era stato di molti altri nei secoli precedenti. Secondo Chaumeil, Sion era antimaterialista e mirava a una restaurazione dei « veri valori » : valori che sembrerebbero avere un carattere spirituale, forse esoterico. Questi valori, spiegò Chaumeil, erano in ultima analisi precristiani, nonostante l'orientamento ufficial­mente cristiano di Sion e nonostante il preteso spirito cattolico dello statuto. Inoltre, Chaumeil ripetè che a quel tempo il Gran maestro di Sion era Francois Ducaud-Bourget. Quando gli fu chiesto in che modo il tradizionalismo cattolico dell'abate si pote­va conciliare con i valori precristiani, Chaumeil rispose enigmati­camente che avremmo dovuto chiederlo allo stesso Ducaud-Buorget.

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Chaumeil sottolineava l'antichità del Priorato di Sion e l'ampiez­za dell'associazione. Includeva, disse, membri appartenenti a ogni ambiente sociale. E aggiunge che i suoi obiettivi non si limitavano alla restaurazione della stirpe merovingia. A questo punto fece alla nostra ricercatrice una dichiarazione molto curiosa. Non tutti i membri del Priorato di Sion, disse, erano Ebrei. Il sottinteso di questa frase apparentemente incongrua è evidente: alcuni membri dell'Ordine, o forse molti, sono Ebrei. Ancora una volta, eravamo di fronte a una contraddizione sconcertante. Anche se lo statuto era spurio, come potevamo conciliare un ordine con aderenti Ebrei e un Gran maestro che abbracciava il tradizionalismo catto­lico più estremista e che contava tra i suoi amici Marcel Lefebvre, un uomo conosciuto per certe affermazioni al limite dell'antisemi­tismo?

Chaumeil fece anche affermazioni sconcertanti. Ad esempio, parlò del « principe di Lorena » che discendeva dalla stirpe mero­vingia e la cui « sacra missione era quindi ovvia ». L'affermazione è tanto più sconcertante in quanto oggi, per quel che se ne sa, non c'è nessun principe di Lorena, neppure titolare. Chaumeil inten­deva dire che invece il principe esisteva e magari viveva in incogni­to? Oppure usava il termine « principe » nel senso più ampio di « discendente »? In quest'ultimo caso, l'attuale principe è il dottor Otto d'Asburgo, duca titolare dì Lorena.

Nel complesso, le risposte di Jean-Lue Chaumeil, più che rispo­ste vere e proprie, erano basi per interrogativi nuovi; e la nostra ricercatrice, che aveva avuto a disposizione pochissimo tempo per prepararsi, non sapeva esattamente quali domande dovesse for­mulare. Tuttavia fece considerevoli progressi perché sottolineò l'interesse della BBC; sul continente, infatti, la BBC gode di un prestigio assai più grande che in Gran Bretagna, ed è ancora un nome che fa colpo. Quindi la prospettiva di un intervento della BBC non poteva venir presa alla leggera. Sarebbe eccessivo parla­re di « propaganda » ; ma un documentario della BBC che avrebbe messo in risalto o autenticato certi fatti daveva apparire senza dubbio allettante, uno strumento autorevole per acquisire credibi­lità e creare una certa atmosfera psicologica nel mondo anglofono. Se i Merovingi e il Priorato di Sion fossero stati accettati come « dati storici » o fatti generalmente riconosciuti, diciamo come la

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battaglia di Hastings o l'assassinio di san Tommaso Becket, la cosa sarebbe chiaramente tornata a vantaggio di Sion. Furono senza dubbio queste considerazioni che indussero Chaumeil a telefonare al signor Plantard.

Finalmente, nel marzo 1979, con il nostro produttore della BBC, Roy Davies, e la sua ricercatrice che tenevano i collegamen­ti, venne fissato un incontro tra noi e Pierre Plantard. Quando si svolse, fu un po' come una riunione di « padrini » della mafia. Si svolse in « territorio neutrale », in un cinema parigino affittato per l'occasione dalla BBC, e tutti gli interessati erano accompagnati dai rispettivi seguiti. Pierre Plantard era un uomo dignitoso e cortese, dal portamento piuttosto aristocratico, privo di ostenta­zioni, e dai modi garbati, volubili e discreti. Diede prova di una erudizione enorme e di un'impressionante agilità mentale: aveva il dono della risposta pronta, spiritosa, secca, maliziosa ma non pungente. Spesso nei suoi occhi si affacciava una luce di gentile, indulgente divertimento: aveva quasi l'aria di un buon nonno. Nonostante il suo fare modesto e discreto, esercitava sui suoi accompagnatori un'autorità impressionante. E aveva anche qual­cosa di ascetico e di austero. Non faceva ostentazione di ricchezza. L'abbigliamento era sobrio, di buon gusto, formale ma disinvolto, non esageratamente elegante né manifestamente dispendioso. A quanto potemmo capire, non possedeva neppure l'automobile.

Durante il primo incontro e i due successivi, il signor Plantard ci fece capire chiaramente che non avrebbe detto nulla delle attività e degli obiettivi attuali del Priorato di Sion. Per contro, si offrì di rispondere a tutte le nostre domande sul passato dell'Ordine. E sebbene rifiutasse di discutere il futuro in pubblico - in un filmato, ad esempio - ce ne diede qualche cenno conversando con noi. Ad esempio, dichiarò che il Priorato di Sion conservava effettivamen­te il tesoro perduto del Tempio di Gerusalemme, il bottino delle legioni romane di Tito nel 70 d.C. Tali oggetti, disse, sarebbero stati « restituiti a Israele al momento opportuno ». Ma disse che, qualunque fosse il significato storico, archeologico o persino poli­tico del tesoro, lo considerava incidentale. Il vero tesoro, sosten­ne, era «. spirituale ». E lasciò capire che questo « tesoro spiritua­le » consisteva, almeno in parte, di un segreto. In qualche modo imprecisato, il tesoro in questione avrebbe facilitato una grande

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trasformazione sociale. Riecheggiando quanto aveva detto Chau-meil, Pierre Plantard dichiarò che in un prossimo futuro vi sarebbe stato in Francia un rivolgimento sensazionale: non una rivoluzio­ne, ma un mutamento radicale delle istituzioni che avrebbe spia­nato la strada al reinsediamento di una monarchia. L'affermazio­ne non fu fatta in toni profetici o istrionici. Al contrario, Pierre Plantard ce lo assicurò con molta calma e in toni molto pratici - e con assoluta convinzione.

Su quanto ci disse Pierre Plantard c'erano certe curiose incon­gruenze. A volte, per esempio, sembrava parlare a nome del Priorato di Sion: diceva « noi » per alludere all'Ordine. Altre volte, sembrava dissociarsi dall'Ordine: parlava di se stesso come di un pretendente merovingio, un re legittimo, e dei membri di Sion come dei suoi alleati o sostenitori. Avevamo l'impressione di ascoltare due voci nettamente distinte, che non sempre erano compatibili. Una era la voce del segretario generale di Sion. L'altra era quella di un re in incognito che « regna ma non gover­na » e che considerava Sion come una specie di consiglio privato. Questa dicotomia tra le due voci non fu mai spiegata in modo soddisfacente, e fu impossibile convincere il signor Plantard a chiarirla.

Dopo tre incontri con Pierre Plantard e i suoi seguaci, non ne sapevamo molto più di prima. A parte i Comitati di salute pubblica e le lettere di Charles de Gaulle, non ricevemmo alcuna indicazio­ne circa l'influenza o la potenza politica di Sion, né alcun indizio che gli uomini da noi incontrati fossero in grado di trasformare il governo e le istituzioni della Francia. E non ci fu detto neppure perché la stirpe merovingia dovesse venire presa sul serio più dei vari tentativi di restaurare qualunque altra dinastia regale. Ad esempio, vi sono diversi pretendenti Stuart al trono britannico e le loro rivendicazioni, almeno per gli storici moderni, poggiano su basi più solide di quelle dei Merovingi. Del resto, vi sono molti altri pretendenti alle corone e ai troni vacanti d'Europa; e vi sono i membri superstiti delle dinastie dei Borbone, degli Asburgo, degli Hohenzollern e dei Romanov. Perché a loro si dovrebbe accorda­re meno credibilità che ai Merovingi? Dal punto di vista della « legittimità assoluta » puramente tecnica, la pretesa dei Mero­vingi potrebbe avere in effetti la precedenza. Ma nel mondo

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moderno la cosa sembrerebbe comunque accademica, come se poniamo, un irlandese dei giorni nostri provasse di discendere dai Sommi re di Tara.

Ancora una volta prendemmo in considerazione la possibilità di liquidare il Priorato di Sion come una setta minore ed eccentrica, se non addirittura fasulla. Eppure tutte le nostre ricerche avevano indicato che l'Ordine, in passato, aveva avuto un potere autentico ed era stato coinvolto in questioni internazionali ad altissimo livello. Ancora oggi, c'era sotto qualcosa di più di ciò che balzava agli occhi. Ad esempio, non era mercenario, non aveva fini di lucro. Se il signor Plantard avesse voluto, avrebbe potuto trasfor­mare il Priorato di Sion in un affare estremamente redditizio, come tanti altri culti, sette e istituzioni alla moda. Eppure quasi tutti i « documenti del Priorato » fondamentali restavano relegati in edizioni private. E Sion non cercava nuove reclute, neppure nell'ambito discreto in cui avrebbe potuto farlo una loggia masso­nica. Il numero dei suoi membri, a quanto potevamo accertare, rimaneva rigorosamente limitato, e i nuovi membri venivano am­messi solo quando c'era un posto vacante. Questa « esclusività » attestava, tra l'altro, una straordinaria sicurezza, la certezza di non aver bisogno di arruolare sciami di novizi per motivi finanziari o per altre ragioni. In altre parole, aveva già qualcosa che « lavo­rava a suo favore », qualcosa che sembrava aver fruttato la devo­zione di uomini come Malraux e de Gaulle. Ma potevamo credere veramente che uomini come Malraux e de Gaulle mirassero a reinsediare la stirpe merovingia?

La politica del Priorato di Sion

Nel 1973 fu pubblicato un libro, Les dessous d'une ambition politi-que (I retroscena di un'ambizione politica). Il libro, scritto da un giornalista svizzero, Mathieu Paoli, narra i tentativi compiuti dal­l'autore per indagare sul Priorato di Sion. Come noi, alla fine Paoli era entrato in contatto con un rappresentante dell'Ordine, del quale non rivela il nome. Ma Paoli non aveva alle spalle il prestigio della BBC, e il rappresentante che si incontrò con lui-se possiamo giudicare in base al suo racconto - non ricopriva, sembra, la posizione autorevole di Pierre Plantard. Nel contempo però Paoli,

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Figura 2    La copertina del romanzo Circuit.

 

vivendo sul continente e godendo di una maggiore mobilità rispet­to a noi, era riuscito a seguire certe piste e a intraprendere ricerche « sul posto » che noi non eravamo in grado di svolgere. Di conse­guenza, il suo libro è estremamente prezioso e contiene molte notizie nuove: al punto, anzi, che sembrava giustificare un seguito. E ci chiedemmo perché Paoli non l'avesse scritto. Quando ci informammo sul suo conto, ci fu detto che nel 1977 o nel 1978 era stato fucilato dagli Israeliani per aver cercato di vendere certi segreti agli Arabi.29

Il metodo usato da Paoli, come lo descrive nel suo libro, sotto molti aspetti era simile al nostro. Anche lui si mise in contatto con la figlia di Leo Schidlof a Londra; e anche a lui la signorina Schidlof disse che suo padre, a quanto le risultava, non aveva avuto nulla a che fare con società segrete, con la massoneria o con le genealogie merovinge. Come la nostra ricercatrice della BBC, anche Paoli aveva contattato la Grande Loge Alpina e si era incontrato con il suo cancelliere, ricevendo una risposta egual­mente ambigua. Secondo Paoli, il cancelliere negò recisamente di conoscere qualcuno che si chiamava « Lobineau » o « Schidlof ». In quanto alle varie opere che portavano la dicitura della Alpina, il cancelliere affermò categoricamente che non esistevano. Eppu­re un amico personale di Paoli che era membro dell'Alpina soste­neva di aver visto quelle opere nella biblioteca della loggia. La conclusione di Paoli è questa:

Vi sono due possibilità. Dato il carattere delle opere di Henri Lobineau, la Grande Loge Alpina, che vieta ogni attività politica in Svizzera e all'este­ro, non vuole che si sappia della sua partecipazione al mistero. Oppure un altro movimento si è servito del nome della Grande Loge per mimetizzare le proprie attività.30

Nella sede secondaria della Bibliothèque Nationale a Versail-les, Paoli aveva scoperto quattro numeri di « Circuit »,31 la rivista menzionata nello statuto del Priorato di Sion. Il primo portava la data 1° luglio 1959, e il direttore era Pierre Plantard. Ma la rivista non affermava affatto di essere legata al Priorato di Sion. Al contrario, si presentava come l'organo ufficiale della Federazione delle Forze francesi. C'era persino un sigillo, che Paoli riproduce nel suo libro, e in più i dati seguenti:

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Publication périodique culturelle de la Fédération des

Forces Frangaises

116 Rue Pierre Jouhet, 116

Aulnay-sous-Bois - (Seine-et-Oise)

Tèi: 929-72-49

Paoli controllò a quell'indirizzo. Non vi era mai stata stampata una rivista. Anche il numero telefonico risultò falso. E tutti i tentativi compiuti da Paoli per rintracciare la Federazione delle Forze francesi furono vani. Ancora oggi non si hanno notizie su questa organizzazione. Ma non sembra una pura e semplice coin­cidenza il fatto che la sede centrale francese dei Comitati di salute pubblica fosse proprio ad Aulnay-sous-Bois.12 Quindi sembra che la Federazione delle Forze francesi fosse legata in qualche modo ai comitati. Sembra che questa ipotesi sia fondata. Paoli riferisce che il secondo numero di « Circuit » allude a una lettera scritta da de Gaulle a Plantard per ringraziarlo dei suoi servigi. Parrebbe che i servigi in questione riguardassero l'attività dei Comitati di salute pubblica.

Secondo Paoli, in prevalenza gli articoli di « Circuit » trattava­no temi esoterici. Erano firmati da Pierre Plantard—con il suo vero nome e con lo pseudonimo « Chyren » -, Anne Lea Hisler e altri che non ci risultavano nuovi. Però c'erano anche altri articoli di carattere molto diverso. Alcuni, ad esempio, parlavano di una scienza segreta della viticoltura - l'innesto dei vitigni - che appa­rentemente aveva una fondamentale importanza politica. E que­sto non aveva senso, a meno di presumere che le viti e la viticoltura andassero intesi allegoricamente, forse come allusioni metafori-che alle genealogie, agli alberi genealogici e alle alleanze dinasti-che.

Quando non erano arcani od oscuri, gli articoli di « Circuit », secondo Paoli, erano fervidamente nazionalisti. In uno di essi, firmato da Adrian Servette, l'autore asserisce ad esempio che non vi sarà una soluzione per i problemi attuali

se non tramite nuovi metodi e uomini nuovi, perché la politica è morta. Rimane il fatto curioso che gli uomini non vogliono ammetterlo. Esiste un solo problema: l'organizzazione economica. Ma vi sono ancora uomini capaci di pensare alla Francia, come durante l'occupazione, quando i patrioti e i combattenti della resistenza non si curavano delle tendenze politiche dei compagni che lottavano al loro fianco?33

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E dal quarto numero di « Circuit », Paoli cita il brano che segue:

Noi ci auguriamo che le 1500 copie di « Circuit » siano un contatto che accenda una luce, ci auguriamo che la voce dei patrioti possa trascendere gli ostacoli come nel 1940, quando essi lasciarono la Francia invasa per bussare alla porta del leader della Francia Libera. Oggi è la stessa cosa: siamo innanzi tutto Francesi, siamo la forza che lotta, in un modo o nell'altro, per costruire una Francia nuova e purificata. Deve essere fatto con lo stesso spirito patriottico, la stessa volontà e la stessa solidarietà d'azione. Perciò citiamo qui quella che dichiariamo essere una vecchia filosofia.-14

Segue poi un particolareggiato piano di governo per ridare alla Francia il lustro perduto. Ad esempio, propone l'abolizione dei dipartimenti e il ristabilimento delle province:

11 dipartimento non è altro che un sistema arbitrario, creato al tempo della Rivoluzione, imposto e condizionato dall'epoca in armonia con le esigen­ze di una locomozione (il cavallo). Oggi non rappresenta più nulla. Per contro, la provincia è una parte viva della Francia; è un vestigio del nostro passato, la stessa base che diede origine alla nostra nazione; ha il suo folklore, i suoi costumi, ì suoi monumenti, spesso i suoi dialetti locali, che noi vogliamo riscattare e promulgare. La provincia deve avere un suo apparato specifico per la difesa e l'amministrazione, adatto alle sue esigen­ze specifiche, in armonia con l'unità nazionale.-15

Paoli riporta quindi le otto pagine successive. Il materiale che contengono è ordinato sotto i seguenti sottotitoli:

Consiglio delle province

Consiglio di Stato

Consiglio parlamentare

Tasse

Lavoro e produzione

Medicina

Pubblica istruzione

Maggiore età

Alloggi e scuole

II piano di governo proposto sotto queste classificazioni non è eccessivamente polemico, e probabilmente potrebbe venire tra­dotto in pratica con pochi sconvolgimenti. Non si può neppure etichettare da un punto di vista politico. Non può essere definito di sinistra o di destra, liberale o conservatore, radicale o reazionario. Nel complesso, appare piuttosto innocuo, e non si riesce a com­prendere come potrebbe ridare alla Francia il lustro perduto.

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Come osserva Paoli: « Le proposte... non sono rivoluzionarie. Tuttavia, sono basate su un'analisi realistica delle strutture dello Stato francese e sono impregnate di un solido buon senso » ,36 Ma il piano di governo esposto su « Circuit » non parla della vera base sulla quale poggerebbe, se venisse attuato: la restaurazione di una monarchia popolare della stirpe merovingia. Su « Circuit » non sarebbe neppure stato necessario dichiararlo, perché costituireb­be un « dato » fondamentale, una premessa su cui è imperniato tutto ciò che appare sulla rivista. Per i suoi lettori, infatti, la restaurazione della stirpe merovingia era chiaramente un obiettivo troppo ovvio e accettato per richiedere un'ulteriore trattazione.

Nel suo libro, a questo punto Paoli formula im interrogativo fondamentale, lo stesso che aveva assillato anche noi:

Abbiamo, da una parte, una discendenza nascosta dai Merovingi, e dal­l'altra un movimento segreto, il Priorato di Sion, il cui fine è facilitare la restaurazione di una monarchia popolare di stirpe merovingia... Ma è necessario scoprire se questo movimento si accontenta di speculazioni esoterico-politiche (il cui scopo inconfessato è guadagnare molto denaro sfruttando l'ingenuità e la credulità del mondo) o se il movimento è veramente attivo.37

Paoli esamina il problema, riconsiderando le prove e gli indizi a sua disposizione. E la sua conclusione è questa:

Indiscutibilmente,' il Priorato di Sion sembra avere relazioni potenti. Infatti, la creazione di qualunque associazione viene sottoposta a un'inda­gine preliminare da parte del Ministero dell'Interno. E questo vale anche per una rivista e una casa editrice. Eppure costoro possono pubblicare, sotto pseudomini, a indirizzi falsi, tramite case editrici inesistenti, opere che non si trovano in normale distribuzione in Svizzera e in Francia. Vi sono due possibilità. O le autorità governative non fanno il loro dovere. Oppure...38

Paoli non espone la seconda alternativa. Tuttavia è evidente che, per quanto lo riguarda, la considera come la più probabile. Insomma, la conclusione di Paoli è che vari funzionari statali e molti altri personaggi influenti sono affiliati al Priorato di Sion o gli obbediscono. Se è così, Sion dev'essere un'organizzazione molto, molto influente.

Dopo aver svolto approfondite ricerche personali, Paoli si è convinto della legittimità della rivendicazione dei Merovingi. In questa misura, ammette, può comprendere gli obiettivi di Sion.

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Ma a parte questo confessa di essere profondamente sconcertato. Che senso ha, si domanda, restaurare oggi la stirpe merovingia, 1300 anni dopo la sua deposizione? Un odierno regime merovin­gio sarebbe diverso da qualunque altro regime odierno? E se sì, come e perché? Che cos'hanno di tanto speciale i Merovingi? Anche se le loro rivendicazioni sono legittime, sembrerebbero poco pertinenti. Perché tanti personaggi potenti e intelligenti, oggi come in passato, accordano loro non soltanto interesse ma anche devozione?

Anche noi ci ponevamo le stesse domande. Come Paoli, erava­mo disposti a riconoscere la legittimità delle pretese merovinge. Ma che significato potrebbero avere al giorno d'oggi tali rivendica­zioni? Possibile che la legittimità « tecnica » di una monarchia costituisse-un argomento tanto persuasivo e convincente? Perché, nella seconda metà del XX secolo, una monarchia, legittima o no, doveva ispirare la devozione che sembravano suscitare i Merovingi?

Se avessimo avuto a che fare con un gruppo di eccentrici, avremmo potuto accantonare tranquillamente il problema. Ma non era così. Al contrario, sembrava che avessimo di fronte un'or­ganizzazione molto influente che includeva nelle sue file alcuni degli uomini più importanti, più illustri, più acclamati e più seri del nostro tempo. E in molti casi questi uomini sembravano conside­rare la restaurazione della dinastia merovingia un obiettivo abba­stanza importante per trascendere le loro personali divergenze politiche, sociali e religiose.

Sembrava non avere senso che la restaurazione di una stirpe vecchia di 1300 anni costituisse una cause célèbre così importante per tanti stimati personaggi pubblici. A meno che, naturalmente, ci fosse sfuggito qualcosa. A meno che la legittimità non fosse l'unica rivendicazione dei Merovingi. A meno che vi fosse qualco­sa d'altro, immensamente importante, che differenziava i Mero­vingi dalle altre dinastie. A meno che, insomma, il sangue reale merovingio non fosse qualcosa di eccezionale.

Note

' Philippe de Chérisey, amico di Pierre Plantari de Saint-Clair, ha scritto un « romanzo » allegorico intitolato Circuit. Il tema spazia dall'Atlantide a Napoleo-

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ne. Consta di ventidue capitoli, ognuno dei quali prende il titolo da uno degli arcani maggiori dei Tarocchi. Esiste in un unico esemplare nella sede di Versailles della Bibliothèque Nationale di Parigi. In parte, narra la vicenda di due personaggi simbolici, Charlot e Madeleine, che trovano un tesoro a Rennes-le-Chateau. Cfr. Chaumeil, Triangle d'or, pp. 141 sgg., per questo estratto.

2 Prieuré de Sion, Statutes, articoli XI e XII. Ricevuto dalla sottoprefettura di Saint-Julien-en-Genevois il 7 maggio 1956, numero di protocollo KM 94550.

I  « Midi Libre » (13 febbr. 1973), p. 5.

4  Myriam, « Les Bergers d'Arcadie », « Le Charivari », n. 18, pp. 49 sgg.

5  In Henry Lobineau, Dossiers secrets, p. 1.

6  Ibìd.

7  Ibid.

8  Roux, S., L'affaire de Rennes-le-Chàteau. In un'altra parte dei Dossiers secrets, una pagina scritta da un certo Edmonde Albe, S. Roux viene identificato con l'abate Georges de Nantes. Nel suo libro, Mathieu Paoli avalla {Les Dessous, p. 82) la stessa identificazione. Georges de Nantes è il capo della « Controriforma cattoli­ca del XX secolo », ed è inoltre autore di un energico attacco contro papa Paolo VI, Liber' accusalionìs in Paulum Sextum, nel quale Io accusa d'essere un eretico. Sembrerebbe quindi che l'abate si sia schierato nello stesso campo di monsignor Lefebvre. Sorpresi dal fatto che l'identificazione apparisse incontestata, scrivem­mo all'abate Georges de Nantes, citando il libro di Paoli, chiedendogli un commen­to e pregandolo di confermare o smentire l'asserzione. L'abate de Nantes ci rispose, dicendo che di tanto in tanto gli venivano chieste spiegazioni riguardo quel testo, e che poteva soltanto ripetere ancora una volta che non aveva nulla a che vedere con S. Roux. Inoltre, aggiungeva: « Questo testo è una vera accozzaglia di assurdità. Come potere prenderlo sul serio? ».

9  Roux, L'Affaire de Rennes-le-Chàteau, p. 1.

10  Ibid. p. 2.

II  Ibid.

12  Delaude, Cercle d'Ulysse, p. 6 (V).

13  « Guardian » (London, 11 sett. 1976), p. 13.

14  Monsignor Brunon, che prese il posto di Lefebvre come vescovo di Tulle, disse che secondo la sua opinione Lefebvre era manovrato da altri. Cfr. il « Guardian » (London 1° sett. 1976), p. 4. Gianfranco Svidercoschi, presentato dal « Times » come « un corrispondente vaticano esperto e solitamente bene informato », di­chiarò che il papa sapeva che « monsignor Lefebvre veniva subdolamente condi­zionato da altri ». Cfr. « The Times » (London, 31 agosto 1976), p. 12.

15  « Guardian » (30 agosto 1976), p. 16. Piuttosto sconcertati, scrivemmo a padre Peter Morgan, pregandolo di darci chiarimenti. Padre Morgan non rispose.

16  Abbiamo una copia soltanto dell'articolo, senza indicazione della provenienza, quindi è impossibile accertare di quale rivista si tratti.

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17  Secondo le informazioni più recenti, ora sarebbero di nuovo in Francia.

18  « Le Charivari », n. 18, pp. 56sgg.

19   II vecchio statuto fu registrato presso la sottoprefettura il 7 maggio 1956. Secondo il secondo numero di « Circuit » datato 3 giugno 1956, quella settimana si tenne una riunione per discutere lo statuto. Il documento che porta la firma di Cocteau è datato 5 giugno 1956.

2» « Bonne Soirée », n. 3053 (14 ag. 1980), p. 14.

21   Mentre scrivevamo il presente libro, abbiamo consultato un grande numero di opere sulle genealogie delle famiglie nobili, antiche e contemporanee. Non abbia­mo mai incontrato una sola volta il titolo di Plantard de Saint-Clair. Tuttavia, ciò non invalida l'affermazione, dato soprattutto che, come ammette il signor Plan­tard, la famiglia è rimasta in clandestinità per secoli.

22   « Le Charivari », n. 18, p. 60, Gisorsetsonsecret,

23  L'opera principale di de Sède, Les Templiers sont panni nous, comprende una sezione intitolata « Point de vue d'un ésotériciste ». La sezione è costituita da una lunga intervista con Pierre Plantard de Saint-Clair, nella quale de Sède non soltanto pone una quantità di domande, ma riconosce Plantard come un'autorità definitiva. Sembra inoltre che Monsieur Plantard c'entri per qualcosa con il libro di de Sède su Rennes-le-Chàteau. Mentre stavamo realizzando il documentario The Lost Treasure of Jerusalem? per la BBC, ricevemmo dagli editori di de Sède una quantità di materiale iconografico che era stato utilizzato nel libro. Tutte le fotografie portavano sul retro il timbro « Plantard ». Ciò indicherebbe che il materiale apparteneva a Plantard, e che questi l'aveva affidato a de Sède.

24   « Le Charivari », n. 18, p. 55.

25   Ibid.

26  Ibid., p. 53.

27   Ricevemmo dal signor Plantard la fotocopia di una deposizione autenticata di un membro della Legion d'Onore, ufficiale della Resistenza francese durante la Seconda guerra mondiale. La dichiarazione afferma che Pierre Plantard realizzò clandestinamente il giornale della resistenza, « Vaincre », a partire dal 1941. Afferma inoltre che Plantard fu imprigionato dalla Gestapo a Fresne dall'ottobre 1943 alla fine del 1944. La deposizione porta la data dell'll maggio 1953.

Non fu molto semplice controllare queste affermazioni. Innanzitutto, durante la guerra vi furono molti giornali con la testata « Vaincre », pubblicati da vari gruppi di resistenti durante la guerra. Tuttavia, sembra si tratti di quello pubblicato dal Comité locai du Front nationale de lutte pour l'indépendence de la France; una copia si trova nella Bibliothéque Nationale a Parigi e porta la data dell'aprile 1943. Fu stampato a Saint-Cloud, Parigi.

Scrivemmo al servizio storico dell'esercito francese, chiedendo particolari sulle attività resistenziali di Pierre Plantard. Ricevemmo una lettera del ministero della Difesa francese, che ci comunicava che tali informazioni erano personali e riservate.

28   Cfr. Vazart, Abrégé de l'histoire des Francs, pp. 271,272, note 1 e 2. La seconda nota contiene il testo della lettera del generale de Gaulle.

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29   Questa informazione ci venne da Jean-Lue Chaumeil, in una conversazione privata. Cercammo di controllare, incominciando dalla televisione svizzera, poi­ché sapevamo che Paoli aveva lavorato là al tempo in cui stava scrivendo il suo libro. Il direttore amministrativo della Radio-Télévision Suisse Romande ci disse che Paoli si era dimesso nel 1971. Sembra che si fosse trasferito in Israele e che lavorasse per la TV israeliana a Tei Aviv. Purtroppo, la pista finiva lì.

30   Paoli, Le Dessous, p. 86.

31   Le copie di « Circuit », alcune delle quali sono accessibili nella sede di Versail-les, sono un esempio tipico del modo oscuro in cui vengono diffuse queste informa­zioni.

La prima serie di « Circuit » ha inizio il 27 maggio 1956, e continua con cadenza settimanale fino a un'edizione speciale che segue il numero Ile porta la data 2 settembre 1956. Le riviste sono ciclostilate, e di solito hanno da due a quattro pagine. Escono a Sous-Cassan, Annemasse, e ognuna ha un'introduzione di Pierre Plantard. Molte contengono i verbali delle riunioni svoltesi per discutere la stesura e la registrazione dello statuto del Priorato di Sion presso la sottoprefettura di Annemasse, sebbene il nome del Priorato non venga menzionato neppure una volta. In effetti, il principale interesse della rivista, ufficialmente, è l'edilizia popolare. L'organizzazione che sta dietro alla rivista non viene chiamata Priorato di Sion, bensì Organizzazione per la difesa dei diritti e la libertà dell'edilizia popolare! (Va notato che un certo sense of humour caratterizza molti documenti ■ del Priorato.) Nel contempo, tuttavia, in questi numeri di « Circuit » figurano nomi che appaiono nello statuto di Sion. C'è comunque il numero 8 del 22 luglio 1956 che contiene un articolo di un certo Defago (il quale compare nello Statuto di Sion come Tesoriere) sull'astrologia: spiega un sistema che riconosce tredici segni zodiacali anziché dodici. Il tredicesimo segno è Ophiucus, il Serpentario, situato tra lo Scorpione e il Sagittario.

La seconda serie di « Circuit » apparve nel 1959; reca la dicitura Perìodico culturale della Federazione delle forze francesi. Molti numeri sono scomparsi. Noi trovammo i numeri 2 (agosto 1959), 3 (settembre 1959), 5 (novembre 1959) e 6 (dicembre 1959). Mathieu Paoli registra l'esistenza di un numero 1 (luglio 1959) e di un numero 4. Inoltre, un numero 8 è ricordato in « Le Charivari ». Sembrereb­be, quindi, che qualcuno abbia fatto sparire certi numeri.

Le riviste contengono articoli su temi che vanno dalPAtlantide all'astrologia. Alcune pubblicano predizioni politiche per gli anni futuri, compilate astrologica-mente da Pierre Plantard. A tergo, tutte le riviste portano il simbolo dell'organiz­zazione e il timbro « Plantard ».

32  Vazart, Abrégé de l'Histoire des Francs, p. 271.

33  Paoli, Les Dessous, p. 94.

34  Ibid.

35  Ibid., pp. 94 sgg.

36  Ibid., p. 102.

37  Ibid.,p. 103.

38  Ibid., p. 112.

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IX

I sovrani lungichiomati

Nel frattempo, naturalmente, avevamo già fatto ricerche sulla dinastia merovingia. Ci eravamo mossi a tentoni in una nebbia di fantasie e di oscurità ancora più fitta di quella che circonda i Catari e i Cavalieri Templari. Avevamo impiegato mesi sforzandoci di districare intrichi complicatissimi tra la storia e la favola. Nono­stante i nostri sforzi, però, i Merovingi restavano in gran parte avvolti nel mistero.

La dinastia merovingia era venuta dai Sicambri, una tribù di quel popolo germanico conosciuto sotto il nome collettivo di Franchi. Tra il V e il VII secolo i Merovingi avevano regnato su vaste parti della Francia e della Germania odierne. Il periodo della loro ascesa al trono coincide con l'epoca di re Artù, un'epoca che costituisce lo sfondo dei romanzi del Santo Graal. Probabilmente è il periodo più impenetrabile di quella che viene chiamata l'Età oscura, il Medioevo. Ma scoprimmo che l'Età oscura non era stata oscura veramente. Al contrario, apparve ben presto evidente che qualcuno l'aveva oscurata di proposito. Poiché la Chiesa di Roma esercitava un vero e proprio monopolio sulla cultura, e in partico­lare sull'arte dello scrivere, le cronache pervenute fino a noi rappresentano certi interessi ben precisi. Quasi tutto il resto è andato perduto, o è stato censurato. Ma qua e là, di tanto in tanto, qualcosa sfuggiva alla rete gettata sul passato, e filtrava fino a noi nonostante il silenzio ufficiale. In base a queste vestigia nebulose era possibile ricostruire una realtà: una realtà molto interessante e in netto contrasto con i principi dell'ortodossia.

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La leggenda e i Merovingi

Incontrammo numerosi enigmi che circondavano le origini della dinastia merovingia. Ad esempio, di solito si pensa a una dinastia come a una famiglia regnante che non succede semplicemente a un'altra casa regnante, ma lo fa spodestando, deponendo o sop­piantando i predecessori. In altre parole, si pensa che le dinastie incomincino con un colpo di stato che spesso comporta l'estinzio­ne della precedente stirpe reale. La Guerra delle due rose in Inghilterra, ad esempio, segnò un cambiamento di dinastia. Circa un secolo dopo gli Stuart salirono al trono inglese solo quando si estinsero i Tudor. E gli Stuart, a loro volta, furono deposti con la forza dalle case di Orange e Hannover.

Nel caso dei Merovingi, tuttavia, non c'è una transizione violen­ta o brusca, un'usurpazione, uno spodestamento o l'estinzione di una dinastia precedente. Al contrario, la casa poi chiamata Mero­vingia regnava già sui Franchi, a quanto sembra. I Merovingi erano già re legittimi e debitamente riconosciuti. Ma sembra che uno di loro avesse qualcosa di speciale, tanto che diede il suo nome a tutta la dinastia.

Il sovrano dal quale i Merovingi presero il nome è molto sfug­gente, e la sua realtà storica è eclissata dalla leggenda, Meroveo (Mérovée o Merovech o Meroveus) era un personaggio semi­sovrannaturale degno del mito classico. Anche il suo nome attesta la sua origine miracolosa: riecheggia la parola francese che signifi­ca « madre » e la parola che, in francese e in latino, significa « mare ».

Secondo il principale cronista dei Franchi e la tradizione succes­siva, Meroveo era figlio di due padri. Quando era già incinta del marito, re Clodio, la madre di Meroveo andò a nuotare nell'ocea­no. Si dice che venne sedotta e violentata da un essere marino non identificato venuto d'oltremare: « bestea Neptuni Quinotauri si-milis », una « bestia di Nettuno simile a un Quinotauro », qualun­que cosa fosse un Quinotauro. Apparentemente, l'essere ingravi­dò per la seconda volta la regina. E quando Meroveo nacque, nelle sue vene scorreva un miscuglio di due sangui diversi: quello di un sovrano franco e quello di un misterioso essere marino.

Queste leggende fantastiche, naturalmente, sono molto fre-

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quenti non solo nel mondo antico ma anche nella tradizione euro­pea di tempi più tardi. Di solito non sono del tutto immaginarie, bensì simboliche o allegoriche, e nascondono una realtà storica concreta dietro una facciata fantastica. Nel caso di Meroveo, la facciata fantastica potrebbe indicare un matrimonio, un lignaggio trasmesso tramite la madre, come ad esempio nel giudaismo, oppure un'unione tra stirpi dinastiche grazie alla quale i Franchi acquisirono legami di sangue con qualcun altro, forse con una stirpe « d'oltremare », una stirpe che, per qualche ragione, nella leggenda successiva fu trasformata in un essere marino.

Comunque, grazie al suo sangue duale, Meroveo sarebbe stato dotato di un impressionante repertorio di poteri sovrumani. E qualunque fosse la verità storica velata dalla leggenda, la dinastia merovingia continuò a essere circondata da un alone di magia, di incantesimo e di sovrannaturale. Secondo la tradizione, i sovrani merovingi erano adepti occulti, iniziati a scienze arcane, praticanti di arti esoteriche: degni rivali di Merlino, il loro fiabesco quasi-contemporaneo. Spesso erano chiamati « i re incantatori » o « i re taumaturghi ». Grazie a qualche proprietà miracolosa del loro sangue potevano guarire gli infermi mediante l'imposizione delle mani; e secondo un racconto le nappe che frangiavano le loro vesti avrebbero posseduto prodigiosi poteri risanatori. Si diceva che fossero chiaroveggenti e capaci di comunicare telepaticamente con gli animali e il mondo naturale, e che portassero una potentis-sima collana magica. Si diceva che conoscessero un incantesimo arcano che li proteggeva e conferiva loro una longevità ecceziona­le, che la storia, sia detto per inciso, non sembra confermare. E tutti avevano una « voglia » caratteristica che li distingueva da tutti gli altri uomini, li rendeva immediatamente identificabili e attestava il loro sangue sacro o semidivino. Questa « voglia », si dice, aveva la forma di una croce rossa, situata sul cuore - una bizzarra anticipazione del blasone dei Templari-o tra le scapole.

I Merovingi spesso erano chiamati anche « i re lungichiomati ». Come Sansone nell'Antico Testamento, non si tagliavano i capel­li. Come quella di Sansone, la loro chioma conteneva là loro verta: l'essenza e il segreto del loro potere. Qualunque fosse la base di questa credenza circa il potere delle chiome dei Merovingi, sem­bra che venisse presa molto sul serio ancora nel 754 d.C. Quando

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Childerico III, quell'anno, fu deposto e imprigionato, gli furono tagliati i capelli per espresso ordine del papa.

Per quanto siano stravaganti, le leggende che circondano i Merovingi sembra avessero una base concreta nella posizione porticolare di cui godevano questi sovrani. Infatti i Merovingi non erano considerati sovrani nel senso moderno della parola. Erano considerati re-sacerdoti, incarnazione del divino, in altre parole, non diversamente dagli antichi faraoni egizi. Non regnavano sem­plicemente per grazia di Dio. Al contrario, apparentemente erano considerati incarnazioni viventi della grazia di Dio: una distinzio­ne di solito riservata soltanto a Gesù. E sembra che si dedicassero a pratiche rituali che se mai sembrano più tipiche del sacerdozio anziché della regalità. Ad esempio, i teschi dei monarchi merovin­gi che sono stati ritrovati presentano quella che appare come un'incisione rituale, un foro alla sommità della calotta cranica. Incisioni simili si possono osservare nei teschi dei sommi sacerdoti vissuti nei primi tempi del buddismo tibetano: venivano praticate per permettere all'anima di fuggire dopo la morte, e per aprire un contatto diretto con il divino. C'è motivo di ritenere che la tonsura dei religiosi cattolici sia un residuo di questa consuetudine mero­vingia.

Nel 1653 un'importante tomba merovingia fu scoperta nelle Ardenne: la tomba di re Childerico I, figlio di Meroveo e padre di Clodoveo, il più famoso e influente di tutti i sovrani di questa stirpe. La tomba conteneva armi, oggetti preziosi ed emblemi della regalità, come ci si poteva attendere di trovare nel sepolcro di un monarca. Ma conteneva anche oggetti legati piuttosto alla magia, agli incantesimi e alla divinazione: una testa mozza di ca­vallo, ad esempio, una testa taurina d'oro e una sfera di cristallo.'

Uno dei simboli merovingi più sacri era l'ape; e la tomba di re Childerico conteneva non meno di trecento minuscole api d'oro massiccio. Con il resto del materiale trovato nella tomba, le api furono affidate a Leopoldo Guglielmo d'Asburgo, governatore militare dei Paesi Bassi austriaci, e fratello dell'imperatore Ferdi-nando III.- In seguito, gran parte del tesoro fu restituita alla Fran­cia. E quando fu incoronato imperatore nel 1804, Napoleone pretese che quelle api d'oro fossero fissate alle vesti che indossò per l'occasione.

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Questo episodio non è l'unica manifestazione dell'interesse di Napoleone per i Merovingi. Infatti incaricò un certo abate Pichon di compilare varie genealogie, per accertare se la stirpe merovin­gia fosse sopravvissuta o no alla caduta della dinastia. Era appunto sulle genealogie commissionate da Napoleone che si basavano in gran parte quelle contenute nei « documenti del Priorato s.1

L'orso venuto dall'Arcadia

Le leggende che circondano i Merovingi si rivelarono in tutto degne dell'epoca di Artù e dei romanzi del Graal. Nel contempo, però, costituivano un temibile ostacolo tra noi e la realtà storica che aspiravamo a esplorare. Quando finalmente riuscimmo a rag­giungere questa realtà storica, o almeno quel poco che ne rimane­va, constatammo che era alquanto diversa dalle leggende. Ma non era meno misteriosa, straordinaria ed evocativa.

Potemmo trovare poche notizie accertabili circa le vere origini dei Merovingi. Loro stessi si vantavano di discendere da Noè, che consideravano, ancor più di Mosé, come la fonte della sapienza biblica: una posizione interessante, che mille anni dopo riaffiorò nella massoneria europea. Inoltre, sostenevano di discendere in linea retta dall'antica Troia; e questo, sia vero o no, contribuireb­be a spiegare perché in Francia ricorrono nomi troiani come Troyes e Paris (che in francese significa tanto Parigi quanto Pari­de). Diversi autori assai più recenti, inclusi quelli dei « documenti del Priorato », hanno cercato di far risalire i Merovingi all'antica Grecia, e precisamente alla regione chiamata Arcadia. Secondo questi documenti, gli antenati dei Merovingi erano imparentati con la casa reale d'Arcadia. A una data imprecisabile, verso l'inizio dell'era cristiana, avrebbero intrapreso una'migrazione, risalendo dapprima il Danubio e poi il Reno, e si sarebbero stabiliti nel territorio che oggi è l'attuale Germania occidentale.

Oggi può apparire del tutto accademico che i Merovingi discen­dessero da Troia o piuttosto dall'Arcadia, e del resto le due affermazioni non sono inevitabilmente in conflitto. Secondo Ome­ro, un numeroso contingente di Arcadi partecipò all'assedio di Troia. Secondo gli antichi storici greci, Troia sarebbe stata addirit­tura fondata da coloni provenienti dall'Arcadia. È inoltre il caso di

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ricordare che l'orso, nell'Arcadia antica, era un animale sacro, un totem oggetto di culti misterici al quale venivano fatti sacrifìci rituali.4 Anzi, lo stesso nome « Arcadia » deriva da Arkades, che significa» il Popolo dell'Orso ». Gli antichi Arcadi sostenevano di discendere da Arkas (Arcade), il dio eponimo del territorio, il cui nome significa anche « orso ». Secondo la mitologia greca, Arca­de era figlio di Callisto, una ninfa seguace di Artemide la Caccia-trice. I moderni conoscono Callisto come la costellazione dell'Or­sa Maggiore.

Presso i Franchi Sicambri, dai quali provennero i Merovingi, l'orso era egualmente tenuto in grande onore. Come gli antichi Arcadi, veneravano l'orso quale forma di Artemide, o più precisa­mente della sua equivalente gallica, Arduina, dea eponima delle Ardenne. Il culto misterico di Arduina perdurò fin nel Medioevo; uno dei centri era la città di Lunéville, non lontana da altre due località che ricorrono spesso nella nostra indagine, Stenay e Or-vai. Ancora nel 1304 la Chiesa promulgava statuti per vietare il culto della dea pagana.5

Data la posizione magica, mitica e totemica dell'orso nel territo­rio merovingio delle Ardenne, non è sorprendente che il nome Ursus, « orso », venisse associato alla stirpe regale merovingia dai « documenti del Priorato ». Alquanto più sorprendente è il fatto che in gallese la parola che significa orso sia arth, da cui deriva il nome Arthur. Anche se a questo punto rinunciammo ad appro­fondire, la coincidenza ci affascinò: non soltanto Artù era contem­poraneo dei Merovingi, ma come loro era in qualche modo asso­ciato all'orso.

I Sicambri entrano in Gallia

All'inizio del V secolo, l'invasione degli Unni causò grandi migra­zioni di quasi tutte le tribù europee. Fu a quell'epoca che i Mero­vingi, o più esattamente i loro antenati Sicambri, attraversarono il Reno e si trasferirono in massa nella Gallia, stabilendosi nel territorio oggi corrispondente al Belgio e alla Francia del nord, nei pressi delle Ardenne. Un secolo dopo, questa regione venne chiamata regno d'Austrasia. E il nucleo del regno d'Austrasia era l'attuale Lorena.

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I Sicambri che affluirono in Gallia non erano un'orda di barbari feroci e sporchi venuti a invadere tumultuosamente il territorio. Invece, tutto si svolse in modo placido e civile. I Sicambri avevano mantenuto per secoli stretti contatti con i Romani; e anche se erano pagani, non erano selvaggi. Al contrario, conoscevano bene le usanze e i sistemi amministrativi dei Romani, e ne seguivano le mode. Alcuni Sicambri erano diventati alti ufficiali dell'esercito imperiale, altri addirittura consoli. Quindi l'afflusso dei Sicambri portò non tanto a un'invasione cruenta quanto a una pacifica assimilazione. E quando verso la fine del V secolo l'Impero roma­no si sfasciò, i Sicambri colmarono il vuoto che era venuto a formarsi. Non lo fecero con la violenza e con la forza. Mantennero in vigore le vecchie consuetudini e apportarono poche innovazio­ni. Senza sconvolgimenti, assunsero il controllo dell'apparato am­ministrativo rimasto vacante. Il regime dei primi Merovingi si mantenne quindi piuttosto conforme al modello dell'Impero ro­mano.

Meroveo e i suoi discendenti

Le nostre ricerche ci permisero di scoprire notizie di almeno due personaggi storici che avevano portato il nome di Meroveo, e non è possibile stabilire con chiarezza a quale dei due la leggenda attribuisca come padre un essere marino. Vi fu un Meroveo, capotribù sicambro, che era vivo nel 417, combattè agli ordini dei Romani e morì nel 438. Almeno un esperto moderno ritiene che questo Meroveo si recasse a Roma causando grande sensazione. Indiscutibilmente,-si ha notizia della visita di un imponente capo franco, dalla fluente chioma bionda.

Nel 448 il figlio del primo Meroveo, omonimo del padre, fu proclamato re dei Franchi a Tournai, e regnò fino alla morte, avvenuta dieci anni più tardi. Probabilmente fu il primo re ufficiale di tutti i Franchi. Forse fu per questo, o forse in ricordo dell'evento simboleggiato dalla sua nascita favolosa, la dinastia da lui fondata venne chiamata Merovingia.

Il regno dei Franchi prosperò sotto i successori di Meroveo. Non era quella cultura rozza e barbarica che si crede solitamente. Al contrario, sotto molti aspetti può reggere il confronto con la

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grande civiltà di Bisanzio. Vi era incoraggiata anche l'istruzione laica. Sotto i Merovingi, l'alfabetismo era più diffuso tra i laici di quanto Io sarebbe stato dopo due dinastie e cinquecento anni. Gli stessi sovrani erano istruiti, e questo è un fatto sorprendente, se si pensa ai monarchi medievali di epoche successive, rozzi, ignoranti e analfabeti. Ad esempio, re Chilperico, che regnò nel VI secolo, non soltanto fece costruire splendidi anfiteatri secondo il modello romano a Parigi e Soissons, ma fu anche un poeta raffinato che andava molto fiero della sua arte. Esistono inoltre trascrizioni di certe sue discussioni con autorità ecclesiastiche, che rispecchiano una straordinaria sottigliezza e una notevole erudizione, qualità inaspettate in un re di quei tempi. In molte di queste discussioni, Chilperico si dimostra più che all'altezza degli ecclesiastici suoi interlocutori.6

Durante il regno merovingio i Franchi si comportarono spesso in modo brutale; ma non erano un popolo veramente bellicoso per natura. Non erano come i Vichinghi, ad esempio, o i Vandali, i Visigoti e gli Unni. Le loro attività principali erano l'agricoltura e il commercio. Si occupavano anche di commercio marittimo, so­prattutto nel Mediterraneo. E i manufatti del periodo merovingio mostrano un livello artigianale e artistico sorprendente, come attesta la nave del tesoro di Sutton Hoo.

La ricchezza accumulata dai re merovingi era enorme, anche valutandola secondo criteri moderni. In gran parte, questa ric­chezza era costituita da monete d'oro di qualità superba, coniate dalle zecche reali in alcune località importanti, inclusa l'attuale Sion in Svizzera. Alcune di queste monete furono ritrovate nella nave del tesoro di Sutton Hoo, e oggi si possono vedere nel British Museum. Molte-portano la caratteristica croce greca, a bracci eguali, identica a quella adottata successivamente, durante le Crociate, dal regno franco di Gerusalemme.

Sangue reale

Sebbene la cultura merovingia fosse moderata e sorprendente­mente moderna, i sovrani erano diversi. Non erano tipici neppure dei loro tempi perché già in vita erano circondati da un'atmosfera di mistero e di leggenda, di magia e di sovrannaturale. Se i costumi

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e l'economia del mondo merovingio non erano troppo diversi da quelli di altri popoli dell'epoca, l'aureola che alonava il trono e la stirpe reale era assolutamente unica.

I figli della stirpe merovingia non venivano « creati » re. Al contrario, venivano considerati tali automaticamente quando compivano i dodici anni. Non c'erano cerimonie pubbliche, unzio­ni o incoronazioni. Il potere veniva semplicemente assunto come un sacro diritto. Ma sebbene il re fosse l'autorità suprema, non era mai obbligato a sporcarsi le mani con i compiti terreni del governo. Era una figura essenzialmente ritualizzata, un re-sacerdote, e il suo ruolo non era fare, bensì essere. Insomma, il re regnava ma non governava. Sotto questo aspetto, la sua posizione era simile a quella dell'attuale famiglia reale britannica. Il governo e l'ammini­strazione venivano lasciati nelle mani di un funzionario non di stirpe reale, che portava il titolo di « maestro di palazzo » e aveva in pratica mansioni di cancelliere. Nel complesso, la struttura del regime merovingio aveva molto in comune con le monarchie costituzionali moderne.

Anche dopo la conversione al cristianesimo i sovrani merovingi, come i patriarchi dell'Antico Testamento, continuarono a pratica­re la poligamia. Qualche volta avevano harem degni di un potenta­to orientale. Anche quando gli aristocratici, in seguito alle pressio­ni della Chiesa, diventarono monogami, la monarchia rimase esente dalla regola. E la Chiesa, abbastanza stranamente, sembra accettasse senza troppe proteste tale prerogativa. Secondo un commentatore moderno:

Perché la [poligamia] era tacitamente approvata dagli stessi Franchi? Forse ci troviamo di fronte a un'antica tradizione di poligamia in una famiglia reale: una-famiglia di rango tanto elevato che il suo sangue non poteva venire nobilitato da nessuna unione, per quanto vantaggiosa, né degradato dal sangue degli schiavi... Non aveva importanza che una regina provenisse da una casa reale o dal novero delle cortigiane... La fortuna della dinastia era fondata sul suo sangue, ed era condivisa da tutti coloro che avevano questo sangue nelle vene7

E ancora: « È possibile che nei Merovingi abbiamo una dinastia di Heerkónige germanici, discesa da un'antica famiglia reale del periodo della migrazione ».8

Ma quante famiglie che godevano di questa posizione straordi­naria potevano essere esistite in tutta la storia del mondo? Perché

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proprio i Merovingi? Perché al loro sangue era attribuito un potere tanto immenso? Questi interrogativi continuavano a scon­certarci.

Clodoveo e il patto con la Chiesa

II più famoso di tutti i sovrani merovingi fu il nipote di Meroveo, Clodoveo I, che regnò tra il 481 e il 511. Il nome di Clodoveo (Clovis) è ben noto a tutti gli scolari francesi, perché fu sotto di lui che i Franchi si convertirono al cristianesimo. E fu per mezzo di Clodoveo che Roma incominciò a stabilire una supremazia indi­scussa nell'Europa occidentale, una supremazia destinata a resta­re incontestata per un millennio.

Nel 496, la Chiesa di Roma era in una situazione precaria. Durante il V secolo la sua stessa esistenza era stata gravemente minacciata. Fra il 384 e il 399 il vescovo di Roma aveva già incominciato a chiamarsi « papa », ma la sua posizione ufficiale non era superiore a quella di ogni altro vescovo, ed era molto ' diversa da quella dei pontefici di oggi. Non era, in nessun senso, il capo spirituale e supremo della cristianità. Rappresentava sempli­cemente certi interessi, una delle tante forme divergenti di cristia­nesimo, che lottava disperatamente per sopravvivere tra una tor­ma di scismi e di concezioni teologiche contrastanti. Ufficialmente la Chiesa romana non aveva autorità maggiore, poniamo, di quel­la celtica, con la quale era continuamente in conflitto. Non aveva autorità maggiore di certe eresie come l'arianesimo, che negava la divinità di Gesù e insisteva sulla sua umanità. Per gran parte del V secolo, anzi, tutte o quasi tutte le diocesi dell'Europa occidentale furono ariane o vacanti.

Se la Chiesa di Roma voleva sopravvivere e affermare la propria autorità, le era necessario l'appoggio di un campione, un potentis-simo personaggio laico che la rappresentasse. Se il cristianesimo doveva evolversi secondo la dottrina romana, questa dottrina doveva venire diffusa e imposta da una forza secolare, abbastanza potente da contrastare ed estirpare la sfida costituita da ogni altro credo cristiano rivale. Non è sorprendente che la Chiesa di Roma, in quei momenti di disperata necessità, si rivolgesse a Clodoveo.

Nel 486 Clodoveo aveva già esteso notevolmente i domìni mero-

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vingi, partendo dalle Ardenne per annettersi numerosi regni e principati confinanti e per sconfiggere parecchie tribù rivali. Molte città importanti - ad esempio Troyes, Reims e Amiens - furono così incorporate nel suo regno. In meno di un decennio apparve evidente che Clodoveo era ormai avviato a diventare il sovrano più potente dell'Europa occidentale.

La conversione e il battesimo di Clodoveo si rivelarono di un'importanza fondamentale per la nostra indagine. Ne era stata compilata una cronaca, in tutti i particolari, più o meno all'epoca in cui avvenne il fatto. Due secoli più tardi la cronaca, La vita di san Rémy (o Remigio), fu distrutta, e si salvarono soltanto poche e sparse pagine manoscritte. Tutto indica che fu distrutta di proposi­to. Ma i frammenti pervenuti fino a noi attestano l'importanza di ciò che accadde.

Secondo la tradizione, la conversione di Clodoveo fu improvvi­sa e inaspettata, e si compì grazie alla moglie del re, Clotilde, fervida devota di Roma, che sembra assillasse il marito fino a quando questi accettò la sua fede e che in seguito fu canonizzata per questi meriti. È detto che nell'impresa Clotilde fu guidata e assistita dal suo confessore, san Remigio. Ma dietro queste tradi­zioni si cela una verità storica molto più pratica e terrena. Quando Clodoveo si convertì al cristianesimo di Roma e divenne il primo re cattolico dei Franchi, si guadagnò ben più dell'approvazione della moglie, un regno assai più sostanzioso di quello dei Cieli.

Si sa che nel 496 vi furono numerosi incontri segreti tra Clodo­veo e san Remigio. Subito dopo, fu ratificato un accordo tra il re e la Chiesa di Roma. Per quest'ultima, l'accordo rappresentava un grande trionfo politico. Avrebbe assicurato la sua sopravvivenza e la posizione di suprema autorità spirituale dell'Occidente. Avreb­be consolidato la posizione di Roma, alla pari con quella di Co-stantinopoli. Avrebbe offerto prospettive egemoniche e mezzi efficienti per sradicare le innumerevoli eresie. E Clodoveo sareb­be stato colui che avrebbe realizzato tutto questo, la spada della Chiesa di Roma, lo strumento che le avrebbe permesso d'imporre il suo dominio spirituale, il braccio secolare e la manifestazione concreta della sua potenza.

In cambio, Clodoveo ricevette il titolo di « Novus Costantinus ». In altre parole, doveva presiedere un impero unificato, un « Sa-

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ero romano impero » destinato a succedere a quello diviso, creato da Costantino, e più tardi distrutto dai Visigoti e dai Vandali. Secondo un esperto moderno, prima del battesimo Clo-doveo fu « fortificato... da visioni di un impero, successore di quello di Roma, che sarebbe stato patrimonio della razza mero­vingia ».9

Secondo un altro autore moderno, « Clodoveo doveva diventa­re così una specie di imperatore dell'Occidente, patriarca dei Germani occidentali, e pur non governando, avrebbe regnato su tutti i popoli e tutti i re ».10

II patto tra Clodoveo e la Chiesa, insomma, ebbe conseguenze enormi per la cristianità. E non solo per la cristianità di quel tempo, ma per tutto il millennio successivo. Il battesimo di Clodo­veo segnò la nascita di un nuovo impero romano: un impero cristiano basato sulla Chiesa di Roma e amministrato, a livello laico, dalla stirpe merovingia. In altre parole, venne stretto un vincolo indissolubile tra Chiesa e Stato, ognuno dei quali giurava all'altro fedeltà perpetua. A ratifica di questo vincolo, nel 496 Clodoveo si fece battezzare da san Remigio a Reims. Al momento culminante della cerimonia, san Remigio pronunciò le famose parole:

Mitis depone colla, Sicamber, adora quod meendisti, incendi quod adora­sti.

(China umilmente la testa, o Sicambro, adora ciò che bruciavi, e brucia ciò che adoravi.)

È importante notare che il battesimo di Clodoveo non fu un'in­coronazione, contrariamente a quanto talvolta sostengono gli sto­rici. La Chiesa non nominò re Clodoveo. Clodoveo era già re, e la Chiesa non poteva far altro che riconoscerlo. E così facendo, si legò ufficialmente non soltanto a Clodoveo, ma anche ai suoi successori: non a un individuo, ma a una stirpe. Sotto questo aspetto, il patto ricorda l'alleanza che, nell'Antico Testamento, Dio stringe con re Davide: un patto che può venire modificato, come nel caso di Salomone, ma non revocato, infranto o tradito. E i Merovingi non persero mai di vista questo parallelo.

Per il resto della sua vita, Clodoveo realizzò quanto la Chiesa si attendeva da lui. Con efficienza irresistibile, la fede fu imposta con

 

la spada; e con la sanzione, e il mandato spirituale della Chiesa, il regno franco estese i suoi domìni a est e a sud, abbracciando gran parte dell'odierna Francia e dell'odierna Germania. Fra i numero­si avversari di Clodoveo i più importanti furono i Visigoti, che avevano abbracciato l'eresia ariana. Contro l'Impero visigoto, situato a cavallo dei Pirenei ed esteso a nord fino a Tolosa, Clodoveo condusse le sue campagne più assidue e organizzate. Nel 507 inflisse ai Visigoti una sconfìtta decisiva nella battaglia di Vouillé. Poco più tardi l'Aquitania e Tolosa caddero in mano ai Franchi. L'Impero visigoto a nord dei Pirenei si sfasciò sotto l'incalzare delle forze di Clodoveo. Da Tolosa, i Visigoti ripiega­rono su Carcassonne. Poi, cacciati anche da Carcassonne, insedia­rono la loro capitale, il loro ultimo bastione, nel Razès, a Rhédae che oggi si chiama Rennes-le-Chàteau.

Dagoberto II

Nel 511 Clodoveo morì, e l'impero da lui creato venne diviso, secondo le consuetudini merovinge, tra i quattro figli maschi. Poi, per più di un secolo, la monarchia merovingia presiedette numero­si regni, spesso in guerra tra loro, mentre le linee della successione si aggrovigliavano sempre di più e le pretese ai troni creavano enormi confusioni. L'autorità che un tempo era stata nelle mani di Clodoveo si frammentò, divenne sempre più fiacca, e l'ordine civile si disgregò. Gli intrighi, le macchinazioni, i sequestri di persona e gli assassinii politici diventarono sempre più frequenti. E i cancellieri di corte, i maestri di palazzo accumularono un potere sempre più grande: un fattore che avrebbe finito per contri­buire alla caduta della dinastia.

Privati progressivamente dell'autorità, i sovrani merovingi del più tardo periodo dinastico sono stati chiamati spesso les rois fainéant, « i re fannulloni ». I posteri li hanno sprezzantemente stigmatizzati come monarchi deboli, inetti, effeminati, docili stru­menti nelle mani di astuti consiglieri. Le nostre ricerche rivelarono però che non sempre questo ritratto era fedele alla realtà. È vero che le continue guerre, faide e lotte intestine portarono sul trono parecchi principi merovingi giovanissimi, e che quindi i loro consi­glieri non ebbero mai troppo difficoltà a condizionarli. Ma quelli

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NEUSTRIA

AUSTRASIA

BURGUNDIA

Carta 7    I regni merovingi.

 

che diventarono adulti si dimostrarono energici e decisi quanto i loro predecessori. Senza dubbio fu così nel caso di Dagoberto IL

Dagoberto, erede al trono d'Austrasia, nacque nel 651. Quando nel 656 morì suo padre, furono messi in atto tentativi romanzeschi per impedirgli di salire al trono. L'infanzia e la giovinezza di Dagoberto sembrano uscite da una leggenda medievale o da una favola. Invece è storia documentata."

Alla morte del padre, Dagoberto fu fatto rapire dal maestro di palazzo in carica, Grimoaldo. Tutte le ricerche risulteranno vane, e non fu difficile convincere la corte che il bambino era morto. Grimoaldo concertò allora l'ascesa al trono del proprio figlio, affermando che quella era stata la volontà espressa dal precedente sovrano, il padre di Dagoberto. Il trucco riuscì. Persino la madre di Dagoberto, convinta che il bambino fosse morto, accettò l'auto­rità dell'ambizioso maestro di palazzo.

Grimoaldo, tuttavia, non aveva avuto il coraggio di andare fino in fondo e di fare uccidere il giovanissimo principe. Dagoberto era stato segretamente affidato al vescovo di Poitiers. Anche il vesco­vo, sembra, non osò far assassinare il bambino. Perciò Dagoberto fu relegato in Manda, in esilio perpetuo. Crebbe nel monastero irlandese di Slane,12 non lontano da Dublino; e nella scuola annes­sa al chiostro ricevette un'istruzione di gran lunga superiore a quella che avrebbe potuto conseguire nella Francia di quei tempi. Sembra che durante questo periodo frequentasse la corte del Sommo re di Tara. Inoltre fece amicizia con tre principi della Northumbria che studiavano anch'essi a Slane. Nel 666, probabil­mente quando viveva ancora in Manda, Dagoberto sposò Matil-de, una principessa di stirpe celtica. Poco tempo dopo si trasferì dall'Irlanda in Inghilterra e si stabilì a York, nel regno di Northumbria. Qui si legò di stretta amicizia con san Wilfrid, vescovo di York, che divenne il suo mentore.

Durante questo periodo persisteva tutt'ora il dissidio tra la Chiesa di Roma e la Chiesa celtica, che rifiutava di riconoscerne l'autorità. Wilfrid, in nome dell'unità del cristianesimo, si era prodigato per ricondurre la Chiesa celtica nella sfera di Roma, e c'era riuscito nel famoso Concilio di Whitby, nel 664. Ma forse la sua successiva amicizia con Dagoberto II non era immune da altre motivazioni. Al tempo di Dagoberto la devozione dei Merovingi

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Seguivano II cullo

pagano di "Diana

delle Ardenne

dal nove luochl"

MEROVEO -Capo (ranco

MEHOVEO

«11 Giovane» Rq del Franchi di Yss

CHILDERICOI Re dal Franchi di Vasai

CLODIONE VI

Re d! Cambra!

43B 4B

EVOCHILDE (pagana)

THIERRY I

Re d Auslrasla

511 34

SIGISHERTOI Re d Au5trasla

5B1 75 sp Brunehaul I del re visigoto

Sllrpe | visigota TULCA

1° Conia di Razes

Re del Visigoti

m 642

GISLICA = sorella di Wamba re del Visigoti dal 672

- CLODOVEOI         Ballezzato = CLOTILDE

45G 511             da San Remi         (cristiana)

Rq del Franchi       24 12 436         nipote del re di Burgundia

CLODOMIRO

Re d Orleans

511 24

CHILDEBERTO

Re di Parigi

511 sa

CLOTILDE

sp Amalrlco Re del Visigoti

I

CLOTARIOI = Re di Solssons

S11 SB Radei Franchi

CHILPERICO 561 B4

RediSalsaona = FREDEGONDA

GALESWINTME (sorella di Bmnehaut)

SIQONIO

Preletta delle Gallie

Re del Franchi

I DAGOBERTO I =

602 38

Re d Au stragi a 622 Re del Franchi 630

=   SIGISBERTOIII

Re d Aualrasla 632 629 SG

GISÈLLE DE RAZÈS

I DAGOBERTO II

651 79 =      Ra d Auslrasla 674

Assassinalo per ordine ^^       di Pipino il Grosso

S1GISBERTOIV

676 758 Conte di Razès

i

La discendenza continua

CHILDERICOHI

Deposio nel 751 da Pipino il Breve

che usurpò II trono

con i appoggio del papa

(nipote di Chimerico II)

Ultimo merovingio conosciuto

Tavola 2 La   dinastia   merovingia,   i   re.

[Dall'opera   di    Henri    Lobineau (Henri de Lenoncourt) ]

 

nei confronti di Roma, promessa nel patto stretto fra Clodoveo e la Chiesa un secolo e mezzo prima, non era molto fervida. Fedele sostenitore di Roma, Wilfrid aspirava a consolidare la supremazia del papato, non soltanto in Gran Bretagna ma anche sul continen­te. Nell'eventualità che Dagoberto ritornasse in Francia e rivendi­casse il trono d'Austrasia, era consigliabile assicurarsi la sua fedel­tà. Molto probabilmente Wilfrid vedeva nel re in esilio il futuro braccio armato della Chiesa.

Nel 670 Matilde, la consorte celtica di Dagoberto, morì nel dare alla luce la terza figlia. Wilfrid si affrettò a combinare un nuovo matrimonio per il vedovo, e nel 671 Dagoberto si risposò. Se le sue prime nozze avevano avuto una potenziale importanza dinastica, le seconde l'ebbero ancora di più. La seconda moglie di Dago­berto era infatti Giselle de Razès, figlia del conte di Razès e ni­pote del re dei Visigoti.11 In altre parole, ora la stirpe reale me­rovingia era imparentata con la stirpe reale visigota. In questa unione c'erano i semi di un impero embrionale che avrebbe unito gran parte della Francia moderna e si sarebbe esteso dai Pireneì alle Ardenne. Inoltre questo impero avrebbe portato sotto l'in­fluenza di Roma i Visigoti che avevano ancora forti tendenze ariane.

Quando Dagoberto sposò Giselle, era già ritornato sul conti­nente. Secondo la documentazione pervenuta fino a noi, le nozze furono celebrate nella residenza ufficiale della sposa, a Rhédae, l'odierno Rennes-le-Chàteau. Anzi, sembra che si svolgessero nella chiesa di Saint Madeleine, l'edificio sul quale venne successi­vamente eretta la chiesa di Bérenger Saunière.

Dal primo matrimonio di Dagoberto erano nate tre figlie, ma non un erede maschio. Da Giselle, ebbe altre due figlie e finalmen­te, nel 676, un figlio, il futuro Sigisberto IV. E quando nacque Sigisberto, Dagoberto era re.

Per circa tre anni, sembra, era rimasto a Rennes-le-Chàteau, seguendo da lontano le vicissitudini del suo regno al nord. Final­mente, nel 674, si era presentata l'occasione favorevole. Con l'appoggio di sua madre e dei consiglieri di questa, il monarca esule si proclamò re d'Austrasia. Wilfrid di York diede un impor­tante contributo al suo reinsediamento. Secondo Gerard de Sède, vi contribuì anche un personaggio molto più sfuggente e misterio-

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so, sul quale si hanno pochissime notizie storiche: sant'Amatus, vescovo di Sion in Svizzera.14

Dagoberto, reinsediato sul trono dei suoi avi, non fu affatto un « re fannullone ». Anzi, si dimostrò un degno successore di Clo-doveo. Si accinse immediatamente a imporre e a consolidare la sua autorità, reprimendo l'anarchia che imperversava in Austrasia e ristabilendo l'ordine. Regnò con fermezza, piegando vari nobili ribelli che disponevano di una potenza militare ed economica sufficiente per sfidare il trono. E si dice che avesse ammassato un considerevole tesoro a Rennes-le-Chàteau: queste ricchezze do­vevano venire usate per finanziare la riconquista dell'Aquitania,15 che una quarantina d'anni prima si era staccata dal regno merovin­gio e si era proclamata indipendente.

Nel contempo, Dagoberto dovette costituire una grossa delu­sione per Wilfrid di York. Se il vescovo aveva sperato di fare di lui il braccio armato della Chiesa, si trovò di fronte a un grave disappunto. Anzi, sembra certo che il re frenasse i tentativi di espansione della Chiesa nei suoi domini, e incorresse quindi nella collera delle gerarchie ecclesiastiche. Esiste una lettera inviata a Wilfrid da uno sdegnatissimo prelato franco, il quale si scaglia contro Dagoberto, colpevole di imporre tasse e di « tenere in dispregio le chiese di Dio e i loro vescovi ».I6

A quanto sembra, questi non furono i soli motivi di dissidio fra Dagoberto e Roma. Grazie al matrimonio con una principessa visigota, il re aveva acquisito vasti territori nell'attuale Linguado-ca. E forse aveva acquisito anche qualcosa d'altro. I Visigoti erano fedeli alla Chiesa di Roma soltanto nominalmente. Anzi, la loro devozione al papato era molto evanescente, e nella famiglia reale predominavano ancora le tendenze ariane. Secondo vari indizi, Dagoberto avrebbe assimilato queste tendenze.

Nel 679, quando era sul trono da tre anni, Dagoberto s'era già fatto molti nemici influenti, sia laici che religiosi. Frenando le loro ribelli aspirazioni autonomistiche, aveva destato il rancore di certi nobili vendicativi. Osteggiando i suoi tentativi di espansione, si era attirato l'antipatia della Chiesa. Creando un regime centraliz­zato ed efficiente, aveva acceso l'invidia e la preoccupazione di altri potentati franchi, sovrani dei regni confinanti. E alcuni di questi sovrani avevano alleati e agenti nel regno di Dagoberto.

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Uno di questi era il maestro di palazzo del re, Pipino il Grosso. E Pipino, schierandosi clandestinamente con gli avversari politici di Dagoberto, non indietreggiò di fronte al tradimento e all'assassi­nio.

Come quasi tutti i sovrani merovingi, Dagoberto aveva almeno due capitali. La più importante era Stenay,17 al limitare delle Ardenne. Presso il palazzo reale di Stenay si estendeva un grande bosco, considerato sacro da tempo immemorabile e chiamato Foresta di Woévres. Il 23 dicembre 679, Dagoberto andò a caccia in questa foresta. Considerando la data, è possibile che la caccia costituisse una specie di occasione rituale. Comunque, ciò che avvenne ricorda moltissimi echi leggendari, incluso l'assassinio di Sigfrido nel Nibelungenlied.

Verso mezzogiorno, sopraffatto dalla stanchzza, il re si adagiò per riposare in riva a un ruscello, ai piedi di un albero. Mentre dormiva, uno dei suoi servitori - che, sembra, era anche suo figlioccio - gli si accostò furtivamente ed eseguendo gli ordini di Pipino gli conficcò una lancia in un occhio. Gli assassini fecero ritorno a Stenay, decisi a sterminare il resto della famiglia reale. Non si sa di preciso fino a che punto riuscirono nel loro intento. Ma è certo che per il regno di Dagoberto e la sua famiglia fu la fine, improvvisa e violenta. La Chiesa non si disperò. Anzi, si affrettò ad avallare l'operato degli assassini del re. Esiste addirittura una lettera inviata da un prelato franco a Wilfrid di York, che cerca di razionalizzare e giustificare il regicidio.18

Il corpo di Dagoberto e la sua sorte postuma ebbero vicissitudini piuttosto strane. Subito dopo la sua morte, fu sepolto a Stenay, nella cappella reale di Saint Rémy. Nell'872, quasi due secoli dopo, fu esumato a trasportato in un'altra chiesa. La nuova chiesa divenne Saint Dagobert, perché lo stesso anno il re fu canonizzato: non dal papa (i pontefici si sarebbero arrogati questo privilegio esclusivo soltanto nel 1159), bensì da un smodo metropolitano. Non è chiaro perché Dagoberto venisse canonizzato. Secondo una fonte ciò avvenne perché si credeva che le sue reliquie avrebbero salvato la zona di Stenay dalle scorrerie dei Vichinghi; ma questa spiegazione non è molto illuminante, poiché non si capisce perché le reliquie dovessero avere un potere miracoloso. Le autorità ecclesiastiche sembrano dimostrare al riguardo un'ignoranza im-

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barazzante. Ammettono che Dagoberto, per qualche ragione im­precisata, era divenuto l'oggetto di un culto in piena regola e aveva un suo giorno festivo, il 23 dicembre, anniversario della sua mor­te.19 Tuttavia, non sono assolutamente in grado di precisare per­ché tutto questo fosse avvenuto. È possibile, certo, che la Chiesa si fosse pentita della parte che aveva avuto nell'assassinio del re. Quindi la canonizzazione di Dagoberto potrebbe essere stata una sorta di riparazione. Tuttavia, se questo è vero, non viene spiegato perché fosse ritenuto necessario un gesto del genere, e neppure perché fosse compiuto ben due secoli dopo.

Stenay, la chiesa di Saint Dagobert e forse anche le reliquie che conteneva furono tenute in grande considerazione da molti perso­naggi illustri nei secoli successivi. Nel 1069, ad esempio, il duca di Lorena, nonno di Goffredo di Buglione, accordò alla chiesa spe­ciale protezione e la pose sotto gli auspici della vicina abbazia di Gorze. Qualche anno dopo, della chiesa si appropriò un nobile locale. Nel 1093 Goffredo di Buglione mobilitò un esercito e sottopose Stenay a un assedio in piena regola, con l'unico scopo, sembra, di riconquistare la chiesa e di restituirla all'abbazia di Gorze.

Durante la Rivoluzione francese, la chiesa fu distrutta e le reliquie di san Dagoberto, come tante altre in tutto il paese, andarono perdute. Oggi un cranio che presenta l'incisione rituale e che si dice sia di Dagoberto è custodito in un convento, a Mons. Tutte le altre reliquie del re sono scomparse. Ma intorno alla metà del XIX secolo venne alla luce un documento curiosissimo; una poesia, una litania in ventun versetti, intitolata « De sancto Dago­berto martyre prose ». Il titolo sottintende quindi che Dagoberto fu un martire. Si ritiene che la poesia risalga al Medioevo, forse a tempi anteriori all'anno 1000. Un particolare significativo: fu rin­venuta nell'abbazia di Orval.20

Gli usurpatoti Carolingi

A stretto rigore, Dagoberto non fu l'ultimo sovrano della dinastia merovingia. Anzi, i sovrani merovingi conservarono il trono, al­meno nominalmente, per altri tre quarti di secolo. Ma gli ultimi Merovingi meritarono davvero l'epiteto di « re fannulloni ». Mol-

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ti erano estremamente giovani, e quindi spesso erano deboli e indifese pedine nelle mani dei maestri di palazzo, non potevano imporre la propria autorità e prendere decisioni. Erano poco più che vittime; e molti di loro vennero uccisi.

Inoltre, i Merovingi di questo tardo periodo dinastico apparte­nevano a rami cadetti, non al ceppo principale disceso da Clodo-veo e Meroveo. Questo ceppo era stato eliminato con Dagoberto II. Perciò, a tutti i fini pratici, l'assassinio di Dagoberto può essere considerato come la fine della dinastia merovingia. Quando nel 754 morì Childerico III, fu soltanto una formalità per quanto riguardava il potere dinastico. Quali sovrani dei Franchi, i Mero­vingi avevano cessato di esistere da molto tempo.

Il potere, sfuggito alle mani dei Merovingi, passò in quelle dei maestri di palazzo, un processo che era già incominciato pri­ma del regno di Dagoberto. Fu un maestro di palazzo, Pipino d'Héristal, a ordinare l'uccisione di Dagoberto. Dopo Pipino d'Héristal venne suo figlio, il famoso Carlo Martello, nonno di Carlomagno.

Per i posteri, Carlo Martello è uno dei personaggi più eroici della storia francese, e senza dubbio non demeritò la gloria che lo circonda. Fu Carlo a bloccare i Mori invasori nella battaglia di Poitiers, nel 732; e grazie a questa vittoria Carlo divenne, in un certo senso, « difensore della Fede » e « salvatore della cristiani­tà ». La cosa strana è che Carlo Martello, nonostante la sua potenza, non s'impadronì del trono, anche se avrebbe potuto farlo facilmente. Al contrario, sembra che tenesse il trono in supersti­zioso timore e, con ogni probabilità, che lo considerasse una prerogativa esclusivamente merovingia. E certamente i successori di Carlo, che in effetti si impadronirono del trono, si preoccuparo­no di autolegittimarsi sposando principesse merovinge.

Carlo Martello morì nel 741. Dieci anni più tardi suo figlio Pipino III il Breve, maestro di palazzo del re Childerico III, si assicurò l'appoggio della Chiesa per rivendicare ufficialmente il trono. « Chi dovrebbe essere re? » chiesero al papa gli ambascia­tori di Pipino. « L'uomo che detiene veramente il potere oppure colui che, pur essendo chiamato re, non ha potere alcuno? » II papa si pronunciò in favore di Pipino il Breve. In nome della sua autorità apostolica ordinò che Pipino venisse creato re dei Fran-

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chi, in aperta violazione del patto ratificato con Clodoveo due secoli e mezzo prima. Con l'avallo di Roma, Pipino depose Chil-derico III, lo relegò in un monastero e - per umiliarlo o per privarlo dei « poteri magici » o per entrambe le ragioni - gli fece tagliare la sacra chioma. Childerico morì quattro anni dopo, e nessuno contestò l'ascesa al trono di Pipino.21

Un anno prima era opportunamente apparso un documento fondamentale, destinato a cambiare il corso della storia. Il docu­mento veniva chiamato la « Donazione di Costantino ». Oggi non esistono dubbi in proposito: si trattava di un falso perpetrato, e in modo neppure troppo abile, dalla cancelleria pontificia. A quel tempo, tuttavia, fu creduto autentico, ed ebbe un'influenza enor­me.

La « Donazione di Costantino » veniva presentata come un atto che risaliva alla presunta conversione dell'imperatore al cristiane­simo nel 312 d.C. Secondo la « Donazione », Costantino aveva ufficialmente ceduto al vescovo di Roma i suoi simboli imperiali, che erano divenuti così proprietà della Chiesa. Inoltre, la « Dona­zione » asseriva che Costantino, per la prima volta, aveva dichia­rato che il vescovo di Roma era il « Vicario di Cristo », e gli aveva offerto lo Status d'imperatore. Nella sua qualità di « Vicario di Cristo », il vescovo aveva reso le insegne imperiali a Costantino, che da quel momento le aveva portate con la sanzione e l'autoriz­zazione della Chiesa: più o meno come un prestito.

Le implicazioni di questo documento sono piuttosto evidenti. Secondo la « Donazione di Costantino », il vescovo di Roma esercitava sulla cristianità la suprema autorità secolare, oltre alla suprema autorità religiosa. In pratica era un papa-imperatore, che poteva disporre come meglio credeva della corona imperiale e poteva delegare il potere nella misura e nel modo da lui ritenuti più opportuni. In altre parole possedeva, tramite Cristo, il diritto incontestabile di creare e di deporre i sovrani. È appunto dalla « Donazione di Costantino » che derivò il successivo potere del Vaticano negli affari secolari.

Appellandosi all'autorità che le veniva dalla « Donazione », la Chiesa usò tutta la sua influenza in favore di Pipino il Breve. Inventò una cerimonia per mezzo della quale il sangue degli usurpatori - o di chiunque altro, del resto - veniva reso sacro. La

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cerimonia fu conosciuta come incoronazione e unzione, nel senso in cui questi termini furono intesi durante il Medioevo fino al Rinascimento. All'incoronazione di Pipino i vescovi furono per la prima volta autorizzati a presenziare con un rango eguale a quello dei nobili laici. E l'incoronazione non rappresentava più il ricono­scimento di un re, o un patto con un re. Adesso era addirittura la creazione di un re.

Anche il rito dell'unzione fu trasformato. In passato, quando veniva praticato, era un atto cerimoniale di riconoscimento e di ratifica. Ma ora assumeva un significato nuovo. Adesso l'unzione aveva la precedenza sul sangue, e poteva « magicamente » santifi­carlo. L'unzione diventava qualcosa di più di un gesto simbolico: diventava l'atto mediante il quale veniva conferita a un sovrano la grazia divina. E il papa, compiendo questo atto, diveniva il media­tore supremo tra Dio e i re. Tramite il rito dell'unzione, la Chiesa si arrogava il diritto di fare i re. Il sangue, adesso, era subordinato all'olio santo. E tutti i monarchi venivano subordinati e sottomessi al pontefice.

Nel 754 Pipino il Breve venne ufficialmente unto a Ponthion, inaugurando così la dinastia carolingia. Il nome deriva da Carlo Martello, sebbene in genere sia associato al più famoso sovrano carolingio, Carlomagno, figlio di Pipino il Breve. E nell'800 Carlo-magno fu proclamato Sacro romano imperatore:* un titolo che, in forza del patto concluso con Clodoveo tre secoli prima, avrebbe •dovuto essere riservato esclusivamente alla stirpe merovingia. Roma divenne così la sede di un impero che abbracciava tutta l'Europa occidentale, i cui sovrani regnavano solo grazie alla sanzione papale.

Nel 496 la Chiesa si era legata in perpetuo alla stirpe merovin­gia. Approvando l'assassinio di Dagoberto, ideando le cerimonie dell'incoronazione e dell'unzione, avallando le pretese di Pipino, aveva tradito clandestinamente il patto. Incoronando Carloma­gno aveva reso pubblico il tradimento con fati accompli. Nelle parole di un autore moderno: Non possiamo quindi avere la certezza che l'unzione dei Carolingi inten-

*La consacrazione ufficiale è avvenuta a Roma nel Natale dell'800 a opera di papa Leone III. [N.d.R.]

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desse compensare la perdita delle proprietà magiche del sangue, simbo­leggiate dalle lunghe chiome. Se compensava qualcosa, probabilmente era il tradimento dell'impegno, perpetrato violando un giuramento di fedeltà in modo particolarmente scandaloso.22

E ancora: « Roma mostrò la strada, introducendo l'unzione come rito che "faceva i re"... e che in un certo senso alleggeriva la coscienza di "tutti i Franchi" ».23

Ma non tutte le coscienze. Si direbbe che gli stessi usurpatori sentissero, se non rimorso, almeno la necessità di provare la loro legittimità. Per questo scopo Pipino il Breve, immediatamente prima dell'unzione, aveva sposato con grande ostentazione una principessa merovingia. E Carlomagno fece altrettanto.

Sembra inoltre che Carlomagno fosse dolorosamente consape­vole del tradimento implicito nella sua incoronazione. Secondo le cronache contemporanee, l'incoronazione fu un'accurata messa in scena, predisposta dal papa all'insaputa del monarca franco; e sembra che Carlomagno fosse sorpreso e profondamente imbaraz­zato. Era già stata preparata di nascosto una corona. Carlomagno era stato attirato a Roma e indotto ad assistere a una messa solenne. Quando prese posto in chiesa, il papa, senza preavviso, gli posò sulla testa il diadema, mentre il popolo lo acclamava « Carlo, Augusto, incoronato da Dio, grande e pacifico imperato­re dei Romani ». Per ripetere le parole di un cronista del tempo, Carlomagno « disse chiaramente che non sarebbe entrato nella cattedrale quel giorno, sebbene fosse la più grande di tutte le festività della Chiesa, se avesse saputo in anticipo ciò che intende­va fare il papa ».24

Ma, qualunque fosse la responsabilità di Carlomagno nell'inte­ra vicenda, il patto con Clodoveo e la dinastia merovingia era stato vergognosamente tradito. E tutte le nostre indagini indicavano che questo tradimento, per quanto avvenuto oltre 1100 anni pri­ma, continuava a essere come una ferita aperta per il Priorato di Sion. Mathieu Paoli, il ricercatore indipendente citato nel capitolo Vili, era pervenuto alla stessa conclusione:

Per loro [il Priorato di Sion] l'unica nobiltà autentica è la nobiltà d'origine visigota-merovingia. I Carolingi e rutti gli altri non sono altro che usurpa­tori. In effetti, erano soltanto funzionari del re, incaricati di amministrar­ne le terre, che dopo aver trasmesso ereditariamente il diritto di governare quelle terre, s'impadronirono del potere. Consacrando Carlomagno nel-

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l'anno 800, la Chiesa commise uno spergiuro perché, al battesimo di Clodoveo, aveva concluso con i Merovingi un'alleanza che aveva fatto della Francia la figlia primogenita della Chiesa.25

L'esclusione di Dagoberto II dalla storia

Nel 679, con l'assassinio di Dagoberto II, la dinastia merovingia praticamente finì. Con la morte di Childerico III, nel 755, i Mero­vingi parvero svanire del tutto dalla scena della storia mondiale. Secondo i « documenti del Priorato », tuttavia, la stirpe merovin­gia era sopravvissuta e si era perpetuata fino ai giorni nostri, partendo da Sigisberto IV, figlio di Dagoberto e della sua seconda moglie, Giselle de Razès.

Non c'è dubbio: Sigisberto esistette ed era l'erede di Dagober­to. Secondo tutte le fonti diverse dai « documenti del Priorato », però, la sua sorte non è chiara. Certi cronisti hanno presunto tacitamente che venisse assassinato insieme al padre e ad altri membri della famiglia reale. Un racconto molto dubbio afferma che morì in un incidente di caccia un anno o due prima del padre. Se questo è vero, Sigisberto doveva essere un cacciatore molto precoce, perché a quel tempo non poteva avere più di tre anni.

Non c'è una sola notizia documentata circa la morte di Sigisber­to. E a parte i « documenti del Priorato », nulla conferma la sua sopravvivenza. La sua storia sembra perduta nelle nebbie del tempo, e nessuno se ne è mai dato pensiero - eccettuato, natural­mente, il Priorato di Sion. In ogni caso, Sion sembrava essere a conoscenza di certe notizie che non erano accessibili altrove, o erano considerate troppo trascurabili per meritare indagini appro­fondite, o erano state soppresse volutamente.

Non ci sorprende che non sia giunta fino a noi nessuna notizia circa la sorte di Sigisberto. Persino su Dagoberto, nessuna notizia divenne pubblicamente accessibile prima del XVII secolo. Duran­te il Medioevo, si direbbe, fu compiuto un tentativo sistematico per cancellare Dagoberto dalla storia, per negare addirittura che fosse esistito. Oggi Dagoberto II figura nelle enciclopedie. Ma fino al 1646 non si aveva neppure la certezza che fosse mai vissuto.26 Tutti gli elenchi e le genealogie dei sovrani franchi, compilati prima del 1646, lo omettono e saltano (nonostante la clamorosa incoerenza) da Dagoberto I a Dagoberto III, uno degli ultimi

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sovrani merovingi, morto nel 715. E soltanto nel 1655 Dagoberto II fu reintegrato negli elenchi accreditati dei re franchi. Tenuto conto di questo processo di eliminazione, non ci sbalordì troppo la scarsità di notizie sul conto di Sigisberto. E non potevamo fare a meno di sospettare che le eventuali notizie fossero state soppresse di proposito.

Ma perché mai, ci chiedemmo, Dagoberto II era stato espunto dalla storia? Che cosa nascondeva questa eliminazione? Perché qualcuno doveva mirare a negare l'esistenza stessa di un uomo? Una possibile spiegazione, ovviamente, era che così facendo si negava l'esistenza dei suoi eredi. Se Dagoberto non era mai vissu­to, non poteva essere vissuto neppure Sigisberto. Ma perché dove­va essere tanto importante, ancora nel XVII secolo, negare che fosse vissuto Sigisberto? A meno che fosse veramente sopravvis­suto e che i suoi discendenti venissero tuttora considerati come una minaccia.

Avevamo la sensazione di trovarci alle prese con un'operazione di insabbiamento. Evidentemente c'erano interessi che avrebbero avuto qualcosa da perdere se la sopravvivenza di Sigisberto fosse diventata di dominio pubblico. Nel IX secolo, e forse ancora al tempo delle Crociate, questi interessi potevano essere la Chiesa e la casa regnante francese. Ma perché la cosa era ancora importan­te ai tempi di Luigi XIV? Ormai doveva sicuramente trattarsi di una questione accademica, perché in Francia si erano succedute tre dinastie, e il protestantesimo aveva spezzato l'egemonia di Roma. A meno che il sangue merovingio avesse veramente qual­cosa di eccezionale. Non già « proprietà magiche », ma qualco­sa d'altro: qualcosa che conservava la potenziale esplosività anche quando le superstizioni sul sangue magico erano state di­menticate.

II principe Guillem de Celione, conte di Razès

Secondo i « documenti del Priorato » Sigisberto IV, alla morte del padre, fu salvato da una sorella e portato clandestinamente a sud, nei domini della madre, la principessa visigota Giselle di Razès. Si dice che arrivasse in Linguadoca nel 681 e, poco tempo dopo, adottasse - o ereditasse - i titoli dello zio, duca di Razès e conte di

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Rhédae. Si dice inoltre che assumesse il cognome o soprannome di « Plant-Ard » (divenuto in seguito Plantard), da réjeton ardent, « ardente virgulto » della vite merovingia. Con questo nonìe e i titoli ereditati dallo zio, si dice, perpetuò la sua stirpe. E nell'886 un ramo di questa stirpe culminò in Bernard Plantavelu - un nome derivato apparentemente da Plant-Ard o Plantard - il cui figlio divenne il primo duca d'Aquitania.

A quanto potemmo accertare, nessuno storico indipendente confermava o smentiva queste asserzioni. L'intera questione veni­va semplicemente ignorata. Ma gli indizi circostanziali facevano ritenere che Sigisberto fosse veramente sopravvissuto e avesse perpetuato la sua schiatta. L'ostinata cancellazione di Dagoberto dalla storia conferisce credibilità a questa conclusione. Negando la sua esistenza, si veniva a invalidare ogni eventuale stirpe discesa da lui. E questo costituisce un buon movente per un'operazione altrimenti inspiegabile. Fra gli altri indizi frammentari c'è un atto datato 718, riguardante la fondazione di un monastero, a pochi chilometri da Rennes-le Chàteau, a opera di « Sigisberto, conte di Rhédae, e sua moglie, Magdala ».27 Se si esclude questo atto, per un altro secolo non si ha alcuna notizia dei titoli di Rhédae e di Razès. Tuttavia, quando uno dei due ricompare, si riaffaccia in un contesto di estremo intersse.

Nel 742 c'era, nella Francia meridionale, uno Stato completa­mente autonomo: un principato, secondo alcuni resoconti, un regno vero e proprio, secondo altri. La documentazione è scarsa e la storia si tiene nel vago - anzi moltissimi storici ne ignorano l'esistenza - ma non c'è dubbio che questo Stato esistesse. Fu riconosciuto ufficialmente da Carlomagno e dai suoi successori, dal califfo di Baghdad e dal mondo islamico. Era riconosciuto malvolentieri anche dalla Chiesa, alla quale confiscò alcune terre. E sopravvisse fin verso la fine del IX secolo.

Tra il 759 e il 768 il signore di questo Stato - che includeva il Razès e Rennes-le-Chàteau - venne ufficialmente proclamato re. Nonostante la disapprovazione di Roma, fu riconosciuto dai Caro­lingi, dei quali si dichiarò vassallo. Nelle cronache pervenute fino a noi figura più di frequente con il nome di Teodorico, o Thierry. E in maggioranza, gli studiosi moderni lo ritengono di discendenza merovingia.28 Non si sa con certezza da dove derivasse questa

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discendenza. Potrebbe derivare da Sigisberto. Comunque, non vi è dubbio che nel 790 il figlio di Teodorico, Guillem di Gellone, portasse il titolo di conte di RazèS, lo stesso che Sigisberto avrebbe portato e trasmesso ai suoi discendenti.

Guillem de Gellone fu uno degli uomini più famosi del suo tempo, al punto che la sua realtà storica, come nel caso di Carlo-magno e di Goffredo di Buglione, è stata oscurata dalla leggenda. Prima delle Crociate furono composti su di lui non meno di sei poemi epici, chansons de geste simili alla famosa Chanson de Roland. Nella Divina Commedia, Dante ne parla con grande considerazione.v Ma anche prima di Dante, Guillem era nuova­mente divenuto oggetto di un interesse letterario. All'inizio del XIII secolo figurò come protagonista di Willehalm, un romanzo epico incompiuto composto da Wolfram von Eschenbach, la cui opera più famosa, Parzival, è probabilmente il più importante di tutti i romanzi dedicati ai misteri del Santo Graal. In un primo momento ci sembrò piuttosto curioso che Wolfram - il quale in tutte le altre opere parla del Graal, della « famiglia del Graal » e della stirpe della « famiglia del Graal » - all'improvviso si fosse dedicato a un tema radicalmente diverso, come Guillem de Gello­ne. D'altra parte, in un altro romanzo Wolfram affermava che il « castello del Graal », dimora della « famiglia del Graal », era situato nei Pirenei: in quello che, all'inizio del IX secolo, era il dominio di Guillem de Gellone.

Guillem ebbe stretti rapporti con Carlomagno. Sua sorella, anzi, sposò uno dei figli di Carlomagno, stabilendo così un legame dinastico con il sangue imperiale. E lo stesso Guillem fu uno dei principali comandanti imperiali nelle continue guerre contro i Mori. Nell'803, pochi anni dopo l'incoronazione di Carlomagno come Sacro romano imperatore, Guillem conquistò Barcellona, raddoppiando i propri territori ed estendendo la sua influenza al di là dei Pirenei. Carlomagno gli era così grato per i suoi servigi che confermò come istituzione permanente il suo principato. L'atto di ratifica è andato perduto o distrutto, ma vi sono abbondanti testi­monianze della sua esistenza.

'Dante lo ricorda, chiamandolo « Guiglielmo », nel canto XVIII del Paradiso, vs. 46. [N.d.T.]

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Autori indipendenti e inoppugnabili hanno compilato genealo­gie dettagliate della stirpe di Guillem de Gellone, della sua fami­glia e dei suoi discendenti.29 Tuttavia queste fonti non danno alcuna indicazione circa gli antecedenti di Guillem, eccettuato suo padre Teodorico. Insomma, le vere origini della famiglia erano avvolte nel mistero. E gli storici contemporanei considerano con una certa perplessità, in genere, l'apparizione enigmatica e im­provvisa, di un casato tanto influente. Una cosa, comunque, è certa: nell'886 la stirpe di Guillem de Gellone culminò in Bernard Plantavelu, che fondò il ducato d'Aquitania. In altre parole, la discendenza di Guillem culminò esattamente nello stesso perso­naggio in cui culminò, secondo i « documenti del Priorato », la schiatta di Sigisberto IV e dei suoi discendenti.

Naturalmente, eravamo tentati di balzare a una conclusione, e di servirci delle genealogie contenute nei « documenti del Priora­to » per colmare la lacuna che appare nella storia ufficiale. Erava­mo tentati di concludere che gli enigmatici progenitori di Guillem de Gellone fossero Dagoberto II e Sigisberto IV, insomma la linea principale della deposta dinastia merovingia, la linea citata nei « documenti del Priorato » con il nome di Plant-Ard o Plantard.

Purtroppo, non potevamo farlo. Data la confusione esistente nelle cronache pervenute fino a noi, non potemmo accertare defi­nitivamente la connessione precisa tra la famiglia Plantard e la linea di Guillem de Gellone. È possibile che fossero la stessa cosa. D'altra parte, poteva darsi che a un certo punto si fossero impa­rentate per matrimonio. Rimaneva certo, tuttavia, che entrambe le linee, nell'886, erano culminate in Bernard Plantavelu e nei duchi d'Aquitania.

Anche se non sempre corrispondevano esattamente nelle date e nelle trascrizioni dei nomi, le genealogie connesse a Guillem de Gellone costituivano in un certo senso una conferma indipendente delle genealogie incluse nei « documenti del Priorato ». Poteva­mo quindi accettare, in via provvisoria e in assenza di prove contrarie, che la stirpe merovingia fosse continuata più o meno come asserivano i « documenti del Priorato ». Potevamo provvi­soriamente accettare che Sigisberto fosse sopravvissuto all'assassi­nio del padre, avesse adottato il cognome Plantard e, come conte di Razès, avesse perpetuato la schiatta paterna.

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Stirpe merovingia

Sllrpa visigota

= GISÉLLE DE RAZÉS

figlioccia di san Willrid di York Vissuta a Rliédna

(Ronnos la Chatoau)

StaiSBERTOIV

676 750

Conio di Razòa

«Virgulto ardente»

2 matrimoni

SIQISBERTOV   = 695/698-763/768 Conto di Razès

OLBA   : (Àlda?)

715 70               /

Conia di Razès

Chiamali -I Principi eremiti- perché

cercarono rifugio nella grotta

di una montagna nel pressi di Rhòdao

durante I invasione saracena

La lapido della loro tomba comune

si trova oggi nel Museo

di Rannes lo Chatoau

!

ODE

Conto di Razòs Fondatola

dell abbazia dì Alet

= ROTAUDE

m 055

Ebbe In dota

Blanchelort 795

ARDILA  = 775-B36 Conte di Razòs

ACFREO

Conte di Razès BB1/070/B77 m906

AUREOL

capostipite della famiglia Blanchelort

Stirpe carolingia

BERAV 794 860

HILDERICI    -Conto di Hazès

   SIGISBERTOVI

-Principe Ursus-

m B84/8B5

Ultimo conta di Razòs

di discendenza merovingia

I

BERNARD -Pianta valli­ci -Pianta Pilus» Conte di Razès

m 877

Fondò il ducato di Aquitania

Unea esula In Brelagna dopo il tentativo di rivolta contro Ludovico il nell 681

Tavola 3 La  dinastia  merovingia:  I  conti  di  Razès.

{Dall'opera di Henn Lobineau, basata sulle ricer­che dell'abate Ptchon e de! dottor Herré ]

 

II principe Ursus

Nell'886, naturalmente, il « virgulto fiorente della vite merovin­gia » era ormai sbocciato in un complicato albero genealogico. Un ramo era costituito da Bernard Plantavelu e dai duchi d'Aquita-nia. E c'erano altri rami. I « documenti del Priorato » affermano che il nipote di Sigisberto IV, Sigisberto VI, era conosciuto con il nome di « principe Ursus ». Tra l'877 e l'879 il « principe Ursus » sarebbe stato proclamato ufficialmente « re Ursus ». Con l'aiuto di due nobili, Bernard d'Auvergne e il marchese di Gothie, avreb­be scatenato un'insurrezione contro Lodovico II di Francia per riconquistare ciò che gli spettava di diritto.

Gli storici indipendenti confermano che l'insurrezione vi fu veramente tra l'877 e 1*879. Il capo, l'istigatore, non viene nomina­to come Sigisberto VI. Ma vi sono riferimenti a un personaggio chiamato « principe Ursus ». Si sa inoltre che il « principe Ursus » partecipò a una strana e complessa cerimonia a Nfmes, nella quale cinquecento ecclesiastici cantarono il Te Deum.30 In base a tutti i resoconti, si direbbe che la cerimonia fosse un'incoronazione. Forse fu l'incoronazione cui alludono i « documenti del Priorato »: la proclamazione a re del « principe Ursus ».

Ancora una volta, i « documenti del Priorato » trovavano una conferma indipendente. Ancora una volta, sembravano attingere a notizie non ottenibili altrove, notizie che a volte contribuivano a spiegare certe cesure nella storia accettata. In questo caso, ci avevano apparentemente detto che l'enigmatico « principe Ursus » era in realtà il discendente diretto, tramite Sigisberto IV, dell'assassinato Dagoberto II. E l'insurrezione, che gli storici non sapevano come spiegare, ora poteva venire interpretata come il tentativo perfettamente comprensibile compiuto dalla deposta dinastia merovingia per riconquistare l'eredità che le spettava: l'eredità conferita da Roma mediante il patto con Clodoveo, in seguito tradito.

Secondo i « documenti del Priorato » e le fonti indipendenti, l'insurrezione fallì; il « principe Ursus » e i suoi sostenitori furono sconfitti in una battaglia presso Poitiers nell'881. A causa di questo insuccesso, la famiglia Plantard avrebbe perduto i possedimenti nella Francia meridionale, sebbene conservasse ancora i titoli

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ormai soltanto nominali di duca di Rhédae e conte di Razès. Il « principe Ursus » sarebbe morto in Bretagna, mentre la sua famiglia si legava per matrimonio con la casa ducale bretone. Prima della fine del IX secolo, quindi, il sangue merovingio era affluito nei ducati di Bretagna e di Aquitania.

Negli anni che seguirono, la famiglia - incluso Alain, in seguito duca di Bretagna - avrebbe cercato rifugio in Inghilterra, dove formò un ramo chiamato « Pianta ». Ancora una volta, autori indipendenti confermano che Alain, con i familiari e il seguito, fuggì in Inghilterra per sottrarsi ai Vichinghi. Secondo i « docu­menti del Priorato », un membro del ramo inglese della famiglia, elencato come Bera VI, sarebbe stato soprannominato « l'Archi­tetto ». Si dice che lui e i suoi discendenti, dopo aver trovato ricetto in Inghilterra al tempo di re Athelstan, praticassero « l'arte della costruzione »: un accenno apparentemente enigmatico. È interessante ricordare che le fonti massoniche fanno risalire l'ori­gine della massoneria in Inghilterra al regno di Athelstan.31 Era possibile che la stirpe merovingia, ci chiedemmo, oltre a rivendi­care il trono francese, fosse collegata in un modo o nell'altro a qualcosa che costituiva il nucleo della massoneria?

La famiglia del Graal

II Medioevo è caratterizzato da una mitologia ricca e sonante come quelle dell'antica Grecia e di Roma. In parte, questa mitolo­gia si riferisce, sia pure in modo molto esagerato, a personaggi storici: Artù, Rolando (Orlando) e Carlomagno, Rodrigo Diaz di Vivar, più conosciuto come El Cid. Altri miti, ad esempio quelli del Graal, sembrerebbero a prima vista avere una base più incon­sistente.

Tra i miti medievali più popolari e suggestivi c'è quello di Lohengrin, il « Cavaliere del Cigno ». Da una parte, è strettamen­te legato ai favolosi romanzi delGraal; dall'altra cita vari perso­naggi storici, e forse è unico, in questa sua mescolanza di realtà e di fantasia. E grazie a opere come quella di Wagner, continua ancora oggi a esercitare il suo fascino.

Secondo le leggende medievali, Lohengrin - chiamato talvolta Helias, un nome che lo associa al sole - apparteneva all'elusiva e

28!

 

misteriosa « famiglia del Graal ». Nel romanzo di Wolfram von Eschenbach, è figlio di Parzival, il supremo « Cavaliere del Graal ». Un giorno, nel sacro tempio o castello del Graal a Mun-salvaesche, Lohengrin avrebbe udito la campana della cappella suonare senza che nessuno la toccasse: era il segnale che il suo aiuto veniva disperatamente richiesto altrove. Abbastanza preve­dibilmente, chi lo richiedeva era una damigella in angustie: la duchessa di Brabante32 secondo alcune fonti, la duchessa di Bu­glione secondo altre. La dama aveva bisogno disperato di un campione, e Lohengrin si affrettò a raggiungerla su una navicella trainata da cigni araldici. In singoiar tenzone, Lohengrin sconfisse il persecutore della duchessa e la sposò. Al momento delle nozze, tuttavia, pronunciò un monito. La consorte non doveva mai chie­dergli quali fossero la sua origine, la sua stirpe e il luogo da cui era venuto. Per alcuni anni, la dama obbedì alla volontà del marito. Ma alla fine, spinta dalle insinuazioni scurrili di alcuni invidiosi, osò rivolgergli la domanda proibita. Lohengrin fu quindi costretto ad andarsene, e svanì nel tramonto a bordo della navicella trainata dai cigni. E lasciò alla moglie un figlio di discendenza incerta. Secondo vari racconti, il bambino divenne in seguito il padre o il nonno di Goffredo di Buglione.

Per la mentalità moderna è difficile valutare l'enorme importan­za che ebbe nella coscienza popolare Goffredo di Buglione, non soltanto ai suoi tempi ma fino al XVI secolo. Oggi, quando si pensa alle Crociate, si pensa a Riccardo Cuor di Leone, re Giovan­ni, magari Luigi IX (san Luigi), o Federico Barbarossa. Ma fino a tempi relativamente recenti, nessuno di questi personaggi godette del prestigio e della gloria di Goffredo. Goffredo, comandante della Prima Crociata, era l'eroe popolare supremo, l'eroe per eccellenza. Fu Goffredo a inaugurare le Crociate. Fu Goffredo a strappare Gerusalemme ai Saraceni. Fu Goffredo a togliere il sepolcro di Cristo agli infedeli. E fu Goffredo, più di tutti gli altri, a conciliare agli occhi della fantasia popolare gliddeali della caval­leria e la fervida pietà cristiana. Perciò non è sorprendente che Goffredo diventasse oggetto di una venerazione che persistette per molto tempo dopo la sua morte.

Di conseguenza, si può comprendere perché a Goffredo venis­sero attribuiti illustri antenati mitici. Si può comprendere perché

282

 

I    Sllipe I meroving

nerovingla

QUILLAUMEII '                      IDOINE

m914                  |

Fuggito In Inghilterra nelfll4 q causa d| un incursione vichinga in Bretagna

Isilrpe celtfca|

ALAIN «11 Orando»

m 9Q7

 g

e I suoi discendenti praticarono

i «aria della costruzione-

m 97S

GEMEGE :

ARNAUD Ramo dal "Plani-Amori

f                              916         I

,J    MATHUEDOI   ^^= HAVOI |          B97-?

^-Conle di Poltlers

ALAINIV "Barbaforte*

917 52 Duca di Breiagna 937

= UGO II I dlLusignano

GOZELON

Duca dell'Alta Lorena m 1044

____L

= ERNICULE

Conte di Boulogne m 1041

FEDERICO Papa Stefano IX

La linea Planlard continua ancora oggi

|   Stirpo   I I scozzese!

\

MATILDE

Contessa di Toscana

(Dndatrìce dell abbazia

diOrvalnol1070

IDEDARDENNES -

«Sanlo tda»

m 1113

= EUSTACHIOIII Conte di Boulogns

MATILDE =    STEFANO d'Inghilterra

I

GOFFHEDO

1061-1100

Conte di Buglione

Duca dalla Bassa Lorena

Re di Gerusalemme

Fondatore dell'Ordine

dlSIon,1099

I

BALDOVINO

Re di Gerusalemm

GM dell'Ordine

di Slon

m 1118

= EUSTACHIOII Conte di Baulogng

Accompagnò Guglielmo il Conquistatore in Inghilterra

ALEX — ENRICO IV

imperatore

Tavola 4 La dinastia merovingia:! «re perduti».

[Dall'opera di H Lobineau (H de Lénoncourt) ]

 

Wolfram von Eschenbach e altri romancìers medievali lo collegas­sero direttamente al Graal e lo presentassero come discendente diretto della misteriosa « famiglia del Graal ». E queste genealo­gie fantastiche appaiono ancora più comprensibili se si pensa che la vera genealogia di Goffredo permane tuttora oscura. La storia non è in grado di stabilire con certezza chi fossero i suoi antenati.-13

I « documenti del Priorato » ci fornivano la più plausibile -forse la prima veramente plausibile - tra le genealogie di Goffredo di Buglione venute alla luce sino a ora. Fin dove era possibile controllarla, tale genealogia risultava esatta. Non trovammo indi­zi che la smentissero, ma ne trovammo molti che la suffragavano; e colmava in modo convincente numerose e sconcertanti lacune storiche.

Secondo la genealogia contenuta nei « documenti del Prio­rato », Goffredo di Buglione, tramite la bisnonna che sposò Hu-gues de Plantard nel 1009, era discendente diretto della famiglia Plantard. In altre parole, Goffredo era di sangue merovingio, e discendeva direttamente da Dagoberto II, Sigisberto IV e dai « re perduti », les rois perdus. Per quattro secoli, sembra, il sangue reale merovingio scorse in numerosi alberi genealogici. E alla fine, con un processo analogo all'innesto dei vitigni nella viticoltura, avrebbe dato come frutto Goffredo di Buglione, duca di Lorena. E nella casa di Lorena istituì una nuova eredità.

Questa rivelazione gettava una luce nuova e significativa sulle Crociate. Ora potevamo inquadrare le Crociate in una prospettiva diversa, e scorgervi qualcosa di più del gesto simbolico di strappa­re ai Saraceni il sepolcro di Cristo.

Ai propri occhi e agli occhi dei suoi fedeli, Goffredo sarebbe stato ben più che il duca di Lorena. Sarebbe stato, in effetti, un re legittimo, esponente a buon diritto della dinastia deposta con Dagoberto II nel 679. Ma se Goffredo era un re legittimo, era anche un re senza regno, e la dinastia dei Capetingi, appoggiata dalla Chiesa di Roma, ormai era insediata troppo saldamente in Francia perché fosse possibile detronizzarla.

Che cosa può fare un re senza regno? Forse trovarlo. Oppure crearlo. Il regno più prezioso del mondo intero: la Palestina, la Terrasanta, dove era vissuto Gesù. Il sovrano di questo regno non sarebbe stato uguale a tutti i monarchi d'Europa? E presiedendo

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sul più sacro tra tutti i luoghi della terra, non avrebbe ottenuto vendetta contro la Chiesa che quattro secoli prima aveva tradito i suoi avi.

Il mistero che ci sfuggiva

Poco a poco, certi pezzi del rompicapo cominciavano ad andare a posto. Se Goff redo discendeva dai Merovingi, molti frammenti in apparenza sconnessi assumevano una continuità coerente. Pote­vano spiegare, così, il risalto attribuito a elementi apparentemente disparati come la dinastia merovingia e le Crociate, Dagoberto II e Goffredo, Rennes-le-Chàteau, i Cavalieri Templari, la casa di Lorena, il Priorato di Sion. Potevamo addirittura seguire le stirpi merovinge fino ai giorni nostri, fino ad Alain Poher, Henri de Montpézat (consorte dell'attuale regina di Danimarca), Pierre Plantard de Saint-Clair, Otto d'Asburgo, titolare del ducato di Lorena e del regno di Gerusalemme.

Tuttavia, la questione veramente fondamentale continuava a sfuggirci. Non riuscivamo ancora a capire perché la stirpe mero­vingia dovesse avere tanta importanza ancora oggi. Non capivamo perché le sue rivendicazioni dovessero avere qualche influenza sulla realtà contemporanea, e perché avessero ricevuto l'appoggio di tanti personaggi illustri nel corso dei secoli. Non capivamo ancora perché una moderna monarchia merovingia, per quanto legittima, giustificasse un simile appoggio. Evidentemente, ci era sfuggito qualcosa.

Note

1   Cochet, Le Tombeau de Childeric Ier; Dumas, Le Tombeau de Childeric.

2  Secondo Cochet, Le Tombeau de Childeric Ier, p. 25, Leopoldo Guglielmo (che era anche Gran maestro dei Cavalieri Teutonici) tenne per sé ventisette api e consegnò le altre. Forse sarà un sospetto eccessivo, ma è interessante notare che a quel tempo il Priorato di Sion aveva ventisette commanderies.

3  II primo sospetto che Napoleone avesse qualche legame con questa vicenda l'avemmo notando le citazioni contenute nelle genealogie dei Dossiers, che elenca­vano tra le fonti l'opera di un certo abate Pichon. Tra il 1805 e il 1814, Pichon completò uno studio dei discendenti Merovingi da Dagoberto II fino al 20 novem­bre 1809, quando Jean XXII de Plantard nacque a Semelay (Nièvre). Le sue fonti

2X5

 

sarebbero stati dei documenti scoperti dopo la Rivoluzione francese. Altre notizie erano contenute nella pubblicazione di Madeleine Blancasall, edita dall'Alpina, dove si affermava (p. 1) che l'abate Pichon aveva ricevuto l'incarico da Sieyès (membro del Direttorio, 1795-9) e Napoleone. Una cospicua massa di materiale è contenuta in L'Or de Rennes pour un Napoléon, di Philippe de Chérisey, ora in microfiche presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. Chérisey riferisce breve­mente che l'abate Sieyès, grazie alle ricerche effettuate da Pichon tra il materiale degli archivi reali, era al corrente della sopravvivenza dei Merovingi. Riferì la cosa a Napoleone, e lo esortò a sposare Giuseppina, vedova di un discendente merovin­gio, Alexandre de Beauharnais. Napoleone successivamente adottò i due figli di Giuseppina, che avevano nelle vene il « sangue reale ».

Più tardi, lo stesso Napoleone incaricò l'abate Pichon (il cui vero nome sarebbe stato Francois Dron) di completare una genealogia definitiva. Tra le altre cose, a Napoleone interessava accertare che la dinastia dei Borbone era illegittima. E quando si incoronò imperatore dei Francesi (non di Francia) la cerimonia, che ebbe significative sfumature merovinge, a quanto viene detto sarebbe stata il risultato degli studi di Sieyès e di Pichon. Se è vero, Napoleone indendeva gettare le fondamenta di un nuovo impero merovingio. Non avendo figli da Giuseppina, sposò Maria Luigia,, figlia dell'imperatore d'Austria, una Asburgo di discendenza merovingia. Maria Luigia gli diede un figlio, Napoleone II, che aveva nelle vene il « sangue reale » dei Merovingi. Tuttavia Napoleone II morì senza eredi. Ma il futuro Napoleone III, figlio di Luigi Bonaparte e di Ortensia di Beauharnais (figlia di primo letto di Giuseppina) era anch'egli portatore del « sangue reale ».

Chérisey, inoltre, insinua che l'arciduca Carlo, fratello della seconda moglie di Napoleone, si lasciò convincere a perdere la battaglia di Wagram, nel 1HIW, in cambio di una parte del tesoro merovingio che Napoleone aveva trovato nel Razès. Questo tesoro fu successivamente scoperto nel 1837 a Petroassa, che allora era un dominio asburgico. Dato che gli Asburgo discendevano dai Merovingi, si può capire perché attribuissero tanto valore al tesoro.

4  Carpenter, Folktale, Fiction and Saga, pp. 112 sgg.

5  II nome dato dai Romani ad Artemide era Diana, e un'altra designazione di Arduina era « Diana delle Ardenne ». Un'enorme statua della dea rimase fino a quando fu distrutta da san Vulfilau nel VI secolo. Il suo culto era lunare, e le sue immagini portavano la falce di luna. Era considerata inoltre protettrice delle fontane e delle sorgenti. La fondazione dell'abbazia di Orval, che la leggenda collega a una fonte mistica, potrebbe indicare un vestigio del culto di Diana-Arduina. Cfr. Calmet, « Des Divinités », pp. 25 sgg.

6  Cfr. ad esempio Gregorio di Tours, Storia dei Franchi, libro V, cap. 44.

7  Wallace-Hadrill, The Long-haired Kings, pp. 203 sgg.

8  Ibid. p. 158.

9  Dill, Roman Society in Gaul, p. 88.

10  Wallace-Hadrill, The Long-haired Kìngs,p. 171.

1 ' Le principali fonti per la vita di Dagoberto II sono Digot, Histoire de royaume

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d'Austrasie, voi. 3, pp. 220 sgg., e pp. 249 sgg. (cap. XV) e pp. 364 sgg.; Folz, <t Tradition hagiographique »; e Vincent, Histoire fidelle de St Sigisbert.

12   Lanigan, An Ecclesiastic History, voi. 3, p. 101.

13  Henry Lobineau, Dossierssecrels, pianelle n. 1,600-900; Blancasall, Lesdescen-dants, p. 8 e tableau n. 1.

'4 L'affermazione di de Sède trova una certa conferma in ciò che si sa della vita di sant'Amatus. Incorse nell'ostilità dello stesso Ebroin, maestro di palazzo di re Thierry III, che era stato il mandante dell'assassinio di Dagpberto II. Fu privato' della sua diocesi più o meno quando Dagoberto ritornò sul trono. La coincidenza delle date potrebbe indicare che si era adoperato per favorire il ritorno di Dagober­to. È probabile che Dagoberto rientrasse nel suo regno passando dalla diocesi di sant'Amatus. Se avesse compiuto il viaggio direttamente dal Razès avrebbe dovuto attraversare il territorio di Thierry III, e senza dubbio preferì evitarlo.

15 Henry Lobineau, Dossieri secrets, planche n. 2, 1500-1650. Blancasall, Les descendants, p. 8. Questo tesoro si aggiunge all'elenco degli altri che si trovavano o che si trovano tuttora nella zona di Rennes-le-Chàteau.

'6 Wallace-Hadrill, The Long-haired Kings, p. 238.

17  Chiamata Satanicum nei documenti latini; il nome derivava da un tempio di Saturno che vi sorgeva anticamente.

18  Cfr. nota 16 di questo capitolo.

19  Per un'indagine sul culto, cfr. Folz, « Tradition hagiographique ».

20  Digot, A., Histoire du royaume d'Austrasie, voi. 3, pp. 370 sgg.

2 ' È interessante notare che Jules Doinel, creatore della Chiesa cattolica gnostica e bibliotecario a Carcassonne, pubblicò nel 1899 un breve libro che deplorava lo spodestamento dei Merovingi a opera dei Carolingi. Cfr. Doinel, Note sur le Roi HildériklII.

22  Wallace-Hadrill, The Long-haired Kings, p. 246.

23  Ibid., p. 248.

24  Eginardo, Vita di Carlomagno (nella versione inglese, Einhard, Life ofCharle-magne, p. 81).

25  Paoli, Les Dessous, p. 111.

26  Dagoberto II fu « riscoperto » nel 1646 da Adrien de Valois. Fu reintegrato nelle genealogie dei Merovingi dal gesuita bollandista Henschenius, in Diatriba de tribus Dagobertus, nel 1655. Cfr. Folz « Tradition hagiographique », p.33. È interessante, dato che a quel tempo Dagoberto II era sconosciuto, il fatto che Robert Denyau lo menzioni nel Martirologio del calendario, allegato alla sua Histoire... de Gisorsdatata 1629.

27  Delaude, Cercle d'Ulysse, p. 4. Il documento proverrebbe da Villas Capitana-rias, che prese poi il nome di Trapas, e si riferisce alla fondazione del monastero di Saint Martin d'Albières. Cercammo, invano, di rintracciare questo atto. Gli archi­vi di Capitanarias sono conservati negli Archives de l'Aude, serie H. Ma l'atto non

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vi figura. Perciò notammo con interesse una lettera inviata a Jean Delaude per chiedere quale fosse la sua fonte d'informazione sul documento. L'autore della lettera era un docente dell'Università di Lillà. Jean Delaude rispose che l'atto era conservato negli archivi nazionali francesi, non era catalogato, e che anche con l'aiuto di un archivista aveva impiegato due mesi per rintracciarlo. Sebbene quelle collezioni contengano quantità enormi di materiale non catalogato, Delaude non fornì indicazioni che permettessero di rintracciare il documento. Cfr. Chérisey, L'enigme de Rennes, lettere numero 4 e 5, 1977. 2K Ponsich, « Le conflent », p. 244.

29  Ibid., fig. 1. Cfr. inoltre Vaissete, Histoire generale de Langitedoc, voi. 2 (notes), p. 276.

30  Vaissete, Histoire generale de Langitedoc, voi. 3, pp. 4 sgg.

31   Della leggenda si ha notizia per la prima volta nel 1686, quando la riferisce il dottor Plot nella sua Naturai History of Staffordshire, pp. 316, parlando della massoneria.

12 II titolo del ducato di Goffredo di Buglione, Bassa-Lorena, fu abbandonato nel 1190, e i suoi signori presero il titolo di duchi di Brabante. Quindi la duchessa di Brabante è senza dubbio una variante della duchessa di Buglione.

33 L'opera classica della genealogia francese è Anselm, Histoire généalogique et chronologique, che espone dettagliatamente la storia della casa di Boulogne nel voi. VI, pp. 247 sgg. La confusione incomincia con il nonno Goffredo, il conte Eustachio I di Boulogne. Il padre non è registrato; c'è solo il nome della madre, Adeline, e del suo secondo marito Ernicule, conte di Boulogne. Ernicule adottò il giovane Eustachio, nominandolo proprio erede. Il vero padre è quindi sconosciuto alla storia.

I Dossiers secrets (planche n. 2, 900-1200) registrano il suo vero padre come Hugues des Plantard (« Naso lungo »), che secondo l'abate Pichon fu assassinato nel 1015.

2SS

 

X

La tribù esule

Era possibile che vi fosse qualcosa di eccezionale nella stirpe merovingia, qualcosa di più importante di una legittimità accade­mica? Poteva trattarsi di qualcosa che, in un modo o nell'altro, starebbe a cuore alla gente di oggi? Poteva essere qualcosa in grado di condizionare e forse persino di modificare le istituzioni sociali, politiche e religiose esistenti? Questi interrogativi conti­nuavano ad assillarci. Ma al momento sembravano, non avere risposta.

Ancora una volta setacciammo i « documenti del Priorato », soprattutto gli importantissimi Dossiers segreti. Rileggemmo passi che, prima, non avevano avuto significato ai nostri occhi. Ora avevano un senso, ma non servivano a spiegare il mistero, né a rispondere a quelli che erano ormai divenuti gli interrogativi più critici. D'altra parte, c'erano altri passi la cui pertinenza non ci appariva ancora chiara. Quei passi non risolvevano affatto l'enig­ma; ma se non altro ci indussero a pensare secondo certe direttrici che alla fine si dimostrarono supremamente importanti.

Come avevamo già scoperto, gli stessi Merovingi, secondo i loro cronisti, affermavano di discendere dall'antica Troia. Ma secon­do alcuni « documenti del Priorato » la stirpe merovingia risaliva a tempi ancora più antichi dell'assedio di Troia; secondo questi documenti, risaliva al Vecchio Testamento.

Tra le genealogie incluse nei Dossiers segreti, ad esempio, c'era­no numerose annotazioni. Molte si riferivano specificatamente a una delle dodici tribù di Israele, la tribù di Beniamino. Uno di questi riferimenti cita con notevole rilievo tre passi biblici: Deute­ronomio 33, Giosué 18 e Giudici 20 e 21.

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Il capitolo 33 del Deuteronomio contiene le benedizioni impar­tite da Mosé ai patriarchi delle dodici tribù. Per Beniamino, Mosè dice: « II prediletto del Signore abita tranquillo presso di lui; e il Signore lo proteggerà per tutto il giorno, e dimorerà tra le sue spalle » (32:12). In altre parole, Beniamino e i suoi discendenti furono destinatari di una speciale, altissima benedizione. Questo, almeno, era chiaro. Naturalmente, ci sconcertava la promessa secondo la quale il Signore avrebbe dimorato « tra le spalle di Beniamino ». Dovevamo associarla alla leggendaria « voglia » distintiva dei Merovingi, la croce rossa tra le scapole? Il nesso ci sembrava piuttosto stiracchiato. D'altra parte, c'erano altre simi­larità, più chiare, tra Beniamino e l'oggetto della nostra indagine. Secondo Robert Graves, ad esempio, il giorno consacrato a Be­niamino era il 23 dicembre,1 la festa di san Dagoberto. Fra i tre clan che formavano la tribù di Beniamino, c'era il clan di Ahiram che in qualche modo oscuro .potrebbe essere collegato a Hiram, costruttore del Tempio di Salomone e personaggio centrale della tradizione massonica. Inoltre, il discepolo più devoto di Hiram si chiamava Benoni; e Benoni, particolare piuttosto interessante, era il nome dato a Beniamino neonato dalla madre, Rachele, prima di morire.

La seconda citazione biblica (Giosué 18) dei Dossiers segreti è più chiara. Parla dell'arrivo del popolo di Mosé nella Terra Pro­messa e dell'assegnazione dei territori a ognuna delle dodici tribù. Secondo tale divisione, il territorio della tribù di Beniamino inclu­de quella che divenne poi la città santa di Gerusalemme. In altre parole, Gerusalemme, prima ancora di diventare la capitale di Davide e di Salomone, era stata assegnata alla tribù di Beniamino. Secondo Giosué (18:28), la parte spettante ai Beniaminiti com­prendeva « Zelah, Elef, Iebus, cioè Gerusalemme, Gabaa, Kiriat-Iearim; quattordici città e i loro villaggi. Questo fu il possesso dei figli di Beniamino, secondo le loro famiglie ».

Il terzo passo biblico citato dai Dossiers riguarda una successio­ne di eventi piuttosto complessa. Un Levita, mentre attraversa il territorio dei Beniaminiti, viene aggredito, e la sua concubina viene violentata da adoratori di Belial, una variante della Dea Madre dei Sumeri, chiamata Ishtar dai Babilonesi e Astarte dai Fenici. Il Levita convoca i rappresentanti delle dodici tribù e

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chiede vendetta; e nell'assemblea viene conferito ai Beniaminiti il compito di consegnare i malfattori alla giustizia. Ci si aspetterebbe che i Beniaminiti si affrettassero a obbedire. Ma per una ragione inspiegata, invece, prendono le armi per proteggere i « figli di Belial ». Il risultato è una guerra accanita e cruenta fra i Beniami­niti e le altre undici tribù. Nel corso delle ostilità, queste undici tribù scagliano una maledizione contro chiunque darà una figlia in sposa a un Beniaminita. Quando la guerra finisce e i Beniaminiti sono stati virtualmente sterminati, tuttavia, gli Israeliti vittoriosi si pentono della maledizione che però non può essere revocata:

Gli Israeliti avevano giurato a Mizpa: « Nessuno di noi darà la figlia in moglie a un Beniaminita ». Il popolo venne a Betel, dove rimase fino alla sera davanti a Dio, alzò la voce prorompendo in pianto e disse: « Signore, Dio d'Israele, perché è avvenuto questo in Israele, che oggi in Israele sia venuta meno una delle sue tribù? » (Giudici 21:1-3).

Qualche versetto più avanti, il lamento si ripete:

Gli Israeliti si pentivano di quello che avevano fatto a Beniamino loro fratello e dicevano: « Oggi è stata soppressa una tribù d'Israele. Come faremo per le donne dei superstiti, perché abbiamo giurato per il Signore di non dar loro in moglie nessuna delle nostre figlie? » (Giudici 21:6-7).

E ancora:

II popolo dunque si era pentito di quello che aveva fatto a Beniamino, perché il Signore aveva aperto una breccia nelle tribù d'Israele. Gli anziani della comunità dissero: « Come procureremo donne ai superstiti, poiché le donne beniaminite sono state distrutte? » Soggiunsero: « Le proprietà dei superstiti devono appartenere a Beniamino perché non sia soppressa una tribù in Israele. Ma noi non possiamo dar loro in moglie le nostre figlie, perché gli Israeliti hanno giurato: Maledetto Chi darà una moglie a Beniamino! » (Giudici 21: 15-18).

Di fronte al pericolo d'estinzione che minaccia un'intera tribù, gli anziani si affrettano a trovare una soluzione. A Shiloh, in Betel, tra breve vi sarà una festa; e le donne di Shiloh, i cui uomini erano rimasti neutrali durante la guerra, devono essere considerate pre­de disponibili. Ai Beniaminiti superstiti viene detto di recarsi a Shiloh e di tendere un'imboscata nelle vigne. Quando le donne della città si raduneranno per danzare, i Beniaminiti dovranno rapirle e prenderle in moglie.

Non è affatto chiaro perché i Dossiers segreti insistano nel richiamare l'attenzione su questo passo. Ma qualunque ne sia la

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ragione, i Beniaminiti, nella storia biblica, sono evidentemente molto importanti. Nonostante le devastazioni causate dalla guerra, recuperano in fretta almeno il prestigio, se non la consistenza numerica. Anzi, lo recuperano al punto da dare a Israele il suo primo re, Saul.

Nonostante la rinascita dei Beniaminiti, i Dossiers fanno capire che la guerra contro i seguaci di Belial segnò una svolta decisiva. Sembrerebbe che in seguito al conflitto molti Beniaminiti andasse­ro in esilio. Nei Dossiers c'è una nota sensazionale, in lettere maiuscole:

UN GIORNO I DISCENDENTI DI BENIAMINO LASCIARONO LA LORO TERRA; CERTI RIMASERO, DUEMILA ANNI PIÙ TARDI GOFFREDO VI [DI BUGLIONE] DIVENNE RE DI GERUSALEMME E FONDÒ L'OR-DREDESION.2

A prima vista sembrava che non ci fosse un nesso tra i due fatti. Ma quando radunammo i riferimenti frammentari contenuti nei Dossiers segreti cominciò a emergere una storia coerente. Secondo questa storia, molti Beniaminiti andarono in esilio. A quanto pare si trasferirono in Grecia, nel Peloponneso centrale: in Arcadia, dove si sarebbero imparentati con la locale famiglia regnante. Verso l'inizio dell'era cristiana, avrebbero risalito il Danubio e il Reno, imparentandosi per matrimonio con certe tribù teutoniche e generando i Franchi Sicambri: gli antenati dei Merovingi.

Secondo i « documenti del Priorato », quindi, i Merovingi di­scendevano, attraverso l'Arcadia, dalla tribù di Beniamino. In altre parole i Merovingi e i loro discendenti, ad esempio le famiglie dei Plantard e dei Lorena, erano di origine semitica o israelita. E se Gerusalemme faceva parte dell'eredità dei Beniaminiti, Gof-fredo di Buglione marciando sulla Città Santa, avfebbe in pratica rivendicato la sua antica, legittima eredità. È significativo il fatto che Goffredo, unico tra i principi d'Occidente che intrapresero la Prima Crociata, cedesse tutte le sue proprietà prima della parten­za, indicando così che non intendeva ritornare in Europa.

È superfluo aggiungere che non avevamo nessuna possibilità di accertare se i Merovingi fossero o no d'origine beniaminita. Le notizie dei « documenti del Priorato » si riferivano a un passato troppo oscuro e remoto, che non poteva trovare conferma docu­mentale. Ma le affermazioni non erano né uniche né nuove. Al

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MANASSE ORIENT.

S/%o,

Carta 8    La Giudea mostra l'unica possibile via di fuga per la tribù di Beniamino.

 

contrario, erano in circolazione da molto tempo, nella forma di vaghe dicerie e di tradizioni nebulose. Per citare un solo esempio, Proust vi attinge nella sua opera; e più recentemente il romanziere Jean d'Ormesson ipotizza che certe nobili famiglie francesi siano d'origine ebraica. E nel 1965 Roger Peyrefitte, che sembra diver­tirsi molto a scandalizzare i suoi compatrioti, ci riuscì benissimo in un romanzo affermando che tutta la nobiltà francese e gran parte della nobiltà europea erano ebree.

L'affermazione, anche se indimostrabile, non è del tutto im­plausibile, come non lo sono l'esilio e la migrazione attribuiti alla tribù di Beniamino dai « documenti del Priorato ». La tribù di Beniamino prese le armi in difesa dei seguaci di Belial, una forma della Dea Madre spesso associata alle immagini di un toro o di un vitello. C'è un motivo di credere che anche i Beniaminiti veneras­sero la stessa divinità. Anzi è possibile che l'adorazione del Vitello d'Oro di cui parla l'Esodo - e che, cosa piuttosto significativa, è il tema di uno dei quadri più famosi di Poussin - fosse un rito tipicamente beniaminita.

Dopo la guerra contro le altre undici tribù d'Israele, i Beniami­niti, andando in esilio, dovettero necessariamente dirigersi verso occidente, verso la costa fenicia. I Fenici avevano navi in grado di trasportare un gran numero di profughi. E sarebbero stati disposti ad aiutare i Beniaminiti fuggiaschi, poiché anche loro adoravano la Dea Madre sotto il nome di Astarte, Regina del Cielo.

Se vi fu veramente un esodo dei Beniaminiti dalla Palestina, si potrebbe sperare di trovarne qualche traccia. E la si incontra nel i mito greco. C'è la leggenda del figlio di re Belo, Danao, che giunge in Grecia per nave, insieme alle figlie. Le figlie avrebbero intro­dotto il culto della Dea Madre, che divenne il principale culto degli Arcadi. Secondo Robert Graves, il mito di Danao ricorda l'arrivo nel Peloponneso dì « coloni provenienti dalla Palestina » -1 Graves sostiene che re Belo è in realtà Baal o Bel, o forse Belial dell'Anti­co Testamento. È inoltre il caso di osservare che una delle famiglie della tribù di Beniamino era la famiglia di Bela.

In Arcadia, il culto della Dea Madre non soltanto prosperò, ma sopravvisse più a lungo che in ogni altra parte della Grecia. Fu associato al culto di Demetra, poi a quello di Artemide (la Diana dei Romani). Con il nome locale di Arduina, Artemide divenne la

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divinità tutelare delle Ardenne: e dalle Ardenne vennero i Franchi Sicambri per stabilirsi nell'attuale Francia. L'animale totemico di Artemide era l'orsa, Callisto, il cui figlio era Arcade, l'Orso, nume eponimo dell'Arcadia. E Callisto, collocata in cielo da Artemide, divenne la costellazione dell'Orsa Maggiore. Quindi, potrebbe esservi qualcosa di più di una coincidenza nell'appellativo « Ur-sus », riferito ripetutamente alla stirpe Merovingia.

Vi sono comunque altri indizi, al di fuori della mitologia, che fanno pensare a una migrazione ebrea in Arcadia. Nei tempi classici, l'Arcadia era dominata dal potente Stato militarista di Sparta. Gli Spartani assimilarono in gran parte la più antica cultu­ra degli Arcadi; anzi il leggendario arcade Liceo può essere iden­tificato con Licurgo, il legislatore spartano. Quando diventavano adulti, gli Spartani, come i Merovingi, attribuivano uno speciale significato magico alle loro chiome, che erano egualmente lunghis­sime. Secondo un autore, « la lunghezza dei capelli denotava il loro vigore fisico ed era un simbolo sacro ».4 E c'è di più: i due libri dei Maccabei, nella Bibbia, sottolineano il legame tra gli Spartani e gli Ebrei. Maccabei 2 parla di certi Ebrei che « si erano recati presso Spartani, nella speranza di trovarvi protezione in nome della comunanza di stirpe ».5 E Maccabei 1 afferma esplicitamen­te: « Si è trovato in una scrittura, riguardante gli Spartani e i Giudei, che essi sono fratelli e che discendono dalla stirpe di Abramo ».6

Potevamo quindi riconoscere almeno la possibilità di una migra­zione di Ebrei in Arcadia: e anche se era impossibile provare la fondatezza dei « documenti del Priorato », era egualmente impos­sibile confutarla. In quanto all'influenza semitica sulla cultura franca, c'erano concrete testimonianze archeologiche. Le « vie » commerciali fenicie o semite attraversavano tutta la Francia meri­dionale, da Bordeaux a Marsiglia e Narbona si estendevano lungo il Rodano. Già nel VII-VI secolo a.C. c'erano insediamenti fenici non soltanto lungo la costa francese ma anche nell'entroterra, in località come Carcassonne e Tolosa. Tra i manufatti trovati in questi siti, molti erano d'origine semitica. Non è sorprendente. Nel IX secolo a.C i re fenici di Tiro avevano contratto alleanze matrimoniali con i regni di Israele e di Giuda, stabilendo così legami destinati a produrre stretti contatti tra i rispettivi popoli.

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Nel 70 d.C. il sacco di Gerusalemme e la distruzione del Tempio provocarono un massiccio esodo di Ebrei dalla Terrasanta. E perciò la città di Pompei, sepolta dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C, contava una comunità ebraica. Certe città della Francia meridionale, ad esempio Arles, Lunel e Narbona, offrirono un rifugio ai profughi ebrei più o meno negli stessi anni. Tuttavia l'afflusso di popolazioni ebraiche in Europa, e soprattutto in Fran­cia, è anteriore alla caduta di Gerusalemme del I secolo. Anzi, era in atto già da prima dell'era cristiana. Tra il 106 e il 48 a.C. si formò a Roma una comunità ebraica. Non molto tempo dopo ne venne fondata un'altra sul Reno, a Colonia. Certe legioni romane com­prendevano contingenti di schiavi ebrei che accompagnarono i loro padroni in tutta l'Europa. Molti di questi schiavi in seguito si riscattarono od ottennero comunque la libertà, e formarono varie colonie.

Perciò vi sono molti toponimi tipicamente ebraici sparsi in tutta la Francia. Alcune di queste località sono situate proprio nel cuore del vecchio territorio merovingio. A pochi chilometri da Stenay, ad esempio, al limitare della Foresta di Woévres dove fu assassina­to Dagoberto, c'è un villaggio che si chiama Baalon. Tra Stenay e Orval c'è una cittadina che si chiama Avioth. E il monte Sion in Lorena, « la colline inspirée », in origine era Monte Semita.7

Ancora una volta, sebbene non potessimo convalidare le affer­mazioni dei « documenti del Priorato », non potevamo neppure scartarle. Senza dubbio, l'evidenza bastava a renderle quanto meno plausibili. Eravamo quindi costretti a riconoscere che i « documenti del Priorato » potevano avere ragione: i Merovingi e le varie famiglie nobili loro discendenti potevano provenire da ceppi semitici.

Ma, ci chiedemmo, era possibile che fosse tutto qui? Poteva essere quello lo straordinario segreto che aveva causato tanti intrighi e misteri, tante macchinazioni e preoccupazioni, tante controversie e tanti conflitti nel corso dei secoli? Solo un'ennesima leggenda su una tribù perduta? E anche se non era una leggenda ma la verità, poteva spiegare veramente le motivazioni del Priora­to di Sion e le rivendicazioni della dinastia merovingia? Poteva spiegare l'adesione di uomini come Leonardo e Newton o le attività delle case di Guisa e Lorena, le iniziative clandestine della

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Compagnia del Santo Sacramento, i segreti della massoneria di « Rito scozzese »? No, evidentemente. Perché la discendenza dalla tribù di Beniamino doveva costituire un segreto tanto esplo-sivo? E cosa ancora più importante, perché la discendenza dalla tribù di Beniamino doveva contare tanto, al giorno d'oggi? Come poteva chiarire le attività e gli obiettivi odierni del Priorato di Sion?

Se la nostra indagine riguardava interessi tipicamente semitici o giudaici, inoltre, perché coinvolgeva tante componenti di caratte­re tipicamente, anzi fervidamente cristiano? Il patto tra Clodoveo e la Chiesa di Roma, ad esempio; il cristianesimo militante di Goffredo di Buglione e la conquista di Gerusalemme; il pensiero ereticale, ma tuttavia cristiano, dei Catari e dei Cavalieri Templa­ri; istituzioni pie come la Compagnia del Santo Sacramento; la massoneria che era « ermetica, aristocratica e cristiana»; e il coinvolgimento di tanti ecclesiastici cristiani, da eminenti principi della Chiesa a curati di campagna come Boudet e Saunière?

Poteva darsi che i Merovingi fossero di origine ebraica, ma ci sembrava in sostanza una cosa incidentale. Qualunque fosse il vero segreto della base della nostra indagine, sembrava inestrica­bilmente legato non soltanto al mondo ebraico dell'Antico Testa­mento, ma anche al cristianesimo. Insomma, la tribù di Beniami­no, almeno per il momento, sembrava un « serpente di mare ». Anche se era importante, c'era sotto qualcosa più importante ancora. Qualcosa che continuava a sfuggirci.

Note

1   Graves, White Goddess, p. 271.

2  II testo integrale è il seguente:

UN JOUR LES DESCENDANTS DE BENJAMIN OUITTÈRENTLEUR PAYS, CER-TAINS RESTÈRENT, DEUX MILLE ANS APRÈS GODEFROY VI. DEVIENT ROI DE JÉRUSALEM ET FONDE L'ORDRE DE SION - De cette legende merveilleuse qui orne l'histoire, ainsi que l'aryhitecture d'un temple dont le sommet se perd dans Pimmensité de l'espace et des temps, dont POUSSIN à voulu exprimer le mystère dans ses deux tableaux, les « Bergers d'Arcadie » se trouve sans doute le secret du trésor devant lequel, les descendants paysans et bergers du fier sicambre, méditent sur « et in arcadia ego », X^Xet le Roi « Midas ». Avant 1200 a notre ère-Un fait

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important est, l'arrivée des Hébreux dans la terre promise et leur lente installation en Caanan. Dans la Bible, au Deuteronome 33; il est dit sur BENJAMIN: C'est le bien aimé de l'Eternai, il habitera en sécurité auprès de lui, l'Eternai le couvrira toujours, et résidera entre ses épaules. —*J^— II est encore dit à Josué 18 que la sort donna pour héritage aux fils de BENJAMIN parmi Ics quatorze villes et leur villages: JEBUS, de nos jours JERUSALEM avec ses trois points d'un triangle: GOLGHOTA, SION et BETHANIE. £? Et enfin il est écrit, aux Juges 20 et 21: « Aucun de nous ne donnera sa fille pour femme à un Benjamite... O Eternel, Dieu d'Israel, pourquoi est-il arrivé en Israel qu'il manque aujourd'hui une tribù d'Israèl »^ MK la grande énigme de l'Arcadie VIRGILE qui était dans le secret des dieux, lève le voile aux Bucoliques X-46/50: « Tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum). Alpinas, a, dura, nives et frigora Rheni me sine sola vides. A, te ne frigora laedant! A tibi ne teneras glacies secet aspera piantasi ».

« SIX PORTES ou le sceau de l'Etoile, voici les secrets des parchemins de l'Abbé SAUNIÈRE, Cure de Rennes-le-Chàteau er qu'avant lui le grand initié POUSSIN connaissait lorsqu'il réalisa son oeuvre à la demande du PAPE, l'inscription sur la tombe est la méme. »

'    -Lobineau, Dossiers secrets, planche no. 1,4(10-600.

3  Graves, Greek Myths, voi. 1, p. 203, n. 1.

4  Micheli, Sparta, p. 173. Gli Spartani adoravano Artemide e Afrodite come dee guerriere. La seconda è la forma spesso assunta da Ishtar e Astarte, e indica una probabile influenza semita.

5  2 Maccabei, 5:9.

« 1 Maccabei, 12:21.

7 II termine « semitico » fu coniato nel 1781 da Schlozer, uno studioso tedesco, per indicare un gruppo di lingue strettamente imparentate. Coloro che parlavano tali lingue finirono per essere chiamati « semiti ». La parola deriva da Shem (Sem), figlio di Noè. Se il monte in questione ospitava una colonia di Ebrei, avrebbe dovuto chiamarsi « Monte di Shem ». Ma c'è anche un'altra possibilità. La parola latina semita significa sentiero o via, e bisogna tener conto di questa alternativa.

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Parte terza

La stirpe

 

 

XI

II Santo Graal

Che cosa ci era sfuggito? O che cosa avevamo cercato nel posto sbagliato? C'era forse qualche frammento che avevamo sempre avuto sotto gli occhi e che, per una ragione o per l'altra, non avevamo notato? Per quanto potevamo accertare, non avevamo trascurato nessun dato storico riconosciuto. Ma poteva esserci qualcosa d'altro; qualcosa che sta al di là della storia documentata, dei fatti concreti ai quali ci eravamo sforzati di attenerci?

Indubbiamente c'era un motivo, per quanto favoloso, che aveva continuato a ricorrere nelle nostre ricerche, con insistente e scon­certante coerenza. Era il misterioso oggetto conosciuto come Santo Graal. Ad esempio, i loro contemporanei avevano creduto che i Catari fossero in possesso del Graal. Spesso anche i Templari venivano considerati i guardiani del Graal; i romanzi del Graal erano usciti inizialmente dalla corte del conte di Champagne, strettamente associato alla fondazione dell'Ordine del Tempio. Inoltre, quando i Templari erano stati soppressi, le strane teste che si diceva fossero oggetto della loro venerazione presentavano, secondo i verbali dell'Inquisizione, molti degli attributi tradizio­nalmente ascritti al Graal: ad esempio, il dono miracoloso di fornire nutrimento e di rendere fertile la terra.

Nella nostra indagine ci eravamo imbattuti nel Graal anche in numerosi altri contesti. Alcuni erano relativamente recenti, come i circoli occultisti di Joséphin Péladan e di Claude Debussy alla fine del secolo XIX. Altri erano molto più antichi. Goffredo di Buglio­ne, ad esempio, secondo la leggenda medievale e la tradizione popolare discendeva da Lohengrin, il Cavaliere del Cigno; e nei

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romanzi Lohengrin era il figlio di Perceval o Parzival, protagonista di tutte le più antiche vicende del Graal. Inoltre Guillem de Gellone, signore di un principato medievale nel sud della Francia durante il regno di Carlomagno, era protagonista di un'opera di Wolfram von Eschenbach, il maggiore dei cronisti del Graal. Anzi, nel poema di Wolfram, Guillem veniva associato alla miste­riosa « famiglia del Graal ».

Queste apparizioni del Graal nella nostra indagine erano del tutto casuali, pure e semplici coincidenze? Oppure c'era una conti­nuità che le collegava, una continuità che, in modo impensabile, legava la nostra indagine al Graal, qualunque cosa fosse in realtà? A questo punto, ci trovammo alle prese con un interrogativo inquietante. Il Graal poteva essere qualcosa di più di una fantasia? Poteva essere esistito veramente, in un senso o nell'altro? Poteva esserci stato davvero qualcosa chiamato Santo Graal? O almeno qualcosa di concreto di cui il Santo Graal era un simbolo?

Erano indubbiamente interrogativi provocatori e sconvolgenti, a dir poco. Nel contempo, minacciavano di condurci troppo lonta­no, nelle sfere di una speculazione spuria. Tuttavia, servirono a orientare la nostra attenzione sui romanzi del Graal. E a loro volta i romanzi del Graal proponevano un gran numero di enigmi scon­certanti e pertinenti.

Si ritiene in genere che il Santo Graal sia in qualche modo relato a Gesù. Secondo certe tradizioni, era il calice in cui Gesù e i suoi discepoli avevano bevuto durante l'Ultima Cena. Secondo altre, era la coppa in cui Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso. Secondo altre ancora, il Graal era l'uno e l'altro. Ma se era così strettamente legato a Gesù, e se davvero esisteva, perché, non se ne trovava la minima traccia per più di mille anni? Dov'era finito, in tutto quel tempo? Perché non figura­va nella letteratura, nel folklore o nella tradizione del periodo più antico? Perché un oggetto così importante per la cristianità era rimasto sepolto tanto a lungo?

E soprattutto, perché il Graal era riapparso proprio al culmine delle Crociate? Era una coincidenza, il,fatto che questo oggetto enigmatico, che per dieci secoli non era virtualmente esistito, avesse assunto tanta importanza proprio in quel tempo: quando il regno franco di Gerusalemme era all'apice della gloria, quando i

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Templari avevano raggiunto il massimo della loro potenza, quan­do l'eresia catara stava acquistando uno slancio tale da minacciare di sostituirsi al credo di Roma? Tutte queste circostanze converge­vano per puro caso? Oppure c'era qualche legame?

Sommersi e un po' ossessionati da questi interrogativi, dedicam­mo la nostra attenzione ai romanzi del Graal. Solo esaminando scrupolosamente quelle « fantasie » potevamo sperare di scoprire se ricorrevano nella nostra indagine solo per una coincidenza, o se era la manifestazione di un disegno: un disegno che in un modo o nell'altro poteva risultare significativo.

La leggenda del Santo Graal

In maggioranza, gli studiosi del XX secolo concordano nel ritene­re che i romanzi del Graal poggino, in ultima analisi, su fondamen­ta pagane: un rito connesso al ciclo delle stagioni, la morte e la rinascita dell'anno. Nelle sue origini più primordiali, questo rito sembrerebbe comportare un culto della vegetazione, strettamente relato nella forma a quelli medio-orientali di Tammuz, Atti, Ado­ne e Osiride, se non direttamente derivato da questi. Ad esempio, tanto nella mitologia irlandese quanto in quella gallese vi sono ripetuti richiami alla morte, alla rinascita e al rinnovamento e a un analogo processo rigenerativo della terra: sterilità e fertilità. Il tema ha un ruolo centrale nell'anonimo poema inglese del secolo XIV, Sir Gawain e il Cavaliere Verde. E nel Mabinogion, una compilazione di leggende gallesi approssimativamente contempo­ranee dei romanzi del Graal anche se attingono chiaramente a materiale assai anteriore, c'è un misterioso « calderone della rina­scita » : i guerrieri morti che vi vengono gettati al cader della notte l'indomani mattina risorgono. Il calderone è spesso associato a un eroe gigantesco, Bran. Bran possedeva anche un piatto straordi­nario e « qualunque cibo si desiderasse, subito lo si otteneva », una proprietà che talvolta viene attribuita al Graal. Inoltre, alla fine della sua esistenza, Bran fu decapitato, e la sua testa venne custodita a Londra come talismano. E là, si dice, svolgeva nume­rose funzioni magiche, e non soltanto assicurava la fertilità della terra, ma grazie a un potere occulto respingeva gli invasori. Molti di questi motivi furono incorporati in seguito nei romanzi

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del Graal. Senza alcun dubbio Bran, con il suo calderone e il suo piatto, diede un certo contributo alle concezioni più tarde del Graal. E la testa di Bran ha diversi attributi in comune non soltanto col Graal, ma anche con le teste che i Templari avrebbero adorato.

Le fondamenta pagane dei romanzi del Graal sono state esplo­rate in modo esauriente da molti studiosi, da Sir James Frazer nel Ramo d'oro fino ai giorni nostri. Ma nella seconda metà del secolo XII la base originariamente pagana dei romanzi del Graal subì una trasformazione curiosa e di straordinaria importanza. In un modo oscuro che finora ha eluso le indagini dei ricercatori, il Graal fu associato esclusivamente e specificatamente al cristianesimo, anzi a una forma di cristianesimo non molto ortodossa. Con un enigma­tico processo di fusione, il Graal venne collegato inestricabilmente a Gesù. E sembra che non si trattasse soltanto di un facile e disinvolto innesto di tradizioni pagane e cristiane.

Quale reliquia misticamente relata a Gesù, il Graal diede origi­ne a una quantità di romanzi, o lunghi poemi narrativi che ancora oggi accendono la fantasia. Nonostante la disapprovazione della Chiesa, questi romanzi fiorirono per quasi un secolo e diedero origine a un vero e proprio culto, un culto la cui durata fu parallela a quella dell'Ordine del Tempio dopo la separazione dal Priorato di Sion nel 1188. Con la caduta della Terrasanta nel 1291, lo scioglimento dei Templari tra il 1307 e il 1314, anche i romanzi del Graal sparirono dalla scena della storia, almeno per un paio di secoli. Poi, nel 1470, il tema venne ripreso da SirThomas Malory nel famoso La morte d'Arthur; e da allora ha sempre avuto un posto più o meno rilevante nella cultura occidentale. E il suo contesto non è interamente letterario. Sembra vi siano abbondanti prove documentali che certi gerarchi nazisti tedeschi credessero veramente nell'esistenza fisica del Graal; e durante la guerra vennero effettuati scavi per ritrovarlo, nella Francia meridionale.1

Al tempo di Malory, il misterioso oggetto chiamato Graal aveva assunto l'identità più o meno chiara che oggi gli viene attribuito. Si riteneva che fosse la coppa dell'Ultima Cena, nella quale Giusep­pe di Arimatea aveva poi raccolto il sangue di Gesù. Secondo certi testi, Giuseppe d'Arimatea portò il Graal in Inghilterra, e più precisamente a Glastonbury. Varie leggende che risalgono addi-

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rittura al IV secolo narrano che la Maddalena fuggì dalla Terra-santa e sbarcò presso Marsiglia, dove del resto sono tuttora vene­rate le sue presunte reliquie. Secondo le leggende medievali, la Maddalena portò con sé a Marsiglia il Santo Graal. Nel secolo XV questa tradizione aveva già assunto chiaramente un'importanza enorme per personaggi come Renato d'Angiò, che faceva colle­zione di « coppe Graal ».

Ma le leggende più antiche narrano che la Maddalena portò in Francia il Graal, non una coppa. In altre parole, l'associazione tra Graal e coppa fu uno sviluppo relativamente tardo. Malory la perpetuò, e da allora è diventata un luogo comune. Malory, però, si prese molte libertà nei confronti delle sue fonti originali. In queste fonti originali, il Graal è più di una coppa. E i suoi aspetti mistici sono di gran lunga più importanti di quelli cavaliereschi esaltati da Malory.

Secondo molti studiosi, il primo vero romanzo del Graal risale alla fine del XII secolo, intorno al 1188, l'anno cruciale che vide la caduta di Gerusalemme e la presunta rottura tra l'Ordine del Tempio e il Priorato di Sion. Il romanzo è intitolato Le roman de Perceval o Le conte del Graal, e fu composto da Chrétien de Troyes, che sembra avesse un ruolo imprecisato alla corte del conte di Champagne.

Della vita di Chrétien si sa pochissimo. Che avesse legami con la corte di Champagne appare evidente da numerose opere compo­ste prima del romanzo del Graal e dedicate a Maria, contessa di Champagne. Grazie a questi romanzi cavaliereschi - incluso uno che parla di Lancillotto ma non fa menzione di qualcosa che possa somigliare al Graal - verso il 1180 Chrétien si era guadagnato una grande fama. E date le sue opere precedenti, c'era da attendersi che continuasse sulla stessa vena. Invece, verso la fine della sua esistenza, Chrétien si occupò di un tema nuovo, fino a quel mo­mento trascurato; e il Santo Graal, così come è pervenuto fino a noi, fece la sua apparizione ufficiale nella cultura e nella coscienza dell'Occidente.

Il romanzo del Graal di Chrétien non fu dedicato a Maria di Champagne, bensì a Filippo d'Alsazia, conte delle Fiandre.2 All'i­nizio del poema, Chrétien dichiara che l'opera è stata composta su espressa richiesta del conte, e che lui stesso ha appreso per la

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prima volta la vicenda appunto da Filippo. L'opera costituisce il prototipo e il modello dei successivi romanzi del Graal. Il protago­nista è Perceval, che viene presentato come « il Figlio della Vedo­va ». Questo appellativo è significativo ed enigmatico. Era stato usato a lungo da certe eresie dualiste e gnostiche, talora per indicare i profeti delle eresie stesse, talora per indicare Gesù. In seguito divenne una designazione usata nella massoneria.

Perceval lascia la madre vedova per conquistarsi il rango di cavaliere. Nei suoi viaggi, incontra un enigmatico pescatore - il famoso « Re Pescatore » - che gli offre rifugio per la notte nel suo castello. Quella sera appare il Graal. Né in questo punto né in altri passi del poema il Graal è collegato a Gesù. Anzi, sul suo conto viene detto pochissimo. Ma, qualunque cosa sia, è portato da una damigella, è d'oro e tempestato di gemme. Perceval non sa che deve fare una domanda su questo misterioso oggetto: dovreb­be chiedere « chi si serve con esso ». È una domanda ovviamente ambigua. Se il Graal è una coppa o un piatto, potrebbe significare « chi deve mangiarvi? ». Alternativamente, la domanda potrebbe venire formulata così: « Chi si serve (in un senso cavalieresco) servendo il Graal? ». Qualunque sia il significato della domanda, Perceval non la fa; e l'indomani mattina, al suo risveglio, scopre che il castello è vuoto. La sua omissione, come apprende in seguito, causa nel territorio una disastrosa sterilità. Più tardi, viene a sapere che lui stesso appartiene alla « famiglia del Graal » e che il misterioso « Re Pescatore », « sostentato » dal Graal, è suo zio. A questo punto, Perceval fa una bizzarra confessione. Dopo la sua infelice esperienza con il Graal, dichiara, ha smesso di credere in Dio e di amarlo.

Il poema di Chrétien è ancora più sconcertante perché incom­piuto. Chrétien morì intorno al 1188, probabilmente prima di poter ultimare l'opera; e anche se la completò, non ne è rimasta neppure una copia. Se mai esistette, può darsi che venisse distrutta a Troyes da un incendio nel 1188. È inutile cercare di approfondi­re, ma alcuni studiosi giudicano molto sospetto questo incendio, che coincise con la morte del poeta.

Comunque, il poema contenente la versione della vicenda del Graal data da Chrétien è meno importante del suo ruolo di precur­sore. Durante il cinquantennio successivo, il tema per la prima

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volta introdotto alla corte di Troyes si diffuse rapidamente nel­l'Europa occidentale. Tuttavia, gli esperti moderni ritengono che i successivi romanzi del Graal non derivano interamente da Chré-tien, ma attingono almeno a un'altra fonte: una fonte con ogni probabilità preesistente. E durante questa proliferazione, la storia del Graal venne collegata molto più strettamente a re Artù, che nella versione di Chrétien era un personaggio marginale. Inoltre, venne collegata con Gesù.

Tra i numerosi romanzi del Graal successivi a quello di Chré­tien, tre risultarono particolarmente interessanti. Uno, il Roman de l'estoire dou Saint Graal, fu composto tra il 1190 e il 1199 da Robert de Boron. A ragione o a torto, spesso si afferma che fu Robert a fare del Graal un simbolo specificatamente cristiano. Robert dichiara di attingere a una fonte precedente, diversa da Chrétien. Parlando del proprio poema, e soprattutto del suo carat­tere cristiano, allude a un « gran libro », i cui segreti gli sono stati rivelati.1

Non si sa quindi con certezza se fu Robert a cristianizzare il Graal, o se fu qualcun altro prima di lui. Quasi tutti gli esperti, oggi, propendono per la seconda possibilità. Tuttavia, senza dub­bio il poema di Robert de Boron è il primo che narra una storia del Graal. Il Graal, egli spiega, era la coppa dell'Ultima Cena, passata a Giuseppe d'Arimatea, il quale, quando Gesù fu deposto dalla croce, la riempì con il sangue del Salvatore: ed è questo sangue sacro a conferire al Graal poteri magici. Dopo la Crocifissione, continua Robert, la famiglia di Giuseppe divenne custode del Graal. E per Robert i romanzi del Graal riguardano le avventure e le vicissitudini di questa famiglia. Galahad viene presentato come il figlio di Giuseppe d'Arimatea. E il Graal passa al cognato di Giuseppe, Brons, il quale lo porta in Inghilterra e diviene il Re Pescatore. Come nel poema di Chrétien, Perceval è il « Figlio' della Vedova », ma il Re Pescatore è suo nonno.

La versione di Robert, quindi, si distacca da quella di Chrétien in molti dettagli importanti. In entrambe Perceval è « Figlio della Vedova », ma in quella di Robert il Re Pescatore è suo nonno e non suo zio, e quindi Perceval è relato ancora più direttamente alla famiglia del Graal. E mentre la narrazione di Chrétien ha una cronologia molto vaga ed è ambientata nell'epoca arturiana,

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quella di Robert è molto precisa. Per lui, la vicenda del Graal si svolge in Inghilterra, e non all'epoca di Artù bensì a quella di Giuseppe d'Arimatea.

C'è un altro romanzo del Graal che ha molto in comune con quello di Robert. Si direbbe anzi che attinga alle stesse fonti, ma le utilizza in modo molto diverso e decisamente più interessante. Il romanzo è conosciuto come il Perlesvaus. Fu scritto nello stesso periodo del poema di Robert, tra il 1190 e il 1212, da un autore che, contrariamente alle consuetudini del tempo, preferì restare anonimo. È strano che lo facesse, data la grande considerazione in cui erano tenuti i poeti: a meno che facesse parte di un'organizza­zione come un ordine monastico o cavalieresco, ad esempio, il che avrebbe fatto apparire inopportuna o poco decorosa la composi­zione di opere del genere. Infatti, l'evidenza testuale induce a ritenere che fosse appunto così. Secondo un esperto moderno, il Perlesvaus potrebbe essere stato scritto da un Templare.4 Non mancano certamente indizi a sostegno di questa congettura. È noto, ad esempio, che i Cavalieri Teutonici incoraggiavano i poeti anonimi appartenenti ai loro ranghi, ed è possibile che questo precedente fosse stato istituito dai Templari. Inoltre, nel poema l'autore del Perlesvaus da prova di una conoscenza straordinaria­mente particolareggiata delle realtà del combattimento: armature ed equipaggiamento, strategia e tattica, le armi e i loro effetti. La descrizione delle ferite, ad esempio, sembra attestare un'esperien­za diretta acquisita sui campi di battaglia, un'esperienza realistica e non idealizzata che non si riscontra in nessun altro romanzo del Graal.

Anche se il Perlesvaus non fu scritto da un Templare, offre tuttavia una solida base per collegare i Templari al Graal. Sebbene l'Ordine non sia menzionato per nome, sembra figurare inequivo­cabilmente nel poema. Durante i suoi vagabondaggi, Perceval giunge a un castello. Il castello non custodisce il Graal, ma ospita un gruppo di « iniziati » che hanno un'evidente familiarità con lo stesso Graal. Perceval viene ricevuto da due « maestri »; questi battono le mani e subito sopraggiungono altri trentatrè uomini. « Erano abbigliati di bianco, e ognuno di loro aveva una croce rossa sul petto, e sembravano aver tutti la stessa età. »5 Uno dei misteriosi « maestri » afferma di aver veduto personalmente il

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Graal: un'esperienza concessa solo a pochi eletti. Inoltre, dichiara di conoscere il lignaggio di Perceval.

Come i poemi di Chrétien e di Robert, il Perlesvaus attribuisce un'importanza enorme al lignaggio. Spesso, quello di Perceval è detto « santissimo ». Altrove, si afferma esplicitamente che Per­ceval» era del lignaggio di Giuseppe d'Arimatea »,eche« questo Giuseppe era zio della madre di Perceval, ed era stato per sette anni soldato di Pilato ».6

La vicenda del Perlesvaus, tuttavia, non è ambientata durante la vita di Giuseppe. Al contrario, come nella versione di Chrétien, si svolge al tempo di Artù. La cronologia viene ancora più complica­ta dal fatto che la Terrasanta è già caduta nelle mani degli « infede­li », mentre questo avvenne quasi due secoli dopo Artù; e dal fatto che la Terrasanta viene apparentemente a essere identificata con Camelot.

Assai più dei poemi di Chrétien e di Robert, il Perlesvaus ha carattere magico. Oltre a conoscere molto bene i campi di batta­glia, l'anonimo autore dimostra una conoscenza, molto sorpren­dente per quei tempi, dell'evocazione e dell'invocazione. Inoltre, vi sono numerosi riferimenti alchemici: ad esempio, si parla di due uomini « fatti di rame mediante l'arte della necromanzia ».7 E alcuni di questi riferimenti magici e alchemici echeggiano il miste­ro che circonda i Templari. Uno dei « maestri » del gruppo bian­covestito dice a Perceval: « Vi sono le teste suggellate in argento, e le teste suggellate in piombo, e i corpi cui appartennero tali teste; io ti dico che devi far giungere colà la testa del Re e della Regina ».8

Se abbonda di allusioni magiche, il Perlesvaus abbonda anche di altre allusioni, eretiche e pagane. Anche qui, Perceval è designato con l'appellativo dualista « Figlio della Vedova ». Ci sono riferi­menti a un rito del sacrificio del re, che stride in un poema dichiaratamente cristiano. Ci sono riferimenti alla pratica di arro­stire e divorare i bambini... un delitto che la fantasia popolare imputava ai Templari. E a un certo punto c'è un rito singolare, che evoca di nuovo il ricordo dei processi contro i Templari. Davanti a una croce rossa eretta in una foresta, un bellissimo animale candi­do, di specie imprecisata, viene sbranato dai segugi. Mentre Per­ceval sta a guardare, sopraggiungono un cavaliere e una damigella

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che recano recipienti d'oro; raccolgono i brani di carne, baciano la croce e si dileguano tra gli alberi. Perceval s'inginocchia davanti alla croce e la bacia:

e gli giunse un olezzo tanto soave della croce e del luogo, che nessuna dolcezza può esserle paragonata. Egli guardò e vide arrivare dalla foresta due sacerdoti a piedi; e il primo gli gridò: « Ser Cavaliere, allontanati dalla croce, poiché non hai diritto alcuno di appressarti ». Perceval si ritrasse, e il sacerdote si inginocchiò davanti alla croce e l'adorò e si prosternò e la baciò più di venti volte, e manifestò la più gran gioia del mondo. Quindi sopraggiunse l'altro sacerdote che portava una gran verga, e scostò con la forza il primo sacerdote, e percosse la croce con la verga in ogni parte, e pianse con grande angoscia.

Perceval lo contemplò con immenso stupore e gli disse: « Signore, invero tu non sembri un sacerdote! Perché compì un atto tanto vergogno­so? ». « Signore », disse il sacerdote,» ciò che noi facciamo non ti concer­ne, e da noi non ne saprai nulla! » Se non fosse stato un sacerdote, Perceval si sarebbe grandemente incollerito con lui, ma non voleva fargli male alcuno.9

Questo dispregio per la croce richiama echi precisi delle accuse rivolte ai Templari. Ma non soltanto ai Templari. Potrebbe rispec­chiare anche una varietà del pensiero dualista o gnostico: ad esempio il pensiero dei Catari, che ripudiavano anch'essi la croce.

Nel Perlesvaus questo tipo di pensiero dualista o gnostico si estende in un certo senso allo stesso Graal. Per Chrétien, il Graal era qualcosa d'imprecisato, fatto d'oro e incrostato di gemme. Per Robert de Boron, si identificava con la coppa usata nell'Ultima Cena e successivamente per raccogliere il sangue di Gesù. Nel Perlesvaus, invece, il Graal assume una dimensione molto strana e significativa. A un certo punto, Sir Gawain (Galvano) viene am­monito da un sacerdote « perché non è lecito scoprire i segreti del Salvatore, e coloro ai quali sono affidati devono tenerli nascosti ».10 Quindi il Graal comporta un segreto legato in qualche modo a Gesù; e tale segreto è affidato a un gruppo di eletti.

Quando alla fine Gawain vede il Graal, « gli parve di scorgere al centro del Graal la figura di un bimbo... levò gli occhi e gli parve che il Graal fosse tutto di carne, e vide, pensò, un Re incoronato, inchiodato a una croce »." E più avanti, il Graal

apparve alla consacrazione della messa, in cinque maniere diverse che nessuno dovrebbe rivelare, poiché i segreti dal sacramento nessuno deve

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dirli apertamente, eccettuato colui al quale Dio lo ha affidato. Re Artù vide tutti i mutamenti, e l'ultimo fu la trasformazione in un calice.12

Insomma, nel Perlesvaus il Graal è una sequenza mutevole d'immagini o dì visioni. La prima è un re coronato e crocifisso. La seconda è un bimbo. La terza è un uomo che porta una corona di spine, e sanguina dalla fronte, dai piedi, dalle palme delle mani e dal costato.n La quarta manifestazione non è specificata. La quin­ta è un calice. Ogni volta, la manifestazione è accompagnata da una fragranza celestiale e da una grande luce.

A giudicare da questa descrizione contenuta nel Perlesvaus, sembrerebbe che il Graal sia contemporaneamente parecchie co­se, oppure qualcosa che può essere interpretato su parecchi livelli diversi. Su quello terreno, potrebbe essere in effetti un oggetto, come una coppa, una ciotola o un calice. In senso metaforico sembra essere un lignaggio, o forse gli individui che formano tale lignaggio. Inoltre, evidentemente, il Graal è anche un'esperienza, con ogni probabilità un'illuminazione gnostica, come quella esal­tata dai Catari e da altre sette dualiste di quei tempi.

La storia di Wolfram von Eschenbach

Tra tutti i romanzi del Graal il più famoso, e il più ricco di valori artistici, è Parzival, composto tra il 1195 e 1216. L'autore è Wolfram von Eschenbach, un cavaliere d'origine bavarese. In un primo momento, noi pensammo che questo creasse una notevole distanza tra l'autore e il tema, e rendesse il suo racconto meno attendibile di altri. Ben presto, però, ci convincemmo che se c'era qualcuno che poteva parlare del Graal con autorevolezza, era appunto Wolfram.

All'inizio del Parzival, Wolfram afferma con grande sicurezza che la versione della storia del Graal data da Chrétien è errata, mentre la sua è fedele perché basata su informazioni privilegiate. Tali informazioni, come spiega più avanti, le ha avute da un certo Kyot de Provence: il quale a sua volta le avrebbe ricevute da un certo Flegetanis. Val la pena di citare integralmente le parole di Wolfram:

Chiunque mi chiedeva del Graal, in passato, e mi rimproverava perché

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non glielo dicevo, aveva torto. Kyot mi ingiunse di non rivelarlo, perché Avventura gli aveva comandato di non darsene pensiero finché ella stessa, Avventura, non invitasse a parlarne, e allora se ne doveva parlare.

Kyot, il famoso maestro, trovò a Toledo, dimenticata e redatta in scrittura pagana, la prima fonte di questa avventura. Per prima cosa egli dovette imparare Tabe, ma senza l'arte della magia nera...

Un pagano, Flegetanis, aveva conseguito grande rinomanza per il suo sapere. Questo studioso della natura discendeva da Salomone ed era nato da una famiglia che era stata per lungo tempo israelita prima che il battesimo divenisse il nostro scudo contro il fuoco dell'Inferno. Egli scrisse l'avventura del Graal. Per parte di padre, Flegetanis era pagano, e adorava un vitello...

Il pagano Flegetanis sapeva dirci come tutte le stelle tramontano e quindi sorgono di nuovo... Al corso circolare delle stelle sono legati il destino e le vicende dell'uomo. Flegetanis il pagano vide con 1 suoi occhi, nelle costellazioni, cose di cui preferiva non parlare, misteri arcani. Dice­va che vi era una cosa chiamata Graal, il cui nome aveva letto chiaramente nelle costellazioni. Una schiera d'angeli l'aveva lasciato sulla terra.

Da quel tempo, uomini battezzati hanno avuto il compito di custodirlo, e con tale casta disciplina che quanti sono chiamati al servizio del Graal sono sempre nobili. Così scriveva Flegetanis di queste cose.

Kyot, il sapiente maestro, si accinse a ricercare nei libri latini, per scoprire se mai vi era stato un popolo votato alla purezza e degno di custodire il Graal. Lesse le cronache di molte terre, in Britannia e altrove, in Francia e in Manda, e in Angiò egli trovò la storia. Là lesse la vera storia di Mazadan, e là era scritta la cronaca di tutta la sua famiglia.M

Tra le molte cose che in questo brano richiedono un commento, è importante notarne almeno quattro. Innanzitutto, la storia del Graal riguarda apparentemente la famiglia di un personaggio chiamato Mazadan. In secondo luogo, la casa d'Angiò ha, in qualche modo, un'importanza suprema. In terzo luogo, la versio­ne originale della vicenda sembrerebbe giunta in Europa occiden­tale attraverso i Pirenei, dalla Spagna musulmana: un'affermazio­ne del tutto plausibile, poiché Toledo era un rinomato centro di studi esoterici, tanto musulmani quanto giudaici. Ma il fattore più sorprendente dell'intero brano è che la storia del Graal, secondo la derivazione esposta da Wolfram, sembrerebbe in ultima analisi d'origine ebraica. Se il Graal è un mistero cristiano tanto grande, perché il suo segreto doveva venire trasmesso da iniziati giudaici? E del resto, perché mai scrittori giudaici dovevano avere accesso a materiale specificamente cristiano di cui la cristianità ignorava l'esistenza?

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Gli studiosi hanno dedicato molto tempo e molte energie per discutere se Kyot e Flegetanis sono personaggi veri o fittizi. In effetti, come avevamo appreso studiando i Templari, l'identità di Kyot può essere accertata con discreta sicurezza. Kyot de Proven-ce sembra essere Guiot de Provins, un trovatore, monaco e porta­voce dei Templari, che visse in Provenza e scrisse poesie d'amore, attacchi contro la Chiesa, peani in lode del Tempio e versi satirici. Si sa che nel 1184 Guiot si recò a Mayence, in Germania, in occasione della festività cavalieresca di Pentecoste, quando il Sacro romano imperatore Federico Barbarossa conferì l'investitu­ra ai suoi figli. Ovviamente, alla cerimonia assistettero poeti e trovatori giunti da ogni parte della cristianità. Poiché era cavaliere del Sacro romano impero, quasi sicuramente era presente anche Wolfram; e senza dubbio è ragionevole supporre che si incontras­se con Guiot. A quel tempo i dotti non erano molto numerosi, e inevitabilmente facevano gruppo, si cercavano e si frequentavano; ed è possibile che Guiot scoprisse di avere un'affinità spirituale con Wolfram, al quale forse confidò certe rivelazioni, sia pure in forma soltanto simbolica. E se l'esistenza di Guiot conferisce autenticità a Kyot, è almeno plausibile ritenere che anche Flegeta­nis fosse veramente esistito. In caso contrario, Wolfram e Guiot dovevano avere una speciale ragione per inventarlo, e per attri­buirgli i precedenti e la discendenza che gli sono attribuiti.

Oltre alla storia del Graal, è possibile che Wolfram prendesse da Guiot anche un vivissimo interesse per i Templari. Si sa comun­que che Wolfram questo interesse l'aveva davvero. Come Guiot, compì un pellegrinaggio in Terrasanta, dove potè vedere i Tem­plari in azione. E nel Parzival sottolinea che i guardiani del Graal e della famiglia del Graal sono Templari. Naturalmente, potrebbe trattarsi di un'inesattezza cronologica e dello sfacciato anacroni­smo della licenza poetica, come se ne trovano in alcuni altri romanzi del Graal. Ma in queste cose Wolfram è molto più scrupo­loso di altri scrittori del suo tempo. Inoltre, nel Perlesvaus s'incon­trano chiare allusioni al Tempio. È possibile che Wolfram e l'auto­re anonimo del Perlesvaus si siano macchiati dello stesso clamoro­so anacronismo? Certo, è possibile. Ma è anche possibile che questi ostentati collegamenti fra i Templari e il Graal sottintenda­no qualcosa. E se i Templari sono davvero i guardiani del Graal,

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c'è una chiara implicazione; il Graal esisteva non soltanto nel periodo arturiano, ma anche durante le Crociate, quando furono stesi i romanzi che ne parlano. Introducendo i Templari, Wolfram e l'autore del Perlesvaus intendono forse indicare che il Graal non era semplicemente qualcosa che apparteneva al passato, ma aveva per loro un'importanza grandissima nel contesto contemporaneo.

Lo sfondo del poema di Wolfram è perciò importante, in qual­che modo poco chiaro, quanto il testo stesso. Il ruolo dei Templa­ri, come l'identità di Kyot e di Flegetanis, sembrerebbe fonda­mentale; e forse questi fattori sono la chiave del mistero che circonda il Graal. Purtroppo, il testo del Parzivàl contribuisce ben poco a rispondere a questi interrogativi, e ne pone per contro molti altri.

Innanzitutto, Wolfram non si limita ad affermare che la sua versione della vicenda del Graal è fedele alla verità, a differenza di quella di Chrétien. Egli sostiene che il racconto di Chrétien è solo una favola fantastica, mentre il suo è in pratica una sorta di « documento iniziatico ». In altre parole, come dichiara aperta­mente Wolfram, nel mistero del Graal c'è ben più di ciò che appare a prima vista. E precisa, con numerosi riferimenti sparsi nel poema, che il Graal non è un oggetto fantastico, bensì un mezzo per nascondere qualcosa d'immensamente importante. Più volte, Wolfram consiglia al suo pubblico di leggere tra le righe, e lascia cadere qua e là accenni allusivi. Nel contempo, insiste sulla necessità della segretezza. « Perché nessun uomo può mai conqui­stare il Graal se non è conosciuto in cielp, e chiamato per nome al Graal. »I5E« il Graal è sconosciuto a tutti, esclusi coloro che sono stati chiamati per nome... a far parte della schiera del Graal ».16

Wolfram è nel contempo preciso e sfuggente, quando deve identificare il Graal. Quando appare per la prima volta, durante il soggiorno di Parzivàl al castello del Re Pescatore, non viene indicato che cosa sia. Sembrerebbe avere tuttavia qualcosa in comune con la vaga descrizione fattane da Chrétien:

Ella [la Regina della famiglia del Graal] indossava una veste di seta araba. Sopra un achmardi verdescuro portava la Perfezione del Paradiso, radice e ramo. Questa era una cosa chiamata Graal, che supera ogni perfezione terrena. Repanse de Schoye era il nome di colei alla quale il Graal concedeva d'essere la sua portatrice. Tale era la natura del Graal che colei che lo custodiva doveva serbare la purezza e ripudiare ogni falsità.17

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Tra l'altro, a questo punto il Graal appare come una storia di magica cornucopia o corno dell'abbondanza:

Cento Cavalieri, avendone ricevuto l'ordine, con reverenza presero il pane in salviette bianche davanti al Graal, arretrarono in gruppo e, separandosi, distribuirono il pane a tutte le tavole. Mi fu detto, e lo riferisco a voi, ma sulla vostra parola e non sulla mia - quindi, se io v'inganno, siamo tutti mentitori - che se qualcuno tendeva la mano per ottenere qualunque cosa, la trovava pronta, davanti al Graal, vivande calde o vivande fredde, piatti nuovi o vecchi, carne di animali domestici o cacciagione. « Non vi fu mai una cosa simile », diranno molti. Ma sbaglie-rebbero se protestassero irosamente, perché il Graal era il frutto della beatitudine, una tale abbondanza delle dolcezze del mondo che le sue delizie erano pari a quelle che ci vengon descritte del regno dei cieli.l8

Tutto ciò è a modo suo piuttosto terreno o addirittura pedestre, e il Graal sembrerebbe piuttosto innocuo. Ma più tardi, quando lo zio eremita di Parzival ne parla, ecco che il Graal diviene decisa­mente più potente. Dopo una lunga disquisizione che contiene concezioni clamorosamente gnostiche, l'eremita così descrive il Graal:

Io so bene che molti valenti cavalieri dimorano con il Graal a Munsalvae-sche. Quando ne escono a cavallo, come spesso avviene, vanno sempre in cerca di avventure. Lo fanno per i loro peccati, questi templari, sia vittoria o sconfitta la loro ricompensa. Là vive una schiera di valorosi, ed io ti dirò come si sostentano. Essi vivono grazie a una pietra della specie più pura. Se tu non la conosci, ora te la nominerò. È chiamata lapsit exillis. Grazie al potere di quella pietra, la fenice arde e si riduce in cenere, ma la cenere le ridona vita. Così la fenice muta e cambia il piumaggio, che dopo è fulgido e splendente e bellissimo come prima. Non vi fu mai un umano tanto gravemente malato che, se un giorno vede la pietra, possa morire entro la settimana che segue. E il suo aspetto non diverrà smunto. Il suo aspetto rimarrà lo stesso, sia una fanciulla o un uomo, come nel giorno in cui vide la pietra, come quando incominciarono gli anni migliori della sua vita, e se vedesse la pietra per duecento anni, il suo aspetto non cambierà mai, eccetto che forse i suoi capelli diverranno grigi. Tale forza la pietra conferisce a un uomo che la carne e le ossa subito ridivengono giovani. La pietra è chiamata anche Graal.19

Secondo Wolfram, quindi, il Graal è una pietra. Ma è una definizione più provocatoria che soddisfacente. Gli studiosi hanno proposto numerose interpretazioni per la frase « lapsit exillis », tutte più o meno plausibili. « Lapsit exillis » potrebbe essere una forma corrotta di « lapis ex caelis », « pietra venuta dai cieli ».

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Potrebbe anche essere una corruzione di « lapsit ex caelis », « cadde dai cieli », oppure di « lapis lapsus ex caelis », « una pietra caduta dai cieli », o infine « lapis elixir », la favolosa Pietra Filosofale degli alchimisti.20 Certamente il brano citato, come del resto l'intero poema di Wolfram, è impregnato di simbolismo alchemico. La fenice, ad esempio, è il simbolo alchemico della resurrezione o della rinascita; e inoltre, nell'iconografia medieva­le, è un emblema di Gesù morto e risorto.

Se la fenice rappresenta davvero Gesù, Wolfram la associa implicitamente alla pietra. Naturalmente, non si tratta di un'asso­ciazione unica nel suo genere. C'è Pietro (Pierre o « pietra » in francese), la « pietra » su cui Gesù fonda la sua chiesa. E come avevamo scoperto, nel Nuovo Testamento Gesù si paragona alla « pietra angolare scartata dai costruttori », la pietra del Tempio, la Pietra di Sion. Poiché era « fondata » su questa pietra, c'era una tradizione regale discesa da Goffredo di Buglione ed eguale alle dinastie regnanti d'Europa.

Nel passo che segue immediatamente quello citato, Wolfram collega specificatamente il Graal alla Crocifissione e, tramite il simbolo della colomba, alla Maddalena:

In questo giorno, giunge a esso [il Graal] un messaggio che racchiude il suo potere più grande. Oggi è Venerdì Santo, e là essi attendono una colomba che discende dal cielo. Essa porta una piccola ostia candida, e la posa sulla pietra. Quindi, candida e fulgida, la colomba riascende al Cielo. Sempre, il Venerdì Santo, essa porta alla pietra ciò che ti ho appena detto, e da ciò la pietra trae tutte le buone fragranze delle bevande e dei cibi che vi sono sulla terra, simili alla perfezione del Paradiso. Intendo tutte le cose che la terra può produrre. Inoltre la pietra fornisce ogni selvaggina che vive sotto il cielo, sia che voli o corra o nuoti. In tal modo il potere del Graal da sostentamento alla confraternita dei cavalieri.21

Oltre a questi altri attributi straordinari, nel poema di Wolfram, il Graal sembrerebbe quasi possedere un certa capacità senziente. Può chiamare gli individui al proprio servizio... e chiamarli in senso attivo:

Ascolta ora come vengono resi noti coloro che sono chiamati al Graal. Sulla pietra, intorno all'orlo, appaiono lettere che indicano il nome e il lignaggio di ognuno, fanciulla o fanciullo, che deve intraprendere questo viaggio benedetto. Né è necessario cancellare le iscrizioni, poiché quando egli ha letto il nome, questo svanisce davanti ai suoi occhi. Tutti coloro che

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ora sono giunti alla maturità vi andarono bambini. Beata la madre che ha partorito un figlio destinato a prestare servizio colà. Poveri e ricchi si rallegrano egualmente se il loro figlio è chiamato a unirsi alla schiera. Vi vengono condotti da molte terre. Sono protetti dalla vergogna del peccato più di tutti gli altri, e ricevono buona ricompensa in cielo. Quando per loro la vita muore qui, là essi ricevono la perfezione.22

Se i guardiani del Graal sono i Templari, i suoi custodi nel vero senso della parola sembrano essere i componenti di una certa famiglia. Questa, pare, ha numerosi rami collaterali, alcuni dei quali ignorano la propria identità, e che sono sparsi in tutto il mondo. Altri membri della famiglia, invece, abitano nel castello del Graal a Munsalvaesche, ovviamente connesso al leggendario castello cataro di Montsalvat, e identificato da almeno un autore con Montségur.23 A Munsalvaesche dimora un certo numero di personaggi enigmatici. C'è la custode e portatrice del Graal, Re-panse de Schoye (« Réponse de Choix » o « Risposta della Scelta »). E naturalmente c'è Anfortas, il Re Pescatore, signore del castello del Graal, che è ferito ai genitali e non può procreare o, alternativamente, morire. Come nel romanzo di Chrétien, an­che per Wolfram Anfortas è lo zio di Parzival. E quando, alla conclusione del poema, la maledizione ha fine e Anfortas può finalmente morire, Parzival diviene l'erede del castello del Graal.

Il Graal, o la famiglia del Graal, chiama al suo servizio certi individui appartenenti al mondo esterno, che devono essere inizia­ti a una sorta di mistero. Nel contempo, invia nel mondo i suoi servitori a compiere varie imprese: e talvolta a occupare un trono. Infatti il Graal possiede, a quanto pare, il potere di creare i re:

Vengono prescelte certe fanciulle per servire il Graal... Questo fu il volere di Dio, e le vergini compivano il loro servizio dinanzi a esso. II Graal sceglie soltanto nobili. Cavalieri buoni e devoti sono prescelti come suoi guardiani. L'avvento delle alte stelle arreca grande dolore a costoro, ai giovani come ai vecchi. La collera di Dio contro di loro è durata troppo a lungo. Quando diranno sì alla gioia?... E ti dirò altro, che tu puoi ben credere vero. Spesso essi hanno una doppia sorte; danno e ricevono profitto. Colà accolgono bimbi di nobile lignaggio e di grande bellezza. E se in qualche luogo una terra perde il suo signore, e se il suo popolo riconosce la Mano di Dio e cerca un nuovo signore, gliene viene concesso uno della schiera del Graal. Essi devono trattarlo con cortesia, poiché lo protegge la benedizione di Dio.24

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Questo passo induce a supporre che, in passato, la famiglia del Graal sia incorsa nella collera di Dio. L'allusione « la collera di Dio contro di loro » riecheggia innumerevoli affermazioni medie­vali relative agli Ebrei. E riecheggia anche il titolo di un libro misterioso associato a Nicolas Flamel, // libro sacro di Abraham l'Ebreo, principe, sacerdote, levita, astrologo e filosofo di quella tribù ebrea che dalla Collera di Dio fu dispersa tra i Galli. E Flegetanis, che secondo Wolfram scrìsse la prima storia del Graal, sarebbe disceso da Salomone. Possibile che la famiglia del Graal fosse d'origine ebraica?

Qualunque fosse la maledizione che pesava un tempo sulla famiglia del Graal, questa, al tempo di Parzival, gode indiscutibil­mente del favore divino: e anche di un grande potere. Tuttavia è rigorosamente tenuta, almeno sotto certi aspetti, a mantenere segreta la propria identità.

Gli uomini [della famiglia del Graal] Dio li invia segretamente; le fanciulle vanno apertamente... Così le fanciulle vengono inviate apertamente dal Graal, e gli uomini in segreto, affinchè possano avere figli che a loro volta entreranno un giorno al servizio del Graal e, servendolo, ne illustreranno la schiera. Dio può loro insegnare come riuscirvi.25

Le donne della famiglia del Graal, dunque, quando sposano qualcuno appartenente al mondo esterno possono rivelare la loro identità e il loro lignaggio. Gli uomini, invece, devono tenerli scrupolosamente nascosti, al punto che non possono permettere domande circa le loro origini. A quanto pare, è una questione d'importanza cruciale, perché Wolfram torna a insistervi con enfa­si proprio alla conclusione del poema.

Sul Graal si trovò ora scritto che ogni templare posto dalla mano di Dio a signoreggiare popoli stranieri doveva vietare che gli si chiedesse il suo nome e la sua razza, e doveva aiutarli nel sostenere i loro diritti. Se la domanda gli veniva rivolta, essiìion avrebbero più avuto il suo aiuto.26

Da questo, naturalmente, nasce il dilemma di Lohengrin, figlio di Parzival che, quando viene interrogato sulla sua origine, deve abbandonare la moglie e i figli e ritornare nell'isolamento dal quale è uscito. Ma perché era necessaria una segretezza tanto rigorosa? Quale « scheletro nell'armadio », per così dire, poteva imporla? Se la famiglia del Graal era effettivamente d'origine ebraica, questo poteva costituire una spiegazione, al tempo in cui

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scriveva Wolfram. E la spiegazione trae una certa credibilità dalla vicenda di Lohengrin. Vi sono infatti molte varianti della storia di Lohengrin, e non sempre questi è identificato con lo stesso nome. In alcune versioni è chiamato Elie o Eli,27 un nome inequivocabil­mente ebraico.

Nel romanzo di Robert de Boron e nel Perlesvaus, Perceval è di discendenza ebraica, del « sacro lignaggio » di Giuseppe d'Arima-tea. Nel poema di Wolfram questo lignaggio, per quanto riguarda Parzival, sembra essere incidentale. È vero che Parzival è nipote del sofferente Re Pescatore e quindi è imparentato con la famiglia del Graal. E sebbene non sposi una dama della famiglia - anzi, è già sposato - eredita comunque il castello del Graal e ne diviene il nuovo signore. Ma per Wolfram il lignaggio del protagonista sembra essere meno importante del modo in cui egli dimostra di esserne degno. Insomma, Parzival deve adeguarsi a certi criteri imposti dal sangue che gli scorre nelle vene. E questo indica chiaramente l'importanza attribuita da Wolfram a quel sangue.

Non c'è dubbio che Wolfram ascriva un significato enorme a una particolare stirpe. Se c'è un tema dominante che pervade non soltanto il Parzival ma anche le altre sue opere, non è tanto il Graal quanto la famiglia del Graal. In effetti, la famiglia del Graal sembra dominare la mente di Wolfram in modo quasi ossessivo; e il poeta dedica ai suoi componenti e alla loro genealogia un'atten­zione assai più grande che al misterioso oggetto del quale sono i custodi.

La genealogia della famiglia del Graal può essere ricostruita da un'attenta lettura del Parzival. Lo stesso Parzival è nipote di Anfortas, il Re Pescatore menomato, signore del castello del Graal. Anfortas è figlio di un certo Frimutel, e Frimutel è figlio di Titurel. A questo punto, la genealogia diventa più aggrovigliata. Alla fine, comunque, risale a un certo Laziliez, che potrebbe essere una derivazione di Lazzaro, fratello di Maria e di Marta nel Nuovo Testamento. E i genitori di Laziliez, i capostipiti della famiglia del Graal, si chiamano Mazadan e Terdelaschoye. Que­st'ultimo è chiaramente una versione germanizzata di una frase francese, « Terra de la Choix », « Terra della scelta » o « Terra Prescelta ». Mazadan è più oscuro. Potrebbe forse derivare dal zoroastriano Ahura Mazda, il principio dualista della Luce. Nel

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contempo, benché solo foneticamente, ricorda Masada, uno dei principali bastioni della rivolta degli Ebrei contro l'occupazione romana nel 68 d.C.

I nomi che Wolfram assegna ai membri della famiglia del Graal, quindi, sono spesso indicativi. Allo stesso tempo, però, non ci dicono nulla che abbia un'utilità storica. Se speravamo di trovare un autentico prototipo storico per la famiglia del Graal, dovevamo cercarlo altrove. Gli indizi erano piuttosto scarsi. Sapevamo, ad esempio, che la famiglia del Graal sarebbe culminata in Goff redo di Buglione; ma questo non gettava molta luce sui mitici predeces­sori di Goff redo: indicava soltanto che questi (come i suoi veri antenati) avevano tenuto scrupolosamente segreta la loro identi­tà. Ma secondo Wolfram, Kyot aveva trovato una cronaca della vicenda del Graal negli annali della casa d'Angiò, e lo stesso Parzival è di sangue angioino. Questo era estremamente interes­sante, perché la casa d'Angiò aveva stretti legami con i Templari e la Terrasanta. Lo stesso Fulques, conte d'Angiò, divenne per così dire Templare « onorario » o « part-time ». Nel 1131, inoltre, sposò la nipote di Goffredo di Buglione, la leggendaria Melusina, e divenne re di Gerusalemme. Secondo i « documenti del Priora­to », i signori d'Angiò - la famiglia dei Plantageneti - erano quindi imparentati con la stirpe merovingia. Ed è addirittura possibile che il nome Plantagenet riecheggiasse « Plant-Ard » o Plantard.

Questi collegamenti erano tenui e frammentari. Ma c'erano altri indizi, forniti dall'ambientazione geografica del poema di Wolfram. Quasi tutta l'azione si svolge in Francia. Contrariamen­te ai successivi cronisti del Graal, Wolfram afferma persino che la corte di Artù, Camelot, è situata in Francia, e precisamente a Nantes. Nantes, nell'attuale Bretagna, segnava l'estremo confine occidentale del vecchio regno merovingio all'apice della sua po­tenza.28

In un manoscritto della versione di Chrétien della vicenda del Graal, Perceval dichiara di essere nato a « Scaudone » o « Sina-don », una località che appare in numerose varianti ortografiche ; e questa regione, viene detto, è montuosa. Secondo Wolfram, Par­zival viene dal « Waleis ». Molti studiosi hanno concluso che Waleis sia Wales, il Galles, e Sinadon, nelle varie versioni, sia Snowdon o Snowdonia. Se è così, però, sorgono alcuni problemi in-

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sormontabili e, come osserva un commentatore moderno, « le car­te geografiche ci abbandonano ». Infatti, i personaggi si spostano continuamente tra il Waleis e la corte di Arni a Nantes ed altre loca­lità francesi, senza attraversare il mare! Insomma, si spostano per via di terra, e per giunta in regioni i cui abitanti parlano francese. La geografia di Wolfram era semplicemente sbagliata? Era possibile che fosse tanto inesatta? Oppure il Waleis poteva non essere affatto il Galles? Due studiosi hanno avanzato l'ipotesi che fosse il Valois, la regione francese a nord-est di Parigi: ma nel Valois non vi sono montagne, e il resto del panorama non corrisponde mini­mamente alla descrizione di Wolfram. Tuttavia, c'è un'altra possi­bile identificazione per il Waleis: una regione montuosa, che corrisponde esattamente alle descrizioni topografiche di Wolfram, e i cui abitanti parlano francese. È il Valais (Vallese), in Svizzera, sulle rive del lago Lemano a est di Ginevra. Insomma, si direbbe che la patria di Parzival non sia né il Galles né il Valois, bensì il Vallese. E il suo luogo di nascita, Sinadon, non sarebbe Snowdon o Snowdonia, bensì Sidonensis, la capitale del Vallese. E il nome moderno di Sidonensis è Sion.

Dunque, secondo Wolfram, la corte di Artù è in Bretagna. Parzival sembrerebbe nato in Svizzera. E la famiglia del Graal? E il castello del Graal? Wolfram da una risposta nella sua opera più ambiziosa, rimasta incompiuta alla sua morte e intitolata Der Junge Titurel. In questo frammento suggestivo, Wolfram si occupa della vita di Titurel, padre di Anfortas e costruttore del castello del Graal. Der Junge Titurel è molto preciso non soltanto per quanto riguarda i dettagli genealogici, ma anche per quanto riguarda le dimensioni, i componenti, i materiali, la configurazione del castel­lo del Graal: la sua "cappella, ad esempio, è circolare come quelle dei Templari. E il castello è situato nei Pirenei.

Oltre a Der Junge Titurel, alla sua morte Wolfram lasciò incom­piuta un'altra opera, il poema conosciuto come Willehalm, che ha per protagonista Guillem de Gellone, sovrano merovingio del principato che, nel IX secolo, si estendeva attraverso i Pirenei. Guillem viene presentato come imparentato con la famiglia del Graal.29 Sembra essere, quindi, l'unico personaggio delle opere di Wolfram del quale è possibile accertare l'identità storica. Tutta­via, anche quando parla dei personaggi inidentificabili, Wolfram

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da prova di una sorprendente, meticolosa precisione. Più lo si studia, e più sembra verosimile che si riferisca a un gruppo di persone veramente esistite; non già a una famiglia mitica o inven­tata, bensì a una che ebbe esistenza storica e che forse includeva Guillem de Gellone. Questa conclusione diviene ancora più plau­sibile quando Wolfram ammette che sta nascondendo qualcosa, che Parzival e le altre sue opere non sono soltanto romanzi ma anche documenti iniziatici, repertori di segreti.

Il Graal e il cabalismo

Come suggerisce il Perlesvaus, il Graal sembra essere, almeno in parte, una sorta di esperienza. Nella sua dissertazione sulle pro­prietà risanatrici del Graal e il suo dono di conferire la longevità, Wolfram, a sua volta, sembra sottintendere qualcosa di esperien-ziale, oltre che simbolico: un stato della mente o uno stato dell'es­sere. Pare non vi siano dubbi che su un certo livello il Graal è un'esperienza iniziatica descrivibile, nella terminologia moderna, come una « trasformazione »ouno« stato alterato di coscienza ». Alternativamente, potrebbe essere descritto come « esperienza gnostica », « esperienza mistica », « illumuiazione » o « unione con Dio ». È possibile essere ancora più precisi, e collocare l'a­spetto esperienziale del Graal in un contesto specifico. Questo contesto è dato dalla cabala e dal pensiero cabalistico. Senza dubbio, questo pensiero era « nell'aria » al tempo in cui furono composti i romanzi del Graal. Ad esempio, c'era una famosa scuola cabalista a Toledo, dove Kyot avrebbe appreso l'esistenza del Graal. C'erano altre scuole a Gerona, e Montpellier e in altre località della Francia meridionale. Difficilmente può apparire co­me una semplice coincidenza il fatto che anche a Troyes ci fosse una di queste scuole. Risale al 1070, al tempo di Goffredo di Buglione, ed era diretta da Rashi, uno dei più famosi cabalisti medievali.

Ovviamente è impossibile, in questa sede, rendere giustizia alla cabala e al pensiero cabalista. Tuttavia sono necessarie alcune precisazioni, per poter stabilire il collegamento tra il cabalismo e i romanzi del Graal. In poche parole, il cabalismo potrebbe essere chiamato « giudaismo esoterico », una metodologia psicologica

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pratica di origine esclusivamente giudaica, ideata per indurre una straordinaria trasformazione della coscienza. Sotto tale aspetto, può essere considerata l'equivalente giudaico di simili metodolo­gie o discipline appartenenti alla tradizione induista, buddista e taoista, ad esempio certe forme di yoga o di Zen.

Come i suoi equivalenti orientali, il cabalismo comporta una serie di riti, una sequenza strutturata di esperienze iniziatiche in successione che conducono il praticante a modifiche sempre più radicali della coscienza e della cognizione. E sebbene il significato di tali modifiche sia soggetto a interpretazioni disparate, la loro realtà, quali fenomeni psicologici, è indiscussa. Uno degli « stadi » dell'iniziazione cabalistica, e uno dei più importanti, è quello chiamato Tiferei. Nell'esperienza di Tiferet, si dice che l'individuo passi dal mondo della forma a quello della non-forma o, per dirla in termini moderni, « trascenda il proprio ego ». Simbolicamente, consiste di una specie di « morte » sacrificale: la morte dell'ego, del senso di individualità, e dell'isolamento che tale individualità comporta; e ovviamente è anche una rinascita, o resurrezione, in un'altra dimensione, di armonia e di unità che abbraccia tutte le cose. Negli adattamenti cristiani del cabalismo, quindi, Tiferet veniva associata a Gesù.

Per i cabalisti medievali l'iniziazione a Tiferet era associata a certi simboli specifici, che includevano un eremita, o una guida, o un vecchio saggio, un re maestoso, un bimbo, un dio sacrificato.30 Con l'andar del tempo si aggiunsero anche altri simboli, ad esem­pio una piramide tronca, un cubo e una croce rosa. La relazione tra questi simboli e i romanzi del Graal è abbastanza evidente. In ogni storia del Graal c'è un vecchio, saggio eremita, che spesso è lo zio di Perceval o Parzival, e che funge da guida spirituale. Nel poema di Wolfram, il Graal - come « pietra » - potrebbe corri­spondere al cubo. E nel Perlesvaus le varie manifestazioni del Graal corrispondono quasi esattamente ai simboli di Tiferet. Anzi, il Perlesvaus, in se stesso, costituisce un nesso fondamentale tra l'esperienza di Tiferet e il Graal.31

II gioco di parole

Potevamo così identificare l'aspetto esperienziale del Graal e col-

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legarlo con precisione al cabalismo. E questo conferiva un altro elemento giudaico, apparentemente incongruo, al presunto carat­tere cristiano del Graal. Ma, quali che fossero gli aspetti esperien-ziali del Graal, ve n'erano anche altri: aspetti che non potevamo ignorare e che avevano un'importanza fondamentale per la nostra indagine. Erano gli aspetti storici e genealogici.

I romanzi del Graal ci avevano più volte posti di fronte a un disegno di carattere chiaramente terreno, non mistico. C'era un cavaliere imberbe che, dopo essersi dimostrato « degno » attra­verso certe prove, veniva iniziato a uno straordinario segreto. Questo segreto era rigorosamente custodito da un ordine cavalie­resco. E in qualche modo era associato a una certa famiglia. Il protagonista, sposando una donna di questa famiglia, oppure grazie al lignaggio, diveniva signore del castello del Graal e di tutto ciò che a esso era collegato. Almeno su questo livello, sembrava che fossimo alle prese con qualcosa che aveva un con­creto carattere storico. Un individuo può diventare signore di un castello o di un gruppo di persone. Può ereditare certe terre o un certo patrimonio. Ma non può diventare signore o erede di un'e­sperienza.

Aveva un significato preciso, ci chiedevamo, il fatto che i ro­manzi del Graal, sottoposti a un attento esame, risultassero basati in modo tanto cruciale su questioni di lignaggio e di genealogia, di discendenza, di eredità e di ereditarietà? Aveva un significato preciso il fatto che il lignaggio e la genealogia in questione si sovrapponesse in certi punti chiave a quelli che avevano avuto una parte tanto saliente nella nostra indagine, ad esempio la casa d'Angiò, Guillem de Gellone e Goffredo di Buglione? Era possi­bile che il mistero legato a Rennes-le-Chàteau e al Priorato di Sion fosse relato, in qualche modo ancora oscuro, al misterioso oggetto chiamato Santo Graal? Insomma, avevamo seguito le orme di Parzival conducendo una moderna cerca del Graal?

L'evidenza indicava che tale possibilità esisteva. Anzi, c'era un altro indizio decisivo che faceva pendere la bilancia in favore di questa conclusione. In molti dei manoscritti più antichi, il Graal è chiamato « Sangraal » ; e anche nella più tarda versione di Malory è chiamato « Sangreal ». È probabile che una di queste torme, « Sangraal » o « Sangreal », fosse l'originale. E altrettanto pro-

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babile che la parola venisse in seguito divisa in modo errato. Insomma, « Sangraal » o « Sangreal » forse non doveva venire diviso in « San Graal » o « San Greal », bensì in « Sang Raal » o « Sang Réal ». O meglio, per usare l'ortografia moderna, « Sang Royal ». Sangue reale.

In se stesso, questo gioco di parole poteva essere suggestivo, ma non conclusivo. Tuttavia, se lo si considerava insieme all'impor­tanza attribuita alla genealogia e al lignaggio, non lasciava spazi a molti dubbi. E del resto l'associazione tradizionale, la coppa che aveva raccolto il sangue di Gesù, sembrava rafforzare tale suppo­sizione. Chiaramente, il Graal pareva riferirsi in un modo o nel­l'altro al sangue e a un lignaggio.

Naturalmente, questo solleva certi interrogativi ovvi. Il sangue di chi? Il lignaggio di chi?

I « re perduti » e il Graal

I romanzi del Graal non furono i soli poemi che trovarono un pubblico attento alla fine del XII secolo e all'inizio del XIII. Ve ne furono molti altri, Tristan e Isolde, ad esempio, ed Eric edEnide, composti in certi casi dallo stesso Chrétien de Troyes, in altri casi da contemporanei e compatrioti di Wolfram, come Hartmann von Aue e Gottfried di Strasburgo. Questi romanzi non menzionano in alcun modo il Graal. Ma sono evidentemente ambientati nello stesso periodo mitico-storico dei romanzi del Graal, perché sono imperniati in modo più o meno diretto su Artù. Per quanto è possibile assegnargli una data, Artù sembra essere vissuto verso la fine del V o l'inizio, del VI secolo. In altre parole, Artù visse al culmine della potenza merovingia in Francia, e anzi fu contempo­raneo di Clodoveo. Se il termine « Ursus », « orso », fu usato per la stirpe reale dei Merovingi, il nome « Arthur », che egualmente significa « orso » potrebbe rappresentare un tentativo di conferire un'eguale dignità a un capo bretone.

Per gli autori del periodo delle Crociate, l'era merovingia sem­bra aver avuto un'importanza eccezionale, al punto che fornì lo sfondo per romanzi che non avevano nulla a che spartire con Artù o il Graal. Uno è l'epica nazionale tedesca, il Nibelungenlied o Canto dei Nibelunghi; dal quale, nel secolo XIX, Wagner attinse a

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piene mani per la sua monumentale tetralogia, L'anello delNibe-lungo. La tetralogia e il poema da cui deriva sono considerati solitamente frutto della fantasia. Ma i Nibelunghi erano un popolo esistito realmente, una tribù germanica presente nel tardo periodo merovingio. Inoltre, molti dei personaggi del Nìbelungenlied, ad esempio Sigmundo, Sigfrido, Siglinda, Brunilde e Crimilde, por­tano nomi chiaramente merovingi. Molti episodi del poema sono paralleli a eventi specifici dei tempi merovingi, e potrebbero persi-no richiamarsi a essi.

Benché non abbia nulla a che vedere con Artù e il Graal, il Nibelungenlied attesta ancora una volta che l'epoca merovingia esercitò un fascino irresistibile sull'immaginazione dei poeti del XII e del XIII secolo, come se essi avessero saputo qualcosa di fondamentale su quel periodo, qualcosa che gli scrittori e gli storici più tardi non conoscevano. Comunque, gli studiosi moderni sono concordi nel ritenere che i romanzi del Graal, come il Nibelungen­lied, si riferiscono all'epoca merovingia. In parte, certo, questa conclusione appare scontata, data la parte preminente assegnata ad Artù. Ma poggia anche su indicazioni specifiche, fornite dagli stessi romanzi del Graal. La Queste del Saint Graal, ad esempio, composta tra il 1215 e il 1230, dichiara esplicitamente che gli eventi della vicenda del Graal accaddero 454 anni dopo la resurrezione di Gesù.32 Presumendo che Gesù fosse morto nel 33 d.C., la saga del Graal si sarebbe quindi svolta nel 487 d.C., durante il primo fiorire della potenza merovingia e soltanto cinque anni prima del battesi­mo di Clodoveo.

Quindi non era un'idea rivoluzionaria o assurda collegare i romanzi del Graal all'epoca merovingia. Tuttavia, avevamo la sensazione che fosse stato trascurato qualcosa. In sostanza, era una questione di risalto, un risalto dato soprattutto alla Britannia a causa di Artù. In seguito a questo risalto, noi non avevamo asso­ciato automaticamente il Graal alla dinastia merovingia. Tuttavia, Wolfram afferma che la corte di Artù è a Nantes, e che il suo poema è ambientato in Francia. La stessa affermazione è ripetuta da altri romanzi del Graal, la Queste del Saint Graal, ad esempio. E certe tradizioni medievali sostengono che il Graal non fu portato in Britannia da Giuseppe d'Arimatea, bensì in Francia dalla Mad­dalena.

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Ormai incominciavamo a chiederci se la preminenza assegnata alla Britannia dai commentatori dei romanzi del Graal non fosse frutto di un errore,33 e se i romanzi non si riferissero principalmen­te a eventi svoltisi sul continente, e soprattutto in Francia. E incominciammo a sospettare che lo stesso Graal, il « sangue reale », fosse il sangue reale della dinastia merovingia, il sangue che era considerato sacro e dotato di proprietà magiche e miraco­lose.

Forse i romanzi del Graal costituivano, almeno in parte, un'e­sposizione simbolica o allegorica di certi eventi del periodo mero­vingio. E forse noi avevamo già incontrato alcuni tali eventi nel corso della nostra indagine. Un'alleanza matrimoniale con una certa famiglia, ad esempio che, velata dalle nebbie del tempo, aveva prodotto le leggende sulla doppia paternità di Meroveo. O forse, nella famiglia del Graal, una raffigurazione del perpetuarsi clandestino della stirpe merovingia- les roisperdus- tra le monta­gne e nelle grotte del Razès. O forse l'esilio di tale stirpe in Inghilterra tra la fine del IX secolo e l'inizio del X. E le segrete ma ■illustri alleanze dinastiche grazie alle quali la vite merovingia, come la famiglia del Graal, diede finalmente il suo frutto in Gof-fredo di Buglione e nella casa di Lorena. Forse lo stesso Artù -« l'orso » - era relato soltanto in modo incidentale al capotribù celtico o gallo-romano. Forse PArtù dei romanzi del Graal era in realtà « Ursus ». Forse il leggendario Artù delle cronache di Gof-fredo di Monmouth era stato « annesso » dagli scrittori del Graal e volutamente trasformato nel veicolo di una tradizione diver­sa e segreta. Se ciò era vero, poteva spiegare perché i Templa­ri, istituiti dal Priorato di Sion quali custodi della stirpe mero­vingia, venivano presentati come guardiani del Graal e della fami­glia del Graal. Se la famiglia del Graal e la stirpe merovingia era­no una cosa sola, i Templari erano veramente i guardiani del Graal, più o meno al tempo in cui furono composti i famosi romanzi. La loro presenza in questi romanzi, perciò, non sarebbe stata anacronistica.

Era un'ipotesi affascinante, ma poneva un interrogativo crucia­le. I romanzi sono ambientati nel periodo merovingio, ma collega­no esplicitamente il Graal alle origini del cristianesimo, a Gesù, a Giuseppe d'Arimatea, alla Maddalena. Alcuni, anzi, si spingono

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addirittura oltre. Nel poema di Robert de Boron, Galahad è presentato come il figlio di Giuseppe di Arimatea, anche se non è chiara l'identità della madre del cavaliere. E la Queste del Saint Graal chiama Galahad figlio della casa di Davide, come Gesù, e lo identifica con lo stesso Gesù. Anzi lo stesso nome Galahad, secon­do gli studiosi moderni, deriva da Gilead, che era considerato una designazione mistica di Gesù.34

Se il Graal si poteva identificare con la stirpe merovingia, che collegamenti aveva con Gesù? Perché una cosa strettamente asso­ciata a Gesù doveva essere associata anche all'epoca merovingia? Come potevamo spiegare la discrepanza cronologica, il legame tra qualcosa di relato a Gesù e gli eventi accaduti almeno quattro secoli più tardi? Com'era possibile che il Graal si riferisse da una parte all'epoca merovingia e dall'altra a qualcosa che era stato portato in Inghilterra da Giuseppe d'Arimatea o in Francia dalla Maddalena?

Anche su un piano simbolico, questi interrogativi si imponeva­no. Il Graal, ad esempio, era in qualche modo collegato al sangue. E anche senza dividere « Sangraal » in « Sang raal », restava il fatto che veniva presentato come il ricettacolo del sangue di Gesù. In che modo ciò poteva essere relato ai Merovingi? E perché doveva essere collegato a loro esattamente in quel tempo, durante le Crociate, quando i Merovingi portavano la corona del regno di Gerusalemme, protetti dall'Ordine del Tempio e dal Priorato di Sion?

I romanzi del Graal esaltano l'importanza del sangue di Gesù. Ed esaltano anche un lignaggio. E tenendo presenti fattori come il culmine della famiglia del Graal in Goffredo di Buglione, sembra che si tratti del lignaggio merovingio.

Poteva esistere qualche nesso tra questi due elementi in appa­renza discordanti? Il sangue di Gesù poteva essere relato in qual­che modo al sangue reale dei Merovingi? Il lignaggio connesso al Graal, portato nell'Europa occidentale poco dopo la Crocifissio­ne, poteva essere intrecciato al lignaggio dei Merovingi?

Necessità di una sintesi

A questo punto riconsiderammo gli indizi che avevamo a disposi-

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zione. E ci stavano avviando in una direzione sorprendente e tuttavia inequivocabile. Ma perché, ci chiedemmo, questi indizi non erano mai stati sottoposti dagli studiosi a un vaglio rigoroso? Erano certamente accessibili da secoli. Perché nessuno, a quanto ne sapevamo, aveva mai fatto una sintesi, traendone quelle che apparivano come conclusioni piuttosto ovvie, anche se ipotetiche? D'accordo: qualche secolo fa tali conclusioni sarebbero state rigo­rosamente proibite e, se pubblicate, sarebbero state punite seve­ramente. Ma almeno da duecento anni, il pericolo non esisteva più. E allora, perché i frammenti del rompicapo non erano stati mai composti, finora, in un mosaico coerente?

Le risposte a questi interrogativi, ce ne rendemmo conto, stava­no nella nostra epoca e nelle abitudini di pensiero che la caratteriz­zano. A partire dal cosiddetto « Illuminismo » del secolo XVIII, l'orientamento della cultura e della coscienza dell'Occidente è stato rivolto all'analisi più che alla sintesi. Di conseguenza, la nostra è un'epoca di crescente specializzazione. In armonia con questa tendenza, la cultura moderna attribuisce un'importanza esagerata alla specializzazione, che, come dimostra l'università moderna, comporta la segregazione della conoscenza in « discipli­ne » distinte. Quindi le diverse sfere esplorate dalla nostra indagi­ne sono per tradizione suddivise in compartimenti separati. In ognuno di questi compartimenti il materiale pertinente è stato debitamente esplorato e valutato da specialisti o « esperti » del campo. Ma ben pochi di questi « esperti » hanno cercato di stabili­re il loro particolare campo e gli altri che possono incrociarsi con quello. Anzi, in genere questi esperti tendono a guardare gli altri campi con occhi sospettosi, e a considerarli spuri nel peggiore dei casi, e non pertinenti nel caso migliore. E la ricerca eclettica o « interdisciplinare » spesso viene energicamente scoraggiata per­ché è ritenuta, tra l'altro, troppo speculativa.

Sono stati scritti numerosi trattati sui romanzi del Graal, le loro origini e i loro sviluppi, i loro effetti culturali, il loro valore letterario. E ci sono stati numerosi studi, validi e meno validi, sui Templari e le Crociate. Ma pochi esperti dei romanzi del Graal erano storici, e meno ancora numerosi sono stati quelli che hanno mostrato molto interesse per la storia complessa, spesso sordida e non molto romantica, che sta dietro i Templari e le Crociate. E

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così pure gli storici dei Templari e delle Crociate, come tutti i loro colleghi, si sono attenuti strettamente alla documentazione con­creta. I romanzi del Graal sono stati considerati come invenzioni, un « fenomeno culturale », una specie di « sottoprodotto » dell'« immaginazione dell'epoca ». Suggerire a uno storico che i romanzi del Graal potrebbero contenere un nocciolo di verità sarebbe un'eresia: anche se Schliemann, più di un secolo fa, scoprì le rovine di Troia basandosi sulle indicazioni di Omero.

Certo, vari scrittori occultisti, procedendo soprattutto in base ai loro desideri, hanno creduto alla lettera nelle leggende, afferman­do che misticamente i Templari erano i custodi del Graal: qualun­que cosa fosse il Graal. Ma non c'è mai stato uno studio storico serio che abbia cercato di stabilire un vero collegamento, I Tem­plari sono considerati una realtà storica, il Graal una leggenda. E se i romanzi del Graal sono stati quindi trascurati dagli storici e dagli specialisti del periodo nel quale furono scritti, non è sorpren­dente che siano stati ignorati dagli studiosi la cui specializzazione riguardava epoche precedenti. Molto semplicemente, uno specia­lista dell'epoca merovingia non sognerebbe neppure di sospettare che i romanzi del Graal potrebbero gettare qualche luce sulla materia dei suoi studi, anche ammettendo che conoscesse i roman­zi del Graal. Ma non è forse un'omissione seria, il fatto che nessuno studioso del periodo merovingio accenni alle leggende arturiane che, da un punto di vista cronologico, riguardano la stessa epoca?                                      i                               ,

Se gli storici non sono disposti a stabilire simili collegamenti, gli specialisti biblici lo sono ancora meno. Negli ultimi decenni sono usciti moltissimi libri, secondo i quali Gesù sarebbe stato un pacifista, un esseno, un mistico, un buddista, un mago, un rivolu­zionario, un omosessuale e persino un fungo. Ma nonostante questa pletora di materiale su Gesù e il contesto storico del Nuovo Testamento, neppure un autore, a quanto ne sappiamo, ha affron­tato la questione del Graal. E perché avrebbe dovuto farlo? Per­ché un esperto di storia biblica doveva dimostrare conoscenza o interesse per una torma di fantastici poemi romanzeschi composti nell'Europa occidentale più di mille anni dopo? Sembrerebbe inconcepibile che i romanzi del Graal possano illuminare in un modo o nell'altro i misteri che circondano il Nuovo Testamento.

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Ma la realtà, la storia e la conoscenza non possono venire segmentate e suddivise in compartimenti stagni secondo l'arbitra­rio sistema di schedatura adottato dall'intelletto umano. E sebbe­ne sia diffìcile trovare prove documentali, è evidente che le tradi­zioni possono sopravvivere per un millennio per riaffiorare in una forma scritta che getta luce su eventi molto più antichi. Certe saghe irlandesi, ad esempio, possono rivelare molte cose circa la transizione dalla società matriarcale a quella patriarcale nell'anti­ca Manda. Senza l'opera di Omero, composta molto tempo dopo l'evento, nessuno avrebbe mai sentito parlare dell'assedio di Troia. E Guerra e pace, benché scritto più di mezzo secolo dopo, può dirci molto più di tanti testi di storia, addirittura più di tanti documenti ufficiali, sulla Russia del periodo napoleonico.

Un ricercatore serio e responsabile deve, come un investigato­re, seguire tutti gli indizi che gli capitano, anche se in apparenza sono inverosimili. Non si deve scartare il materiale a priori solo perché minaccia di condurre in un territorio improbabile o scono­sciuto. Gli eventi dello scandalo Watergate, ad esempio, furono ricostruiti all'inizio sulla base di una quantità di frammenti dispa­rati, ognuno insignificante in se stesso, e in apparenza privi di collegamenti tra loro. Anzi, alcuni degli « sporchi trucchi », spes­so puerili, dovettero sembrare agli investigatori distanti dalle que­stioni più generali quanto i romanzi del Graal possono sembrare distanti dal Nuovo Testamento. Eppure lo scandalo Watergate era circoscritto a un unico paese e a un lasso di tempo di pochi anni. La materia della nostra indagine abbraccia invece tutta la cultura occidentale e un periodo di due millenni.

È necessaria una metodologia interdisciplinare nei confronti del materiale prescelto, una metodologia agile e flessibile che permet­ta di muoversi liberamente tra discipline disparate, nello spazio e nel tempo. È necessario essere in grado di connettere i dati e di stabilire collegamenti tra personaggi, eventi e fenomeni molto distanti tra loro. È necessario essere in grado di passare, a seconda delle esigenze, dal III secolo al XII e al VII e al XVIII, attingendo a una vasta gamma di fonti: antichi testi ecclesiastici, i romanzi del Graal, documenti e cronache del periodo merovingio, gli scritti della massoneria. Insomma, è necessaria una sintesi, perché solo mediante la sintesi sì può scoprire la continuità di base, il tessuto

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unificato e coerente che sta al centro di ogni problema storico. Questa metodologia non è particolarmente rivoluzionaria, in linea di principio, e neppure particolarmente polemica. Piuttosto, è come prendere un dogma della Chiesa contemporanea - ad esem­pio l'Immacolata Concezione o il celibato dei preti - e servirsene per illuminare il cristianesimo dei primi tempi. Più o meno allo stesso modo, i romanzi del Graal si possono utilizzare per gettare una luce significativa sul Nuovo Testamento: e sulla vita e l'identi­tà di Gesù.

Infine, non basta attenersi esclusivamente ai fatti. È necessario anche discernere le ripercussioni e le ramificazioni dei fatti che si irradiano attraverso i secoli, spesso sotto forma di miti e leggende. È vero, i fatti possono risultare modificati e distorti, come un'eco che riverbera tra i burroni. Ma se non è possibile localizzare la voce, l'eco, per quanto alterata, può indicare la via per trovarla. I fatti, insomma, sono come sassi lanciati nello stagno della storia. Spariscono presto, spesso senza lasciare tracce. Ma creano incre­spature che, a chi possiede una prospettiva abbastanza ampia, permettono di individuare il punto dove è caduto il sasso. Guidati dalle increspature allora ci si può immergere, o dragare il fondo, o adottare la metodologia che si preferisce. L'importante è che le increspature permettono di localizzare ciò che altrimenti potrebbe rimanere irrecuperabile.

Per noi era ormai evidente che tutto ciò che avevamo studiato durante la nostra indagine era soltanto un'increspatura e che questa increspatura, osservata nel modo giusto, poteva guidarci a ritrovare una pietra gettata nello stagno della storia duemila anni prima.

La nostra ipotesi

La Maddalena aveva avuto una parte preminente in tutta la nostra indagine. Secondo certe leggende medievali, la Maddalena portò in Francia il Santo Graal, o « Sangue reale ». Il Graal è stretta­mente associato a Gesù. E il Graal, almeno su un livello, è relato al sangue o, più precisamente, a una stirpe o lignaggio. I romanzi del Graal, tuttavia, sono quasi tutti ambientati in epoca merovingia. Ma furono composti soltanto dopo che Goff redo di Buglione,

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presunto discendente della famiglia del Graal e discendente au­tentico dei Merovingi, fu insediato, di fatto se non di nome, come re di Gerusalemme.

Se avessimo avuto a che fare con chiunque altro che non fosse Gesù, se avessimo avuto a che fare, ad esempio, con un personag­gio come Alessandro o Giulio Cesare, questi indizi frammentari sarebbero bastati, da soli, a condurre quasi ineluttabilmente a una conclusione clamorosa ed evidente. E noi traemmo questa conclu­sione, per quanto fosse polemica ed esplosiva. Incominciammo a metterla alla prova, almeno come ipotesi provvisoria.

Forse la Maddalena, l'elusiva donna dei Vangeli, era in realtà la moglie di Gesù. Forse dalla loro unione erano nati dei figli. Dopo la Crocifissione, forse, la Maddalena, insieme a un figlio almeno, fu portata clandestinamente in Gallia, dove già esistevano comu­nità ebree e dove, di conseguenza, avrebbe potuto trovare rifugio. Forse c'era, insomma, una stirpe ereditaria discesa direttamente da Gesù. Forse questa stirpe, il supremo sang réal, si era perpetua­ta, intatta e in incognito, per circa quattrocento anni - che dopo­tutto non sono troppi per una schiatta importante. Forse vi furono matrimoni dinastici non soltanto con le altre famiglie ebree, ma anche con famiglie romane e visigote. E forse nel V secolo la stirpe di Gesù si alleò per matrimonio con la casa reale dei Franchi, fondando così la dinastia merovingia.

Se questa ipotesi appena abbozzata era vera, avrebbe contribui­to a spiegare moltissimi elementi della nostra indagine. Avrebbe spiegato l'eccezionale importanza attribuita alla Maddalena, e il significato culturale che raggiunse durante le Crociate. Spieghe­rebbe la sacralità attribuita ai Merovingi. Spiegherebbe la nascita leggendaria di Meroveo, figlio di due padri, uno dei quali era un simbolico essere marino giunto d'oltremare, un essere marino che, come Gesù, potrebbe venire identificato con il mistico pesce. Spiegherebbe il patto tra la Chiesa di Roma e la stirpe di Clodo-veo. Un patto con i discendenti diretti di Gesù non doveva forse essere il patto più logico per una Chiesa fondata in suo nome? Spiegherebbe il risalto apparentemente eccessivo dato all'assassi­nio di Dagoberto II, perché la Chiesa, complice o consenziente, si sarebbe resa colpevole non soltanto di regicidio ma anche, secon­do il suo stesso credo, di una forma di deicidio. Spiegherebbe il

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tentativo di cancellare Dagoberto dalla storia. Spiegherebbe l'im­pegno ossessivo con il quale i Carolingi, divenuti Sacri romani imperatori, cercarono di legittimarsi vantando una discendenza merovingia.

Una stirpe discesa da Gesù attraverso Dagoberto spiegherebbe anche la famiglia del Graal nei romanzi, la segretezza che la circonda, la sua posizione elevatissima, l'impotente Re Pescatore che non può regnare, il processo mediante il quale Parzival o Perceval diviene erede del castello del Graal. Infine, spiegherebbe il mistico lignaggio di Goffredo di Buglione, figlio o nipote di Lohengrin, nipote o pronipote di Parzival, rampollo della famiglia del Graal. E se Goffredo era disceso da Gesù, la trionfale conqui­sta di Gerusalemme nel 1099 avrebbe comportato ben più della liberazione del Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli. Goffredo avrebbe riacquistato l'eredità che gli spettava.*

Avevamo già intuito che le allusioni alla viticoltura incontrate nel corso della nostra indagine simboleggiavano alleanze matri­moniali dinastiche. In base alla nostra ipotesi, ora la viticoltura sembrava simboleggiare il processo mediante il quale Gesù, che più volte si identifica con la vite, perpetuò il suo lignaggio. E come per una conferma, scoprimmo una porta scolpita che raffigura Gesù come un grappolo d'uva. La porta si trovava a Sion, in Svizzera.

Il nostro ipotetico « scenario » era coerente dal punto di vista logico e affascinante. Ma per il momento era anche assurdo. Per quanto avvincente, era ancora troppo approssimativo e aveva basi troppo fragili. Benché spiegasse molte cose, così com'era non poteva reggersi. C'erano ancora troppe lacune, troppe contraddi­zioni e anomalie, troppi fili slegati. Prima di poterlo prendere seriamente in considerazione, avremmo dovuto accertare se c'era qualche indizio concreto che lo suffragasse. Nel tentativo di trova­re questi indizi cominciammo a esplorare i Vangeli, il contesto storico del Nuovo Testamento e gli scritti dei primi padri della Chiesa.

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Note

1  Molto probabilmente avevano qualche connessione con Otto Rahn; cfr. capitolo II, nota 9.

2  Filippo di Fiandra si recava spesso nello Champagne e nel 1182 cercò invano di ottenere in moglie Maria di Champagne (figlia di Eleonora d'Aquitania) che era rimasta vedova l'anno prima. Le Conte del Graal risale probabilmente a quel periodo.

C'è un legame tra la casa di Alsazia e quella di Lorena. Gerard d'Alsazia, alla morte del fratello avvenuta nel 1048, divenne il primo duca ereditario dell'Alta Lorena, oggi semplicemente Lorena. Tutti i successivi duchi di Lorena si proclama­rono suoi discendenti.

3  Sembra che esistesse, forse, qualche « documento » sul Graal, che Filippo di Fiandra ebbe modo di consultare e che divenne la base dei romanzi di Chrétien e di Robert de Boron. Il professor Loomis afferma che è inevitabile presumere che l'opera di Chrétien e il romanzo di Robert de Boron avessero una fonte comune. Ritiene che Robert de Boron dicesse la verità, quando parlava di libro contenente i segreti del Graal, dal quale aveva tratto le notizie principali. Cfr. Loomis, The Grail, pp. 233 sgg.

4  Un'argomentazione a sostegno di questa ipotesi è esposta da Barber, R., Knight and Chivalry, p. 126.

5  Perlesvaus (nella traduzione inglese), p. 359.

6  Ibid.,p.2.

7  Ibid.,p. 214.

8  /6/d.,p.36O.

9  Ibid.,p. 199 sgg.

10  Ibid.,p. 82. » Ibid., p. 89.

12  /Wd.,p.268.

13  Ibid., p. 12.

14  Wolfram von Eschenbach, Parzival (nella traduzione inglese), pp. 243 sgg.

15  Ibid.,p.251. 1(5 Ibid., p. 253. 17 Ibid., p. 129. is Ibid., p. UQ.

19  /Wd.,pp.251sgg.

20  Ibid.,p. 251, n. 11.

21  Ibid., p. 252.

22  Ibid., p. 252.

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23   Rahn, Croisade cantre le Graal, pp. 77 sgg. e La cour de Lucifer, p. 69.

24   Wolfram von Eschenbach, Parzival (nella traduzione inglese), pp. 263 sgg.

25  Ibid.,p. 264.

26  /òW.,p.426.

27   Barrai, Légendes Capétiennes, p. 64.

28   È interessante che la città francese di Avallon risalga a tempi merovingi. Fu capitale di una regione, poi divenuta contea, che fece parte del regno d'Aquitania. Diede il suo nome all'intera regione, l'Avallonnais.

29   Greub, « The Pre-Christian GraalTradition », p. 68.

30  Halevi, Adam and thè Kabbaìistic Tree, pp. 194, 201. Fortune, Mystical Qaba-lah, p, 188.

31   A volte viene affermato che le tradizioni cristiane e cabalistiche non entrarono in contatto se non nel XV secolo ad opera di Giovanni Pico della Mirandola. Tuttavia, il Perlesvaus sembra provare che si erano giù fuse prima dell'inizio del XIII secolo. È un campo che richiede studi più approfonditi. Le immagini contenu­te nel Perlesvaus sono quelle normalmente associate alla « Cabala pratica », cioè a quella forma della Cabala usata per scopi magici.

32   Queste delSaint Graal, p. 34 (nella traduzione inglese).

33   Può essere un'eco del fatto che re Dagoberto trascorse la sua fanciullezza in Bretagna.

34   Queste del Saint Graal, introduzione, pp. 16 sgg.

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XII

II re-sacerdote che non regnò

Oggi tutti parlano del « cristianesimo » come se fosse un'entità coerente, omogenea e unificata. È superfluo aggiungere che il « cristianesimo » non Io è affatto. Come tutti sanno, vi sono numerose forme di « cristianesimo »: il cattolicesimo romano, ad esempio, o la Chiesa d'Inghilterra fondata da Enrico Vili. Vi sono poi le altre varie denominazioni del protestantesimo, dal luterane­simo e dal calvinismo del secolo XVI fino a sviluppi relativamente recenti come l'unitarianismo. C'è una quantità di congregazioni « marginali », ed « evangeliche » come gli avventisti del settimo giorno e i testimoni di Geova. E vi sono le varie sette contempora­nee, come i Bambini di Dio e la Chiesa dell'unificazione del reverendo Moon. Se si esamina questa sconcertante gamma di « fedi », da quelle più rigorosamente dogmatiche e conservatrici a quelle radicali ed estatiche, è molto difficile determinare che cosa costituisca esattamente il « cristianesimo ».

Se c'è un unico fattore che permette di parlare di « cristianesi­mo », un unico fattore che lega i credi « cristiani » altrimenti diversi e divergenti, è il Nuovo Testamento, e in particolare l'ecce­zionale status attribuito dal Nuovo Testamento a Gesù, alla Cro­cifissione e alla Resurrezione. Anche se una persona non sottoscri­ve in pieno la verità letterale o storica di questi eventi, general­mente basta che accetti il loro significato simbolico per essere considerata cristiana.

Se vi è quindi un'unità nel fenomeno diffuso chiamato cristiane­simo, questa unità risiede nel Nuovo Testamento, e più precisa­mente nelle cronache della vita di Gesù conosciute come i Quattro

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Vangeli. Queste cronache sono considerate generalmente come le più autorevoli; e per molti cristiani sono coerenti e inoppugnabili. Fin dall'infanzia si viene indotti a credere che la « storia » di Gesù, così com'è tramandata nei Quattro Vangeli, sia se non proprio ispirata da Dio, almeno definitiva. I quattro evangelisti, presunti autori dei Vangeli, sono ritenuti testimoni impeccabili che raffor­zano e confermano l'uno la testimonianza dell'altro. Tra tutti coloro che oggi si dicono cristiani, ben pochi si rendono conto che i Quattro Vangeli non solo si contraddicono l'un l'altro, ma a volte sono in violento dissidio.

Per la tradizione popolare, l'origine e la nascita di Gesù sono piuttosto note. Ma in realtà i Vangeli, sui quali si basa la tradizio­ne, sono considerevolmente più vaghi al riguardo. Solo due dei Quattro Vangeli, quello di Matteo e quello di Luca, parlano dell'origine e della nascita di Gesù, e sono in netto contrasto tra loro. Secondo Matteo, ad esempio, Gesù era un aristocratico, se non addirittura un legittimo re, disceso da Davide e da Salomone. Secondo Luca, invece, la famiglia di Gesù, benché discesa dalla casa di Davide, era un po' meno illustre; ed è sulla base del racconto di Marco che è nata la leggenda del « povero falegna­me ». Insomma, le due genealogie sono così nettamente discordi che potrebbero riferirsi addirittura a due personaggi diversi.

Le discrepanze tra i Vangeli non sono circoscritte alla genealo­gia di Gesù. Secondo Luca, Gesù appena nato ricevette la visita di alcuni pastori. Secondo Matteo, ricevette l'omaggio di tre re. Secondo Luca, la famiglia di Gesù viveva a Nazareth; e di qui i suoi genitori, a causa di un censimento che la storia indica come mai avvenuto, si sarebbero recati a Betlemme, dove Gesù nacque in un'umile mangiatoia. Ma secondo Matteo i genitori di Gesù erano piuttosto benestanti e risiedevano a Betlemme; e Gesù nacque in una casa. Nella versione di Matteo, la strage degli innocenti ordi­nata da Erode costringe la famiglia a fuggire in Egitto, e solo al suo ritorno si stabilisce a Nazareth.

Le notizie contenute in ognuna di queste cronache sono specifi­che - e presumendo che il censimento avvenisse veramente - del tutto plausibili. Tuttavia queste notizie non collimano. È una contraddizione che non trova una spiegazione razionale. Non c'è assolutamente modo di correggere i due racconti contrastanti, e

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non c'è assolutamente modo di conciliarli. Piaccia o no, si deve ammettere che uno di questi due Vangeli ha torto, o che hanno torto tutti e due. Di fronte a una conclusione così clamorosa e inevitabile, non è possibile considerare inoppugnabili i,Vangeli. Come possono essere inoppugnabili, quando si smentiscono l'un l'altro?

Più si studiano i Vangeli, e più appaiono evidenti le contraddi­zioni tra loro. Infatti non concordano neppure sul giorno della Crocifissione. Secondo Giovanni, la Crocifissione avvenne il gior­no prima della Pasqua ebraica. Secondo Marco, Luca e Matteo, avvenne il giorno dopo. I Vangeli non sono d'accordo neppure sulla personalità e il carattere di Gesù. Ognuno dipinge una figura in netto contrasto con la figura rappresentata da altri: in Luca, ad esempio, Gesù è un salvatore mite come un agnello, in Matteo è un potente e maestoso sovrano che viene a portare « non la pace ma una spada ». E vi sono altre discrepanze circa le ultime parole pronunciate da Gesù sulla croce. In Matteo e Marco, queste parole sono: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». In Luca: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno ». In Giovanni, le ultime parole di Gesù sono semplicemen­te: « Tutto è compiuto ».

Date queste discrepanze, i Vangeli possono essere accettati solo come un'autorità molto discutibile, certo non definitiva. Non rap­presentano la parola perfetta di un Dio; oppure le parole di Dio sono state abbondantemente censurate, rivedute, corrette e ri­scritte da mani umane. La Bibbia, dobbiamo ricordarlo - e questo vale tanto per l'Antico quanto per il Nuovo Testamento - è soltanto una selezione di opere, sotto molti aspetti piuttosto arbi­traria. Infatti, potrebbe benissimo includere assai più libri e scritti di quanti ne includa in realtà. E non si può neppure sostenere che i libri mancanti siano andati « perduti ». Al contrario, furono esclu­si di proposito. Nel 367 d.C. il vescovo Atanasio d'Alessandria compilò un elenco delle opere da includere nel Nuovo Testamen­to. L'elenco fu ratificato dal Concilio di Ippona nel 393 e successi­vamente dal Concilio di Cartagine, svoltosi quattro anni dopo. In questi concili fu scelta una selezione di opere. Certe furono raccol­te per formare il Nuovo Testamento quale lo conosciamo oggi, mentre altre furono sprezzantemente ignorate. Come si può consi-

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derare definitivo un simile processo di selezione? Come poteva un'assise di ecclesiastici decidere infallibilmente che certi libri « appartenevano » alla Bibbia e altri no? Soprattutto quando alcuni dei libri esclusi hanno una pretesa di veridicità storica perfettamente valida?

Inoltre, così com'è oggi, la Bibbia non è soltanto il prodotto di un processo selettivo più o meno arbitrario. È stata anche sottopo­sta a correzioni, censure e revisioni piuttosto drastiche. Nel 1958, ad esempio, il professor Morton Smith della Columbia University scoprì, in un monastero presso Gerusalemme, una lettera conte­nente un frammento mancante del Vangelo di Marco. Il frammen­to non era andato perduto. Al contrario, sembrava fosse stato volutamente soppresso per istigazione, se non addirittura per ordine diretto, del vescovo Clemente d'Alessandria, uno dei padri della Chiesa più venerati.

Clemente, a quanto pare, aveva ricevuto una lettera da un certo Teodoro, il quale si lamentava di una setta gnostica, quella dei carpocraziani. I carpocraziani, sembra, interpretavano certi passi del Vangelo di Marco secondo i loro princìpi: princìpi che non callimavano con la posizione assunta da Clemente e Teodoro. Per questo Teodoro li attaccò, e ne riferì a Clemente. Nella lettera trovata dal professor Smith, Clemente così risponde al suo disce­polo:

Bene hai fatto a ridurre al silenzio gli innominabili insegnamenti dei carpocraziani. Perché essi sono le « stelle vagabonde » di cui parla la profezia, che si allontanano dalla stretta via dei comandamenti e sprofon­dano nell'abisso sconfinato dei peccati della carne e del corpo. Perché, gloriandosi della conoscenza, come essi dicono, delle « cose profonde di Satana », essi non sanno che così si gettano nel « mondo infero delle tenebre » della falsità e, vantandosi di essere liberi, sono divenuti schiavi di desideri servili. A costoro ci si deve opporre in ogni modo e interamen­te. Perché, anche se dicessero qualcosa di vero, chi ama la verità non deve, neppure in tal caso, essere d'accordo con loro. Perché non tutte le cose vere sono la verità, e la verità che sembra vera secondo le opinioni umane non dev'essere preferita alla verità vera, quella in armonia con la fede.1

È un'affermazione straordinaria, per un padre della Chiesa. In effetti, Clemente proclama: « Se per caso i tuoi awersari dicono la verità, devi negarla e mentire per confutarli ». Ma non è tutto. Nel

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brano seguente, la lettera di Clemente discute il Vangelo di Marco e l'« abuso » che secondo lui ne fanno i carpocraziani:

In quanto a Marco, dunque, durante il soggiorno di Pietro a Roma, scrisse una cronaca dei fatti del Signore, non già, tuttavia, narrandoli tutti, e neppure accennando a quelli segreti, bensì scegliendo quelli che giudicava più utili per accrescere la fede di coloro che venivano istruiti. Ma quando Pietro morì martire, Marco venne ad Alessandria, portando i suoi scritti e quelli di Pietro, e da essi trasferì nel suo libro preesistente le cose adatte a favorire il progresso verso la conoscenza [gnosis]. Egli perciò compose un Vangelo più spirituale a uso di coloro che venivano perfezionati. Tuttavia, non divulgò ancora le cose che non dovevano essere dette, né mise per iscritto gli insegnamenti gerofantici del Signore; ma alle storie già scritte altre ne aggiunse e inoltre introdusse certi detti dei quali, come mistagogo, sapeva che l'interpretazione avrebbe guidato gli ascoltatori nell'intimo santuario della verità celata dai sette [veli]. Così, insomma, egli preordinò le cose, né malvolentieri né incautamente, secondo il mio giudizio, e morendo lasciò la sua composizione alla chiesa d'Alessandria, dove è tuttora scrupolosamente custodita, e viene letta soltanto a coloro che vengono iniziati ai grandi misteri.

Ma poiché i demoni immondi tramano sempre la distruzione della razza degli uomini, Carpocrate, da loro istruito e usando arti ingannevoli, a tal punto asservì un certo presbyter della chiesa d'Alessandria che ottenne da lui una copia del Vangelo segreto, e lo interpretò secondo la sua dottrina blasfema e carnale e inoltre lo inquinò, mescolando alle parole immacola­te e sante menzogne spudorate.2

Quindi, Clemente ammette che esiste un segreto, autentico Vangelo di Marco. Poi ordina a Teodoro di negarlo:

Perciò, come ho detto più sopra, non si deve cedere a loro [i carpocrazia­ni], e quando propugnano le loro falsificazioni non si deve ammettere che il Vangelo segreto è di Marco, bensì lo si deve negare per giuramento. Perché « non tutto il vero dev'essere detto a tutti gli uomini ».3

Che cos'era questo « Vangelo segreto », che Clemente ordinò al suo discepolo di ripudiare e che i carpocraziani stavano « inter­pretando falsamente »? Clemente risponde alla domanda inclu­dendo nella sua lettera una trascrizione del testo, parola per parola:

A te, quindi, non esiterò a rispondere a ciò che hai chiesto, confutando le falsificazioni mediante le stesse parole del Vangelo. Ad esempio, dopo « Ed essi erano per via, diretti a Gerusalemme » e ciò che segue, fino a « Dopo tre giorni egli risorgerà », [il Vangelo segreto] contiene quanto segue, parola per parola:

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« Ed essi giunsero a Betania, dov'era una certa donna, il cui fratello era morto. Ed ella venne, si prosternò davanti a Gesù e gli disse: "Figlio di Davide, abbi pietà di me". Ma i discepoli la rimproverarono. E Gesù, incollerito, andò con lei nel giardino dov'era la tomba, e subito dalla tomba si udì giungere un grande grido. E avvicinandosi,, Gesù rimosse la pietra che chiudeva la porta del sepolcro. E subito, andando dove giaceva il giovane, tese la mano e lo fece levare, prendendolo per mano. Ma il giovane, vedendolo, subito lo amò e gli chiese di poter rimanere con lui. E uscendo dalla tomba entrarono nella casa del giovane, poiché egli era ricco. E dopo sei giorni, Gesù gli disse ciò che doveva fare, e la sera il giovane venne a lui, portando un drappo di lino sulle sue nudità. E quella notte rimase con lui, perché Gesù gli insegnò il mistero del regno di Dio. E lasciato quel luogo, ritornò sull'altra sponda del Giordano ».4                '

L'episodio non appare in nessuna versione esistente del Vange­lo di Marco. Nelle linee generali, tuttavia, è abbastanza familiare. Ovviamente, è la resurrezione di Lazzaro, narrata nel Quarto Vangelo, attribuito a Giovanni. Nella versione citata, però, vi sono alcune variazioni significative. Innanzitutto c'è un « grande grido » che scaturisce dalla tomba prima che Gesù rimuova la pietra o comandi al giovane di uscire. Questo indica che il giovane non era morto e smentisce l'idea di un miracolo. In secondo luogo, sembra chiaro che si tratta di qualcosa di più di quanto inducano a credere le versioni accettate dell'episodio di ~Lazza.ro. Certamen­te, il passo attesta uno speciale rapporto tra l'uomo nella tomba e l'uomo che lo « risuscita ». Un lettore moderno, forse, potrebbe essere tentato di vedervi un'allusione all'omosessualità. È possibi­le che i carpocraziani, una setta che aspirava a trascendere i sensi mediante la soddisfazione dei sensi, vi scorgessero appunto un'al­lusione del genere. Ma, come afferma il professor Smith, in realtà è assai più verosimile che l'intero episodio si riferisca a una tipica iniziazione misterica: una morte e una rinascita ritualizzate e simboliche, piuttosto comuni a quel tempo nel Medio Oriente.

L'importante, comunque, è che l'episodio e il passo citato più sopra non compaiono in nessuna versione moderna o accettata di Marco. Anzi, i soli riferimenti a Lazzaro o a un personaggio come Lazzaro, nel Nuovo Testamento, sono contenuti nel Vangelo attribuito a Giovanni. Appare perciò chiaro che il consiglio di Clemente fu accolto non soltanto da Teodoro, ma anche dalle autorità successive. Molto semplicemente, l'intero episodio di Lazzaro fu espunto dal Vangelo di Marco,   i

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Se il Vangelo di Marco venne epurato in modo tanto drastico, venne anche oberato di aggiunte spurie. Nella versione originale si conclude con la Crocifissione, il seppellimento e la tomba vuota. Non c'è la Resurrezione, non c'è l'incontro con i discepoli. Certo, vi sono alcune Bibbie moderne che contengono un finale più convenzionale del Vangelo di Marco, un finale che include la Resurrezione. Ma virtualmente tutti i moderni specialisti di filolo­gia biblica concordano nell'affermare che questo finale ampliato è un'aggiunta più tarda, risalente agli ultimi anni del II secolo e accodata al documento originale.5

Il Vangelo di Marco offre così due esempi di un documento sacro - presentato come ispirato da Dio - che è stato manomesso, modificato, censurato, riveduto e corretto da mani umane. E non si tratta di casi ipotetici. Al contrario, oggi sono accettati dagli studiosi, che li considerano dimostrabili e provati. Si può suppor­re, allora, che solo il Vangelo di Marco subisse alterazioni? Evi­dentemente, se il Vangelo di Marco venne manipolato, è ragione­vole presumere che anche gli altri Vangeli abbiano subito lo stesso trattamento.

Ai fini della nostra indagine, quindi, non potevamo accettare i Vangeli come un'autorità definitiva e inoppugnabile; ma nel con­tempo non potevamo scartarli. Senza dubbio, non erano stati interamente « fabbricati », e fornivano alcuni dei pochi indizi accessibili circa gli eventi che accaddero in Terrasanta duemila anni fa. Perciò incominciammo a esaminarli più attentamente, a vagliarli, a dividere i fatti dalle favole, a separare la verità dalla matrice spuria nella quale tale verità era spesso incorporata. E per riuscire, innanzitutto dovemmo familiarizzarci con la realtà stori­ca e la situazione della Terrasanta all'inizio dell'era cristiana. I Vangeli, infatti, non sono entità autonome, scaturite dal vuoto per aleggiare, eterne e universali, attraverso i secoli. Sono documenti storici come tutti gli altri: come i Rotoli del Mar Morto, le epiche di Omero e Virgilio, i romanzi del Graal. Sono prodotti di un dato luogo, di un dato tempo, di un dato popolo e di particolari fattori storici.

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La Palestina al tempo di Gesù

Nel I secolo, la Palestina era una terra molto inquieta. Per lungo tempo la Terrasanta era stata straziata da dissidi dinastici, lotte intestine e, qualche volta, vere e proprie guerre. Durante il II secolo a.C. era stato creato un regno giudaico più o meno unifica­to, come narrano i due libri dei Maccabei. Ma nel 63 a.C. la Palestina era di nuovo in pieno tumulto, e matura per venire occupata.

Oltre mezzo secolo prima della nascita di Gesù, la Palestina si arrese alle armate di Pompeo, che imposero la dominazione roma­na. Ma a quel tempo Roma era troppo estesa e troppo presa dai propri problemi, per insediare l'apparato amministrativo necessa­rio a un potere diretto. Creò quindi una dinastia di re-fantocci perché regnassero sotto la sua egida: la dinastia erodiana, che non era ebrea ma araba. Il primo della dinastia fu Antipatro, che salì al trono nel 63 a.C. Quando morì nel 37 a.C, gli successe il figlio, Erode il Grande, che regnò fino al 4 a.C. Si deve quindi immagina­re una situazione analoga a quella esistita in Francia tra il 1940 e il 1944 sotto il governo di Vichy. Si deve immaginare una terra conquistata e un popolo vinto,, governati da un regime fantoccio mantenuto al potere dai militari. La popolazione poteva conserva­re la sua religione e i suoi costumi. Ma l'autorità suprema era Roma. E questa autorità era imposta secondo la legge romana e dalle truppe romane, come avvenne in Britannia non molto tempo dopo.

Nel 6 d.C. la situazione divenne più critica. Quell'anno il paese fu diviso amministrativamente in due province, la Giudea e la Galilea. Erode Aritipa divenne re di quest'ultima. Ma la Giudea, dove era situata la capitale spirituale e civile, divenne soggetta al diretto dominio romano, e venne amministrata da un governatore romano insediato a Cesarea. Il regime romano era brutale e autocratico. Quando assunse il controllo diretto sulla Giudea, più di tremila ribelli furono sommariamente giustiziati. Il Tempio fu profanato e depredato. Furono imposte tasse pesantissime. La tortura era usata di frequente; e molti Ebrei si suicidarono. La situazione non migliorò sotto Ponzio Pilato, che governò la Giu­dea dal 26 al 36 d. C. In contrasto con il ritratto che ne fa la Bibbia, i

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Carta 9    La Palestina al tempo di Gesù.

 

documenti pervenuti fino a noi indicano che Pilato era un uomo crudele e corrotto, e che perpetuò e aggravò gli abusi commessi dal predecessore. Perciò è tanto più sorprendente - almeno a prima vista - che i Vangeli non Critichino Roma, non accennino neppure al peso del giogo romano. Anzi, i Vangeli lasciano intende­re che gli abitanti della Giudea se ne stavano tranquilli, soddisfatti della loro sorte.          •,

In realtà, pochi erano soddisfatti, e molti non stavano tranquilli affatto. Gli Ebrei di Terrasanta, a quel tempo, erano divisi in una quantità di sette e sottosette. Per esempio, c'erano i sadducei, una classe di proprietari terrieri, poco numerosi ma ricchi, che con grande indignazione dei loro compatrioti collaboravano con i Romani. C'erano i farisei, che formavano un gruppo « progressi­sta »: introdussero molte riforme nel giudaismo e, nonostante il ritratto che ne fanno i Vangeli, conducevano nei confronti di Roma un'opposizione ferma, anche se soprattutto passiva. C'era­no gli esseni, una setta austera e mistica, i cui insegnamenti erano assai più diffusi e influenti di quanto in generale si ammetta o si presuma. Tra le sette più piccole, ce n'erano molte il cui carattere preciso è andato perduto da molto tempo, e che quindi sono difficili da definire. È comunque il caso di ricordare i nazirei, ai quali secoli prima era appartenuto Sansone, e che esistevano ancora ai tempi di Gesù. È il caso di ricordare anche i nazorei o nazareni, un termine che sembra venisse usato per indicare anche Gesù e i suoi seguaci. Infatti, la versione originale greca del Nuovo Testamento chiama Gesù « il nazareno », un termine che viene tradotto erroneamente « Gesù di Nazareth ». « Nazareno », in­somma, è una parola che indica l'appartenenza a una setta, e non ha relazioni con Nazareth.

C'erano anche numerosi altri gruppi e sette, una delle quali risultò di particolare importanza per la nostra indagine. Nell'anno 6 d. C., quando Roma assunse il diretto controllo della Giudea, un rabbi fariseo, chiamato Giuda di Galilea, aveva creato un gruppo rivoluzionario militante, composto a quanto sembra sia da farisei che di esseni. I suoi seguaci passarono alla storia con il nome di zeloti. Gli zeloti, a stretto rigore, non erano una setta. Erano un movimento, i cui aderenti provenivano da sette diverse. Al tempo della missione di Gesù, gli zeloti avevano assunto un ruolo rilevan-

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te nelle vicende della Terrasanta. Le loro attività formavano forse il più importante sfondo politico sul quale si svolse il dramma di Gesù. Molto tempo dopo la Crocifissione, l'attività degli zeloti continuava ancora. Nel 44 d.C si'era intensificata al punto che già sembrava inevitabile la lotta armata. Nel 66 d.C. scoppiò la rivol­ta; la Giudea insorse contro Roma. Fu un conflitto disperato, accanito ma in fondo vano, che sotto certi aspetti ricorda, poniamo l'insurrezione ungherese del 1956. Nella sola Cesarea, 20.000 Ebrei furono massacrati dai Romani. Quattro anni dopo le legioni romane occuparono Gerusalemme, la raserò al suolo e saccheg­giarono il Tempio. Ma la fortezza di Masada, arroccata su una montagna, resistette ancora tre anni, al comando di un discenden­te diretto di Giuda di Galilea.

Dopo la fine della rivolta in Giudea, vi fu un esodo massiccio di Ebrei dalla Terrasanta. Ne rimasero tuttavia abbastanza per fo­mentare un'altra insurrezione sessant'anni più tardi, nel 132 d.C. Finalmente, nel 135, l'imperatore Adriano ordinò che tutti gli Ebrei venissero espulsi dalla Giudea, e Gerusalemme diventò sostanzialmente una città romana, con il nome di Elia Capitolina.

La vita di Gesù si svolse approssimativamente durante i primi trentacinque anni di una fase di inquietudini, disordini e rivolte che si estese per centoquaranta anni. I disordini non finirono con la sua morte, anzi continuarono per un altro secolo, e generarono il clima psicologico e culturale che accompagna inevitabilmente una sfida prolungata contro un oppressore. Di questo clima psico­logico faceva parte la speranza dell'avvento di un Messia che liberasse il suo popolo dal giogo tirannico. Solo per una coinciden­za storica e semantica questo termine finì per venire riferito spe­cificatamente ed esclusivamente a Gesù.       >           

Agli occhi dei contemporanei di'Gesù, un Messia non sarebbe apparso divino. Per loro, anzi, l'idea di un Messia divino sarebbe stata assurda, se non impensabile. La parola greca per Messia è Christos, « Cristo ». Il termine, sia in greco che in ebraico, signifi­cava semplicemente « l'unto », e in genere si riferiva a un re. Quindi Davide, quando fu unto re come narra l'Antico Testamen­to, divenne esplicitamente un « Messia » o un « Cristo ». E ogni successivo re ebreo della casa di Davide venne chiamato con lo stesso appellativo. Persine sótto l'occupazione romana della Giu-

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dea, il sommo sacerdote nominato dai Romani era chiamato « il Messia Sacerdote » o « il Cristo Sacerdote ».6

Per gli zeloti e per gli altri avversari di Roma, tuttavia, questo sacerdote-fantoccio era inevitabilmente un « falso Messia ». Per loro il « vero Messia » era qualcosa di ben diverso: il legittimo roi perda, il discendente ignoto della casa di Davide che avrebbe liberato il suo popolo dall'oppressione romana. Durante la vita di Gesù, l'attesa di questo Messia aveva raggiunto un culmine che sconfinava nell'isteria collettiva. E l'attesa continuò anche dopo la morte di Gesù. Anzi, l'insurrezione del 66 d.C. fu istigata in gran parte dalla propaganda degli zeloti, imperniata su un Messia il cui avvento veniva annunciato come imminente.

Il termine « Messia », perciò, non comportava la divinità del­l'individuo così designato. A stretto rigore, non significava altro che un re unto o consacrato; per il popolo passò a significare un re consacrato che sarebbe stato anche il liberatore. In altre parole, era un termine tipicamente politico, ben diverso dalla successiva idea cristiana di un « Figlio di Dio ». E questo termine terreno e politico venne riferito a Gesù, che era chiamato « Gesù il Messia » o, in greco, « Gesù il Cristo ». Solo più tardi questa designazione divenne « Gesù Cristo », e un titolo che si riferiva esclusivamente a una funzione fu trasformato in nome proprio.

La storia dei Vangeli

I Vangeli scaturirono da una realtà storica riconoscibile e concre­ta. Era una realtà fatta di oppressione, di malcontento civico e sociale, di persecuzioni incessanti e di ribellioni intermittenti. Era anche una realtà pervasa da continui e allettanti sogni, promesse e speranze: la speranza dell'avvento di un re legittimo, un capo spirituale e secolare che avrebbe liberato il popolo. Per quanto riguardava la libertà politica, queste aspirazioni furono stroncate brutalmente dalla tremenda guerra combattuta tra il 66 e il 74 d.C. Trasposte in forma interamente religiosa, invece, le aspirazioni non soltanto furono perpetuate dai Vangeli, ma ricevettero un nuovo slancio.

Gli studiosi moderni concordano all'unanimità nel ritenere che i Vangeli non furono scritti durante la vita di Gesù. Per la maggior

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parte, datano dal periodo tra le due principali insurrezioni in Giudea, 66-74 e 132-135 d.C, benché siano quasi certamente basati su narrazioni precedenti. Queste narrazioni includevano forse documenti scritti andati poi perduti, dato che vi fu una totale distruzione degli archivi dopo la prima rivolta. Ma senza dubbio c'erano anche le tradizioni orali. Alcune erano con sicurezza grossolanamente esagerate e alterate, ricevute di seconda, terza e quarta mano. Altre, tuttavia, potevano derivare da contempora­nei di Gesù e che forse l'avevano conosciuto personalmente. Un uomo che al tempo della Crocifissione era giovane poteva benissi­mo essere ancora vivo quando furono scritti i Vangeli.

In generale, il Vangelo più antico è ritenuto quello di Marco, composto durante l'insurrezione del 66-74 o poco più tardi, se si esclude la parte relativa alla Resurrezione che è aggiunta spuria e più tarda. Sebbene non fosse stato uno dei discepoli di Gesù, sembra che Marco provenisse da Gerusalemme. Pare che fosse uno dei compagni di san Paolo, e il suo Vangelo mostra tracce inequivocabili del pensiero paolino. Ma se Marco era nato a Gerusalemme, il suo Vangelo, come afferma Clemente d'AIes-sandria, fu scritto a Roma per un pubblico greco-romano. E questo, in sé, spiega molte cose. Nel tempo in cui fu scritto il Vangelo di Marco, la Giudea era in aperta rivolta - o Io era stata di recente - e migliaia di Ebrei venivano crocifissi per essersi ribellati al dominio romano. Se Marco voleva che il suo Vangelo sopravvi­vesse e si imponesse a un pubblico romano, non poteva assoluta­mente presentare Gesù come antiromano. Anzi, non poteva nep­pure attribuire a Gesù un orientamento politico. Perché il suo messaggio sopravvivesse, Marco era obbligato a scagionare i Ro­mani da ogni responsabilità circa la morte di Gesù, ad assolvere il regime esistente e a scaricare la morte del Messia su certi Ebrei. Questo sistema fu adottato non soltanto dagli autori degli altri Vangeli, ma anche dalla Chiesa cristiana degli albori. Senza que­sto « trucco » né i Vangeli né la Chiesa sarebbero sopravvissuti.

I filologi datano il Vangelo di Luca intorno all'80 d.C. Sembra che Luca fosse un medico greco, che scrisse la sua opera per un alto funzionario di Cesarea, la capitale romana della Palestina. Anche Luca, quindi, si sarebbe trovato nella necessità di ingra­ziarsi i Romani e di attribuire ad altri la responsabilità. Quando fu

 

scritto il Vangelo di Matteo, intorno all'85 d.C, pare che questo trasferimento'di responsabilità fosse ormai accettato come un fatto indiscusso. Più della metà del Vangelo di Matteo, infatti, deriva direttamente da quello di Marco, benché venisse scritto originariamente in greco e rispecchiasse precise caratteristiche greche. L'autore sembra essere un Ebreo, molto probabilmente profugo dalla Palestina. Non dev'essere confuso con il discepolo omonimo, che doveva essere vissuto-molto tempo prima e proba­bilmente aveva conosciuto soltanto l'aramaico.

I Vangeli di Marco, Luca e Matteo sono conosciuti collettiva­mente come « i Vangeli Sinottici »; l'espressione significa che presentano la stessa visione dei fatti, anche se naturalmente non è affatto così. Tuttavia coincidono tra loro quanto basta per indicare che sono derivati da una fonte comune, forse una tradizione orale, forse un altro documento successivamente perduto. Questo li distingue dal Vangelo di Giovanni, che tradisce origini significati­vamente diverse.    

Dell'autore del Quarto Vangelo non si sa assolutamente nulla. Anzi, non c'è neppure ragione di presumere che si chiamasse Giovanni. Escluso il Battista, lo stesso Vangelo non menziona mai un Giovanni, e la sua attribuzione a un uomo di questo nome viene generalmente riconosciuta come una tradizione più tarda. Il Quar­to Vangelo, in ordine di tempo, è il più recente di quelli inclusi nel Nuovo Testamento: fu composto intorno all'anno 100 d.C. nei pressi di Efeso, in Asia Minore. Presenta numerose caratteristiche distintive. Ad esempio, non contiene la scena della Natività di Gesù, e l'inizio ha quasi un carattere gnostico. Il testo è decisa­mente più mistico di quello degli altri Vangeli, e anche il contenu­to ne differisce. Ad esempio, gli altri Vangeli parlano soprattutto delle attività di Gesù nella provincia settentrionale di Galilea, e rispecchiano quella che sembra essere soltanto una conoscenza di seconda o di terza mano per quanto riguarda gli eventi accaduti al sud, in Giudea e a Gerusalemme, inclusa la Crocifissione. Per contro, il Quarto Vangelo dice relativamente poco della Galilea. Indugia ampiamente sugli eventi in Giudea e Gerusalemme, che conclusero l'esistenza di Gesù, ed è possibile che il suo racconto della Crocifissione sia basato su una testimonianza diretta, di prima mano. Inoltre, contiene un certo numero di episodi che non

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figurano negli altri Vangeli: le nozze di Cana, il ruolo di Nicodemo e di Giuseppe d'Arimatea, e la resurrezione di Lazzaro (benché questa, un tempo, fosse inclusa nel Vangelo di Marco). In base a questi fattori, vari studiosi moderni hanno espresso l'opinione che il Vangelo di Giovanni, nonostante la composizione tarda, possa essere il più attendibile e storicamente esatto tra i quattro. Più degli altri Vangeli, sembra attingere a tradizioni vive tra i contem­poranei di Gesù, e ad altro materiale sconosciuto a Marco, Luca e Matteo. Un ricercatore moderno fa notare che rispecchia una conoscenza topografica apparentemente diretta di Gerusalemme, così com'era la città prima dell'insurrezione del 66 d.C. E lo stesso autore conclude: « Alla base del Quarto Vangelo sta un'autentica tradizione, indipendente dagli altri Vangeli ».7Non è un'opinione isolata. Anzi, prevale nella moderna filologia biblica. Secondo un altro autore, « II Vangelo di Giovanni, sebbene non aderisca alla struttura cronologica marciana e sia di data molto più tarda, sembra conoscere, sul conto di Gesù, una tradizione che dev'esse­re primitiva e autentica ».8

In base alle nostre ricerche, anche noi concludemmo che il Quarto Vangelo era il più attendibile dei libri del Nuovo Testa­mento, sebbene anch'esso fosse stato sottoposto a modifiche, revi­sioni, epurazioni e correzioni. Nella nostra indagine avemmo il modo di attingere a tutti e quattro i Vangeli, e anche a molto materiale collaterale. Ma fu nel Quarto Vangelo che trovammo le conferme più convincenti della nostra ipotesi ancora provvisoria.

Lo stato civile di Gesù

Non avevamo intenzione di screditare i Vangeli. Cercavamo sol­tanto di spigolare, di individuare certi frammenti di possibile o probabile verità e di estradi dalla matrice di abbellimenti che li circondava. Cercavamo in particolare frammenti di carattere ben preciso: frammenti che attestassero un matrimonio tra Gesù e la donna conosciuta come la Maddalena. È superfluo aggiungere che tali attestazioni non potevano essere esplicite. Per trovarle, ce ne rendevamo conto, avremmo dovuto leggere tra le righe, colmare certe lacune, capire certe cesure e certe ellissi. Avremmo avuto a che fare con omissioni e allusioni, con riferimenti come minimo

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obliqui. E non avremmo dovuto cercare soltanto gli indizi relativi a un matrimonio. Avremmo dovuto anche cercare le tracce delle circostanze che potevano aver portato a un matrimonio. Quindi la nostra indagine avrebbe dovuto includere vari interrogativi, diver­si ma strettamente relati. Incominciammo dal più ovvio.

1) Nei Vangeli vi sono indizi, diretti o indiretti, che facciano pensare che Gesù era sposato?

Naturalmente, non,vi è mai affermato esplicitamente che lo fosse. D'altra parte, non è mai affermato esplicitamente che non lo fosse: e questo è più curioso e significativo di quanto potrebbe apparire a prima vista. Come osserva il dottor Geza Vermes dell'Università di Oxford: « Nei Vangeli c'è un silenzio totale per quanto riguarda la stato civile di Gesù... E questo è abbastanza insolito, nell'antico mondo ebraico, per suggerire indagini più approfondite ».9

I Vangeli dicono che molti dei discepoli, ad esempio Pietro, erano sposati. E Gesù non predica mai il celibato. Al contrario, nel Vangelo di Matteo egli dichiara: « Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina... Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? » (19:4-5). Difficilmente questa afferma­zione si può conciliare con l'imposizione del celibato. E se Gesù non predicava il celibato, non vi è neppure motivo di supporre che lo praticasse. Secondo il costume ebraico del tempo, era non soltanto usuale, ma quasi obbligatorio, che un uomo si sposasse. Se si escludono certe comunità essene, il celibato era vigorosa­mente riprovato da tutti. Verso la fine del I secolo, un autore ebreo paragonò addirittura il celibato volontario all'omicidio; e sembra che non fosse il solo a sostenere tale punto di vista. Per un padre ebreo, trovare una moglie al proprio figlio era obbligatorio quanto provvedere a farlo circoncidere.

Se Gesù non fosse stato sposato, questo fatto avrebbe suscitato un notevole scalpore. Avrebbe attirato l'attenzione, e sarebbe stato usato per caratterizzarlo e identificarlo. Lo avrebbe distinto, in modo significativo, dai suoi contemporanei. Se fosse stato così, sicuramente almeno uno dei Vangeli avrebbe fatto cenno a una deviazione tanto netta dalla normale consuetudine. Se Gesù era davvero celibe come sostiene la tradizione successiva, è straordi-

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nario che non vi siano accenni alla cosa. L'assenza di riferimenti in proposito indicherebbe che Gesù, per quanto riguardava il celiba­to, seguisse le convenzioni dei suoi tempi e della sua cultura: indicherebbe, insomma, che era sposato. Solo questo potrebbe spiegare in modo soddisfacente il silenzio dei Vangeli al riguardo. L'argomentazione viene riassunta da uno stimato studioso con­temporaneo:

Tenuto conto del panorama culturale attestato... è estremamente impro­babile che Gesù non si fosse sposato molto prima' dell'inizio del suo magistero pubblico. Se si fosse ostinato a rimanere celibe, la cosa avrebbe destato scalpore, una reazione che avrebbe lasciato qualche traccia. Per­ciò il fatto che nei Vangeli non si parli del matrimonio di Gesù è un valido argomento, non già contro l'ipotesi del matrimonio, bensì a suo favore, poiché la pratica o la propugnazione del celibato volontario, nel contesto del mondo ebraico di quel tempo, sarebbe stata tanto eccezionale da attirare l'attenzione e suscitare commenti.10

L'ipotesi del matrimonio diviene ancora più sostenibile grazie al titolo di « Rabbi », « Maestro », che nei Vangeli viene spesso dato a Gesù. È possibile, naturalmente, che questo termine sia impiegato nel senso più ampio, e indichi semplicemente un mae­stro autonominatosi tale. Ma la cultura dimostrata da Gesù, ad esempio nel dibattito con i dottori nel Tempio, indica che fosse ben più di un sedicente maestro; indica che ebbe una regolare istruzione rabbinica e che era riconosciuto ufficialmente come rabbi. E questo sarebbe conforme alla tradizione, che presenta Gesù come rabbi nel senso più completo della parola. Ma se Gesù era un rabbi in questo senso completo, il suo matrimonio sarebbe non soltanto verosimile, ma virtualamente certo. La Legge Mishnaica degli Ebrei è esplicita in proposito: « Un uomo non sposato non può essere un maestro »."

Nel Quarto Vangelo c'è un episodio relato a un matrimonio che potrebbe essere appunto quello di Gesù. È l'episodio delle nozze di Cana, decisamente molto noto. Tuttavia, pone certi problemi salienti che meritano un'attenta considerazione.

Secondo il racconto del Quarto Vangelo, le nozze di Cana sembrerebbero una modesta cerimonia locale, un tipico matrimo­nio di paese, e la sposa e lo sposo restano anonimi. A queste nozze Gesù è specificatamente « invitato », il che è un po' strano, forse, perché non aveva ancora iniziato il suo magistero. Ancora più

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strano, però, è il fatto che c'era anche sua madre; e la presenza della madre sembra data per scontata. Di certo, non viene spiega­ta in nessun modo.

Ma c'è di più. È Maria che non soltanto suggerisce al figlio di provvedere ad altro vino ma praticamente glielo, ordina. Si com­porta esattamente come se fosse la padrona di casa: « Nel frattem­po, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino". E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora" » (Giovanni 2:3-4). Maria, però, per nulla turbata, non bada alla protesta del figlio: « La madre dice ai servi:"Fate quello che vi dirà" » (5). I servitori obbedisco­no prontamente, come se fossero abituati a ricevere ordini da Maria e Gesù.

Sebbene Gesù cerchi di eludere la sua richiesta, Maria ottiene ciò che desidera: Gesù compie il suo primo grande miracolo, la trasmutazione dell'acqua in vino. A quanto ci fanno sapere i Vangeli, in precedenza non ha mai mostrato i suoi poteri; e Maria non avrebbe neppure motivo di presumere che li possieda. Ma anche se lo sapesse, perché quei doni, unici e sacri, dovrebbero venire usati per uno scopo tanto banale? Perché Maria dovrebbe rivolgere al figlio una richiesta del genere? E soprattutto perché due « ospiti » invitati a un matrimonio dovrebbero assumersi la responsabilità di provvedere al necessario, una responsabilità che per tradizione spetta ai padroni di casa? A meno che, naturalmen­te, le nozze di Cana siano le nozze di Gesù. In tal caso, sarebbe stato suo compito fornire il vino.

C'è un altro indizio che induce a pensare che le nozze di Cana siano le nozze di Gesù. Subito dopo il miracolo, « il maestro di tavola chiamò la sposo e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono ». (Giovanni 2:9-10; il corsivo l'abbiamo messo noi.) Queste parole sembrereb­bero chiaramente rivolte a Gesù. Secondo il Vangelo, tuttavia, sono rivolte allo « sposo ». Una conclusione ovvia è che Gesù e Io « sposo » siano la stessa persona.

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La moglie di Gesù

2) Se Gesù era sposato, nei Vangeli c'è qualche indicazione circa l'identità di sua moglie?

A un primo esame sembrerebbe che vi siano due possibili candi­date: le due donne che, oltre a sua madre, sono ricordate più volte nei Vangeli come appartenenti alla cerchia di Gesù. La prima è la Maddalena o più esattamente Maria del villaggio di Migdal, o Magdala, in Galilea. In tutti i quattro Vangeli il ruolo di questa donna è stranamente ambiguo, e ha tutta l'aria di essere stato volutamente oscurato. Nelle versioni di Marco e Matteo, la Mad­dalena viene menzionata per nome solo verso la fine. Compare in Giudea, al momento della Crocifissione, e figura tra i seguaci di Gesù. Nel Vangelo di Luca, invece, appare relativamente presto nel magistero di Gesù, quando questi sta ancora predicando in Galilea; quindi, sembra che lo accompagni dalla Galilea alla Giu­dea, o che almeno si sposti da una provincia all'altra come fa Gesù. Già questo indica che la Maddalena doveva essere sposata con qualcuno. Nella Palestina dei tempi di Gesù sarebbe stato impen­sabile che una donna non sposata viaggiasse senza accompagnato­ri ufficiali, e soprattutto che viaggiasse insieme a un capo religioso e ai suoi seguaci. Diverse tradizioni sembrano consapevoli di questa situazione potenzialmente imbarazzante. Perciò a volte viene detto che la Maddalena era la moglie di uno dei discepoli di Gesù. Se era così, però, il suo speciale rapporto con Gesù li avrebbe esposti entrambi a sospetti o persino ad accuse di adulte­rio.

Nonostante la tradizione popolare, nessuno dei Vangeli dice che la Maddalena sia una prostituta. Quando viene menzionata per la prima volta nel Vangelo di Luca, è presentata come una donna « dalla quale erano usciti sette demoni ». In genere si presume che questa frase alluda a un esorcismo compiuto da Gesù, e sottintenda che la Maddalena era stata vittima di una « possessione diabolica ». Ma la frase può riferirsi anche a una specie di conversione o d'iniziazione rituale. Il culto di Ishtar o Astarte - la Dea Madre e « Regina del Cielo » - comportava ad esempio un'iniziazione in sette fasi. Prima di legarsi a Gesù in un modo o nell'altro, la Maddalena poteva essere stata associata a un

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culto di questo tipo. Migdal, o Magdala, era il « Villaggio delle Colombe », e vi sono prove che venissero allevate colombe desti­nate al sacrificio. E la colomba era sacra ad Astarte.

Nel capitolo precedente a quello dove parla della Maddalena, Luca allude a una donna che unse Gesù. Nel Vangelo di Marco c'è una simile unzione a opera di una donna innominata. Né Luca né Marco identificano esplicitamente questa donna con la Maddale-■ na. Ma Luca riferisce che si trattava di una « donna caduta », una « peccatrice ». I commentatori hanno desunto che la Maddalena, poiché da lei erano usciti sette diavoli, dovesse essere stata una peccatrice. Di conseguenza la donna che unge Gesù e la Maddale­na finirono per venire identificate come una sola persona. In effetti, può darsi che fosse vero. Se la Maddalena era associata a un culto pagano, questo avrebbe sicuramente fatto di lei una « peccatrice » non soltanto agli occhi di Luca, ma anche di autori più tardi.

Se la Maddalena era una « peccatrice », era anche, evidente­mente, ben più della « comune prostituta » della tradizione popo­lare. Appare chiaro che fosse benestante o ricca. Luca riferisce, ad esempio, che tra le sue amiche figurava la moglie di un alto funzionario della corte di Erode, e che le due donne, insieme ad altre, aiutavano finanziariamente Gesù e i suoi discepoli. Anche la donna che unse Gesù era benestante; il Vangelo di Marco parla con insistenza della preziosità dell'unguento di nardo con cui fu compiuto il rito.

L'episodio dell'unzione di Gesù sembrerebbe avere un'impor­tanza notevole. Altrimenti, perché sarebbe sottolineato dai Van­geli? Dato il rilievo che gli viene accordato, sembra trattarsi di ben più di un gesto impulsivo e spontaneo. Sembra un rito meticolosa­mente preordinato. Si deve ricordare che l'unzione era la preroga­tiva tradizionale dei re: e del « legittimo Messia », che significa « l'unto ». Ne consegue che Gesù diviene un Messia autentico in virtù dell'unzione. E la donna che lo consacra in questo ruolo augusto difficilmente può avere un'importanza trascurabile.

In ogni caso, è evidente che la Maddalena, prima della fine del magistero di Gesù, era divenuta una figura immensamente signifi­cativa. Nei tre Vangeli Sinottici il suo nome apre l'elenco delle donne che seguirono Gesù, come il nome di Simon Pietro apre

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l'elenco dei discepoli. E naturalmente, fu la prima a trovare la tomba vuota dopo la Crocifissione. Tra tutti i suoi seguaci, fu la Maddalena che Gesù prescelse per rivelare la propria Resurrezio­ne.

In tutti i Vangeli, Gesù tratta la Maddalena in modo unico, preferenziale. È possibile che questo trattamento possa aver susci­tato la gelosia di altri discepoli. Sembra piuttosto evidente che la tradizione successiva si adoperò per colorare in nero i precedenti della Maddalena, se non addirittura il suo nome. La trasformazio­ne in prostituta può essere la reazione esagerata di seguaci vendi­cativi, decisi a macchiare la reputazione di una donna il cui legame con Gesù era più stretto del loro, e quindi ispirava un'invidia molto umana. Se altri « cristiani », quando Gesù era in vita o più tardi, nutrivano rancore nei confronti della Maddalena per il suo eccezionale legame con il loro capo spirituale, si può capire che cercassero di sminuirla agli occhi dei posteri. E non c'è dubbio che venne sminuita. Ancora oggi molti credono che fosse una cortigia­na, e nel Medioevo gli ospizi per le prostitute redente erano intitolati alla Maddalena. Ma i Vangeli attestano che la donna che diede il nome a tali istituzioni non meritava affatto quella nomea.

Quale che sia la posizione della Maddalena nei Vangeli, non è la sola candidata possibile al ruolo di moglie di Gesù. Ce n'è un'altra, che ha una parte di spicco nel Quarto Vangelo, e che può essere identificata come Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro. Maria e i suoi familiari appaiono chiaramente in stretti rapporti . con Gesù. Si tratta di gente ricca: hanno una casa, in un sobborgo elegante di Gerusalemme, abbastanza grande per ospitare Gesù e tutto il suo seguito. E c'è di più: l'episodio di Lazzaro rivela che la casa comprende una tomba privata: un lusso eccezionale ai tempi di Gesù, un segno non soltanto di opulenza, ma, anche di una posizione sociale elevata. Nella Gerusalemme biblica, come in ogni città moderna, i terreni costavano carissimi; e ben pochi potevano permettersi il lusso di una tomba privata.

Quando, nel Quarto Vangelo, Lazzaro si ammala, Gesù ha lasciato Betania da qualche giorno e si trova in riva al Giordano insieme ai discepoli. Quando viene informato dell'accaduto, indu­gia per due giorni - una reazione piuttosto curiosa - e quindi torna a Betania, dove Lazzaro giace nella tomba. Gesù si avvicina e

 

Marta gli va incontro e grida: « Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! » (Giovanni 11:21). È un'affermazio­ne sconcertante: perché la presenza fìsica di Gesù avrebbe neces­sariamente evitato la morte di Lazzaro? Ma l'episodio è significati­vo perché Marta, quando va incontro a Gesù, è sola. Ci si aspette­rebbe che sua sorella Maria vada con lei. Invece Maria sta seduta in casa... e non esce fino a quando Gesù le ordina esplicitamente di farlo. Il particolare diviene più chiaro nel Vangelo « segreto » di Marco, scoperto dal professor Morton Smith e citato più sopra in questo capitolo. Nel racconto soppresso, sembrerebbe che Maria esca dalla casa prima che Gesù glielo comandi. E viene pronta­mente rimproverata dai discepoli, che Gesù è costretto a far tacere.

Sarebbe piuttosto plausibile che Maria se ne resti seduta in casa quando Gesù giunge a Befania. Secondo la consuetudine ebraica, doveva « sedere in Shiveh »: sedere in lutto. Ma perché non accompagna Marta, perché non si precipita incontro a Gesù che ritorna? C'è una sola spiegazione ovvia. Secondo i dettami della legge ebraica di quel tempo, una donna che « sedeva in Shiveh » non poteva uscire di casa se non per ordine espresso del marito. In questo episodio il comportamento di Gesù e di Maria di Befania corrisponde in modo esatto al comportamento tradizionale di un Ebreo e di sua moglie.

C'è un altro indizio a favore di un possibile matrimonio tra Gesù e Maria di Befania. Appare, più o meno come un non sequitur, nel Vangelo di Luca:         ,

Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti disse: « Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti ». Ma Gesù le rispose: « Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta » (Luca 10: 38-42).

A giudicare dalle parole di Marta, sembra evidente che Gesù eserciti su Maria una sorta di autorità. Ancora più importante, tuttavia, è la risposta di Gesù. In qualunque altro contesto, non si esiterebbe a interpretarla come un'allusione a un matrimonio. E

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comunque attesta chiaramente che Maria di Betania era una disce­pola ardente quanto la Maddalena.

Vi sono buone ragioni per identificare la Maddalena con la donna che unge Gesù. È possibile, ci chiedemmo, che fosse iden-tificabile anche con Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta? È possibile che queste donne, presentate nei Vangeli in tre contesti diversi, siano in realtà un'unica persona? La Chiesa me­dievale certamente le vedeva così, non diversamente dalla tradi­zione popolare. Oggi, molti studiosi biblici sono d'accordo. Vi sono abbondanti indizi che confermano questa conclusione,

I Vangeli di Matteo, Marco e Giovanni, ad esempio, dicono tutti che la Maddalena era presente alla Crocifissione. Nessuno, invece, cita Maria di Betania. Ma se Maria di Betania era una discepola tanto devota, la sua assenza sembrerebbe a dir poco strana. È credibile che lei, per non parlare di suo fratello Lazzaro, non assistesse al momento culminale della vita di Gesù? L'omis­sione sarebbe inspiegabile e reprensibile, a meno che fosse presen­te e venisse' citata dai Vangeli sotto il nome di Maddalena. Se la Maddalena e Maria di Betania sono la stessa persona, allora la seconda non figura più come assente alla Crocifissione.

- La Maddalena può essere identificata con Maria di Betania. E può essere identificata anche con la donna'che unge Gesù. Il Quarto Vangelo identifica con Maria di Betania la donna che unge Gesù. Anzi, l'autore del Quarto Vangelo è molto esplicito:

Era allora malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso d'olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato (Giovanni 11:1-2).

E di nuovo, nel capitolo successivo:

Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento (Giovanni 12: 1-3).

' È dunque chiaro che Maria di Betania e la donna che cosparge d'unguento Gesù sono la stessa donna. Se non è altrettanto chiaro, è certo probabile che questa donna sia anche la Maddalena. Se

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Gesù era veramente sposato, a quanto sembra c'è una sola candi­data al ruolo di sua moglie: una donna che apparve più volte nei Vangeli sotto nomi diversi.

Il discepolo prediletto

3) Se la Maddalena e Maria di Betania sono la stessa donna, e se questa donna era la moglie di Gesù, Lazzaro sarebbe stato cogna­to di Gesù. Nei Vangeli c'è qualcosa che indica che Lazzaro avesse veramente questa posizione speciale?

Lazzaro non figura nei Vangeli di Luca, Matteo e Marco, anche se la sua « resurrezione dai morti » era contenuta in origine nel testo marciano, e fu espunta in seguito. Perciò Lazzaro è conosciu­to dai posteri solo tramite il Quarto Vangelo, il Vangelo di Gio­vanni. Ma qui è chiaro che gode di un trattamento preferenziale, non circoscritto alla sua resurrezione. Sotto questo e molti altri aspetti, Lazzaro sembra, se mai, più vicino a Gesù degli stessi discepoli. Eppure, piuttosto stranamente, i Vangeli non lo enume­rano neppure tra questi discepoli.

A differenza di costoro, Lazzaro viene minacciato. Secondo il Quarto Vangelo, i sommi sacerdoti, quando decidono di eliminare Gesù, decidono di uccidere anche Lazzaro (Giovanni 12:10). Quindi Lazzaro, a quanto sembra, avrebbe operato in qualche modo nell'interesse di Gesù, mentre non si può dire altrettanto di certi discepoli. In teoria, questo dovrebbe qualificarlo come disce­polo; tuttavia, non viene citato come tale. Non figura neppure presente alla Crocifissione: una dimostrazione d'ingratitudine ap­parentemente vergognosa, da parte di un uomo che doveva la vita a Gesù nel senso più completo della parola. Certo, è possibile che si fosse nascosto, dato il pericolo che lo minacciava. Ma è molto strano che nei Vangeli non si accenni più a lui. Sembra sparito, e non viene più nominato. Ma è davvero così? Cercammo di esami­nare più attentamente il problema.

Dopo aver soggiornato a Betania per tre mesi, Gesù si ritira con i discepoli sulle rive del Giordano, a non più di un giorno di cammino da quella località. Un messaggero lo raggiunge portando la notizia che Lazzaro è malato. Ma il messaggèro non allude a Lazzaro chiamandolo per nome. Al contrario, parla del malato

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come di un uomo che ha una speciale importanza: « Signore, ecco, colui che tu ami è malato » (Giovanni 11:3). La reazione di Gesù alla notizia è decisamente strana. Anziché affrettarsi a tornare per soccorrere l'uomo che gli è caro, accantona con disinvoltura il problema: « All'udire questo, Gesù disse: "Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio verrà glorificato" » (11:4). E se le sue parole sono sconcertan­ti, le sue azioni lo sono ancora di più: « Quand'ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava » (11:6). Insomma, Gesù continua a indugiare sulle rive del Giordano, nonostante la notizia allarmante che ha ricevuto. Alla fine, decide di ritornare a Betania. Poi contraddice in modo clamoroso la sua affermazione precedente, dicendo ai discepoli che Lazzaro è morto. Tuttavia, rimane imperturbato. Anzi, affer­ma con chiarezza che la « morte » di Lazzaro è servita a qualche scopo: « II nostro amico Lazzaro s'è addormentato; ma io vado a svegliarlo » (11:11). E quattro versetti più avanti ammette che l'intero episodio è stato meticolosamente preparato e disposto in anticipo: « E io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui » (11:15). Se questo comportamento è sconcertante, la reazione dei discepoli non lo è meno: « Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse ai condiscepo­li: "Andiamo anche noi a morire con lui!" » (11:16). Che cosa significa? Se Lazzaro è letteralmente morto, senza dubbio i disce­poli non intendono seguirlo con un suicidio collettivo! E come si può spiegare la noncuranza di Gesù, l'indifferenza con cui riceve l'annuncio della malattia di Lazzaro e il suo ritardo nel ritornare a Betania?

La spiegazione sembra consistere, come suggerisce il professor Morton Smith, in una iniziazione più o meno tipica di una « scuola misterica ». Come dimostra il professor Smith, queste iniziazioni e i relativi riti erano abbastanza comuni in Palestina ai tempi di Gesù. Spesso comportavano una morte e una rinascita simboliche, che venivano chiamate appunto con questi nomi; la reclusione in una tomba, che diveniva il grembo della rinascita dell'accolito; un rito, che oggi è chiamato battesimo, e che era una simbolica immersione nell'acqua; e una coppa di vino, identificato con il sangue del profeta o del mago che presiedeva alla cerimonia.

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Bevendo dalla coppa, il discepolo consumava un'unione simbolica con il maestro, diventava misticamente « una cosa sola » con lui. È significativo che san Paolo spieghi appunto in questi termini lo scopo del battesimo. E lo stesso Gesù usa gli stessi termini durante l'Ultima Cena.

Come osserva il professor Smith, la carriera di Gesù è molto simile a quella di altri quattro maghi, guaritori e taumaturghi dell'epoca.12 Nei Quattro Vangèli, ad esempio, incontra in segreto coloro che si accinge a guarire, e parla con loro, da solo. Poi, spesso li invita a non divulgare ciò che è accaduto. E quando si trova a contatto con il grosso pubblico, Gesù parla abitualmente per allegorie e parabole.

Sembrerebbe quindi che Lazzaro, mentre Gesù soggiorna lungo il Giordano, abbia intrapreso un tipico rito di iniziazione, che come di consueto porta a una simbolica resurrezione. In questa luce, il desiderio di « morire con lui » espresso dai discepoli divie­ne perfettamente comprensibile, come diviene comprensibile il comportamento di Gesù. Certo, Maria e Marta sembrano sincera­mente afflitte, e come loro molte altre persone. Ma è possibile che avessero frainteso o male interpretato il significato dell'atto. O forse qualcosa era andato male nell'iniziazione, come accadeva non di rado. Oppure era tutto un dramma inscenato, il cui vero carattere e il cui scopo erano noti a pochissimi.

Se l'episodio di Lazzaro si riferisce a un'iniziazione rituale, è evidente che Lazzaro riceve un trattamento preferenziale. Tra l'altro, viene apparentemente iniziato prima di tutti gli altri disce­poli che anzi sembrano invidiosi del suo privilegio. Ma perché l'uomo di Betania, fino a quel momento sconosciuto, dovrebbe ricevere un simile onore? Perché subisce un'esperienza che i disce­poli sono tanto ansiosi di condividere? Perché in seguito tanti « eretici » dalle tendenze mistiche, cornei carpocraziani, avrebbe­ro attribuito tanta importanza alla cosa? E perché l'intero episodio fu espunto dal Vangelo di Marco? Forse perché Lazzaro era « colui che Gesù amava » più degli altri discepoli. Forse perché Lazzaro aveva un legame speciale con Gesù: era suo cognato. Forse per entrambe le ragioni. È possibile che Gesù conoscesse e amasse Lazzaro appunto perché era suo cognato. Comunque, questo affetto viene sottolineato più volte. Quando Gesù ritorna a

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Betania e piange, o finge di piangere, per la morte di Lazzaro, gli astanti riecheggiano le parole del messaggero: « Vedi come lo amava! » (Giovanni 11:36).

L'autore del Vangelo di Giovanni - il Vangelo che narra l'episo­dio di Lazzaro - non si identifica mai come « Giovanni ». Anzi, non dice mai il proprio nome. Tuttavia, allude a se stesso con un appellativo che lo distingue. Chiama costantemente se stesso « il discepolo prediletto », « colui che Gesù amava » e fa capire in modo chiaro che gode di una posizione eccezionale, privilegiata rispetto ai suoi compagni. All'Ultima Cena, ad esempio, mostra apertamente la sua personale vicinanza a Gesù; e a lui solo Gesù confida come avverrà il tradimento:

Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: « Di' chi è colui a cui si riferisce? » Ed egli reclinandosi sul petto di Gesù gli disse: « Signore, chi è? ». Rispose allora Gesù: « È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò ». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone (Giovanni 13: 23-6).

. Chi è il « discepolo prediletto », sulla cui testimonianza si basa il Quarto Vangelo? Tutto indica che sia in effetti Lazzaro, « colui che Gesù amava ». Sembrerebbe, quindi, che Lazzaro e il « disce­polo prediletto » siano la stessa persona, e che Lazzaro sia la vera identità di « Giovanni ». Questa conclusione appare quasi inevita­bile. E non fummo noi i soli a raggiungerla. Secondo William Brownlee, illustre filologo biblico, uno dei maggiori esperti per quanto riguarda i Rotoli del Mar Morto, « in base all'evidenza interna contenuta nel Quarto Vangelo... la conclusione è che il discepolo prediletto è Lazzaro di Betania ».13 . Se Lazzaro e « il discepolo prediletto » sono la stessa persona, questo spiegherebbe parecchie anomalie. Spiegherebbe la miste­riosa sparizione di Lazzaro dal racconto delle Scritture, e la sua apparente assenza durante la Crocifissione. Infatti, se Lazzaro e il « discepolo prediletto » erano la stessa persona, alla Crocifissione Lazzaro era presente. E sarebbe stato a Lazzaro che Gesù affidò la madre. Le parole con cui lo fece potrebbero essere quelle di un uomo che si rivolge al cognato:

Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che.egli amava, disse alla madre: « Donna, ecco il tuo figlio! ». Poi disse al discepolo:

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« Ecco la tua madre! ». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Giovanni 19: 26-7).

L'ultima parola del brano citato è particolarmente rivelatrice. Infatti gli altri discepoli hanno abbandonato le loro case in Galilea e, a tutti i fini pratici, non hanno casa. Lazzaro, invece, ce l'ha: la casa di Betania, dove lo stesso Gesù soggiornava.

Dopo che i sacerdoti decidono di farlo uccidere, Lazzaro non viene più menzionato per nome. Sembra sparire completamente. Ma se è veramente il « discepolo prediletto », dopotutto non sparisce affatto, e i suoi movimenti e la sua attività si possono seguire fino alla conclusione del Quarto Vangelo. E anche qui c'è un episodio curioso che merita un attento esame. Al termine del Quarto Vangelo, Gesù predice la morte di Pietro e gli ordina di « seguirlo »:

Pietro allora, voltandosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: « Signore, chi è che ti tradisce? ». Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: « Signore, e lui? ». Gesù gli rispose: « Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi ». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: « Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? ».

Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera (Giovanni 21: 20-24).

Nonostante la fraseologia ambigua, il significato del passo sem­brerebbe chiaro. Il « discepolo prediletto » ha ricevuto l'ordine esplicito di attendere il ritorno di Gesù. E il testo sottolinea con enfasi che questo ritorno non deve essere inteso simbolicamente nel senso di un « secondo avvento ». Al contrario, implica qualco­sa di più terreno. Implica che Gesù, dopo aver mandato per il mondo gli altri suoi seguaci, deve ritornare presto per conferire un compito speciale al « discepolo prediletto ». Si direbbe qua­si che abbiano accordi precisi e concreti da concludere, piani da approntare.

Se il « discepolo prediletto » è Lazzaro, questa collusione di cui gli altri discepoli non sanno nulla sembra avere un precedente. Durante la settimana che precede la Crocifissione, Gesù si accinge

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a compiere il suo trionfale ingresso in Gerusalemme; e per farlo in armonia con le profezie dell'Antico Testamento che parlano di un Messia, deve entrare nella città in groppa a un asino (Zaccaria 9:9-10). Perciò è necessario procurarsi un asino. Nel Vangelo di Luca, Gesù manda due discepoli a Betania dove, dice loro, trove­ranno un asino. Hanno l'ordine di dire al padrone dell'asino.che « il Maestro ne ha bisogno ». Quando tutto si svolge esattamente come Gesù ha preannunciato, la cosa viene considerata come una specie di miracolo. Ma c'è davvero qualcosa di straordinario? Non indica semplicemente l'esistenza di piani meticolosamente prepa­rati? E l'uomo di Betania che fornisce l'asino al momento giusto non sembra Lazzaro?

Questa è certamente la conclusione del professor Hugh Schon-field.14 Egli sostiene in modo convincente che l'organizzazione dell'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme fu affidata a Laz­zaro, e che gli altri discepoli non ne sapevano nulla. Se era davvero così, questo attesta l'esistenza di una cerchia intima di seguaci di Gesù, un gruppo di collaboratori o di familiari, i soli che godevano della confidenza del maestro. Il professor Schonfield ritiene che Lazzaro facesse parte di questa cerchia. E la sua convinzione concorda con l'insistenza del professor Smith sul trattamento pre­ferenziale che Lazzaro riceve in virtù della sua iniziazione, o morte simbolica, a Betania. È possibile che Betania fosse un centro culturale, un luogo riservato ai riti presieduti da Gesù. Questo potrebbe spiegare perché Betania ricorreva enigmaticamente al­trove, nella nostra indagine. Il Priorato di Sion aveva chiamato « Béthanie » la sua « arca » a Rennes-le-Chàteau. E Saunière, apparentemente su richiesta del Priorato di Sion, aveva battezzato Villa Bethania la sua villa.

In ogni caso, la collusione che sembra portare alla consegna di un asino da parte deIP« uomo di Betania » può riapparire nel misterioso finale del Quarto Vangelo: quando Gesù ordina al suo « discepolo prediletto » di rimanere fino al suo ritorno. Si direbbe che lui e il « discepolo prediletto » abbiano piani da preparare. E non è irragionevole presumere che tali piani riguardassero la famiglia di Gesù. Sulla croce, Gesù aveva già affidato la madre al « discepolo prediletto ». Se aveva moglie e figli, presumibilmente anche loro sarebbero stati affidati allo stesso discepolo. E questo,

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naturalmente, sarebbe stato ancora più plausibile se il « discepolo prediletto » di Gesù era suo cognato.

Secondo una tradizione molto più tarda, la madre di Gesù morì in esilio a Efeso, da dove giunse successivamente il Quarto Vange­lo. Nulla indica, tuttavia, che il « discepolo prediletto » si pren­desse cura della madre di Gesù finché ella visse. Secondo il profes-sor Schonfield, il Quarto Vangelo probabilmente non fu composto a Efeso, ma solo rielaborato, riveduto e corretto da un anziano greco di quella città che lo modificò in modo da adeguarlo alle proprie idee.15

Se il « discepolo prediletto » non andò a Efeso, che ne fu di lui? Se era Lazzaro, è possibile rispondere alla domanda, perché la tradizione è esplicita. Secondo la tradizione e secondo certi autori della Chiesa appartenenti al periodo protocristiano, Lazzaro, la Maddalena, Marta, Giuseppe d'Arimatea e alcuni altri giunsero per nave a Marsiglia.l6 Lì Giuseppe sarebbe stato consacrato da san Filippo e inviato in Inghilterra, dove avrebbe fondato una chiesa a Glastonbury. Tuttavia, Lazzaro e la Maddalena sarebbe­ro rimasti in Gallia. La tradizione vuole che la Maddalena morisse ad Aix-en-Provence o a Saint Baume, e Lazzaro a Marsiglia, dopo avervi fondato la prima diocesi. Uno dei loro compagni, san Massimiliano, avrebbe fondato invece la prima diocesi di Narbo-na.

Se Lazzaro e il « discepolo prediletto » erano una sola perso­na, vi sarebbe una spiegazione per la loro duplice scomparsa. Lazzaro, il vero « discepolo prediletto » avrebbe preso terra a Marsiglia, insieme alla sorella che, come afferma la tradizione successiva, portava con sé il Santo Graal, il « sangue reale ». E le disposizioni per la fuga e l'esilio sembrerebbero organizzate dallo stesso Gesù, insieme al « discepolo prediletto », al termine del Quarto Vangelo.

La dinastia di Gesù

4) Se Gesù aveva veramente sposato Maddalena, questo matrimo­nio poteva avere uno scopo specifico? In altre parole, poteva essere qualcosa di più di un matrimonio convenzionale? Poteva essere un'alleanza dinastica, con significati e ripercussioni di carat-

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tere politico? Una stirpe uscita da tale matrimonio, insomma, avrebbe giustificato del tutto l'appellativo di « sangue reale »?

Il Vangelo di Matteo dichiara esplicitamente che Gesù era di sangue reale: un re autentico, discendente diretto di Salomone e di Davide. Se questo è vero, avrebbe avuto un diritto legittimo sul trono della Palestina unita: forse l'unico diritto legittimo. E l'iscri­zione affissa sulla croce sarebbe stata qualcosa di più di una beffa sadica, perché Gesù sarebbe stato veramente il « Re dei Giudei ». La sua posizione, sotto molti aspetti, sarebbe stata analoga a quella, poniamo, del « Bonnie Prince Charlie », lo Stuart preten­dente al trono d'Inghilterra, nel 1745. E quindi avrebbe suscitato l'opposizione che suscitò appunto a causa del suo ruolo: il ruolo di un re-sacerdote che forse avrebbe potuto unificare il suo paese e il popolo ebreo, e che quindi costituiva una grave minaccia per Erode e per Roma.

Certi studiosi biblici moderni hanno sostenuto che la famosa « strage degli innocenti » perpetrata da Erode non avvenne mai. E anche se avvenne, non ebbe probabilmente le dimensioni sensa­zionali e spaventose che le attribuiscono i Vangeli e la tradizione più tarda. Tuttavia, il fatto stesso che l'episodio sia stato traman­dato sembra attestare qualcosa: un timore autentico da parte di Erode, la paura di venire spodestato. Certo, Erode era un sovrano estremamente insicuro, odiato dai sudditi e tenuto al potere sol­tanto dalle coorti romane. Ma per quanto fosse precaria la sua posizione, non poteva essere realisticamente minacciata dalle voci sull'avvento di un salvatore mistico o spirituale: voci che del resto a quel tempo circolavano già in Terrasanta. Se Erode era vera­mente preoccupato, poteva solo esserlo a causa di una minaccia politica concreta: la minaccia rappresentata da un uomo che aveva pretese al trono più legittime delle sue, e che poteva assicurarsi un vasto appoggio popolare. Forse la « strage degli innocenti » non avvenne, ma le tradizioni che ne parlano rispecchiano una preoc­cupazione da parte di Erode, un timore nei confronti di una pretesa, una rivendicazione e con ogni probabilità anche un'azio­ne che mirava a prevenirla o a precluderla. La pretesa poteva avere soltanto un carattere politico. E in tal caso doveva essere presa sul serio.

Suggerire che Gesù avesse questa pretesa legittima, natural-

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mente, significa contrastare l'immagine popolare del « povero falegname di Nazareth ». Ma vi sono motivi convincenti per farlo. Innanzitutto, non è sicuramente certo che Gesù fosse di Nazareth. « Gesù di Nazareth » è infatti una forma corrotta o una traduzione errata di « Gesù il Nazorita », « Gesù il Nazireo » o forse « Gesù di Genesareth ». In secondo luogo, è molto dubbio che il villaggio di Nazareth esistesse ai tempi di Gesù. Non figura nelle mappe e nei documenti romani. Non è menzionato nel Talmud. Non è menzionato, e tanto meno è associato a Gesù, negli scritti di San Paolo che dopotutto furono composti prima dei Vangeli. E Giu­seppe Flavio, il più importante cronista di quel periodo, che comandò contingenti di truppe in Galilea ed elencò ì centri della provincia, non parla di Nazareth. Sembra, quindi, che Nazareth abbia incominciato a esistere dopo l'insurrezione del 68-74 d.C., e che il nome di Gesù vi sia stato associato in seguito alla confusione semantica, casuale o voluta, che caratterizza gran parte del Nuovo Testamento.

Indipendentemente dal fatto che fosse o no « di Nazareth », niente indica che Gesù fosse « un povero falegname ».17 Non è certo così che ce lo presentano i Vangeli. Anzi, la loro testimo­nianza fa pensare il contrario. Gesù ci appare istruito; si direb­be che abbia studiato per diventare rabbi, e che abbia frequenta­to personaggi ricchi e influenti non meno della povera gente: ba­sta ricordare ad esempio Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo. E le nozze di Cana sembrano confermare la posizione sociale di Gesù.

Le nozze non appaiono affatto come una festa umile e modesta di« gente comune ». Al contrario, presentano tutte le caratteristi­che di un sontuoso matrimonio aristocratico in grande stile, al quale sono invitati ospiti a centinaia. Ad esempio, vi sono molti servitori che si affrettano ad obbedire a Maria e a Gesù. C'è un « maestro di tavola » o « maestro di cerimonia », che nel contesto sarebbe stato una specie di sovrintendente o capo maggiordomo o forse addirittura un aristocratico. Chiaramente, il vino scorre a fiumi. Quando Gesù « trasmuta » l'acqua in vino, produce - se­condo la « Bibbia della Buona Novella » - non meno di seicento litri, più di ottocento bottiglie! E questo va ad aggiungersi a tutto il vino che è già stato bevuto.

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Tutto considerato, le nozze di Cana appaiono come una sontuo­sa cerimonia della piccola nobiltà o dell'aristocrazia. Anche se non furono le nozze di Gesù, la sua presenza e quella di sua madre indicherebbero che appartenevano alla stessa casta. Soltanto que­sto può spiegare perché i servi obbediscono ai loro ordini.

Se Gesù era aristocratico e se era sposato con la Maddalena, è probabile che anche lei fosse di elevata estrazione sociale. E infatti sembra esserlo. Come abbiamo visto, tra le sue amiche figurava la moglie di un alto funzionario della corte di Erode. Ma è possibile che la Maddalena fosse ancora più importante.

Come avevamo scoperto seguendo le indicazioni dei « docu­menti del Priorato », Gerusalemme, Città Santa e capitale della Giudea, in origine era appartenuta alla tribù di Beniamino. In seguito i Beniaminiti erano stati decimati nella guerra con le altre tribù d'Israele, e molti di loro andarono in esilio, anche se, come affermano i « documenti del Priorato », « alcuni di loro rimasero ». Un discendente di coloro che rimasero fu san Paolo, che dichiara esplicitamente di essere Beniaminita (Romani 11:1). • Nonostante il conflitto con le altre tribù d'Israele, quella di Beniamino sembrava godere di una posizione speciale. Tra l'altro, diede a Israele il primo re, Saul, unto dal profeta Samuele, e la prima casa reale. Ma Saul fu deposto da Davide, della tribù di Giuda. E Davide non si limitò a togliere ai Beniaminiti il trono. Scegliendo come capitale Gerusalemme, tolse loro anche la legit­tima eredità.

Secondo tutte le genealogie del Nuovo Testamento, Gesù era discendente di Davide, e quindi apparteneva anch'egli alla tribù di Giuda. Agli occhi dei Beniaminiti ciò poteva fare di lui, almeno in un certo senso, un usurpatore. Ma queste obiezioni sarebbero state superate se avesse sposato una donna beniaminita. Il matri­monio sarebbe stato un'importante alleanza dinastica, ricca di conseguenze politiche. Non avrebbe soltanto dato a Israele un potente re-sacerdote; avrebbe avuto anche la funzione simbolica di restituire Gerusalemme ai legittimi proprietari. Quindi avrebbe contribuito a incoraggiare l'unità e l'appoggio del popolo, e a consolidare le pretese al trono di Gesù.

Il Nuovo Testamento non dice a quale tribù appartenesse la Maddalena. Nelle leggende più tarde, però, viene detto che è di

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stirpe reale. E altre tradizioni affermano che apparteneva alla tribù di Beniamino.

A questo punto incominciava a diventare visibile l'abbozzo di uno « scenario » storico coerente. E a quanto potevamo capire, politicamente aveva un senso. Gesù sarebbe stato un re-sacerdote della stirpe di Davide, legittimo pretendente al trono. Avrebbe consolidato la sua posizione con un matrimonio dinastico simboli­camente importante. Poi si sarebbe accinto a unificare il suo paese, mobilitare la popolazione, scacciare gli oppressori, deporre l'abbietto sovrano fantoccio e restaurare la gloria della monar-chia, com'era stata al tempo di Salomone. E un tale uomo sarebbe stato veramente « Re dei Giudei ».

La Crocifissione

5) Come dimostra la vita di Gandhi, un capo spirituale, s&ha un appoggio popolare sufficiente, può costituire una minaccia per un regime esistente. Ma un uomo sposato, con legittime pretese al trono, e figli destinati a formare una dinastia, rappresenta una minaccia decisamente ancora più grave. C'è qualcosa, nei Vange­li, che indichi che Gesù venisse considerato dai Romani un perico­lo di questo genere?

Durante l'incontro con Pilato, Gesù viene chiamato più volte « Re dei Giudei ». Per ordine dello stesso Pilato, sulla croce viene affissa un'iscrizione con questo titolo. Come sostiene S.G.F. Brandon dell'Università di Manchester, l'iscrizione affissa alla croce deve essere considerata autentica: uno dei particolari più autentici dell'intero Nuovo Testamento. Innanzitutto figura, vir­tualmente senza variazioni, in tutti i quattro Vangeli. In secondo luogo è un episodio troppo compromettente e imbarazzante per­ché l'abbiano inventato i revisori più tardi.

Nel Vangelo di Marco, Pilato, dopo aver interrogato Gesù, chiede ai dignitari: « Che farò dunque di quello che voi chiamate Re dei Giudei? » (Marco 15:12). Questo parrebbe indicare che almeno alcuni Giudei considerano veramente Gesù come il loro re. Nel contempo, però, in tutti i quattro Vangeli anche Pilato accorda questo titolo a Gesù. Non c'è ragione di supporre che lo faccia per ironizzare o per deriderlo. Nel Quarto Vangelo insiste a

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farlo in tono serio, nonostante il coro di proteste. Nei tre Vangeli Sinottici, inoltre, lo stesso Gesù ammette di rivendicare il titolo: « Allora Pilato prese a interrogarlo: "Sei tu il Re dei Giudei?" Ed egli rispose: "Tu lo dici" » (Marco 15:2). Nella traduzione, la risposta può suonare ambivalente - forse di proposito. Nel testo originale greco, però, il suo significato è inequivocabile. Può essere interpretata solo come « Tu hai parlato giustamente ». E la frase è interpretata nello stesso modo ogni volta che appare altro­ve nella Bibbia.

I Vangeli furono composti durante e dopo l'insurrezione del 68-74 d.C, quando il giudaismo aveva finito di esistere come una forza sociale, politica e militare organizzata. E soprattutto, i Van­geli furono composti per un pubblico greco-romano, e dovevano risultare accettabili. Roma aveva appena finito di combattere contro gli Ebrei una guerra feroce e dispendiosa. Quindi era del tutto naturale presentare i Giudei come malvagi. Inoltre, dopo la rivolta giudaica, Gesù non poteva venire dipinto come un perso­naggio politico, legato in un modo o nell'altro alle inquietudini che sfociarono nella guerra. Infine, la parte avuta dai Romani nel processo e nell'esecuzione di Gesù doveva essere riveduta e cor­retta e presentata nel miglior modo possibile. Perciò nei Vangeli Pilato figura come un uomo onesto, serio e tollerante, che consen­te con grande riluttanza alla Crocifissione.18 Ma nonostante questa libertà che gli evangelisti si presero con la storia, si può ricostruire quale fu la vera posizione di Roma nella vicenda.

Secondo i Vangeli, Gesù viene inizialmente condannato dal sinedrio, il consiglio degli anziani giudei, i quali lo portano davanti a Pilato e chiedono al governatore di pronunciarsi contro di lui. Da un punto di vista storico, questo non ha senso. Nei tre Vangeli Sinottici, Gesù viene arrestato e condannato dal sinedrio la notte di Pasqua. Ma secondo la legge giudaica, il sinedrio non poteva riunirsi per Pasqua.19 Nei Vangeli l'arresto di Gesù e il suo proces­so davanti al sinedrio hanno luogo di notte. Secondo la legge giudaica, il sinedrio non poteva riunirsi di notte, in case private o in qualunque luogo che non fosse all'interno del recinto del Tem­pio. Nei Vangeli, il sinedrio sembra non avere l'autorità di pro­nunciare una condanna a morte e sarebbe per questa ragione che Gesù viene condotto davanti a Pilato. Ma il sinedrio aveva l'auto-

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rità di emettere condanne a morte: per lapidazione, se non per crocifissione. Perciò, se il sinedrio avesse voluto eliminare Gesù, avrebbe avuto l'autorità di condannarlo alla lapidazione. L'inter­vento di Pilato non sarebbe stato necessario.

Gli autori dei Vangeli compiono altri numerosi tentativi per scagionare Roma da ogni responsabilità. Uno è rappresentato dall'offerta di grazia fatta da Pilato, il quale si dichiara disposto a liberare un prigioniero a scelta della folla. Secondo i Vangeli di Marco e Matteo, questa era « un'usanza della festa di Pasqua ».In realtà, tale consuetudine non esisteva.2" Gli autori moderni con­cordano che i Romani non adottarono mai tale politica, e che l'offerta di liberare Gesù o Barabba è un'invenzione. Anche la riluttanza di Pilato di fronte alla prospettiva di condannare Gesù, e la sua irritata rassegnazione alla pressione della folla sembrano altrettanto fittizie. In realtà, sarebbe stato impensabile che un governatore romano, per giunta implacabile come Pilato, si pie­gasse al volere della folla. Lo scopo di queste alterazioni è piutto­sto chiaro: scagionare i Romani, attribuire tutta la colpa agli Ebrei e rendere così Gesù accettabile a un pubblico romano.

È possibile, naturalmente, che non tutti i Giudei fossero inno­centi. Anche se l'amministrazione romana aveva paura di un re­sacerdote pretendente al trono, non poteva compiere apertamen­te atti provocatori che avrebbero portato torse a una rivolta. Senza dubbio, a Roma avrebbe fatto comodo che il re-sacerdote venisse tradito ufficialmente dal suo popolo. È quindi concepibile che i Romani si servissero di certi Sadducei come agenti provocatori. Ma anche così, rimane il fatto incontrovertibile che Gesù fu vitti­ma di un'amministrazione romana, di un tribunale romano, di una condanna romana, dei militari romani e di un'esecuzione romana: un'esecuzione la cui forma era riservata esclusivamente ai nemici di Roma. Gesù non fu crocifìsso per le sue colpe nei confronti del giudaismo, ma per le colpe nei confronti dell'impero.21

Chi era Barabba?

6) Nei Vangeli c'è qualche indizio che Gesù avesse avuto figli?

Non vi è nulla di esplicito. Ma era normale e doveroso che i rabbi avessero figli; e se Gesù era un rabbi, sarebbe stata una cosa

 

molto insolita se non ne avesse avuti. Anzi, sarebbe stato insolito che non avesse figli, fosse un rabbi o no. Certo, da soli questi argomenti non costituiscono una prova positiva. Ma c'è una pro­va più concreta e specifica. Consiste nello sfuggente personaggio che nei Vangeli figura come Barabba o, per essere più precisi, come Gesù Barabba. In una prima versione del Vangelo di Mat-teo viene identificato infatti con questo nome. Se non altro, la coincidenza è sorprendente.

I filologi moderni sono incerti circa la derivazione e il significato di « Barabba ». « Gesù Barabba » può essere una forma corrotta di « Gesù Berabbi ». « Berabbi » era un titolo riservato ai rabbi più stimati, e seguiva il loro nome proprio.22 « Gesù Berabbi » potrebbe perciò riferirsi allo stesso Gesù. Alternativamente, « Gesù Barabba » poteva essere stato in origine « Gesù bar Rab­bi »: « Gesù figlio del Rabbi ». Nei Vangeli nulla indica che il padre di Gesù fosse un rabbi. Ma se Gesù aveva un figlio che portava il suo stesso nome, quel figlio poteva essere « Gesù bar Rabbi ». E c'è anche un'altra possibilità. « Gesù Barabba » po­trebbe derivare da « Gesù bar Abba », e poiché in ebraico « Ab-ba » significa « padre », « Barabba » significherebbe allora « figlio del padre »: una designazione priva di senso, a meno che il « padre » fosse qualcosa di eccezionale. Se il « padre » era vera­mente il « Padre Celeste », allora « Barabba » potrebbe ancora una volta riferirsi allo stesso Gesù. Invece, se il « padre » è Gesù, « Barabba » indicherebbe ancora una volta suo figlio.

Quale che sia il significato e la derivazione del nome, il perso­naggio Barabba è estremamente curioso. E più si considera l'epi­sodio che lo riguarda, e più diviene evidente che sta succedendo qualcosa di irregolare e che qualcuno sta cercando di nascondere una realtà. Innanzitutto il nome di Barabba, come quello della Maddalena, sembra aver subito una sistematica campagna diffa­matoria. Come la tradizione popolare fa della Maddalena una prostituta, così dipinge Barabba come un « ladrone ». Ma se Barabba era ciò che fa pensare il suo nome, non è molto probabile che fosse un comune ladro. Allora, perché insudiciare il suo nome? A meno che in realtà fosse qualcosa d'altro, qualcosa che i revisori dei Vangeli non volevano far sapere ai posteri.

A stretto rigore, i Vangeli non descrivono Barabba come un

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ladro. Secondo Marco e Luca, è un prigioniero politico, un ribelle accusato d'omicidio e di insurrezione. Nel Vangelo di Matteo, tuttavia, Barabba è descritto come « un prigioniero famoso ». E nel Quarto Vangelo, Barabba è chiamato (nell'originale greco) un lestes (Giovanni 18:40). La parola può essere tradotta come « la­dro » o « bandito ». Nel suo contesto storico, però, significava qualcosa di ben diverso. Lestes era infatti il termine abitualmente usato dai Romani per indicare gli zeloti,23 i rivoluzionari nazionalisti che da tempo fomentavano disordini. Poiché Marco e Luca dicono concordemente che Barabba è colpevole d'insurrezione, e poiché Matteo non contraddice questa affermazione, si può concludere con sicurezza che Barabba era uno zelota.

Ma queste non sono le sole notizie esistenti su Barabba. Secon­do Luca, era stato coinvolto recentemente in « disordini » o in una « sedizione » avvenuta in città. La storia non parla di disordini accaduti a Gerusalemme in quel tempo. Ma i Vangeli sì. Secondo i Vangeli, a Gerusalemme c'erano stati disordini solo pochi giorni prima: quando Gesù e i suoi seguaci avevano rovesciato i tavoli degli usurai nel Tempio. Barabba aveva partecipato all'episodio, e per questo era stato imprigionato? Senza dubbio sembra probabi­le. E in tal caso, la conclusione ovvia è una sola: Barabba faceva parte del seguito di Gesù.

Secondo gli studiosi moderni, l'« usanza » di liberare un prigio­niero in occasione della Pasqua non esisteva. Ma, anche se fosse esistita, la preferenza accordata a Barabba rispetto a Gesù non avrebbe senso. Se Barabba era davvero un delinquente comune, colpevole di omicidio, perché il popolo decise di salvargli la vita? E se invece era uno zelota, un rivoluzionario, è poco verosimile che Pilato rilasciasse un personaggio potenzialmente tanto perico­loso, anziché un innocuo visionario che era dispostissimo, come dicono i Vangeli, a « dare a Cesare ciò che è di Cesare ». Tra tutte le discrepanze, le improbabilità e le incongruenze contenute nei Vangeli, la scelta di Barabba è la più sorprendente e inspiegabile. Sembra evidente che debba esserci qualcosa, dietro a questa in­venzione tanto goffa e sconcertante.

Un autore moderno ha proposto una spiegazione affascinante e plausibile. Ipotizza che Barabba fosse il figlio di Gesù, e che Gesù fosse un re legittimo.24 In questo caso, la scelta diBarabba assume-

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rebbe subito un senso. Si immagini una popolazione oppressa, di fronte all'imminente eliminazione del suo capo spirituale e politi­co, quel Messia il cui avvento aveva destato tante speranze. In una situazione del genere, la dinastia non sarebbe stata più importante dell'individuo? La conservazione della stirpe non sarebbe stata l'aspirazione suprema, non avrebbe avuto precedenza su tutto? Un popolo, di fronte alla scelta terribile, non avrebbe preferito veder sacrificato il re perché suo figlio e la sua schiatta potessero sopravvivere? Se la schiatta fosse sopravvissuta, vi sarebbe stata almeno una speranza per il futuro.

Non è certo impossibile che Barabba fosse figlio di Gesù. In genere, si ritiene che Gesù fosse nato intorno all'anno 6 a.C. La Crocifissione avvenne non più tardi del 36 d.C, quando Gesù aveva, al massimo, quarantadue anni. Ma anche se ne avesse avuto soltanto trentatrè quando morì, poteva comunque aver generato un figlio. Secondo le consuetudini del suo tempo, poteva essersi sposato a sedici o diciassette anni. Ma anche se si fosse sposato soltanto verso i vent'anni, avrebbe potuto comunque avere un figlio tredicenne che, secondo le usanze giudaiche, sareb­be stato considerato un uomo. E naturalmente, poteva avere anche altri figli. Questi figli potevano essere stati concepiti fino a pochi giorni prima della Crocifissione.

I particolari della Crocifissione

7) Gesù poteva aver generato vari figli prima della Crocifissione. Ma se sopravvisse alla Crocifissione, la probabilità che avesse discendenti aumenterebbe ancora. C'è qualche indizio che Gesù sopravvisse davvero alla Crocifissione, o che la Crocifissione fosse una messinscena?

Se si considera il ritratto che danno di lui i Vangeli, è inspiegabi­le che Gesù venisse crocifisso. Secondo i Vangeli, i suoi nemici erano in certi ambienti giudaici di Gerusalemme. Ma questi nemi­ci, se esistevano veramente, avrebbero potuto lapidarlo di loro iniziativa e in nome della loro autorità, senza coinvolgere Roma nella questione. Secondo i Vangeli, Gesù non aveva nessun moti­vo di dissidio con Roma, e non violava la legge romana. Tuttavia venne punito dai Romani, secondo la legge e le procedure roma-

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ne. Fu crocifisso: una pena riservata esclusivamente a coloro che erano colpevoli di delitti contro l'impero. Se Gesù fu davvero crocifisso, non poteva essere apolitico come lo rappresentano i Vangeli. Al contrario, doveva necessariamente aver fatto qualco­sa per attirarsi la collera dei Romani.

Quali che fossero le imputazioni per le quali fu crocifisso Gesù, la sua apparente morte sulla croce è piena d'incongruenze. Molto semplicemente, non c'è ragione perché la sua Crocifissione, come la raccontano i Vangeli, dovesse essere fatale. L'affermazione secondo la quale lo fu merita un attento esame.

Presso i Romani, vigeva una procedura molto precisa per la Crocifissione.25 Dopo la sentenza, il condannato veniva flagellato, e di conseguenza la perdita di sangue l'indeboliva. Poi le sue braccia venivano fissate, di solito per mezzo di cinghie, ma qualche volta con i chiodi, a una pesante trave lignea caricata sulle spalle. Portando la trave, veniva condotto sul luogo dell'esecuzione. Lì la trave, con il condannato appeso, veniva sollevata e fissata a un palo verticale.

Il condannato, appeso per le mani, non avrebbe potuto respira­re, a meno che anche i piedi fossero fissati alla croce. Questo gli avrebbe permesso di esercitare una pressione sui piedi, alleviando quella sul torace. Ma nonostante la sofferenza, un uomo così appeso con i piedi fissati - soprattutto se era sano e robusto - di solito sopravviveva almeno per un giorno o due. Qualche volta, anzi, ci metteva una settimana a morire: di sfinimento, di sete o, se venivano usati i chiodi, di setticemia. A questa sofferenza prolun­gata si poteva mettere fine più rapidamente spezzando le gambe o le ginocchia del condannato: ed è quanto stanno per fare nei Vangeli i carnefici di Gesù, prima di venire trattenuti. Spezzare le gambe o le ginocchia non era un tormento in più, aggiunto per sadismo. Al contrario era un atto di misericordia, un colpo di grazia che causava una morte molto rapida. Quando non c'era più nulla che lo sostenesse, la pressione sul torace del condannato diventava intollerabile, ed egli moriva rapidamente per asfissia.

Gli studiosi moderni concordano nel ritenere che solo il Quarto Vangelo sia basato su un racconto della Crocifissione fatto da un testimone oculare. Secondo il Quarto Vangelo, i piedi di Gesù furono fissati alla croce, alleviando così la pressione sui muscoli

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pettorali; e le sue gambe non furono spezzate. Quindi, almeno in teoria, avrebbe dovuto sopravvivere per due o tre giorni. Tutta­via, Gesù è sulla croce da poche ore soltanto quando viene dichia­rato morto. Nel Vangelo di Marco, lo stesso Pilato si stupisce della rapidità con cui sopravviene la morte (Marco 15:44).

Quale può essere stata la causa della morte? Non il colpo di lancia nel costato, poiché il Quarto Vangelo afferma che Gesù era già morto quando gli fu inferta la ferita (Giovanni 19:33). C'è una sola spiegazione: l'assommarsi dello sfinimento, della stanchezza, della debilitazione generale e del trauma della flagellazione. Ma neppure questi fattori avrebbero dovuto essere fatali tanto in fretta. Naturalmente, è possibile che lo fossero; nonostante le leggi fisiologiche, qualche volta un uomo muore per un solo colpo, relativamente innocuo. Tuttavia, l'intera vicenda continua ad ap­parire sospetta. Secondo il Quarto Vangelo, i carnefici di Gesù si accingono a spezzargli le gambe per affrettare la morte. Perché farlo, se era già moribondo? Insomma, non avrebbe avuto senso spezzare le gambe di Gesù, a meno che la sua morte non fosse apparsa tutt'altro che imminente.

Nei Vangeli, la morte di Gesù sopravviene in un momento quasi troppo opportuno. Avviene giusto in tempo per evitare che i carnefici gli spezzino le gambe. E così si può realizzare una profe­zia dell'Antico Testamento. Gli studiosi moderni ammettono che Gesù modellò senza troppe remore le propria vita su quelle profe­zie che annunciavano la venuta di un Messia. Fu per questa ragione che gli sembrò necessario procurarsi un asino a Betania per fare il suo ingresso trionfale a Gerusalemme. E anche i dettagli della Crocifissione sono congegnati in modo da realizzare le profe­zie dell'Antico Testamento.26

Insomma, l'apparente e opportuna « morte » di Gesù - che lo salva appena in tempo da una fine certa e gli permette di realizzare una profezia - è a dir poco sospetta. È troppo perfetta, troppo precisa per essere una coincidenza. Può trattarsi di un'interpola-zione successiva, a posteriori; oppure doveva far parte di un piano meticolosamente preparato. Vi sono molti altri indizi che fanno pensare a quest'ultima possibilità.

Nel Quarto Vangelo Gesù, appeso alla croce, dice di aver sete. Gli viene allora offerta una spugna che, è detto, era stata intrisa

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d'aceto: e questo episodio compare anche negli altri Vangeli. In generale, la spugna viene interpretata come un altro gesto di sadica irrisione. Ma lo era veramente? L'aceto- o il vino inacidito - è uno stimolante, e ha effetti non dissimili da quelli dei sali da fiuto. A quel tempo veniva usato per rianimare gli schiavi infiac­chiti a bordo delle galere. In un uomo ferito ed esausto, l'aceto -fiutato o bevuto - causerebbe una temporanea ripresa dell'ener­gia. Invece, nel caso di Gesù, l'effetto è esattamente il contrario. Appena aspira o assorbe il contenuto della spugna, pronuncia le sue ultime parole e « rende lo spirito ». Una simile reazione causata dall'aceto è fisiologicamente inspiegabile. D'altra parte, sarebbe perfettamente comprensibile se la spugna fosse stata im­bevuta di un soporifero, ad esempio un composto di oppio o di belladonna, sostanze usate comunemente a quel tempo in Medio Oriente. Ma perché dare a Gesù un soporifero? A meno che l'azione, come tutti gli altri fattori della Crocifissione, facesse parte di uno stratagemma complesso e ingegnoso, uno stratagem­ma ideato per causare una morte apparente quando il condanna­to, in effetti, era ancora vivo. Lo stratagemma avrebbe non soltan­to salvato la vita di Gesù, ma avrebbe anche realizzato le profezie dell'Antico Testamento riguardanti il Messia.

La Crocifissione presenta altri aspetti anomali che fanno pensa­re appunto a uno stratagemma del genere. Secondo i Vangeli, Gesù viene crocifisso in un luogo chiamato Golgota, « il luogo del teschio ». La tradizione più tarda tenta di identificare il Golgota con una collina spoglia, più o meno a forma di teschio, situata a nord-ovest di Gerusalemme. Tuttavia i Vangeli chiariscono che il luogo della Crocifissione era molto diverso da una collina a forma di teschio. Il Quarto Vangelo è 11 più esplicito: « Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto » (Giovanni 19:41). Gesù, dunque, non fu crocifisso su una collina spoglia a forma di teschio e neppure in un luogo riservato alle esecuzioni pubbliche. Fu crocifisso in un giardino dove c'era una tomba privata, o nelle immediate vicinanze. Secondo Matteo (27:60), la tomba e il giardino erano proprietà di Giuseppe d'Ari-matea, che secondo tutti i quattro Vangeli, era un ricco seguace segreto di Gesù.

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La tradizione popolare raffigura la Crocifissione come un even­to pubblico, al quale assistettero migliaia di persone. Eppure i Vangeli indicano circostanze ben diverse. Secondo Matteo, Mar­co e Luca, quasi tutti i presenti, incluse le donne, « assistevano da lontano » alla Crocifissione (Luca 23:49). Sembrerebbe quindi evidente che la morte di Gesù non fu un avvenimento pubblico, bensì una crocifissione privata eseguita in una proprietà privata. Molti studiosi moderni sostengono che il luogo era probabilmente l'Orto di Getsemani. Se Getsemani era proprietà di uno dei disce­poli segreti di Gesù, questo spiegherebbe perché Gesù, prima della Crocifissione, potesse servirsene liberamente.27

È superfluo aggiungere che una crocifissione privata in una proprietà privata lascia considerevole spazio a un eventuale ingan­no: una falsa crocifissione, un rito abilmente inscenato. I testimoni oculari sarebbero stati pochi. Per il popolo, il dramma, come confermano i Vangeli Sinottici, sarebbe stato visibile solo da una certa distanza e quindi non sarebbe stato possibile accertare che veniva crocifisso veramente. O se veramente era morto.

Un inganno del genere, ovviamente, avrebbe richiesto la conni­venza di Ponzio Pilato o di un personaggio importante dell'ammi­nistrazione romana. E in effetti, è molto probabile che la conni­venza ci fosse. Certo, Pilato era un individuo crudele e tirannico. Ma era anche corrotto e corruttibile. Il Pilato storico, ben diverso da come lo presentano i Vangeli, non avrebbe rifiutato di rispar­miare la vita di Gesù, in cambio di una lauta somma e magari della garanzia che non vi sarebbero state altre agitazioni politiche.

Quale che fosse il suo movente, non c'è comunque dubbio che Pilato fosse profondamente coinvolto nella faccenda. Riconosce la pretesa di Gesù al titolo di Re dei Giudei. Esprime stupore, vero o fìnto, perché Gesù muore tanto presto. E c'è un fattore che forse è il più importante di tutti: permette a Giuseppe d'Arimatea di portar via il corpo di Gesù.

Secondo la legge romana di quei tempi, a un uomo crocifisso veniva negata la sepoltura.28 Anzi, di solito venivano messi uomini di guardia per impedire che parenti o amici portassero via i cada­veri. La vittima era lasciata sulla croce, abbandonata agli elemen­ti, ai corvi e agli avvoltoi. Eppure Pilato, violando clamorosamen­te la procedura, concede subito a Giuseppe d'Arimatea di portar

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via il corpo di Gesù. Questo attesta un'evidente complicità da parte di Pilato. E potrebbe attestare anche altre cose.

Nelle traduzioni del Vangelo di Marco, Giuseppe chiede a Pilato il corpo di Gesù. Pilato si meraviglia che Gesù sia già morto, interpella un centurione e poi accoglie la richiesta di Giuseppe. A prima vista sembra abbastanza semplice e chiaro; ma nella versio­ne originale greca del Vangelo di Marco la vicenda è più complica­ta. Nella versione greca, quando Giuseppe chiede il corpo di Gesù, usa la parola soma, una parola che indica esclusivamente un corpo vivo. Pilato, nell'acconsentire, usa la parola ptoma, che significa « cadavere ».2'J Secondo il testo greco, quindi, Giuseppe chiede esplicitamente il corpo di un vivo e Pilato gli concede quello che crede, o finge di credere, un cadavere.

Poiché era vietato seppellire i crocifissi, è egualmente straordi­nario che Giuseppe ottenga ciò che ha chiesto. Per quale ragione l'ottiene? Che diritto aveva di richiedere il corpo di Gesù? Se era un discepolo segreto, difficilmente poteva avanzare la richiesta senza rivelarsi: a meno che Pilato sapesse già tutto, o a meno che vi fosse un altro fattore favorevole a Giuseppe.

Vi sono ben poche notizie su Giuseppe d'Arimatea. I Vangeli riferiscono soltanto che era segretamente discepolo di Gesù, ave­va grandi ricchezze e faceva parte del sinedrio, il consiglio degli anziani che governava la comunità di Gerusalemme sotto gli au­spici dei Romani. Sembrerebbe quindi evidente che Giuseppe avesse una notevole influenza. E questa conclusione riceve confer­ma dalle sue trattative con Pilato, e dal fatto che sia proprietario di un appezzamento di terreno con una tomba privata.

La tradizione medievale presenta Giuseppe d'Arimatea come un custode del Santo Graal; e viene detto che Perceval è suo discendente. Secondo altre tradizioni più tarde, è in qualche modo relato al sangue di Gesù e alla famiglia di Gesù. Se era davvero così, questo gli avrebbe almeno dato una ragione plausibile per richiedere il corpo di Gesù; infatti, se ben difficilmente Pilato avrebbe concesso a uno sconosciuto di portar via il cadavere di un criminale giustiziato, avrebbe potuto invece, in cambio di una somma cospicua, concederlo a un parente del morto. Se Giusep­pe, ricco e influente membro del sinedrio, era parente di Gesù, questo conferma di nuovo l'appartenenza di Gesù a una stirpe

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aristocratica. E se era parente di Gesù, la sua associazione con il Santo Graal, il « sangue reale », diventerebbe ancora molto più spiegabile.

Lo « scenario »

Avevamo già abbozzato un'ipotesi provvisoria che proponeva l'esistenza di una stirpe discesa da Gesù. Incominciammo ora ad ampliare l'ipotesi e ad aggiungere numerosi dettagli importanti, benché ancora in via provvisoria. E poco a poco il quadro com­plessivo cominciò ad acquisire coerenza e plausibilità.

Appariva sempre più chiaro che Gesù era un re- sacerdote, un aristocratico, legittimo pretendente al trono, e aveva intrapreso un tentativo di riconquistare l'eredità che gli spettava. Era nato in Galilea, tradizionale fucina d'opposizione alla dominazione roma­na. Nel contempo, aveva avuto numerosi sostenitori nobili, ricchi e influenti in tutta la Palestina, inclusa la capitale, Gerusalemme; e uno di questi sostenitori, un potente membro del sinedrio, poteva essere addirittura suo parente. Inoltre a Betania, un sobborgo di Gerusalemme, c'era la casa di sua moglie o dei familiari di sua moglie; e lì risiedeva l'aspirante re-sacerdote alla vigilia del suo ingresso trionfale nella capitale. Lì aveva creato il centro del suo culto misterico. Lì aveva accresciuto il numero dei suoi seguaci eseguendo iniziazioni rituali, inclusa quella del cognato.

Un aspirante re-sacerdote avrebbe logicamente suscitato una forte opposizione in certi ambienti: inevitabilmente tra i Romani dominatori e forse anche tra certi gruppi giudaici, ad esempio di sadducei. L'uno o l'altro di questi schieramenti, o forse entrambi riuscirono a sventare la sua azione per arrivare al trono. Ma il tentativo di eliminarlo non riuscì come avevano sperato. Infatti, a quanto sembra, il re-sacerdote aveva amici altolocati i quali, in collusione con un corrotto e corruttibile governatore romano, avrebbero inscenato una falsa crocifissione su un terreno privato, accessibile solo a pochi eletti. Poi, con il popolo tenuto a debita distanza, fu inscenata l'esecuzione, nella quale un sostituto prese il posto del re-sacerdote sulla croce, o in cui lo stesso re-sacerdote non morì veramente. Verso il cader della notte, quando la visibili­tà era ancora più scarsa, un « corpo » fu trasportato in una tomba

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opportunamente vicina, dalla quale, dopo un giorno o due, scom­parve « miracolosamente ».

Se il nostro « scenario » era esatto, dove andò poi Gesù? Per quanto riguardava l'ipotesi della sua stirpe, la risposta a questo interrogativo non aveva particolare importanza. Secondo certe leggende islamiche e indiane, Gesù morì vecchio, in Oriente: nel Kashmir, come è affermato più spesso. D'altra parte, un giornali­sta australiano ha avanzato l'ipotesi affascinante e persuasiva che Gesù morisse a Masada quando la fortezza fu espugnata dai Ro­mani nel 74 d.C, quando ormai doveva avvicinarsi agli ottant'an-ni.30

Secondo la lettera da noi ricevuta, i documenti trovati da Béren-ger Saunière a Rennes-le-Chàteau contenevano la « prova incon­trovertibile » che Gesù era ancora vivo nel 45 d.C: ma non è indicato dove. Una possibilità verosimile sarebbe che Gesù fosse riparato in Egitto, e precisamente ad Alessandria, dove, più o meno nello stesso periodo, il saggio Ormus avrebbe creato la Rosacroce fondendo il cristianesimo con misteri più antichi, pre­cristiani. È stato addirittura detto che il corpo mummificato di Gesù potrebbe essere nascosto nei dintorni di Rennes-le-Chàteau, il che spiegherebbe il messaggio cifrato contenuto nelle pergame­ne di Saunière, « ileStlàmort » (Egli è morto là).

Non intendiamo affermare che Gesù accompagnò i suoi familia­ri a Marsiglia. Anzi, le circostanze sembrerebbero indicare il contrario. Forse non era in condizioni di viaggiare, e la sua presen­za avrebbe costituito una minaccia per la sicurezza dei suoi paren­ti. Forse ritenne più importante restare in Terrasanta, come suo fratello, san Giacomo, per realizzarvi i suoi obiettivi. Insomma, come non ne formulano gli stessi Vangeli, anche noi non siamo in grado di formulare ipotesi sulla sua sorte.

Ai fini della nostra teoria, però, la sorte di Gesù era meno importante della sorte della sacra famiglia, e soprattutto di suo cognato, sua moglie e i suoi figli. Se il nostro « scenario » era esatto, questi, insieme a Giuseppe d'Arimatea e ad altri, furono portati clandestinamente per nave dalla Terrasanta a Marsiglia. E quando sbarcò, la Maddalena avrebbe veramente portato in Fran­cia il Sangraal, il « sangue reale », la schiatta della casa di Davide.

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Note

1   Smith, Secret Gospel, pp. 14 sgg.

2  Ibid., pp. 15 sgg.

3  Ibid., p. 16.

4  Ibid., pp. 16 sgg. Il giovane nudo, avvolto in un drappo di lino appare più tardi in Marco 14:51-2. Quando Gesù viene tradito a Getsemani, è accompagnato da « un giovanetto... rivestito soltanto di un lenzuolo ».

5   I più antichi manoscritti delle Scritture, incluso il Codex Vaticamts e il Codex Sinaiticus, non contengono l'attuale finale del Vangelo di Marco. In entrambi il Vangelo di Marco termina con 16:8. Entrambi risalgono al IV secolo, l'epoca in cui l'intera Bibbia fu raccolta per la prima volta in un unico volume.

6  Maccoby, Revolutìon in Judaea, p. 99.

7   Dodd, Historical Tradition in thè Fourth Gospel, p. 423.

8  Brandon, Jesus and thè Zealots, p. 16.

9  Vermes, Jesus thè Jew, p. 99.

10  Charles Davis, dichiarazioni pubblicate dall'« Observer » (London, 28 marzo 1971), p. 25.

1 '  Phipps, Sexuality ofJesus, p. 44.

12  Smith, Jesus thè Magician, pp. 81 sgg.

13  Brownlee, « Whence thè Gospel According to John », p. 192. •4  Schonfield, Passover Plot, pp. 119,134 sgg.

15  Ibid., p. 256.

16  La tradizione più comune è contenuta in Jacobus de Voragine, The Golden Legend, in Life ofS. Mary Magdalen, pp. 73 sgg. (traduzione inglese della Leggen­da aurea di Jacopo da Varazze). II testo risale al 1270. La forma scritta più antica di questa tradizione sembrerebbe la « Vita di Maria Maddalena » di Rabano (776-856), arcivescovo di Mainz. In The Antiquities of Glastonbury di William di Malmesbury appare per la prima volta l'estensione della leggenda: l'arrivo di Giuseppe d'Arimatea in Britannia. Spesso è ritenuta un'aggiunta più tarda all'ope­ra di William.

17   Vermes, Jesus thè Jew, p. 21, ricorda che in vari detti talmudici il sostantivo aramaico che significa falegname o artigiano (naggar) sta per dotto o sapiente.

18  Maccoby, Revolutìon in Judaea, pp. 57 sgg., cita Filone d'AIessandria che chiama Pilato « crudele per natura ».

19  Cohn, H., Trial and Death of Jesus, pp. 97 sgg.

20  Tutti gli studiosi sono daccordo nell'affermare che tale privilegio non esisteva. Lo scopo dell'invenzione è accrescere la colpa dei Giudei. Cfr. Brandon, Jesus and Zealots, p. 259; Cohn, H., Trial and Death of Jesus, pp. 166 sgg. (Haim Cohn è un ex procuratore generale—ministro della Giustizia - di Israele, membro della Corte

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suprema, e docente di storia del diritto); e Winter, P., On thè TrialofJesus, p. 94.

21   Come osserva il professor Brandon (Jesus and Zealots, p. 328), tutte le indagini sul Gesù storico devono partire dal fatto che fu giustiziato dai Romani per sedizio­ne. Brandon aggiunge che la tradizione secondo la quale egli era « Re dei Giudei » dev'essere considerata autentica. Dato il suo carattere imbarazzante, è inverosimi­le che il titolo sia un'invenzione dei primi cristiani.

22   Maccoby, Revolution inJudaea, p. 216.

23  Brandon, Trial of Jesus, p. 34.

24   Joyce, Jesus Scroll, p. 106.

25   Circa i dettagli della crocifissione cfr. Winter, On thè TrialofJesus, pp. 62 sgg., e Cohn, H., Trial and Death of Jesus, pp. 230 sgg.

26  Cfr. Schonfield, Passover Plot, pp. 154 sgg., per i dettagli.

27   Un argomento a sostegno di questa identificazione è esposto da Allegro, The Copper Scroll, pp. 100 sgg.

28   Cohn, H., Trial and Death Jesus, p. 238.

29   Cfr. The Interlinear Greek-English New Testament, p. 214 (Marco 15:43,45).

30   Joyce, Jesus Scroll. L'autore afferma che, mentre si trovava in Israele, fu chiesto il suo aiuto per esportare clandestinamente un rotolo rubato dagli scavi di Masa-da. Sebbene rifiutasse, sostiene di aver visto il rotolo. Era firmato Yeshua ben Ya'akob ben Gennesareth, che diceva di avere ottant'anni e aggiungeva di essere l'ultimo legittimo re d'Israele (p. 22). Il nome, tradotto, diventa Gesù, di Genezar reth, figlio di Giacobbe. Joyce identifica l'autore con Gesù di Nazareth.

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XIII

II segreto proibito dalla Chiesa

Ci rendevamo perfettamente conto, è ovvio, che il nostro « scena­rio » non corrispondeva agli insegnamenti cristiani consolidati. Ma più indagavamo e più diventava evidente che questi insegna­menti, come sono stati trasmessi nel corso dei secoli, rappresenta­no solo una compilazione estremamente selettiva di frammenti, sottoposta a revisioni ed epurazioni rigorose. In altre parole, il Nuovo Testamento offre di Gesù e del suo tempo un quadro che si adegua alle esigenze di certi interessi, di certi gruppi e individui che avevano in gioco, e hanno ancora oggi, una posta importante. E tutto ciò che potrebbe compromettere questi interessi - come ad esempio in Vangelo « segreto » di Marco - è stato diligentemente espunto. Anzi, è stato eliminato tanto materiale che si è formata una specie di vuoto. In questo vuoto, la speculazione diventa giustificata e necessaria.

Se Gesù era un legittimo pretendente al trono, è probabile che fosse sostenuto, almeno all'inizio, da una percentuale relativa­mente modesta della popolazione: la sua famiglia venuta dalla Galilea, altri membri dell'aristocrazia, e alcuni rappresentanti piazzati in posizioni strategiche nella Giudea e nella capitale, Gerusalemme. Questo seguito, per quanto illustre, non sarebbe bastato ad assicurare la realizzazione dei suoi obiettivi: la scalata al trono. Perciò, Gesù sarebbe stato costretto a reclutare un seguito più numeroso nelle altre classi sociali: come fece nel 1745 il « Bonnie Prince Charlie », per tornare a un'analogia già proposta.

Come si può reclutare un seguito numeroso? Ovviamente, pro­mulgando un messaggio ideato apposta per assicurarsi appoggio e

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devozione. Non era necessario che fosse un messaggio cinico quanto quelli della politica moderna. Al contrario, potrebbe esse­re stato diffuso in completa buonafede, con un ardente, nobile idealismo. Ma nonostante il suo carattere nettamente religioso, l'obiettivo primario sarebbe stato lo stesso dei messaggi della politica moderna: assicurarsi l'adesione del popolo. Gesù promul­gò un messaggio che cercava di fare proprio questo: offrire speran­za agli angariati, agli afflitti, agli oppressi. Insomma, era un mes­saggio che conteneva una promessa. Se il lettore moderno supera pregiudizi e preconcetti, scoprirà un meccanismo straordinaria­mente affine a quello che si può vedere dovunque nel mondo di oggi. Un meccanismo per mezzo del quale il popolo viene unito in nome di una causa comune, e trasformato in uno strumento per rovesciare un regime dispotico.

L'importante, è che il messaggio di Gesù era sia etico che politico. Era rivolto a una certa parte della popolazione, secondo precise considerazioni politiche. Perché solo tra gli oppressi, gli angariati e gli afflitti Gesù poteva sperare di reclutare un seguito consistente. I sadducei, che si erano accordati con i Romani inva­sori, come tutti i sadducei della storia non avrebbero voluto saper­ne di rinunciare a ciò che possedevano, o di mettere a repentaglio la loro sicurezza e la loro stabilità.

Il messaggio di Gesù, quale appare nei Vangeli, non è intera­mente nuovo né unico. È probabile che Gesù fosse un fariseo, e i suoi insegnamenti contengono numerosi elementi della dottrina farisaica. Come attestano i Rotoli del Mar Morto, contengono anche diversi aspetti importanti del pensiero degli esseni. Ma se il messaggio in se stesso non era del tutto originale, lo era probabil­mente il modo di trasmetterlo. Gesù era senza dubbio un perso­naggio dotato di uno straordinario carisma. Forse possedeva fa­coltà di guaritore e aveva il dono di compiere altri « miracoli ». Senza dubbio, aveva la dote di comunicare le sue idee permezzo di parabole vivide e suggestive, che non richiedevano una prepara­zione raffinata da parte del pubblico ed erano comprensibili a tutta la popolazione. Inoltre, a differenza dei suoi precursori esseni, Gesù non doveva limitarsi a predire l'avvento di un Messia. Pote­va affermare di essere il Messia. E naturalmente questo avrebbe

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conferito alle sue parole un'autorità e una credibilità assai più grandi.

È chiaro che, al tempo del suo ingresso trionfale in Gerusalem­me, Gesù aveva reclutato un seguito importante. Ma questo segui­to doveva essere composto da due elementi distinti, i cui interessi non coincidevano. Da una parte doveva esserci un piccolo nucleo di « iniziati »: i familiari, altri nobili, sostenitori ricchi e influenti, il cui scopo primario era vedere il loro candidato insediato sul trono. Dall'altra doveva esserci un seguito assai più numeroso di « gente comune », i « soldati semplici » del movimento, il cui obiettivo primario era veder realizzato il messaggio, e la promessa che questo conteneva. È importante riconoscere la distinzione tra queste due fazioni. Il loro obiettivo politico - porre Gesù sul trono - sarebbe stato identico. Ma sarebbero state sostanzialmente di­verse le loro motivazioni.

Quando l'impresa fallì, come appare evidente, la delicata al­leanza tra le due fazioni - i « seguaci del messaggio » e i seguaci della famiglia - a quanto sembra si sfasciò. Di fronte alla sconfitta e alla minaccia incombente di annientamento, la famiglia avrebbe dato la precedenza al fattore che, da tempo immemorabile, è sempre stato d'importanza suprema per le famiglie nobili e reali: preservare a ogni costo la stirpe, se necessario anche in esilio. Ma per i « seguaci del messaggio », il futuro della famiglia sarebbe divenuto trascurabile. Per loro, la sopravvivenza della stirpe avrebbe avuto un interesse secondario. Il loro obiettivo principale sarebbe stato perpetuare e diffondere il messaggio.

Il cristianesimo, come si è evoluto nei primi secoli per giungere fino a noi, è un prodotto dei « seguaci del messaggio ». La sua diffusione e il suo sviluppo sono stati esplorati e seguiti fin troppo ampiamente da altri studiosi per richiedere in questa sede un'at­tenzione particolare. Basti dire che, con san Paolo, « il messaggio » aveva già incominciato ad assumere una forma cri­stallizzata e definitiva; e questa forma divenne la base sulla quale fu eretto l'intero edificio teologico del cristianesimo. Già al tempo in cui furono composti i Vangeli, i princìpi fondamentali della nuova religione erano virtualmente completi.

La nuova religione si rivolgeva soprattutto a un pubblico roma­no o romanizzato. Quindi la parte avuta da Roma nella morte di

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Gesù venne necessariamente insabbiata, e la colpa fu scaricata sui Giudei. Ma questa non fu la sola libertà che ci si prese nei confron­ti degli eventi, per renderli accettabili al mondo romano. Infatti, il mondo romano era abituato a divinizzare i suoi sovrani, e Cesare era già stato ufficialmente riconosciuto dio. Per fargli concorren­za, Gesù - che in precedenza nessuno aveva considerato divino -doveva essere ugualmente deificato. E lo fu, a opera di Paolo.

Prima che fosse possibile diffonderla con successo, dalla Palesti­na alla Siria, l'Asia Minore, la Grecia, l'Egitto, Roma e l'Europa occidentale, la nuova religione doveva essere resa accettabile ai popoli di quei territori. E doveva reggere il confronto con le fedi già consolidate. Il nuovo dio, insomma, doveva essere, in quanto a potere, maestà e miracoli, all'altezza degli dei che doveva sop­piantare . Se Gesù doveva far presa sul mondo romanizzato del suo tempo, doveva necessariamente diventare un dio in piena regola. Non un Messia nel vecchio senso della parola, non un re­sacerdote, ma Dio incarnato che, come i suoi equivalenti siriani, fenici, egizi e classici, era passato attraverso gli inferi ed era risorto, ringiovanito, con la primavera. Fu a questo punto che l'idea della Resurrezione assunse per la prima volta la sua impor­tanza cruciale, e per una ragione ovvia: per porre Gesù sullo stesso piano di Tammuz, Adone, Atti, Osiride e tutti gli altri dèi morti e risorti, che predominavano nel mondo di quel tempo. Esattamen­te per la stessa ragione fu promulgata la dottrina della verginità della madre di Gesù. E la festa di Pasqua, la festa della morte e della resurrezione, venne fatta coincidere con i riti primaverili di altri culti e di altre scuole misteriche contemporanee.

Data la necessità di diffondere il mito di un dio, Ja famiglia del « dio » e i fattori politici e dinastici della sua storia sarebbero diventati superflui. Legati com'erano a un periodo e a un luogo precisi, avrebbero sminuito il suo carattere universale. Quindi, per confermare questa universalità, tutti gli elementi politici e dinastici furono rigorosamente eliminati dalla biografia di Gesù. E così pure vennero rimossi tutti i riferimenti agli zeloti e agli esseni. Sarebbero stati imbarazzanti, a dir poco. Non sarebbe apparso confacente a un dio il suo coinvolgimento in una cospirazione politica e dinastica complessa e in fondo effimera, che per giunta era fallita: Alla fine rimase soltanto quanto era contenuto nei

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Vangeli: un racconto di austera, mitica semplicità, ambientato incidentalmente nella Palestina del I secolo occupata dai Romani, ma sostanzialmente nel presente eterno di tutti i miti.

Mentre « il messaggio » si sviluppava in questo modo, la fami­glia e i suoi sostenitori, a quanto sembra, non stavano in ozio. Giulio Africano, che scrive nel III secolo, riferisce che i parenti superstiti di Gesù accusavano sdegnosamente i sovrani della casa di Erode di distruggere le genealogie dei nobili giudei, eliminando così tutto ciò che poteva servire a contestare il loro diritto al trono. E gli stessi parenti erano « emigrati del mondo », portando con loro certe genealogie sfuggite alla distruzione dei documenti du­rante la ribellione del 66-74 d.C.1

Per i propagatori del nuovo mito, l'esistenza di questa famiglia dovette diventare ben presto assai più di un dettaglio trascurabile. Dovette diventare un fattore potenzialmente imbarazzante di pro­porzioni enormi. Infatti la famiglia - che poteva testimoniare di prima mano ciò che era accaduto storicamente - avrebbe costitui­to una pericolosa minaccia per il mito. Anzi, in base alla sua conoscenza diretta, la famiglia avrebbe potuto distruggere il mito nel modo più completo. Quindi nei primi tempi del cristianesimo ogni menzione di una famiglia nobile o reale, di una stirpe, di ambizioni politiche e dinastiche avrebbe dovuto venire soppressa. E - poiché è doveroso riconoscere la cinica realtà della situazione - la famiglia stessa, che poteva tradire la nuova religione, avrebbe dovuto essere sterminata, se fosse stato possibile. Ecco quindi la necessità della massima segretezza da parte della famiglia. Ecco quindi l'intolleranza dei primi padri della Chiesa nei confronti di ogni deviazione dall'ortodossia che si sforzavano di imporre. Ecco quindi, forse, anche una delle origini dell'antisemitismo. Infatti i « seguaci del messaggio », i propagatori del mito, avrebbero rea­lizzato un duplice scopo incriminando gli Ebrei e scagionando i Romani. Non soltanto avrebbero reso accettabili il mito e il « mes­saggio » al pubblico romano; avrebbero anche impugnato la credi­bilità della famiglia, perché la famiglia era ebrea. E il sentimento antisemita che suscitarono avrebbe favorito ancor più i loro obiet­tivi. Se la famiglia aveva trovato rifugio presso una comunità ebraica entro i confini dell'impero, la persecuzione popolare avrebbe potuto ridurre al silenzio quei testimoni scomodi.

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Accattivandosi il pubblico romano, deificando Gesù e presen­tando gli Ebrei come responsabili della sua morte, si aveva così la certezza del successo di quella che in seguito divenne l'ortodossia cristiana. La posizione di questa ortodossia cominciò a consolidar­si definitivamente nel II secolo, soprattutto per merito di Ireneo, vescovo di Lione intorno al 180 d.C. Probabilmente più di ogni altro padre della Chiesa, Ireneo riuscì a dare alla teologia cristiana una forma stabile e coerente. E vi riuscì soprattutto per mezzo di un'opera voluminosa, Libros quinque adversus haereses (Cinque libri contro le eresie). In questo scritto meticoloso, Ireneo catalo­gò tutte le deviazioni dall'ortodossia che stava allora prendendo forma, e le condannò con veemenza. Deplorò ogni diversità, e sostenne che poteva esservi una sola chiesa valida, al di fuori della quale non c'era salvezza. Chiunque sfidava questa asserzione, dichiarò Ireneo, era un eretico, e doveva essere espulso e se possibile eliminato.

Tra le numerose forme del protocristianesimo, fu lo gnostici­smo* a incorrere nell'ira più accanita di Ireneo. Lo gnosticismo si basava sull'esperienza personale, sull'unione personale con il divi­no. Per Ireneo, naturalmente, questo minava alla base l'autorità dei preti e dei vescovi, e quindi ostacolava il tentativo di imporre l'uniformità. Perciò egli s'impegnò energicamente per sopprimere lo gnosticismo. Per riuscire, si doveva scoraggiare la speculazione individuale e promuovere una fede indiscussa nel dogma. Era necessario un sistema teologico, una struttura di dottrine codifica­te che non consentissero l'interpretazione individuale. In contrap­posizione all'esperienza personale e alla gnosi [conoscenza], Ire­neo propugnava una sola Chiesa « cattolica » (cioè universale) basata sulla successione apostolica. E per realizzare la creazione di questa Chiesa, Ireneo riconosceva la necessità di un canone defini­tivo, un elenco fisso di scritti autorevoli. Perciò compilò questo canone definitivo, setacciando le opere disponibili, includendone alcune ed escludendone altre. Ireneo è il primo autore il cui canone del Nuovo Testamento è sostanzialmente conforme a quello attuale.

*Cfr. su questo argomento Elaine Pagels, / vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Milano 1981 [N.d R.]

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Naturalmente queste misure non impedirono che le eresie si diffondessero. Al contrario, continuarono a fiorire. Ma con Ire-neo l'ortodossia, il tipo di cristianesimo promulgato dai « seguaci del messaggio », assunse una forma coerente che le assicurò la sopravvivenza e il trionfo finale. Non è irragionevole affermare che Ireneo spianò la strada a ciò che avvenne durante e subito dopo il regno di Costantino, sotto i cui auspici l'Impero romano divenne, in un certo senso, impero cristiano.

Il ruolo di Costantino nella storia e nello sviluppo del cristianesi­mo è stato falsificato e frainteso. La spuria « Donazione di Co­stantino », dell'VIII secolo, già discussa nel capitolo IX, servì a confondere ancora di più gli autori del periodo successivo. Co­munque, viene spesso attribuita a Costantino la vittoria decisiva dei « seguaci del messaggio » - e non del tutto a torto. Quindi, eravamo obbligati a considerarlo più attentamente, e per riuscirci dovevamo eliminare alcune delle azioni più fantasiose e speciose che gli venivano ascritte.

Secondo la successiva tradizione della Chiesa, Costantino aveva ereditato dal padre una certa simpatia per il cristianesimo. In effetti, questa simpatia sembra fosse dovuta soprattutto a conside­razioni pratiche, perché i cristiani erano ormai numerosi, e Co­stantino aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile contro Massenzio, che gli contendeva il trono imperiale. Nel 312 d.C. Massenzio fu sconfitto a Ponte Milvio, e Costantino restò padrone incontestato dell'impero. Poco prima di questo scontro decisivo, si racconta che Costantino avesse una visione, poi confermata da un sogno profetico: gli apparve in cielo una croce luminosa, con la scritta In hoc signo vinces (In questo segno vincerai) La tradizione narra che Costantino, obbedendo al portento celeste, ordinò di dipinge­re in fretta e furia, sugli scudi dei suoi soldati, il monogramma cristiano, le lettere greche Chi e Rho, e le prime due della parola Christos. Perciò la vittoria di Costantino su Massenzio a Ponte Milvio finì per rappresentare il miracoloso trionfo del cristianesi­mo sul paganesimo.

Questa è dunque la tradizione popolare della Chiesa, in base alla quale spesso si crede che Costantino abbia « convertito l'Im­pero romano al cristianesimo ». In realtà, invece, Costantino non

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fece nulla del genere. Ma per scoprire più esattamente che cosa fece, dobbiamo esaminare più a fondo l'evidenza.

In primo luogo la « conversione » di Costantino, se questa è la parola appropriata, non fu affatto cristiana, ma clamorosamente pagana. Sembra che egli avesse avuto una specie di visione, o di esperienza numinosa, nel recinto di un tempio pagano consacrato all'Apollo gallico, nei Vosgi o presso Autun. Secondo un testimo­ne che a quel tempo accompagnava l'esercito di Costantino, fu una visione del dio Sole, adorato da certe sette con il nome di Sol Invictus, « Sole Invitto ». E Costantino, poco prima della visione, era stato iniziato al culto del Sole Invitto. Comunque il Senato romano, dopo la battaglia di Ponte Milvio, eresse un arco di trionfo nel Colosseo. Secondo l'iscrizione dell'arco, la vittoria di Costantino fu ottenuta « per ispirazione della Divinità ». Ma la Divinità in questione non era Gesù. Era il Sole Invitto, il dio pagano.2

Contrariamente alla tradizione, Costantino non fece del cristia­nesimo la religione di Stato dell'Impero. La religione di Stato, sotto Costantino, era il culto pagano del sole; e per tutta la vita Costantino ne fu il sommo sacerdote. Anzi, il suo regno veniva chiamato P« impero solare » e il Sole Invitto figurava dovunque, inclusi gli stendardi imperiali e le monete. L'immagine di Costan­tino quale fervente neofita del cristianesimo è chiaramente infon­data. L'imperatore fu battezzato solo nel 337, quando giaceva sul letto di morte ed era troppo debole o troppo apatico per opporsi. E non si può attribuire a lui neppure il monogramma Chi Rho. Un'iscrizione con questo monogramma è stata ritrovata su una tomba di Pompei che risale a due secoli e mezzo prima.3

Il culto del Sole Invitto era d'origine siriana, e'venne imposto dagli imperatori romani ai loro sudditi un secolo prima di Costan­tino. Sebbene includesse elementi del culto di Baal e di Astarte, era sostanzialmente monoteistico, e in effetti presentava il dio del sole come la summa degli attributi di tutti gli altri dei; quindi assorbiva pacificamente in sé i suoi potenziali rivali. Inoltre, era utilmente armonizzato con il culto di Mitra, che a quei tempi aveva un posto importante a Roma e nell'impero, e che comportava anch'esso l'adorazione del sole.

A Costantino il culto del Sole Invitto, molto semplicemente,

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faceva comodo. Il suo obiettivo principale e assillante era l'unità: in politica, nella religione e nell'assetto territoriale. Una religione di Stato che riassumeva in sé tutti gli altri culti favoriva chiaramen­te questo obiettivo. E fu sotto gli auspici del culto del Sole Invitto che il cristianesimo consolidò la sua posizione.

L'ortodossia cristiana aveva molto in comune con il culto del Sole Invitto, e quindi potè fiorire indisturbata all'ombra dello spirito tollerante di quest'ultimo. Il culto del Sole Invitto, essendo sostanzialmente monoteistico, spianò la strada al monoteismo cristiano. Inoltre, era utile anche sotto altri aspetti; aspetti che modificarono e nel contempo agevolarono la diffusione del cristia­nesimo. Con un editto promulgato nel 321 d.C, ad esempio, Costantino ordinò che i tribunali restassero chiusi nel « venerabile giorno del sole », e stabilì che quel giorno doveva essere dedicato al riposo. Fino a quel momento, il cristianesimo aveva considerato sacro il sabbath ebraico. Obbedendo all'editto costantiniano, scel­se come giorno sacro la domenica. Questo non soltanto lo metteva in armonia con il regime esistente, ma lo distanziava ancora di più dalle sue origini giudaiche. Fino al IV secolo, inoltre, la nascita di Gesù era stata celebrata il 6 gennaio. Ma per il culto del Sole Invitto il giorno più importante dell'anno era il 25 dicembre, la festa del Natalis Invictus, la nascita (o la rinascita) del sole, quando le giornate ricominciano ad allungarsi. Anche in questo, il cristia­nesimo si allineò con il regime e la religione di Stato.*

Il culto del Sole Invitto si fondeva felicemente con quello di Mitra, al punto di confondersi con esso.4 Entrambi esaltavano il sole, entrambi avevano come giorno sacro la domenica. Entrambi celebravano una festività natale il 25 dicembre. Quindi il cristiane­simo poteva trovare una certa convergenza anche con il mitrai-smo, tanto più che il mitraismo propugnava l'immortalità dell'ani­ma, un futuro giudizio e la resurrezione dei morti.

Per favorire l'unità, Costantino sfumò volutamente le distinzio-

*Gli antichi Romani celebravano anche la settimana del solstizio di inverno (i Saturnali) per propiziare un ritorno dell'estate con ricche messi e cibo abbondante. I Saturnali fino all'epoca di Augusto duravano tre giorni, poi furono portati a sette. Col diffondersi del cristianesimo, i Saturnali vennero assorbiti dalla nuova religio­ne e poco dopo il 300 il 25 dicembre era diventato il giorno della nascita di Cristo al posto della nascita del Sole. [N.d.R.]

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ni fra il cristianesimo, il mitraismo e il culto del Sole Invitto, e finse che tra essi non vi fossero contraddizioni. Di conseguenza tollera­va il Gesù deificato come una manifestazione terrena del Sole Invitto. Quindi era capace di erigere una chiesa cristiana e, nel contempo, statue della Dea Madre Cibele e del Sole Invitto: quest'ultima statua aveva le fattezze dello stesso imperatore. In questi gesti eclettici ed ecumenici si può scorgere ancora una volta l'importanza attribuita all'unità. La fede, insomma, per Costanti-no era una questione politica; e ogni fede che favorisse l'unità veniva trattata con tolleranza.

Perciò, sebbene Costantino non fosse affatto il « buon cristiano » dipinto dalla tradizione più tarda, in nome dell'unità e dell'uniformità consolidò la posizione dell'ortodossia cristiana. Nel 325 d.C., ad esempio, convocò il Concilio di Nicea. In questo concilio fu fissata la data della Pasqua. Furono stabilite regole che definivano l'autorità dei vescovi e spianavano quindi la strada a una concentrazione del potere nelle mani degli ecclesiastici. E cosa ancora più importante, il Concilio di Nicea decise, con una votazione,5 che Gesù era un dio e non un profeta mortale. Ancora una volta, però, si deve ricordare che a Costantino stava a cuore l'unità e non la pietà religiosa. Come Dio, Gesù poteva venire opportunamente associato al Sole Invitto. Come profeta mortale, sarebbe stato più difficile dargli una collocazione. Insomma, l'or­todossia cristiana si prestava a una fusione politicamente auspica­bile con la religione ufficiale di Stato; e per questo Costantino le diede il suo appoggio.

E fu così che, un anno dopo il Concilio di Nicea, sanzionò la confisca e la distruzione di tutte le opere che contestavano gli insegnamenti ortodossi: le opere degli autori pagani che parlavano di Gesù e quelle dei cristiani « eretici ». Stabilì inoltre che alla Chiesa fosse assegnata una rendita fissa, e insediò il vescovo di Roma nel palazzo del Laterano.6 Poi, nel 331 d.C. commissionò e finanziò nuove copie della Bibbia. Questo fu uno dei fattori decisi­vi nell'intera storia del cristianesimo, e offrì un'occasione senza precedenti per l'affermazione dell'ortodossia cristiana dei « se­guaci del messaggio ».

Nel 303 d.C., un quarto di secolo prima, l'imperatore pagano Diocleziano aveva ordinato di distruggere tutti gli scritti cristiani

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che era possibile trovare. Quindi i documenti cristiani, soprattutto a Roma, erano quasi spariti. Quando Costantino commissionò nuove versioni di questi documenti, ciò permise ai custodi dell'or­todossia di revisionare, modificare e riscrivere il materiale come ritenevano più opportuno, secondo le loro dottrine. Fu a questo punto che vennero apportate probabilmente quasi tutte le altera­zioni decisive al Nuovo Testamento, e Gesù assunse la posizione eccezionale che ha avuto da allora. Non si deve sottovalutare l'importanza della commissione costantiniana. Delle cinquemila versioni manoscritte più antiche del Nuovo Testamento, nessuna è anteriore al IV secolo.7 Il Nuovo Testamento, nella sua forma attuale, è sostanzialmente il prodotto dei revisori e degli scrittori del IV secolo: custodi dell'ortodossia, « seguaci del messaggio » con precisi interessi da difendere.

Gli zeloti

Dopo Costantino, il corso dell'ortodossia cristiana è piuttosto noto e ben documentato. È superfluo aggiungere che culminò con il trionfo finale dei « seguaci del messaggio ». Ma se « il messag­gio » si affermò come il principio guida della civiltà occidentale, non rimase del tutto incontestato. A quanto sembra le rivendica­zioni e l'esistenza stessa della famiglia, che pure era esule e in incognito, esercitarono un grande fascino, un fascino che finì per rappresentare una frequente minaccia per l'ortodossia di Roma.

L'ortodossia romana si basa essenzialmente sui libri del Nuovo Testamento. Ma il Nuovo Testamento non è altro che una selezio­ne di documenti protocristiani risalenti al IV secolo. Vi sono però molte altre opere- più antiche del Nuovo Testamento nella sua forma attuale, e alcune gettano una nuova luce, significativa e spesso polemica, sulle versioni accettate.

Vi sono, ad esempio, i vari libri esclusi dalla Bibbia, che forma­no la compilazione oggi conosciuta come « gli Apocrifi ». Alcune delle opere incluse negli Apocrifi sono indubbiamente tarde, e furono composte nel VI secolo. Altre, però, erano in circolazione già nel II secolo, e potrebbero rivendicare una veridicità pari a quella degli stessi Vangeli originali.

Una di queste opere è il Vangelo di Pietro, di cui fu trovata una

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copia in una valle dell'alto Nilo nel 1886, sebbena venga menzio­nato dal vescovo di Antiochia nel 180 d.C. Secondo questo Vange­lo « apocrifo », Giuseppe d'Arimatea era intimo amico di Ponzio Piiate E se questo fosse vero accrescerebbe la verosimiglianza di una falsa Crocifissione. Il Vangelo di Pietro riferisce inoltre che la tomba in cui fu sepolto Gesù si trovava in un luogo chiamato « il giardino di Giuseppe ». E le ultime parole di Gesù sulla croce sono particolarmente inquietanti: « Mio potere, mio potere, perché mi hai abbandonato? ».8

Un'altra opera apocrifa interessante è il Vangelo dell'Infanzia di Gesù Cristo, non posteriore al II secolo e forse ancora più antico. In questo libro, Gesù è presentato come un bambino geniale ma eminentemente umano. Forse fin troppo umano, per­ché è violento e indisciplinato, portato a sconvolgenti manifesta­zioni e a un uso piuttosto irresponsabile dei suoi poteri. Anzi, una volta uccide un altro bambino che lo ha offeso. La stessa sorte tocca a un mentore troppo autocratico. Si tratta di episodi indub­biamente spuri; ma mostrano il modo in cui, a quel tempo, doveva venire rappresentato Gesù perché acquisisse una posizione divina agli occhi dei suoi seguaci.

Oltre al comportamento piuttosto deplorevole di Gesù bambi­no, nel Vangelo dell'Infanzia c'è un episodio curioso e forse significativo. Quando Gesù venne circonciso, della pelle del pre­puzio si sarebbe appropriata una vecchia non meglio identificata, che la conservò in uno scrigno d'alabastro, usato per l'olio di nardo. E « questo fu lo scrigno d'alabastro che Maria la peccatrice si procurò e da esso versò l'unguento sulla testa e i piedi di nostro Signore Gesù Cristo ».9

Anche qui, dunque, come nei Vangeli canonici, incontriamo un'unzione che evidentemente è più di quel che sembra: un'unzio­ne equivalente a un rito significativo. E l'episodio implica una connessione, per quanto oscura e tortuosa, tra la Maddalena e la famiglia di Gesù molto tempo prima che Gesù iniziasse il suo magistero all'età di trent'anni. È ragionevole presumere che i genitori di Gesù non avrebbero consegnato la pelle del suo prepu­zio alla prima vecchia che l'avesse domandata, anche se non vi fosse stato nulla di insolito in una richiesta apparentemente stra­nissima. Quindi la vecchia doveva essere una persona importante,

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o aveva stretti rapporti con i genitori di Gesù. E il fatto che in seguito la Maddalena risulti in possesso della bizzarra reliquia, o almeno del suo contenitore, indica qualche legame tra lei e la vecchia. Ancora una volta, a quanto pare, ci troviamo di fronte alle vestigia nebulose di qualcosa che era più importante di quanto in genere oggi si creda.

Certi passi dei Vangeli Apocrifi - ad esempio, gli eccessi clamo­rosi dell'infanzia di Gesù - erano senza dubbio imbarazzanti per l'ortodossia dei tempi successivi. Lo sarebbero certamente per quasi tutti i cristiani dei nostri giorni. Ma dobbiamo ricordare che gli Apocrifi, come i libri canonici del Nuovo Testamento, furono composti da « seguaci del messaggio » impegnati a divinizzare Gesù. Quindi, non possiamo attenderci che gli Apocrifi contenga­no qualcosa che comprometterebbe il « messaggio » come lo com­prometterebbe evidentemente ogni accenno all'attività politica di Gesù, e ancor più alle sue possibili ambizioni dinastiche. Eravamo costretti a cercare altrove le testimonianze su queste vicende tanto controverse.

La Terrasanta, al tempo di Gesù, ospitava un numero sbalordi­tivo di gruppi, fazioni, sette e sottosette. Nei Vangeli ne sono citati soltanto due, i farisei e i sadducei, ed entrambi vengono presentati in modo negativo. Tuttavia, il ruolo di malvagi sarebbe stato adatto soltanto ai sadducei, che collaboravano con l'amministra­zione romana. I farisei erano fermamente ostili a Roma, e lo stesso Gesù, se anche non era fariseo, si comportava sostanzialmente secondo la loro tradizione.10

Per accattivarsi il pubblico romanizzato, i Vangeli erano co­stretti a scagionare Roma e ad accusare gli Ebrei. Questo spiega perché i farisei furono calunniati, e stigmatizzati insieme ai loro compatrioti veramente colpevoli, i sadducei. Ma perché nei Van­geli non vengono mai nominati gli zeloti, i « combattenti della libertà » nazionalisti e rivoluzionari che un pubblico romano avrebbe visto ben volentieri nella parte dei malvagi? Sembrerebbe che non esista una spiegazione per la loro apparente esclusione dai Vangeli, a meno che Gesù fosse legato a loro tanto strettamente che il legame non poteva venire rinnegato ma semplicemente « dimenticato » e quindi nascosto. Come afferma il professor Brandon: « II silenzio dei Vangeli circa gli zeloti... deve indicare

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sicuramente una relazione, tra Gesù e questi patrioti, che gli evangelisti preferirono non rivelare »."

Qualunque fosse il possibile rapporto tra Gesù e gli zeloti, senza dubbio venne crocifisso come uno di loro. Anzi, i due uomini che furono crocifìssi con lui sono esplicitamente qualificati come testai: il termine usato dai Romani per indicare gli zeloti. È dubbio che Gesù fosse veramente uno zelota. Tuttavia nei Vangeli, in certi momenti, da prova di un militarismo aggressivo paragonabile al loro. In un passato tanto famoso quanto imbarazzante, egli annun­cia che è venuto « non per portare la pace, bensì una spada ». Nel Vangelo di Luca, esorta i suoi seguaci che non hanno una spada a procurarsene una (Luca 22:36); e poi, personalmente, accerta e approva che siano armati dopo la cena pasquale (Luca 22:38). Nel Quarto Vangelo, Simon Pietro porta in effetti una spada, quando Gesù viene arrestato. È difficile conciliare queste indicazioni con l'immagine convenzionale di un salvatore mite e pacifista. Questo salvatore avrebbe approvato le armi, soprattutto se a portarle fosse stato uno dei suoi discepoli prediletti, quello sul quale avreb­be fondato la sua Chiesa?

Se Gesù non era uno zelota, i Vangeli - quasi contro le loro intenzioni, si direbbe - rivelano e confermano i suoi legami con quella fazione militante. La testimonianza che associa Barabba a Gesù è convincente; e anche Barabba viene descritto come un lestes. Giacomo, Giovanni e Simon Pietro hanno tutti appellativi che potrebbero alludere obliquamente a simpatie per gli zeloti, se non a una regolare militanza. Secondo vari autori moderni, Giuda Iscariota deriva da « Giuda il Sicario », e « sicari » era un altro termine usato per indicare gli zeloti, ed era intercambiabile con testai. Anzi, sembra che i sicari formassero un'elite nei ranghi degli zeloti, un corpo d'assalto di professionisti dell'assassinio politico. E c'è il discepolo conosciuto come Simone. Nella versione greca di Marco, Simone è chiamato Kananaios, una translitterazione greca della parola aramaica che significa zelota. Nella versione inglese della Bibbia di re Giacomo, la parola greca è tradotta in modo errato, e Simone vi appare come « Simone il Cananeo ». Ma il Vangelo di Luca non lascia adito a dubbi. Simone è chiaramente identificato come uno zelota, e persino la Bibbia di re Giacomo lo

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presenta come « Simone lo Zelota ». Sembra quindi incontestabi­le che Gesù avesse almeno uno zelota tra i suoi seguaci.

Se l'assenza - o meglio, l'apparente assenza - degli zeloti nei Vangeli è sorprendente, lo è anche quella degli egseni. Nella Terrasanta del tempo di Gesù, gli esseni costituivano una setta importante quanto i farisei e i sadducei, ed è inconcepibile che Gesù non venisse in contatto con loro. Anzi, a giudicare dal modo in cui viene presentato, Giovanni Battista sembra un essenoi L'omissione di ogni riferimento agli esseni appare dettata dalle stesse ragioni che imposero l'omissione di tutti i riferimenti agli zeloti. Insomma, i legami tra Gesù e gli esseni, come quelli con gli zeloti, erano probabilmente troppo stretti e troppo noti perché fosse possibile smentirli. Si poteva soltanto sorvolare e nasconderli.

Dagli storici e dai cronisti che scrissero in quel tempo, appren­diamo che gli esseni avevano comunità in tutta la Terrasanta, e probabilmente anche altrove. Cominciarono ad apparire intorno al 150 a.C, e adottavano l'Antico Testamento, ma lo interpreta­vano più come un'allegoria che come una verità storica letterale. Ripudiavano l'ebraismo convenzionale a favore di una forma di dualismo gnostico che, sembra, includeva elementi del culto sola­re e del pensiero pitagorico. Erano guaritori, molto apprezzati per la loro conoscenza delle tecniche terapeutiche. E infine erano asceti, e si distinguevano facilmente per i loro semplici abiti bian­chi.

Quasi tutti gli specialisti moderni ritengono che i famosi Rotoli del Mar Morto scoperti a Qumran siano essenzialmente documen­ti esseni. E senza alcun dubbio la setta di asceti che viveva a Qumram aveva molte cose in comune con il pensiero esseno. Come l'insegnamento degli esseni, i Rotoli del Mar Morto rispec­chiano una teologia dualista. Nel contempo, danno un grande rilievo alla venuta di un Messia - un « unto » - disceso dalla stirpe di Davide.12 Inoltre seguono uno speciale calendario, secondo il quale il rito della Pasqua veniva celebrato non già di venerdì, bensì di mercoledì: il che corrisponde al rito pasquale di cui si parla nel Quarto Vangelo. E coincidono parola per parola, in molti aspetti significativi, con alcuni degli insegnamenti di Gesù. Come mini­mo, si direbbe che Gesù conoscesse gli eremiti di Qumran e, almeno fino a un certo punto, armonizzasse i suoi insegnamenti

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con i loro. Un esperto moderno ritiene che i Rotoli del Mar Morto « offrono altri motivi per credere che molti episodi [del Nuovo Testamento] siano semplicemente proiezioni, nella storia di Gesù, dei fatti che ci si attendeva dal Messia ».13

Indipendentemente dal fatto che la setta di Qumran fosse esse­na o no, sembra chiaro che Gesù, anche se non ebbe una regolare preparazione essena, conoscesse molto bene quel pensiero. Anzi, molti dei suoi insegnamenti echeggiano quelli ascritti agli esseni. E così pure le sue attitudini di guaritore fanno pensare a un'influenza essena. Ma un esame più attento dei Vangeli rivela che gli esseni ebbero forse una parte ancora più significativa nella vita di Gesù.

Gli esseni si identificavano facilmente per le vesti bianche che, nonostante quanto mostrano la pittura e il cinema, a quel tempo in Terrasanta erano meno comuni di quanto in genere si creda. Nel Vangelo « segreto » di Marco, una veste di lino bianco ha un ruolo rituale importante, e più tardi ricorre anche nella versione canoni­ca. Se Gesù compiva iniziazioni misteriche a Betania o altro, la veste di lino bianco fa pensare che tali iniziazioni avessero caratte­re esseno. E c'è di più: il motivo della veste di lino bianco riappare più tardi in tutti i Quattro Vangeli. Dopo la Crocifissione, il corpo di Gesù scompare « miracolosamente » dalla tomba, nella quale viene visto almeno un personaggio biancovestito. In Matteo è un angelo che porta un « vestito bianco come la neve » (28:3). In Marco è « un giovane vestito d'una veste bianca » (16:5). Luca narra che apparvero « due uomini... in vesti sfolgoranti » (24:4), mentre il Quarto Vangelo parla di « due angeli in bianche vesti » (20:12). In due versioni su quattro, al personaggio o ai personaggi visti nella tomba non viene neppure attribuito un rango sovranna­turale. Presumibilmente sono semplici mortali; tuttavia si direbbe che i discepoli non li conoscano. È ragionevole supporre che siano esseni. E se ricordiamo che gli esseni avevano doti di guaritori, c'è una supposizione che diviene ancora più sostenibile. Se, quando fu deposto dalla croce, Gesù era ancora vivo, è evidente che sarebbe stato necessario l'intervento di un guaritore. E anche se era morto, è probabile che un guaritore sarebbe stato presente comunque, se non altro come « ultima speranza ». E a quel tem­po, in Terrasanta non c'erano guaritori più stimati degli esseni.

Secondo il nostro « scenario », su un terreno privato e con la

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collusione di Pilato, una Crocifissione simulata fu organizzata da certi sostenitori di Gesù. Più precisamente, non sarebbe stata orchestrata dai « seguaci del messaggio », bensì dai seguaci della stirpe: i familiari, insomma, altri aristocratici e appartenenti alla cerchia più intima. È possibile che questi personaggi avessero rapporti con gli esseni, o fossero esseni loro stessi. Tuttavia, lo stratagemma non sarebbe stato rivelato ai « seguaci del messag­gio », i « soldati semplici » del seguito di Gesù, dei quali Simon Pietro è il tipico rappresentante.

Gesù, trasportato nella tomba di Giuseppe d'Arimatea, avreb­be avuto necessità di cure mediche, e quindi sarebbe stato presen­te un guaritore esseno. E successivamente, quando si scoprì che la tomba era vuota, sarebbe stata necessaria la presenza di un emis­sario: un emissario sconosciuto ai « soldati semplici ». Avrebbe avuto il compito di rassicurare gli ignari « seguaci del messaggio », fungere da intermediario tra Gesù e i suoi discepoli, ed evitare che contro i Romani venissero rivolte accuse di profanazione della tomba, che avrebbero potuto provocare gravi disordini.

Indipendentemente dal fatto che questo « scenario » fosse esat­to o no, ci sembrava abbastanza evidente che Gesù era associato strettamente agli esseni non meno che agli zeloti. A prima vista potrebbe apparire strano, perché spesso si immagina che vi fosse incompatibilità tra zeloti ed esseni. Gli zeloti erano aggressivi, violenti, militaristi, e non rifuggivano dal praticare l'assassinio politico e il terrorismo. Gli esseni, invece, spesso vengono presen­tati come una setta distaccata dalla politica, quietista, pacifista e mite. In realtà, invece, c'erano numerosi esseni tra le file degli zeloti, perché gli zeloti non erano una setta, bensì una fazione politica. E in quanto fazione politica, reclutavano i loro aderenti non soltanto tra i farisei antiromani, ma anche tra gli esseni, che sapevano essere aggressivamente nazionalisti quanto chiunque al­tro.

L'associazione tra gli zeloti e gli esseni è evidente in particolare negli scritti di Giuseppe Flavio, dai quali derivano in gran parte le notizie disponibili oggi sulla Palestina di quei tempi. Joseph ben Matthias era nato nel 37 d.C. e apparteneva all'aristocrazia giudai­ca. All'inizio della rivolta del 66 d.C. fu nominato governatore della Galilea, dove assunse il comando delle forze schierate contro

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i Romani. Come comandante militare si rivelò, sembra, molto inetto, e molto presto fu catturato dall'imperatore romano Vespa­siano. Diventò poi collaborazionista. Assunse il nome romanizza­to di Giuseppe Flavio, divenne cittadino romano, divorziò dalla moglie e sposò un'ereditiera romana, e accettò ricchi doni dall'im­peratore romano, inclusi un appartamento nel palazzo imperiale e terreni confiscati agli Ebrei in Terrasanta. Le sue copiose crona­che incominciarono ad apparire poco prima della sua morte, avve­nuta nellOOd.C.

Nella Guerra giudaica, Giuseppe Flavio fa un resoconto detta­gliato dell'insurrezione del 66-74 d.C. Anzi, fu appunto da Giu^ seppe che gli storici successivi appresero quasi tutto ciò che si sa circa quella rivolta disastrosa, il sacco di Gerusalemme e la distru­zione del Tempio. E l'opera di Giuseppe contiene l'unico resocon­to della caduta (74 d.C.) della fortezza di Masada, situata all'ango­lo sud-occidentale del Mar Morto.

Come Montségur dodici secoli dopo, Masada è diventata un simbolo di tenacia, di eroismo e di martirio in difesa di una causa perduta. Come Montségur, continuò a resistere all'invasore per molto tempo, dopo che ogni altra resistenza organizzata era finita. Mentre il resto della Palestina crollava sotto l'attacco di Romani, Masada rimase inespugnabile. Alla fine, nel 74 d.C, la posizione divenne insostenibile. Dopo un prolungato bombardamento con le macchine d'assedio, i Romani installarono una rampa che li mise in grado di sfondare le difese. La notte del 15 aprile si prepararono all'assalto decisivo. La stessa notte tutti coloro che restavano nella fortezza, 960 persone tra uomini, donne e bambi­ne, si suicidarono. Quando i Romani, al mattino seguente, sfonda­rono le porte, trovarono soltanto i cadaveri tra le fiamme.

Giuseppe accompagnò le truppe romane che entrarono nel guscio svuotato di Masada la mattina del 16 aprile. Afferma di aver visto con i suoi occhi tutti quei morti. E afferma di aver parlato con tre superstiti del disastro, una donna e due bambini che si erano nascosti nelle gallerie sotterranee della fortezza men­tre gli altri difensori si uccidevano. Dai superstiti, Giuseppe venne a sapere dettagliatamente ciò che era accaduto nella notte. Secon­do questo racconto il comandante della guarnigione si chiamava Eleazar: una variante di Lazzaro, e questo è piuttosto interessan-

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te. E a quanto sembra era stato Eleazar che, con la sua eloquenza persuasiva e carismatica, aveva spinto i difensori a prendere la tragica decisione. Nella sua cronaca, Giuseppe riporta i discorsi di Eleazar, che afferma di aver appreso dai superstiti. Questi discorsi sono estremente interessanti. La storia riferisce che Masada era difesa da zelo ti militanti. Lo stesso Giuseppe usa le parole « zeloti » e « sicari » come intercambiabili. Tuttavia i discorsi di Eleazar non hanno neppure un convenzionale carattere giudaico. AI contrario, sono inequivocabilmente esseni, gnostici e dualisti:

Da gran tempo, infatti, e sin da quando la nostra mente ha cominciato ad aprirsi, la disciplina tradizionale e i precetti divini ci hanno sempre inse­gnato - e i nostri avi ce l'hanno confermato con il loro agire e con il loro pensare - che per gli uomini è una disgrazia vivere, non morire. La morte infatti, donando la libertà alle anime, fa sì che esse possano raggiungere quel luogo di purezza che è la loro sede propria, dove andranno esenti da ogni calamità, mentre finché sono prigioniere in un corpo mortale, schiac­ciate sotto il peso dei suoi malanni, allora sì che esse son morte, se vogliamo dire il vero; infatti il divino mal s'adatta a coesistere col mortale. Senza dubbio, grandi cose può realizzare l'anima anche quando è prigio­niera di un corpo; essa infatti fa di questo il suo organo di percezione e invisibilmente lo muove e lo guida a compiere opere che vanno al di là della sua natura mortale; ma una volta che, affrancata dal peso che la trascina in basso verso la terra e ve la tiene avvinta, essa raggiunge la sua sede naturale, allora partecipa di un potere straordinario e di una forza che non patisce alcuna limitazione, continuando ad essere invisibile agli occhi umani come lo stesso Dio. Essa infatti non è visibile nemmeno quando abita in un corpo: invisibilmente vi entra e invisibilmente se ne allontana, e mentre per sé conserva la sua identica natura incorruttibile, provoca la trasformazione del corpo. Tutto ciò che è toccato dall'anima vive e fiori­sce, tutto ciò da cui essa si diparte avvizzisce e muore: così grande è la sua carica d'immortalità!14

E ancora:

Costoro [1 filosofi indiani] infatti, ed è gente di prim'ordine, sopportano a malincuore il periodo della vita come un debito da pagare alla natura, e non vedono l'ora di liberare le anime dai corpi; senza che alcun male li affligga o li costringa ad andarsene, presi dal desiderio della vita immorta­le, preannunziano agli altri di essere prossimi alla dipartita.15

È straordinario che nessuno studioso, a quanto ci risulta, abbia mai commentato questi discorsi, perché sollevano una quantità di interrogativi interessanti. La religione ebraica ortodossa, ad esempio, non parla mai di un'« anima », e tanto meno di un'anima

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« immortale » e « imperitura ». Anzi, il concetto dell'anima e dell'immortalità è estraneo alla corrente principale del pensiero e della tradizione ebraica. E altrettanto estranee sono la supremazia dello spirito sulla materia, l'unione con Dio al momento della morte e la condanna della vita come un male. Queste concezioni derivano in modo inequivocabile da una tradizione misterica. Sono chiaramente gnostiche e dualiste; e nel contesto di Masada sono tipicamente essene.

Alcune di queste concezioni, naturalmente, possono essere considerate in un certo senso « cristiane »; non inevitabilmente nel modo in cui il termine venne a definirsi in seguito, ma nel senso in cui avrebbe potuto riferirsi ai primi seguaci di Gesù, ad esempio coloro che desideravano morire con Lazzaro nel Quarto Vangelo. È possibile che tra i difensori di Masada vi fossero sostenitori della stirpe di Gesù. Durante la rivolta del 66-74 d.C. vi furono numero­si « cristiani » che combatterono contro i Romani con lo stesso accanimento degli Ebrei. Molti zeloti, anzi, potrebbero essere chiamati « protocristiani », ed è molto probabile che alcuni di loro fossero a Masada.

Naturalmente, questo Giuseppe nonio dice; e anche se l'avesse detto, il riferimento sarebbe stato espunto in seguito dai revisori. Nel contempo, sarebbe logico attendersi che Giuseppe, scrivendo una storia della Palestina durante il I secolo, accenni a Gesù. Certo, molte edizioni più tarde della sua opera contengono riferi­menti del genere; ma sono conformi al personaggio di Gesù come viene presentato dall'ortodossia, e quasi tutti gli studiosi moderni li considerano interpolazioni spurie, non anteriori al tempo di Costantino. Tuttavia, nel XIX secolo fu scoperta in Russia un'edi­zione diversa da tutte le altre. Il testo, tradotto in russo antico, risaliva approssimativamente al 1261. L'uomo che lo trascrisse, evidentemente, non era un ebreo ortodosso, perché conservò molte allusioni « filocristiane ». Eppure Gesù, in questa versione dell'opera di Giuseppe, è presentato come umano; è un rivoluzio­nario politico e un « re che non regnò ».16 E inoltre viene detto che « aveva una scriminatura come i nazirei ».17

Gli specialisti hanno consumato molta carta e molta energia per discutere la possibile autenticità di quello che oggi è chiamato il « Giuseppe slavò ». Tutto considerato, noi eravamo propensi a

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ritenerlo più o meno autentico: una trascrizione tratta da una o più copie di Giuseppe sopravvissute alla distruzione dei documenti cristiani ordinata da Diocleziano e sfuggite alla zelo censorio dell'ortodossia reinsediata al tempo di Costantino. Le ragioni della nostra conclusione sono numerose. Se il Giuseppe slavo fosse un falso, ad esempio, quali interessi avrebbe dovuto servire? La presentazione di Gesù come un re difficilmente sarebbe stata gradita a un pubblico ebreo del XIII secolo. E la presentazione di Gesù come umano sarebbe stata ancora meno gradita ai cristiani della stessa epoca. Ma c'è di più: Origene, un padre della Chiesa che scrisse all'inizio del IH secolo, allude a una versione di Giusep­pe che nega a Gesù il ruolo di Messia.18 Questa versione, che forse era originale e autentica, potrebbe aver fornito il testo del Giusep­pe slavo.

Gli scritti gnostici

L'insurrezione del 66-74 d.C. fu seguita sessant'anni dopo, tra il 132 e il 135, da una seconda grande rivolta. La conseguenza fu che tutti'gli Ebrei vennero ufficialmente espulsi da Gerusalemme, e questa diventò una città romana. Ma già al tempo della prima ribellione la storia aveva cominciato a tirare un velo sugli avveni­menti della Terrasanta; e per altri due secoli non esiste virtual­mente nessuna documentazione. Quel periodo non è diverso da certi momenti della storia d'Europa durante i cosiddetti « secoli bui ». Si sa comunque che numerosi Ebrei rimasero nel territorio, anche se non a Gerusalemme. Vi rimasero anche molti cristiani. E c'era persino una setta di Ebrei, gli ebioniti, che pur attenendosi in generale alla loro fede, onoravano Gesù come un profeta - per quanto mortale.

Ma il vero spirito del giudaismo e del cristianesimo si allontanò dalla Terrasanta. Quasi tutta la popolazione ebraica della Palesti­na si disperse in una diaspora simile a quella avvenuta circa sette­cento anni prima, quando Gerusalemme era stata conquistata dai Babilonesi. E anche il cristianesimo cominciò a emigrare attraver­so il globo: in Asia Minore, in Grecia, a Roma, in Gallia, in Britannia, nell'Africa settentrionale. Non è affatto sorprendente che in tutto il mondo civile incominciassero a spuntare versioni

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contrastanti di ciò che era accaduto intorno al 33 d.C. E nonostan­te gli sforzi di Clemente d'Alessandria, Ireneo e altri come loro, queste versioni, bollate ufficialmente come « eresie », continua­rono a fiorire. Alcune derivavano senza dubbio da una conoscenza diretta, conservata tanto da Ebrei ortodossi quanto da gruppi come gli ebioniti, Ebrei convcrtiti a una forma di cristianesimo. Altre versioni erano chiaramente basate su leggende e voci, sulla mescolanza di dottrine in voga come le tradizioni misteriche egi­zie, ellenistiche e mitraiche. Quali che fossero le loro fonti precise, causavano gravi inquietudini ai « seguaci del messaggio », l'orto­dossia in fase di formazione che si sforzava di consolidare la propria posizione.

Le notizie sulle « eresie » più antiche sono scarse. La conoscen­za che ne abbiamo noi moderni deriva soprattutto dagli attacchi dei loro avversari, e questo naturalmente ne da un quadro distor­to: come, per esempio, l'immagine della Resistenza francese che potrebbe scaturire dai documenti della Gestapo. Nel complesso, tuttavia, sembra che Gesù venisse visto dai primi « eretici » in uno dei due modi seguenti; Per alcuni era un dio vero e proprio, con pochi o punti attributi umani. Per altri era un profeta mortale, sostanzialmente non diverso dal Budda, o da Maometto che venne mezzo millennio più tardi.

Uno dei primi eresiarchi fu Valentino, nato ad Alessandria, che trascorse a Roma l'ultima parte della sua vita (136-65 d.C). Ai suoi tempi, Valentino era molto influente, e1 tra i suoi seguaci contava uomini come Tolomeo. Affermando di avere in suo pos­sesso un corpus di « insegnamenti segreti » di Gesù, rifiutava di sottomettersi all'autorità di Roma, e affermava che la gnosi perso­nale aveva la precedenza su ogni gerarchia. Logicamente, Valenti­no e i suoi seguaci furono tra i bersagli prediletti degli strali di Ireneo.

Un altro bersaglio fu Marcione, vescovo e ricco armatore, che arrivò a Roma intorno al 140 e quattro anni dopo fu scomunicato. Marcione propugnava una distinzione radicale tra « legge » e « amore », che associava rispettivamente all'Antico e al Nuovo Testamento; e alcune di queste idee marcionite riaffiorarono ben mille anni più tardi in opere come il Perlesvaus. Marcione fu il primo scrittore che compilò un elenco canonico dei libri della

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Bibbia, un elenco che escludeva tutto l'Antico Testamento. Fu appunto per rispondere a Marcione che Ireneo compilò il suo canone, divenuto poi la base della Bibbia quale la conosciamo oggi-li terzo grande eresiarca di quel periodo e, sotto molti aspetti, il più sconcertante, fu Basilide, uno studioso alessandrino che scris­se tra il 120 e il 130 d.C. Basilide conosceva molto bene tanto le scritture ebraiche quanto i Vangeli cristiani. Inoltre, conosceva altrettanto bene il pensiero egizio ed ellenistico. Si ritiene che abbia scritto non meno di ventiquattro commenti ai Vangeli. Secondo Ireneo, propugnava un'eresia terribile. Basilide afferma­va che la Crocifissione era una frode, che Gesù non era morto sulla croce, e che il suo posto era stato preso da un sostituto, Simone di Cirene.19 Questa affermazione sembrerebbe molto bizzarra. Tut­tavia si dimostrò straordinariamente tenace e longeva. Ancora nel VII secolo, il Corano sosteneva esattamente la stessa cosa: un sostituto, che secondo la tradizione sarebbe stato Simone di Cire-ne, aveva preso il posto di Gesù sulla croce.20 E lo sfesso argomen­to era sostenuto dall'ecclesiastico anglicano che ci aveva inviato la lettera misteriosa di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, la lettera che alludeva alla « prova incontrovertibile » della sostitu­zione.

Se c'era una regione dove erano particolarmente radicate le eresie più antiche, questa era l'Egitto, anzi più esattamente Ales-sandria, la più colta e cosmopolita città del mondo, a questi tempi, la seconda in ordine di grandezza in tutto l'Impero romano, e crogiolo di una sbalorditiva varietà di dottrine, insegnamenti e tradizioni. Dopo le due rivolte in Giudea, l'Egitto fu il rifugio più accessibile per i profughi ebrei e cristiani, molti dei quali si stabili­rono ad Alessandria. Non è quindi sorprendente che proprio l'Egitto fornisse la prova più convincente a sostegno della nostra ipotesi, contenuta nei cosiddetti Vangeli gnostici o, più esatta­mente, nei Rotoli di Nag Hammadi.

Nel dicembre 1945 un contadino egiziano, mentre scavava in cerca di terriccio fertile nei pressi del villaggio di Nag Hammadi nell'Alto Egitto, scoprì una giara di terracotta. Conteneva tredici codici - libri o rotoli di papiro - rilegati in pelle. Ignari dell'impor­tanza della scoperta, il contadino e i suoi familiari usarono alcuni

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di quei codici per accendere il fuoco. Alla fine, comunque, quelli superstiti attirarono l'attenzione degli esperti; e uno, esportato clandestinamente dall'Egitto, fu offerto in vendita al mercato nero. Una parte di questo codice, che fu acquistata dalla Fonda­zione C. G. Jung, conteneva l'ormai famoso Vangelo di Tommaso.

Intanto il governo egiziano, nel 1952, nazionalizzò quanto resta­va dei Rotoli di Nag Hammadi. Solo nel 1961, tuttavia, venne riunita una commissione internazionale di esperti per copiare e tradurre tutto il materiale. Nel 1972 apparve il primo volume dell'edizione fotografica. E nel 1977 l'intera collezione dei rotoli apparve per la prima volta in traduzione inglese.

I Rotoli di Nag Hammadi sono una raccolta di testi biblici a carattere sostanzialmente gnostico, che risalgono alla fine del IV secolo o all'inizio del V, intorno al 400 d.C. Sono copie, e gli originali risalgono a date molto anteriori. Alcuni - ad esempio il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Verità e il Vangelo degli Egizi - sono menzionati dai primissimi padri della Chiesa, come Cle­mente d'Alessandria, Ireneo e Origene. I filologi hanno accertato che .alcuni dei testi contenuti nei rotoli, se non tutti, non sono posteriori al 150 d.C. E almeno uno di essi può includere materiale ancora più antico dei quattro Vangeli canonici del Nuovo Testa­mento.21

Presa nel suo insieme, la raccolta di Nag Hammadi costituisce un repertorio inestimabile di documenti protocristiani, alcuni dei quali possono vantare un'autorità eguale a quella dei Vangeli. E c'è di più: alcuni di questi documenti possono rivendicare una veridicità assolutamente unica. Innanzi tutto, sfuggirono alla cen-sura e alle revisioni dell'ortodossia romana. In secondo luogo, erano stati composti per un pubblico egiziano e non romano, e quindi non sono alterati e modificati in senso filoromano. Infine, è possibile che si basino su fonti di prima mano o su testimonianze oculari, ad esempio su racconti orali di Ebrei fuggiti dalla Terra-santa, che forse avevano conosciuto personalmente Gesù e pote­vano dare la loro versione con una fedeltà storica che i Vangeli non potevano permettersi di rispettare.

Non è sorprendente che i Rotoli di Nag Hammadi contengano parecchi passi ostili all'ortodossia e ai « seguaci del messaggio ». In un codice non datato, il Secondo trattato del Grande Seth, ad

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esempio, Gesù viene presentato esattamente come nell'eresia di Basilide: sfugge alla morte sulla croce grazie a un'ingegnosa sosti­tuzione. Nel passo che riportiamo. Gesù parla in prima persona:

Io non soccombetti a loro come essi intendevano... E non morii in realtà ma solo in apparenza, perché essi non gettassero vergogna su di me... Perché la mia morte, che essi credono avvenisse [avvenne] a loro, nel loro errore e cecità, poiché inchiodarono a morire il loro uomo... Fu un altro, il loro padre, che bevve il fiele e l'aceto; non fui io. Essi mi percossero con la canna; fu un altro, Simone, che portò la croce sulle spalle. Fu un altro, colui al quale imposero la corona di spine... E io ridevo della loro ignoran­za.22

Con coerenza convincente, altre opere della raccolta di Nag Hammadi attestano un dissidio accanito e protratto fra Pietro e la Maddalena: un dissidio che sembra rispecchiare uno scisma tra i « seguaci del messaggio » e i seguaci della stirpe. Nel Vangelo di Maria, Pietro si rivolge alla Maddalena con queste parole: « Sorel­la, noi sappiamo che il Salvatore ti amava più di ogni altra donna. Rivelaci le parole del Salvatore che tu ricordi... che tu conosci e che noi non conosciamo ».21 Più tardi, Pietro chiede indignato agli altri discepoli: « Davvero egli parlava privatamente a una donna e non apertamente a noi? Dobbiamo tutti volgerci ad ascoltarla? La preferiva a noi? ».24 E ancora più avanti, uno dei discepoli rispon­de a Pietro: « Sicuramente il Salvatore la conosce molto bene. Per questo l'amava più di noi ».25

Nel Vangelo di Filippo, la ragione del dissidio appare evidente. Ad esempio, ricorre con insistenza l'immagine della camera nuzia­le. Secondo il Vangelo di Filippo, « il Signore fece tutto in un mistero, un battesimo e una cresima e un'eucarestia e una reden­zione e una carriera nuziale ».26 Certo, la camera nuziale, a prima vista, può sembrare simbolica o allegorica. Ma il Vangelo di Filippo è più esplicito: « Vi erano tre che camminavano sempre con il Signore: Maria sua madre, e la sorella di questa, e Maddale­na, colei che era chiamata la sua compagna ».27 Secondo un filolo­go, la parola « compagna » deve essere tradotta « sposa ».28 I motivi per farlo ci sono, perché il Vangelo di Filippo diventa più esplicito ancora:

E la compagna del Salvatore è Maria Maddalena. Ma Cristo l'amava più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca. Gli altri discepoli erano

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offesi ed esprimevano disapprovazione. Gli dissero: « Perché tu l'ami più di tutti noi? ». E il Salvatore rispose: « Perché non amo voi come amo lei? ».*>

Il Vangelo di Filippo spiega: « Non temete la carne e non amatela. Se la temete, vi dominerà. Se l'amate, vi inghiottirà e vi paralizzerà ».30 In un altro punto, questa elaborazione viene tra­dotta in termini concreti: « Grande è il mistero del matrimonio! Perché senza di esso il "mondo non sarebbe esistito. Ora, l'esisten­za del mondo dipende dall'uomo, e l'esistenza dell'uomo dal matrimonio »,31 E verso la conclusione dello stesso Vangelo di Filippo c'è questa affermazione: « Vi è il Figlio dell'uomo e vi è il figlio del Figlio dell'uomo. II Signore è il Figlio dell'uomo, e il figlio del Figlio dell'uomo è colui che è creato tramite il Figlio dell'uomo ».32

Note

1  Eisler, Messiah Jesus, pp. 606 sgg.

2  Chadwick, The Early Church, p. 125.

3  Goodenough, Jewish Symbols, voi. 7, pp. 178 sgg.

4  Cfr. Halsberghe, The Cult ofSol Invictus. L'autore spiega che il culto fu introdot­to a Roma nel III secolo d.C. dall'imperatore Eliogabalo. Quando Aureliano operò la sua riforma religiosa, si trattò di un ristabilimento del culto del Sole Invitto nella forma in cui era stato introdotto.

5  218 voti favorevoli, 2 contrari. Il Figlio fu quindi dichiarato identico al padre.

6  Solo a partire dal 384 il vescovo di Roma assunse il titolo di « papa ».

7  C'è la possibilità, tuttavia, che ne vengano scoperti altri. Nel 1976 un cospicuo numero di antichi manoscritti fu scoperto nel monastero di Santa Caterina sul monte Sinai. Il ritrovamento venne tenuto segreto per circa due anni, prima che nel 1978 ne avesse notizia un giornale tedesco. Vi sono migliaia di frammenti, alcuni dei quali anteriori al 300 d.C, incluse otto pagine mancanti nel Codex Sinaiticus custodito nel British Museum. I monaci che conservano il materiale hanno accor­dato accesso soltanto a uno o due studiosi greci. Cfr. « International Herald Tribune » (27 aprile 1978).

8  Vangelo di Pietro, 5:5.

9  Vangelo dell'Infanzia di Gesù Cristo, 2:4.

10  Maccoby, Revolution in Judaea, p. 129. L'autore aggiunge che la presentazione di Gesù come antifariseo faceva probabilmente parte del tentativo di mostrarlo come un ribelle contro la religione ebraica, anziché contro la dominazione romana.

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1 ' Brandon, Jesus and thè Zealots, p. 327. Cfr. inoltre Vermes, Jesus theJew, p. 50: « Zelota o no, Gesù fu indubbiamente accusato, giudicato e condannato come se Io fosse ».

12  Allegro, DeadSea Scrolls, p. 167.

13  Ibid.,p. 175.

14  Josephus, Jewish Was, p. 387'Ed. it. Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, libro VII, cap, 8, Milano 1974.

15  Ibid.,p. 387.Trad.it. ibid.

16  Ibid., Appendice, p. 400.

17  Eisler, Messiah Jesus, p. 427.

18  Ibid., p. 167.

19  Ireneo, Pive Books... against Heresies, traduzione inglese dei Cinque libri di Ireneo, p. 73.

20   Corano, 4:157. Cfr. inoltre Parrinder, Jesus in thè Qur'an, pp. 108 sgg.

21   Pagels, Gnostic Gospels, pp. xvi sgg. Trad. it. / Vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Milano 1981.

22  The Second Treatise of thè Great Seth, in Robinson, J., NagHammadiLibrary in English, p. 332.

23  The Gospel of Mary, in Robinson, J., Nag Hammadi Library in English, p. 472.

24  Ibid., p. 473

25  Ibid.

26  The Gospel of Philip, in Robinson, J., Nag Hammadi Library in English, p. 140.

27  Ibid., pp. 135 sgg.

28  Phipps, Was Jesus Marrìed?, pp. 136 sgg.

29  The Gospel of Philip, in Robinson, J., Nag Hammadi Library in English, p. 138.

30  Ibid., p. 139.

31  Ibid.

32  Ibid.,p. 148.

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XIV

La dinastia del Graal

Già in base ai soli Rotoli di Nag Hammadi, la possibilità di una stirpe discesa direttamente da Gesù acquistava ai nostri occhi una considerevole plausibilità. Alcuni dei cosiddetti Vangeli gnostici potevano rivendicare un'attendibilità non inferiore a quella dei libri del Nuovo Testamento. Di conseguenza, le cose di cui rende­vano testimonianza esplicita o implicita - un sostituto sulla croce, un dissidio continuo tra Pietro e la Maddalena, il matrimonio tra la Maddalena e Gesù, la nascita di un « figlio del Figlio dell'Uomo » - non potevano venire accantonate con disinvoltura, per quanto apparissero polemiche e controverse. Avevamo a che fare con la storia, non con la teologia. E al tempo di Gesù la storia non era meno complessa, sfaccettata e pratica di quanto lo sia ora.

Il dissidio tra Pietro e la Maddalena, nei Rotoli di Nag Hamma­di, attestava apparentemente il conflitto ipotizzato da noi, il con­flitto tra i « seguaci del messaggio » e i seguaci della stirpe. Ma furono i primi a uscirne vittoriosi e a plasmare il corso della civiltà occidentale. Poiché acquisirono un crescente monopolio sulla cul­tura, le comunicazioni e la documentazione, rimasero scarsissimi indizi che suggerissero l'esistenza della famiglia di Gesù. E c'erano anche meno indizi che potessero stabilire un legame tra quella famiglia e la dinastia merovingia.

Neppure i « seguaci del messaggio » ebbero partita completa­mente vinta. Se i primi due secoli della storia del cristianesimo furono caratterizzati da eresie indomabili, i secoli che seguirono lo furono ancora di più. Mentre l'ortodossia si consolidava - sotto Ireneo da un punto di vista teologico, sotto Costantino da un

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punto di vista politico - le eresie continuarono a proliferare in misura senza precedenti.

Per quanto fossero diverse nei dettagli teologici, quasi tutte le eresie più importanti avevano in comune certi fattori fondamenta­li. Quasi tutte erano essenzialmente gnostiche o risentivano del­l'influenza gnostica, ripudiavano la struttura gerarchica di Roma ed esaltavano la superiorità dell'illuminazione personale rispetto alla fede cieca. Inoltre, molte erano dualiste, in un senso o nell'al­tro, e consideravano il bene e il male non tanto come problemi etici terreni, bensì come princìpi d'importanza cosmica. E ancora, molte concordavano nel considerare Gesù come un mortale, nato da un processo naturale di concezione, un profeta forse ispirato da Dio ma non intrinsecamente divino, che morì definitivamente sulla croce, o che non morì affatto sulla croce. NelPinsistere sull'umanità di Gesù, molte eresie si richiamavano all'augusta autorità di san Paolo, il quale aveva parlato di « Gesù Cristo nostro Signore, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne » (Romani 1:3).

L'eresia forse più famosa e profondamente radicale fu il mani­cheismo, che fondeva il cristianesimo gnostico con vari filoni delle preesistenti tradizioni zoroastriane e mitraiche. Fu fondato da un certo Mani, nato presso Baghdad nel 214 d.C. da una famiglia imparentata con la casa reale persiana. In gioventù, Mani fu introdotto dal padre in una setta mistica imprecisata - probabil­mente gnostica - che esaltava l'ascetismo e il celibato, praticava il battesimo e adottava abiti bianchi. Intorno al 240 Mani cominciò a diffondere i propri insegnamenti e, come Gesù, divenne famoso per le sue guarigioni spirituali e i suoi esorcismi. I suoi seguaci Io proclamavano « il nuovo Gesù » e affermavano che era nato da madre vergine: un requisito necessario per le divinità di quei tempi. Mani era conosciuto anche come « Salvatore », « Aposto­lo », « Illuminatore », « Signore », « Risuscitatore dei morti », « Pilota » e« Timoniere ». Le ultime due designazioni sono parti­colarmente indicative, perché corrispondono a « Nautonnier », il titolo ufficiale del Gran maestro del Priorato di Sion.

Secondo gli storici arabi di periodi più tardi, Mani scrisse molti libri in cui sosteneva di rivelare segreti ai quali Gesù aveva accen­nato soltanto in modo oscuro e obliquo. Considerava suoiprecur-

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sori Zaratustra, il Budda e Gesù, e dichiarava che come loro aveva ricevuto essenzialmente la stessa illuminazione dalla stessa fonte. I suoi insegnamenti consistevano di un dualismo gnostico unito a un imponente, complesso edificio cosmologico. Ogni cosa era pervasa dal conflitto universale tra la luce e la tenebra; il principale campo di battaglia di questi due princìpi opposti era l'anima umana. Come i Catari venuti dopo di lui, Mani abbracciava la dottrina della reincarnazione. E come i Catari, attribuiva grande importanza a una classe di iniziati, di « eletti illuminati ». Chiama­va Gesù « il Figlio della Vedova », un'espressione adottata succes­sivamente dalla massoneria. Nel contempo, affermava che Gesù era mortale o, se era divino, lo era soltanto in un senso simbolico o metaforico, grazie all'illuminazione. E Mani, come Basilide, so­steneva che Gesù non era morto sulla croce, ma era stato rimpiaz­zato da un sostituto. '

Nel 276, per ordine del re, Mani fu imprigionato, flagellato a morte, scuoiato e decapitato; e forse per evitare una resurrezione, il suo corpo mutilato fu esposto in pubblico. Ma i suoi insegnamen­ti acquisirono slancio dopo il martirio; e tra i suoi seguaci, più tardi, almeno per qualche tempo vi fu lo stesso sant'Agostino. Con straordinaria rapidità, il manicheismo si diffuse in tutto il mondo cristiano. Nonostante i feroci tentativi di sopprimerlo, riuscì a sopravvivere, a influenzare molti pensatori, e a protrarsi fino ai tempi nostri. C'erano scuole manichee particolarmente attive in Spagna e nella Francia meridionale. Prima delle Crociate, queste scuole strinsero legami con altre sette manichee in Italia e in Bulgaria. Oggi appare improbabile che i Catari derivassero dai Bogomil bulgari. Al contrario, le ricerche più recenti indicano che i Catari derivarono da scuole manichee insediate da molto tempo in Francia. In ogni caso, la Crociata contro gli Albigesi fu sostan­zialmente una crociata contro il manicheismo; e nonostante gli assidui sforzi di Roma, il termine « manicheo » è sopravvissuto ed è entrato a far parte del linguaggio comune.

Naturalmente, oltre al manicheismo, c'erano molte altre eresie. Tra tutte, fu quella di Ario che finì per costituire il pericolo più grave per la dottrina cristiana ortodossa durante il primo millennio della sua storia. Ario era un presbyter (prete) di Alessandria intorno al 318, e morì nel 335. Il suo dissidio con l'ortodossia era

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semplicissimo, e si basava su un'unica premessa: Gesù era intera­mente mortale, non era divino in nessun senso, e non era altro che un maestro ispirato,

Postulando un unico Dio supremo e onnipotente, un Dio che non si incarnava e non subiva l'umiliazione e la morte a opera delle sue creature, Ario inseriva il cristianesimo in una cornice sostan­zialmente giudaica. Può darsi che, risiedendo ad Alessandria, fosse stato influenzato da insegnamenti giudaici diffusi nella città, ad esempio gli insegnamenti degli ebioniti. Nel contempo, il Dio supremo delParianesimo esercitava un richiamo immenso sull'Oc­cidente. Via via che il cristianesimo acquisiva un crescente potere secolare, questo Dio diveniva più convincente. I re e i potentati riuscivano a identificarsi con lui più facilmente di quanto fossero disposti a identificarsi con una divinità mite e passiva che aveva subito il martirio senza opporre resistenza e aveva evitato i contat­ti con il mondo.

Benché I'arianesimo venisse condannato al Concilio di Nicea nel 325, Costantino l'aveva sempre avuto in simpatia, e questa simpatia si accentuò verso la fine della sua vita. Quando morì, Costanzo, suo figlio e successore, divenne apertamente ariano; e sotto i suoi auspici si tennero concili che costrinsero all'esilio i capi della Chiesa ortodossa. Nel 360 I'arianesimo aveva soppiantato quasi del tutto il cristianesimo. E sebbene venisse di nuovo con­dannato ufficialmente nel 381, continuò a prosperare e ad acquisi­re seguaci. Quando, nel V secolo, i Merovingi presero il potere, virtualmente ogni diocesi della cristianità era ariana o vacante.

Fra i più fervidi seguaci dell'arianesimo c'erano i Goti, che si erano convertiti a questa fede, abbandonando il paganesimo, durante il IV secolo. Gli Svevi, i Longobardi, gli Alani, i Vandali, i Burgundi e gli Ostrogoti erano tutti ariani. E lo erano anche i Visigoti che, quando saccheggiarono Roma nel 480, risparmiaro­no le chiese cristiane. Se prima di Clodoveo i Merovingi avevano qualche propensione per il cristianesimo, doveva trattarsi del cristianesimo ariano dei loro vicini, i Visigoti e i Burgundi.

Sotto gli auspici dei Visigoti, I'arianesimo divenne la forma di cristianesimo predominante in Spagna, nei Pirenei e in quella che è oggi la Francia meridionale. Se la famiglia di Gesù trovò vera­mente rifugio in Gallia, nel V secolo viveva in un territorio signo-

 

reggiato dai Visigoti ariani. Ed è improbabile che venisse perse­guitata, sotto il regime ariano. Anzi, è molto probabile che venisse tenuta in grande onore, e che concludesse alleanze matrimoniali con la nobiltà visigota, prima di concluderne altre con i Franchi per produrre i Merovingi. E grazie alla protezione dei Visigoti, doveva essere al sicuro da tutte le minacce da parte di Roma. Perciò non deve sorprendere che i nomi inequivocabilmente semi­tici - come Bera - s'incontrino tra i nobili e i re dei Visigoti. Dagoberto II sposò una principessa visigota il cui padre si chiama­va Bera. Il nome Bera ricorre ripetutamente nell'albero genealo­gico della famiglia visigoto-merovingia discesa da Dagoberto II e Sigisberto IV.

La Chiesa di Roma, a quanto si dice, affermò che il figlio di Dagoberto s'era convcrtito all'arianesimo;2 e non sarebbe affatto strano. Nonostante il patto tra la Chiesa e Clodoveo, i Merovingi avevano sempre avuto simpatia per l'arianesimo. Uno dei nipoti di Clodoveo, Chilperico, non faceva mistero delle sue tendenze ariane.

Se l'arianesimo non era ostile al giudaismo, non lo era neppure all'Isiam, che sorse così fulmineamente nel VII secolo. L'idea che gli ariani avevano di Gesù era in piena armonia con quella del Corano. Nel Corano, Gesù viene nominato non meno di trenta­cinque volte, e chiamato con appellativi deferenti, inclusi « Mes­saggero di Dio » e « Messia ». Tuttavia, viene considerato un profeta mortale, precursore di Maometto e portavoce dell'unico Dio supremo. E come Basilide e Mani, il Corano afferma che Gesù non morì sulla croce: « Non lo uccisero, non lo crocifissero, ma credettero di farlo ».3 Il Corano non spiega questa affermazio­ne ambigua; ma'lo fanno i commentatori islamici. Secondo la maggioranza, ci fu un sostituto che spesso, sebbene non sempre, viene indicato in Simone di Cirene. Certi autori musulmani dicono che Gesù, nascosto in una nicchia, assistette alla Crocifissione del sostituto. E questo concorda con il frammento dei Rotoli di Nag Hammadi che abbiamo citato.

Il giudaismo e i Merovingi

Dobbiamo tener conto della tenacia con cui, anche di fronte alle

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persecuzioni più accanite, quasi tutte le eresie, e in particolare l'arianesimo, insistevano sulla mortalità e l'umanità di Gesù. Ma noi non trovammo nessuna indicazione che avessero inevitabil­mente una conoscenza di prima mano della premessa alla quale aderivano con tanta fermezza. E a parte i Rotoli di Nag Hammadi, nulla indicava che potessero essere a conoscenza dell'eventuale esistenza di una stirpe di Gesù. Era possibile naturalmente che ci fossero documenti, affini ai Rotoli, forse addirittura genealogie e archivi. La stessa virulenza della persecuzione ordinata da Roma poteva indicare che quei documenti facevano paura e quindi si riteneva necessario evitare che vedessero la luce. Ma se era stato davvero così, sembrava che Roma fosse riuscita nel suo intento.

Le eresie, quindi, non ci fornivano conferme decisive di un legame tra la famiglia di Gesù e i Merovingi, apparsi sulla scena mondiale quattro secoli dopo. Eravamo obbligati a cercare la conferma altrove, presso gli stessi Merovingi. A prima vista gli indizi sembravano molto scarsi. Avevamo già considerato la nasci­ta leggendaria di Meroveo, figlio di due padri, uno dei quali era un misterioso essere acquatico venuto d'oltremare; e avevamo con­cluso che questa bizzarra favola poteva rispecchiare e nel contem­po nascondere un matrimonio dinastico. Ma anche se il simboli­smo del pesce era indicativo, non era per nulla probante. Così pure, il successivo patto tra Clodoveo e la Chiesa di Roma aveva molto più senso alla luce del nostro « scenario » ; ma il patto in se stesso non costituiva una prova concreta. E sebbene al sangue reale merovingio venisse attribuita una natura sacra, miracolosa e divina, non veniva mai affermato esplicitamente che fosse il san­gue di Gesù.

In mancanza di testimonianze decisive, dovevamo procedere cautamente. Dovevamo valutare i frammenti di indizi circostan­ziali, e cercare di comporti in un quadro coerente. E per prima cosa dovevamo accertare se i Merovingi presentavano qualche influenza di carattere esclusivamente giudaico.

E certo che i re merovingi non erano antisemiti. Al contrario, sembra dimostrassero non soltanto tolleranza ma addirittura sim­patia per gli Ebrei insediati nei loro domini, nonostante le conti­nue proteste della Chiesa di Roma. I matrimoni misti erano fre­quenti. Molti Ebrei, soprattutto nel Sud, possedevano grandi

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proprietà terriere. Molti avevano schiavi e servitori cristiani. E molti avevano alti incarichi nella magistratura e nell'amministra­zione merovingia. Nel complesso, l'atteggiamento dei Merovingi nei confronti del giudaismo sembra non avere paralleli nella storia dell'Occidente prima della Riforma luterana.

I Merovingi erano convinti che i loro poteri miracolosi risiedes­sero in gran parte nelle loro chiome, e non se le tagliavano. La loro posizione in proposito era identica a quella dei nazirei dell'Antico Testamento, la setta cui apparteneva anche Sansone. Molti indizi suggeriscono che anche Gesù fosse nazireo. Secondo vari autori protocristiani e molti studiosi moderni, lo era incontestabilmente suo fratello, san Giacomo.    .      <

Nella casa i reale merovingia e nelle famiglie imparentate con essa figurava un numero sorprendente di nomi tipicamente giudai­ci. Nel 577, un fratello di re Clotario si chiamava Sansone. In seguito, un certo Miron le Levile fu conte di Bésalou e vescovo di Gerona. Un conte di Rossiglione si chiamava Solomon, e un altro Solomon divenne re di Bretagna. C'era un abate Elisachar, una variante di « Eleazar » e « Lazzaro ». E lo stesso nome Meroveo (o Merovech) sembrerebbe di derivazione medio-orientale.4

I nomi giudaici acquisirono una crescente preminenza in seguito ai matrimoni dinastici tra Merovingi e Visigoti. Questi nomi figu­rano tra gli aristocratici e i membri della casa reale visigota; ed è possibile che molte delle famiglie cosiddette « visigote » fossero in realtà d'origine giudaica.Questa possibilità appare ancora più cre­dibile grazie al fatto che i cronisti usavano spesso i termini « Goto » ed « Ebreo » come se fossero intercambiabili. La Fran­cia meridionale e le marche spagnole - la regione chiamata Setti-mania in tempi merovingi e carolingi - ospitavano una popolazio­ne ebrea molto numerosa. La regione era conosciuta anche come « Gothie » o « Gothia », e perciò spesso i suoi abitanti ebrei erano chiamanti « Goti », un errore che talvolta poteva essere voluto. Grazie a questo errore, gli Ebrei non potevano essere identificati come tali, a meno che i loro nomi rivelassero la loro origine. Ad esempio, il suocero di Dagoberto si chiamava Bera, un nome semitico. E la sorella di Bera aveva sposato un uomo di una famiglia che portava il cognome Levy.5

Certo, i nomi e la tradizione mistica di non tagliarsi i capelli non

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rappresentavano necessariamente una base solida su cui stabilire una connessione tra i Merovingi e il giudaismo. Ma c'è un altro indizio frammentario più convincente. I Merovingi erano la dina­stia reale dei Franchi, una tribù teutonica che seguiva la legge tribale dei Teutoni. Verso la fine del V secolo questa legge, codificata e inserita in una cornice romana, prese il nome di Lex salica (Legge salica). In origine, tuttavia, la Legge salica era la legge tribale teutonica, anteriore all'avvento del cristianesimo romano nell'Europa occidentale. Nei secoli che seguirono, conti­nuò a contrapporsi alla legge ecclesiastica promulgata da Roma. Per tutto il Medioevo fu la legge laica ufficiale del Sacro romano impero. Ancora ai tempi della Riforma luterana i contadini e i cavalieri tedeschi includevano, nelle lagnanze presentate contro la Chiesa, il fatto che quest'ultima non tenesse conto della tradizio­nale Legge salica.

C'è un'intera sezione della Legge salica - titolo 45, « De Mi-grantibus » - che ha sconcertato sempre studiosi e commentatori, e ha dato origine a interminabili discussioni. E un complesso insieme di clausole e di condizioni relative alle circostanze in cui gli immigranti possono prendere residenza e ottenere la cittadinanza. La cosa più strana è che non è affatto d'origine teutonica, e diversi autori si sono lasciati indurre a postulare ipotesi bizzarre per spiegarne l'inclusione nel Codice salico. Solo di recente, però, si è scoperto che questa sezione del Codice salico deriva direttamente dalla Legge giudaica.6 Più esattamente, la si può far risalire a una sezione del Talmud. Si può quindi affermare che la Legge salica, almeno in parte, derivi direttamente dalla Legge giudaica tradizio­nale. E questo indica a sua volta che i Merovingi, sotto i cui auspici fu codificata la Legge salica, non soltanto conoscevano la Legge giudaica, ma avevano accesso a testi giudaici.

Il principato di Settimania

Questi frammenti erano interessanti, ma fornivano solo un tenue sostegno alla nostra ipotesi: che una stirpe discesa da Gesù esistes­se nella Francia meridionale, che si fosse alleata per matrimonio con i Merovingi, e che i Merovingi, di conseguenza, fossero in parte Ebrei. Ma, anche se l'epoca merovingia non ci dava prove

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conclusive per la nostra ipotesi, ce le dava l'epoca immediatamen­te successiva. Grazie a questa « prova retroattiva », la nostra ipotesi diventava di colpo sostenibile.

Avevamo già sondato la possibilità che la stirpe merovingia fosse sopravvissuta, dopo essere stata spodestata dai Carolingi. E avevamo incontrato un principato autonomo, che esistette nella Francia meridionale per un secolo e mezzo, un principato il cui sovrano più famoso fu Guillem de Gellone. Guillem fu uno degli eroi più illustri del suo tempo. Era il protagonista del Willehalm di Wolfram von Eschenbach e veniva associato alla famiglia del Graal. Fu appunto in Guillem e nei suoi precedenti che trovammo una delle prove più sorprendenti e avvincenti.

Al culmine della sua potenza, Guillem de Gellone includeva tra i suoi domini la Spagna nord-orientale, i Pirenei e la regione della Francia meridionale chiamata Septimania o Settimania. Da molto tempo, quell'area ospitava una numerosa popolazione ebraica. Durante il VI e il VII secolo, questa popolazione aveva avuto rapporti molto cordiali con i sovrani visigoti, seguaci del cristiane­simo ariano; e a quel tempo i matrimoni misti erano frequenti, e i termini « goti » e « giudei » venivano usati spesso come fossero intercambiabili.

Prima del 711, però, la situazione degli Ebrei in Settimania e nella Spagna nord-orientale era dolorosamente peggiorata. Dago-berto II era stato assassinato, e i suoi discendenti erano stati costretti a riparare nel Razès, la regione che include Rennes-le-Chàteau. E sebbene i discendenti collaterali della stirpe merovin­gia occupassero ancora nominalmente il trono al nord, il potere effettivo era nelle mani dei cosiddetti maestri di palazzo, gli usur-patori carolingi che, con la sanzione e l'appoggio di Roma, si accingevano a fondare una loro dinastia. Inoltre, i Visigoti si erano convcrtiti al cristianesimo romano e avevano cominciato a perse­guitare gli Ebrei insediati nei loro domini. Perciò, quando la Spagna visigota fu occupata dai Mori nel 771, gli Ebrei accolsero con gioia gli invasori.

Sotto il dominio musulmano, gli Ebrei di Spagna conobbero un periodo felice. I Mori li trattavano con benevolenza, e spesso affidavano loro l'amministrazione delle città conquistate, come Cordova, Granàda e Toledo. I commercianti ebrei venivano inco-

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raggiati, e raggiungevano una nuova prosperità. Il pensiero giu­daico coesisteva con quello islamico, lo influenzava e ne veniva influenzato con risultati fecondi. E molte città, inclusa Cordova, la capitale dei Mori di Spagna, avevano una popolazione prevalente­mente ebrea.

All'inizio dell'VIII secolo i Mori varcarono i Pirenei e occuparo­no la Settimania che rimase in mani islamiche dal 720 al 759, mentre il nipote e il pronipote di Dagoberto II continuavano la loro esistenza clandestina nel Razès. La Settimania diventò un principato moresco autonomo, con capitale a Narbona, sottomes­so soltanto nominalmente all'emirato di Cordova. E partendo da Narbona i Mori di Settimania incominciarono a spingersi verso nord, conquistando città nell'entroterra franco, fino a Lione.

L'avanzata dei Mori fu bloccata da Carlo Martello, maestro di palazzo e nonno di Carlomagno. Entro il 738, Carlo aveva ricac­ciato i Mori a Narbona, dove li assediò. Tuttavia Narbona, difesa dai Mori e dagli Ebrei, si dimostrò inespugnabile e Carlo sfogò la sua rabbia devastando le campagne circostanti.

Entro il 752 il figlio di Carlo, Pipino il Breve, aveva stretto alleanze con gli aristocratici locali, portando così la Settimania sotto il suo dominio. Ma Narbona continuò a resistere, benché le forze di Pipino l'assediassero per sette anni. La città era una spina nel fianco di Pipino, proprio quando questi si trovava nella neces­sità di consolidare la sua posizione. Tanto lui quanto i suoi succes­sori erano molto sensibili all'accusa di aver usurpato il trono dei Merovingi. Per crearsi una legittimità, avevano concluso matri­moni dinastici con famiglie superstiti del sangue reale. E per convalidare la sua posizione, Pipino dispose che la sua incorona­zione fosse caratterizzata dal rito biblico dell'unzione, grazie al quale la Chiesa assunse la prerogativa di creare i re. Ma il rito dell'unione aveva anche un altro aspetto. Secondo gli studiosi, l'unzione aveva lo scopo deliberato di indicare che la monarchia franca era una replica, se non addirittura una continuazione, della monarchia di Giuda nell'Antico Testamento. E questo, di perse, è molto interessante. Perché l'usurpatore Pipino mirava a legitti­marsi mediante un prototipo biblico? A meno che la dinastia da lui deposta, la dinastia merovingia, si fosse legittimata esattamente nello stesso modo.

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In ogni caso, Pipino si trovava di fronte a due problemi: la tenace resistenza di Narbona e la legittimazione delle sue pretese al trono mediante il precedente biblico. Come ha dimostrato Arthur Zuckerman della Columbia University, risolse entrambi i problemi nel 759 grazie a un patto con la popolazione ebrea di Narbona. Secondo il patto, Pipino avrebbe ricevuto l'appoggio degli Ebrei per la sua aspirazione a una successione biblica. Inoltre avrebbe avuto il loro aiuto contro i Mori. In cambio avrebbe concesso agli Ebrei di Settimania un principato e un re esclusiva­mente loro.7

Nel 759 la popolazione ebrea di Narbona si rivoltò improvvisa­mente contro i difensori musulmani della città, li massacrò e aprì le porte della fortezza agli assedianti franchi. Poco più tardi, gli Ebrei riconobbero Pipino come sovrano nominale e convalidaro­no le sue pretese a una legittima successione biblica. Anche Pipino mantenne gli impegni presi. Nel 768 in Settimania fu creato un principato: un principato ebraico che riconosceva nominalmente la sovranità di Pipino, ma che in pratica era indipendente. Fu insediato in forma ufficiale un sovrano, con il titolo di re degli Ebrei. Nei romanzi, viene chiamato Aymery. Secondo i documen­ti pervenuti fino ai tempi nostri, invece, sembra che, quando fu accolto nei ranghi della nobiltà franca, assumesse il nome di Teodorico o Thierry. Teodorico, o Thierry, era il padre di Guillem de Gellone. Ed era riconosciuto, tanto da Pipino quanto dal califfo di Baghdad, come « il seme della casa reale di Davide ».8

Come avevamo già scoperto in precedenza, gli studiosi moderni sono incerti per quanto riguarda le origini e i precedenti di Teodo­rico. Secondo la maggioranza dei ricercatori, era di schiatta mero­vingia.9 Secondo Arthur Zuckerman era nato a Baghdad: un « esilarca » disceso dagli Ebrei rimasti nella Babilonia fin dai tempi della Cattività babilonese. Tuttavia è anche possibile che l'« esilarca » di Baghdad non fosse Teodorico. E possibile che l'« esilarca » fosse giunto da Baghdad per consacrare Teodorico, e che le cronache successive facessero confusione tra i due perso­naggi. Arthur Zuckerman accenna anche a un'affermazione curio­sa: gli « esilarchi occidentali » erano di « sangue più puro » di quelli orientali.10

Chi erano gli « esilarchi occidentali » se non i Merovingi? Per-

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che mai un personaggio di discendenza merovingia doveva essere riconosciuto re degli Ebrei, sovrano di un principato ebraico e « seme della casa reale di Davide », a meno che i Merovingi fossero, almeno in parte, Ebrei? Dopo la parte avuta dalla Chiesa nell'assassinio di Dagoberto e il tradimento del patto concluso con Clodoveo, è possibile che i Merovingi superstiti avessero ripudiato ogni sottomissione a Roma, e fossero ritornati alla fede dei loro padri. I legami con questa fede, comunque, dovevano essere stati rafforzati dal matrimonio fra Dagoberto e la figlia di un principe ufficialmente « visigoto » che portava il nome chiaramente semiti­co di Bera.

Teodorico, o Thierry, consolidò ancor più la propria posizione, e anche quella di Pipino, sposando opportunamente la sorella di quest'ultimo, Alda, la zia di Carlomagno. Negli anni che seguiro­no, il regno ebreo di Settimania ebbe un'esistenza prospera. Venne arricchito di territori concessi dai monarchi carolingi. Ottenne persino cospicui appezzamenti di terra appartenenti alla Chiesa, nonostante le energiche proteste del pontefice Stefano III e dei suoi successori.

Il figlio di Teodorico, re degli Ebrei di Settimania, fu Guillem de Gellone, che tra gli altri titoli portava quelli di conte di Barcellona, di Tolosa, d'Alvernia, e di Razès. Come il padre, Guillem non era soltanto merovingio, ma anche un ebreo di sangue reale. E i Carolingi, il califfo e persino il papa, sia pure a denti stretti, riconoscevano che era il sangue della Casa di Davide.

Nonostante i successivi tentativi di nasconderlo, gli studiosi moderni hanno provato incontestabilmente il giudaismo di Guil­lem. Persino nei romanzi, dove figura come Guillaume, principe d'Orange, parla correntemente l'ebraico e l'arabo. Lo stemma sul suo scudo è lo stesso degli « esilarchi » orientali: il Leone di Giuda, la tribù cui appartenne la casa di Davide e, successivamen­te, lo stesso Gesù. È soprannominato « Naso adunco ». E persino tra una campagna e l'altra, si fa premura di rispettare il sabato e la festa ebraica dei Tabernacoli- Come osserva Arthur Zuckerman:

II cronista che scrisse il racconto originale dell'assedio e della caduta di Barcellona registrò gli eventi secondo il calendario ebraico... [Il] coman­dante della spedizione, il duca Guglielmo di Narbona e di Tolosa, condus­se l'azione rispettando rigorosamente l'osservanza dei sabbath e delle

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festività ebraiche. E in tutto questo, aveva la piena comprensione e collaborazione di re Ludovico.11

Guillem de Gellone divenne uno dei cosiddetti Pari di Carloma-gno, un autentico eroe storico che, nella tradizione popolare, aveva un posto a fianco di personaggi leggendari come Rolando e Olivieri. Quando il figlio di Carlomagno, Ludovico, ricevette l'investitura come imperatore, fu Guillem a porgli sul capo la corona. E Ludovico avrebbe detto: « Nobilissimo Guglielmo... è la tua stirpe che ha innalzato la mia ».12 E un'affermazione straor­dinaria, dato che viene rivolta a un uomo il cui lignaggio — almeno per gli storici di epoche posteriori — sembrerebbe completamente oscuro.

Guillem non era soltanto un guerriero. Poco prima nel 792 fondò a Gellone un'accademia, facendovi pervenire eruditi da varie parti e creando una famosa biblioteca; e ben presto Gellone divenne un noto centro di studi giudaici. Da questa accademia potrebbe essere uscito il « pagano » Flegetanis. il dotto ebreo disceso da Salomone che, secondo Wolfram, confidò a Kyot di Provenza il segreto del Santo Graal.

Nell'806 Guillem si ritirò dalla vita attiva e si chiuse nella sua accademia. Vi morì intorno all'812, e più tardi l'accademia fu trasformata in un monastero, il famoso Saint-Guilhelm-le-Désert.13 Tuttavia, già prima della morte di Guillem, Gellone era divenuta una delle prime sedi europee, a quanto si sa, del culto della Maddalena14 che significativamente vi fiorì negli stessi anni dell'accademia giudaica.

Gesù apparteneva alla tribù di Giuda e alla casa reale di Davide. La Maddalena, si dice, portò in Francia il Graal... il Sangraal o « sangue reale ». E neh" Vili secolo vi fu, nella Francia meridiona­le, un principe della tribù di Giuda e della casa reale di Davide che venne riconosciuto re degli Ebrei. Tuttavia, non era solo un Ebreo praticante. Era anche un Merovingio. E tramite il poema di Wol­fram von Eschenbach, lui e la sua famiglia sono associati al Santo Graal.

Il seme di Davide

Nei secoli successivi, sembra che venissero compiuti tentativi di

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Cartaio    II principato ebraico.

 

espungere ogni traccia del regno giudaico di Settimania. La fre­quente confusione tra « Goti » e « Giudei » sembra indicare una tale censura. Ma la censura non poteva riuscire completamente nell'intento. Ancora nel 1143 Pietro il Venerabile di Cluny, in un discorso rivolto a Luigi VII di Francia, attaccò gli Ebrei di Narbo­na, che affermavano di avere tra loro un re. Nel 1144 un monaco di Cambridge, un certo Theobald, parla dei « grandi principi e rabbi dei Giudei che dimorano in Spagna e si radunano a Narbona, dove risiede il seme reale ».15 E intorno al 1165-6 Beniamino di Tudela, famoso viaggiatore e cronista, riferisce che a Narbona vi sono « saggi, magnati e principi, alla cui testa sta... un discendente della Casa di Davide, come attesta il suo albero genealogico ».16

Ma il seme di Davide residente a Narbona nel XII secolo era meno importante di un altro seme che risiedeva altrove. Gli alberi genealogici si biforcano, si allargano, si suddividono e producono vere e proprie foreste. Se certi discendenti di Thierry e Guillem de Gellone rimasero a Narbona, ve ne erano altri che in quei quattro secoli avevano acquisito domini più augusti. Nel XII secolo questi domini ne includevano due tra i più illustri della cristianità: la Lorena e il regno franco di Gerusalemme.

Nel IX secolo la stirpe di Guillem de Gellone era culminata nei primi duchi di Aquitania. E si era imparentata con la casa ducale di Bretagna. E nel X secolo un certo Hugues de Plantard, sopranno­minato « Naso lungo » e discendente diretto tanto di Dagoberto quanto di Guillem de Gellone, divenne padre diEustachio, primo conte di Boulogne. II nipote di Eustachio fu Goffredo di Buglione, duca di Lorena e conquistatore di Gerusalemme. E da Goffredo discese una dinastia, una « tradizione reale » che, in quanto fon­data sulla « pietra di Sion » era « eguale » a quelle che dominava­no in Francia, Inghilterra e Germania. Se i Merovingi discendeva­no veramente da Gesù, allora Goffredo, rampollo del sangue reale merovingio, conquistando Gerusalemme aveva recuperato quanto gli spettava di diritto.

Goffredo e i suoi successori della casa di Lorena, è ovvio, erano nominalmente cattolici. Per sopravvivere in un mondo ormai cri­stianizzato, dovevano esserlo per forza. Ma pare che la loro origi­ne fosse nota almeno in certi ambienti. Ancora nel XVI secolo Enrico di Lorena, duca di Guisa, quando entrò nella città di

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Joinville, nello Champagne, fu accolto da una folla entusiasta. E si sa che certi individui, mescolati tra la gente, cantarono « Hosan-nah filio David » (Osanna al figlio di Davide).

Forse non è privo di significato il fatto che l'episodio sia riferito in una moderna storia della Lorena, pubblicata nel 1966. L'opera ha una speciale introduzione di Otto d'Asburgo, che oggi è duca titolare di Lorena e re di Gerusalemme.17

Figura 3   Lo stemma di

Rennes-le-Chàteau.

Figura 4

L'emblema ufficiale del Priorato di Sion.

Note

1  Parrinder, Jesus in thè Qur'an, pp. 110 sgg.

2  Blancasall, Les Descendants, p. 9

3  Corano, 4:157.

4  C'era il sacro Toro di Meroe, a Eliopoli. Il fatto che i tori fossero tenuti in grande onore dai Sicambri è dimostrato: una testa taurina d'oro fu trovata nella tomba di Childerico, padre di Clodoveo.

5  Henri Lobineau, Dossierssecrets, planche n. 1,950-1400, n.l.

6  Rabinowitz, De Migrantibus.

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7  Zuckerman, Jewìsh Princedom, pp. 36 sgg.

8  Ibid., p. 59.

9  Ponsich, « Le conflent », p. 244, n. 10. Cfr. inolte Levillain, « Nibelungen », anno 50 (1938), genealogia di fronte a p. 46.

10  Zuckerman, Jewish Princedom, p. 81.

11  Ibid., p. 197.

12  William, Count of Orange, The Crowning of Louis, p. 4 (9).

13  Una parte di esso forma oggi « The Cloisters » a New York.

14  Saxer, Marie Madeleine, voi. 2., p. 412. Il culto, che la consacra il 19 gennaio, risale almeno al 792-5 d.C.

15  Zuckerman, Jewish Princedom, p. 64.

16  Ibid., p. 58

17  Pange, Maison de Lorraine, p. 60.

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XV

Conclusione e presagi per il futuro

Ma se, ad esempio, l'affermazione che Cristo risuscitò dalla morte viene intesa in senso non già letterale ma simbolico, allora è suscettibile di varie interpretazioni che non sono in conflitto con la nostra conoscenza e non intaccano il significato dell'affermazione. L'obiezione che comprenderlo pone simbolicamente fine alla speranza cristiana nell'immortalità non è valida, perché molto prima dell'avvento del cristianesimo l'umanità crede­va nella vita dopo la morte, e quindi non aveva bisogno dell'evento della Pasqua come garanzia dell'immortalità. Il pericolo che una mitologia intesa troppo alla lettera, e quale viene oggi insegnata dalla Chiesa, venga all'improvviso ripudiata in blocco è oggi più grande che mai. Non è il momento che la mitologia cristiana, anziché venire cancellata, venga intesa una volta tanto simbolicamente?

Cari Jung, L'io non scoperto

. All'inizio non eravamo partiti decisi a dimostrare o a confutare qualcosa, e men che meno la conclusione alla quale eravamo stati condotti ineluttabilmente. Non eravamo certo partiti decisi a con­testare alcune delle dottrine più fondamentali del cristianesimo. Al contrario, avevamo incominciato indagando su un certo miste­ro. Cercavamo le risposte ad alcuni interrogativi sconcertanti, le spiegazioni di certi enigmi storici. Lungo il cammino c'eravamo imbattuti in qualcosa di portata assai più grande di quanto avessi­mo previsto. Eravamo giunti a una conclusione sbalorditiva, pole­mica e in apparenza assurda.

Questa conclusione ci aveva costretto a rivolgere l'attenzione su Gesù e sulle origini della religione imperniata su di lui. Quando lo avevamo fatto, non avevamo ancora nessuna intenzione di conte­stare il cristianesimo. Stavamo semplicemente cercando di accer-

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tare se la nostra conclusione era o no sostenibile. Un esame esauriente del materiale biblico ci convinse che lo era. Anzi, ci convinse che la conclusione era non soltanto sostenibile, ma anche estremamente probabile.

Non potevamo - e non possiamo neppure ora - provare l'esat­tezza della nostra conclusione. Almeno in una certa misura, resta tuttora un'ipotesi. Ma è un'ipotesi plausibile e coerente. Spiega molte cose. E per quanto ci riguarda, offre un quadro storicamen­te più verosimile di quelli da noi incontrati degli eventi e dei personaggi che, duemila anni or sono, si imposero alla coscienza dell'Occidente e, nei secoli che seguirono plasmarono la nostra cultura e la nostra civiltà.

Sebbene non possiamo provare la nostra conclusione, tuttavia, abbiamo ricevuto una enorme quantità di indicazioni, sia tramite i suoi documenti sia tramite i suoi rappresentanti, che il Priorato di Sion è in grado di farlo. In base agli scritti e alle conversazioni personali con noi, siamo disposti a credere che Sion possieda qualcosa: qualcosa che in un modo o nell'altro costituisce la « pro­va incontrovertibile » dell'ipotesi da noi formulata. Non sappiamo con precisione quale sia questa prova. Tuttavia, possiamo immagi­narlo.

Se la nostra ipotesi è esatta, la moglie e i figli di Gesù (e Gesù potrebbe averne generati parecchi, tra i sedici-diciassette anni e la sua presunta morte) dopo essere fuggiti dalla Terrasanta trovaro­no riparo nella Francia meridionale e là, in una comunità ebraica, perpetuarono il loro lignaggio. Durante il V secolo, sembra, questa stirpe si alleò per matrimonio con la famiglia reale dei Franchi, dando così origine alla dinastia merovingia. Nel 496 d.C. la Chiesa concluse un patto con questa dinastia, impegnandosi a sostenere perpetuamente la stirpe dei Merovingi, presumibilmen­te nella piena consapevolezza della vera identità di tale stirpe. Questo spiegherebbe perché a Clodoveo fu offerto il titolo di Sacro romano imperatore, di « nuovo Costantino », e perché egli non fu creato re, ma semplicemente riconosciuto tale.

Quando la Chiesa favorì o avallò l'assassinio di Dagoberto e il successivo tradimento nei confronti della stirpe merovingia, si macchiò di una colpa che non poteva venire razionalizzata né espunta. Poteva soltanto venire soppressa. Doveva venire sop-

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pressa: perché la rivelazione della vera identità dei Merovingi non avrebbe certo rafforzato la posizione di Roma nei confronti dei suoi nemici.

Nonostante tutti i tentativi di eliminarla, la stirpe di Gesù - o almeno la stirpe merovingia - sopravvisse. Sopravvisse in parte tramite i Carolingi, i quali chiaramente provarono più rimorso di Roma per l'usurpazione, e cercarono di legittimarsi mediante matrimoni dinastici con principesse merovinge. Ma, più significa­tivamente, sopravvisse nel figlio di Dagoberto, Sigisberto, tra i cui discendenti vi furono Guillem de Gellone, sovrano del regno ebraico di Settimania, e Goffredo di Buglione. Quando Goffredo conquistò Gerusalemme nel 1099, la stirpe di Gesù avrebbe riotte­nuto l'eredità che le spettava e che la era stata conferita al tempo dell'Antico Testamento.

È dubbio che il vero lignaggio di Goffredo, ai tempi delle Crociate, fosse segreto come avrebbe desiderato Roma. Data l'egemonia della Chiesa, ovviamente non poteva esserci una rive­lazione aperta. Ma è probabile che abbondassero le dicerie, le tradizioni e le leggende, che sembrano aver trovato l'espressione più eminente in « favole » come quella di Lohengrin, mitico ante­nato di Goffredo, e naturalmente nei romanzi del Santo Graal.

Se la nostra ipotesi è esatta, il Santo Graal doveva essere simul­taneamente almeno due cose. Da. una parte era la stirpe e i discendenti di Gesù, il « Sang Raal », il sangue reale di cui erano guardiani i Templari, fondati dal Priorato di Sion. Nel contempo il Santo Graal doveva essere, alla lettera, il ricettacolo che aveva ricevuto e contenuto il sangue di Gesù. In altre parole, doveva essere il grembo della Maddalena e, per estensione, la Maddalena stessa. Di qui sarebbe sorto il culto della Maddalena, diffusosi durante il Medioevo - e confuso con il culto della Vergine. Si può provare, ad esempio, che molte delle famose « Madonne Nere » protocristiane non raffigurano la Vergine bensì la Maddalena, e mostrano una madre e un figlio. È stato persino sostenuto che le cattedrali gotiche, le maestose copie in pietra del grembo materno dedicate a « Notre Dame », fossero, come afferma Le serperti rouge, santuari eretti in onore della consorte di Gesù, anziché di sua madre.

Il Santo Graal, quindi, avrebbe simboleggiato tanto la stirpe di

 

Gesù quanto la Maddalena, dal cui grembo era uscita quella stirpe. Ma può essere stato anche qualcosa d'altro. Nel 70 d.C, durante la grande rivolta in Giudea, le legioni romane comandate da Tito saccheggiarono il Tempio di Gerusalemme. Si dice che il tesoro rubato finisse per arrivare nei Pirenei; e Pierre Plantard, parlando con noi, dichiarò che oggi il tesoro è nelle mani del Priorato di Sion. Ma il Tempio di Gerusalemme poteva contenere qualcosa di più del tesoro portato via dai soldati di Tito. Nell'anti­co giudaismo, la religione e la politica erano inseparabili. Il Messia doveva essere un re-sacerdote, la cui autorità abbracciava il cam­po spirituale quanto quello secolare. È quindi verosimile, anzi probabile, che nel Tempio fossero custoditi documenti ufficiali riguardanti la casa reale d'Israele: gli equivalenti dei certificati di nascita, degli atti di matrimonio e altri dati relativi a qualunque famiglia reale o aristocratica dei nostri giorni. Se Gesù era vera­mente « Re dei Giudei », quasi sicuramente il Tempio custodiva copiose notizie su di lui. Forse custodiva anche il suo corpo o almeno la sua tomba, quando il corpo fu portato via dalla sepoltu­ra temporanea di cui parlano i Vangeli.

Nulla indica che Tito, quando saccheggiò il tempio nel 70 d.C, portasse via qualcosa che aveva una qualche relazione con Gesù. Naturalmente tale materiale, se esisteva, potrebbe essere andato distrutto. D'altra parte, poteva essere stato nascosto; e i soldati di Tito, interessati solo a far bottino, difficilmente l'avrebbero cerca­to. Per i sacerdoti del Tempio vi sarebbe stata la scelta di un solo comportamento possibile. Vedendo avanzare le truppe romane, avrebbero lasciato loro i gioielli, l'oro, i tesori materiali che si aspettavano di trovare. E avrebbero nascosto, forse sotto il Tem­pio, cose ben più importanti che si riferivano al legittimo re d'Israele, al Messia riconosciuto e alla sua famiglia.

Verso il 1100 i discendenti di Gesù avrebbero poi acquisito una notevole preminenza in Europa e, grazie a Goffredo di Buglione, anche in Palestina. Dovevano conoscere la loro discendenza. Ma forse non erano in grado di provare a tutti la loro identità; e tale prova era considerata necessaria per i loro successivi disegni. Se si sapeva che quella prova esisteva o poteva esistere nel Tempio, non si sarebbero lesinati gli sforzi per trovarla. Questo spiegherebbe il ruolo dei Cavalieri Templari che, segretamente, intrapresero sca-

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vi sotto il Tempio, nelle cosiddette scuderie di Salomone. In base all'evidenza che avevamo esaminato, non c'era dubbio che i Cava­lieri Templari erano stati inviati in Terrasanta con l'espresso com­pito di scoprire o di ottenere qualcosa. E sempre in base all'evi­denza che avevamo esaminato, sembra che portassero a compi­mento la missione. Sembra che avessero trovato ciò che dovevano cercare, e che lo portassero in Europa. Cosa ne fu, poi, rimane un mistero. Ma è indubbiamente certo che sotto gli auspici di Ber-trand de Blanchefort, Gran Maestro dell'Ordine del Tempio, qual­cosa fu nascosto nei pressi di Rennes-le-Chàteau, e che un contin­gente di minatori tedeschi fu chiamato a scavare e a costruire un nascondiglio, nel massimo segreto. Possiamo soltanto chiederci che cosa vi fu nascosto. Forse era il corpo mummificato di Gesù. Forse era, per così dire, l'equivalente del certificato di matrimonio di Gesù o degli atti di nascita dei suoi figli. Forse era qualcosa altrettanto importante e potenzialmente esplosivo. E tutte queste cose potrebbero essere state indicate come Santo Graal. E alcune di queste cose, o tutte, per caso o di proposito, potrebbero essere state affidate agli eretici Catari, e avrebbero fatto parte del miste­rioso tesoro di Montségur.

Tramite Goffredo e Baldovino di Buglione esisteva una « tradi­zione reale » che, in quanto « fondata sulla pietra di Sion », era l'eguale delle più grandi dinastie d'Europa. Se-come affermano sia il Nuovo Testamento che la massoneria- la « Pietra di Sion » è un sinonimo di Gesù, quell'asserzione acquisterebbe un senso. Anzi, se mai sarebbe un understatement.

Insediata sul trono del regno di Gerusalemme, la dinastia mero­vingia poteva sanzionare e addirittura incoraggiare qualche accen­no alla sua vera origine. Questo spiegherebbe perché i romanzi del Graal apparvero esattamente quando e dove apparvero, e perché erano associati in modo tanto esplicito ai Cavalieri Templari. Con il tempo, se avesse consolidato la sua posizione in Palestina, la « tradizione reale » discesa da Goffredo e Baldovino avrebbe probabilmente rivelato le proprie origini. Allora il re di Gerusa­lemme avrebbe avuto la precedenza su tutti i sovrani d'Europa, e il patriarca di Gerusalemme avrebbe soppiantato il papa. Spode­stando Roma, Gerusalemme sarebbe divenuta la vera capitale della cristianità, e forse non soltanto della cristianità. Infatti, se

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Gesù fosse stato riconosciuto come un profeta mortale, un re­sacerdote, legittimo sovrano della stirpe di Davide, sarebbe dive­nuto accettabile per i Musulmani e per gli Ebrei. Quale re di Gerusalemme, il suo discendente diretto sarebbe stato in grado di realizzare una delle dottrine fondamentali della politica dei Tem­plari: la riconciliazione del cristianesimo con il giudaismo e l'I­siam.

La situazione storica, naturalmente, non permise che si arrivas­se a questo punto. Il regno franco di Gerusalemme non consolidò la sua posizione. Assediato da ogni parte dalle armate musulma­ne, politicamente instabile, non raggiunse mai la forza e la sicurez­za interna necessarie per sopravvivere e tanto meno per imporre la propria supremazia rispetto alle corone dell'Europa e alla Chiesa di Roma. Il grandioso disegno fallì; e crollò completamente nel 1291, con la perdita della Terrasanta. Ancora una volta, i Mero­vingi erano senza corona. E i Cavalieri Templari erano non soltan­to superflui, ma anche sacrificabili.

Nei secoli successivi i Merovingi, aiutati, guidati e protetti dal Priorato di Sion, compirono ripetuti tentativi di riconquistare la loro eredità, ma tali tentativi rimasero circoscritti all'Europa. A quanto sembra, includevano tre programmi, interrelati ma sostan­zialmente distinti. Uno era la creazione di un'atmosfera psicologi­ca, una tradizione clandestina destinata a minare l'egemonia spiri­tuale di Roma, una tradizione che trovò espressione nel pensiero ermetico ed esoterico, nei manifesti rosacrociani e in altri scritti, in certi riti della massoneria e, naturalmente, nei simboli dell'Arca­dia e del fiume sotterraneo. Il secondo programma comprendeva le macchinazioni politiche, gli intrighi e, se possibile, la presa del potere: le tecniche impiegate dalle famiglie di Guisa e di Lorena nel XVI secolo, e dagli ispiratori della Fronda nel XVII. Il terzo programma mediante il quale i Merovingi cercarono di recuperare l'eredità perduta era costituito dai matrimoni dinastici.

A prima vista sembrerebbe che questi metodi bizantini non fossero necessari; sembrerebbe che i Merovingi - se davvero discendevano da Gesù - non avrebbero avuto difficoltà a stabilire la supremazia desiderata. Bastava che rivelassero e provassero la loro vera identità perché il mondo li riconoscesse. In realtà, tutta­via, le cose non erano poi tanto semplici. Lo stesso Gesù non era

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riconosciuto dai Romani. Quando le era parso opportuno farlo, la Chiesa non aveva avuto scrupoli nel sanzionare l'assassinio di Dagoberto e l'usurpazione dei Carolingi. Una rivelazione intempestiva della loro discendenza non avrebbe assicurato il successo ai Merovingi. Al contrario, molto probabilmente sareb­be stata disastrosa: avrebbe suscitato lotte tra fazioni, causato una crisi religiosa e provocato la reazione della Chiesa e dei potenti. Se non fossero stati saldamente trincerati in posizioni di potere, i Merovingi non avrebbero potuto reggere alle ripercussioni, e il segreto della loro identità, il loro asso, sarebbe stato giocato e perduto per sempre. Date le realtà storiche e politiche, quell'asso non poteva venire usato per la scalata al potere. Poteva venire giocato solo quando il potere fosse già stato acquisito; in altre parole, doveva essere giocato da una posizione di forza.

Per riaffermarsi, quindi, i Merovingi erano costretti a ricorrere a procedure più convenzionali, accettate nel particolare periodo in questione. Almeno in quattro occasioni, queste procedure sfiora­rono il successo, e furono sventate soltanto da errori di calcolo, dalle circostanze o dall'imprevisto. Nel XVI secolo, ad esempio, la casa di Guisa per poco non riuscì a impadronirsi della corona francese. Nel secolo successivo, per poco la Fronda non riuscì a togliere il trono a Luigi XIV e a sostituirlo con un esponente della casa di Lorena. Verso la fine del XIX secolo venne preparato il progetto di una sorta di nuova Lega Santa, che avrebbe unificato l'Europa cattolica - Austria, Francia, Italia e Spagna - sotto gli Asburgo. I piani furono sventati dal comportamento inatteso e aggressivo della Germania e della Russia, che provocarono conti­nui rimescolamenti di alleanze tra le grandi potenze e alla fine causarono la guerra destinata a rovesciare tutte le dinastie conti­nentali.

Fu nel secolo XVII, comunque, che la stirpe merovingia giunse più vicina alla realizzazione dei suoi obiettivi. Grazie al matrimo­nio di Francesco con Maria Teresa d'Asburgo, la casa di Lorena aveva ottenuto il trono austriaco, il Sacro romano impero. Quan­do Maria Antonietta, figlia di Francesco di Lorena, divenne regina di Francia, anche il trono francese era lontano non più di una generazione. Se non fosse scoppiata la Rivoluzione francese, la casa di Asburgo-Lorena avrebbe potuto, nei primi anni dell'Ottocen-

 

to, essere in procinto di stabilire il suo dominio su tutta l'Europa.

Sembra evidente che la Rivoluzione francese fu un colpo disa-stroso per le speranze e le aspirazioni dei Merovingi. La catastrofe annientò i disegni meticolosamente ideati e realizzati per un seco­lo e mezzo. Da certi riferimenti contenuti nei « documenti del Priorato », inoltre, appare chiaro che Sion, durante il caos della Rivoluzione, perse molti dei suoi documenti più preziosi; e forse anche altre cose. Questo potrebbe spiegare perché la carica di Gran maestro dell'Ordine passò a uomini di cultura francesi che, come Nodier, avevano accesso a materiale altrimenti non ottenibile. Potrebbe anche spiegare il ruolo di Saunière. Un predecessore di Saunière. Antoine Bigou. aveva nascosto - e forse anche compo­sto - le pergamene in codice, alla vigilia della Rivoluzione; poi era fuggito in Spagna, dove era morto poco tempo dopo. È quindi possibile che Sion, almeno per un certo tempo, non sapesse con precisione dov'erano le pergamene. Ma anche se si fosse saputo che erano nella chiesa di Rennes-le-Chàteau, non sarebbe stato facile recuperarle senza la collaborazione di un prete del posto, un uomo che eseguisse gli ordini di Sion, si astenesse dal fare doman­de imbarazzanti, mantenesse il silenzio e non ostacolasse gli inte­ressi e l'attività dell'Ordine. E se le pergamene si riferivano a qualcosa d'altro, qualcosa nascosto nei pressi di Rennes-le-Chàteau, un uomo così sarebbe stato ancora più opportuno.

Saunière morì senza rivelare il suo segreto. Lo stesso fece la sua governante, Marie Denarnaud. Negli anni successivi sono stati effettuati molti scavi nei dintorni di Rennes-le-Chàteau, ma nessu­no ha dato risultati. Se, come presumiamo, un tempo in quella zona era nascosto qualcosa di sensazionale, senza dubbio fu porta­to via quando la vicenda di Saunière cominciò ad attirare l'atten­zione dei cercatori di tesori; a mano che gli oggetti in questione fossero nascosti in qualche luogo inaccessibile per i cercatori, ad esempio in una cripta sotterranea situata sotto un laghetto artifi­ciale, in una proprietà privata. La cripta sarebbe stata al sicuro da ogni scavo non autorizzato. Uno scavo sarebbe impossibile se prima non venisse svuotato il laghetto; e questo non potrebbe venire fatto clandestinamente, soprattutto da individui che si in­troducessero abusivamente in una proprietà privata. In effetti, un laghetto artificiale esiste presso Rennes-le-Chàteau, vicino a una

 

località che porta il nome piuttosto appropriato di Lavaldieu (la Valle di Dio). Il laghetto potrebbe essere stato costruito sopra una cripta sotterranea, che a sua volta potrebbe essere in comunicazio­ne, per mezzo di un passaggio segreto, con una delle tante grotte che costellano le montagne circostanti.

In quanto alle pergamene scoperte da Saunière, due di esse - o almeno i loro facsimili - sono state riprodotte e pubblicate. Ma le altre due sono state tenute scrupolosamente segrete. Nella sua conversazione con noi, Pierre Plantard ci disse che attualmente si trovano in una cassetta di sicurezza, in una banca dei Lloyds a Londra. Non siamo riusciti e saperne di più.

E il denaro di Saunière? Sappiamo che, in parte, sembra fosse stato ottenuto mediante una transazione finanziaria con l'arciduca Giovanni d'Asburgo. Sappiamo anche che somme cospicue furo­no messe a disposizione non soltanto di Saunière, ma anche del vescovo di Carcassonne, da parte dell'abate Henri Boudet, curato di Rennes-les-Bains. C'è motivo di ritenere che la parte più consi­stente degli introiti di Saunière gli venisse pagata da Boudet, attraverso l'intermediaria Maria Denarnaud, governante dello stesso Saunière. Naturalmente, dove prendesse tutto quel denaro l'abate Boudet, anche lui un povero parroco, resta un mistero. Si direbbe che fosse un rappresentante del Priorato di Sion; ma non si sa se era da Sion che veniva il denaro. Poteva anche venire dal tesoro degli Asburgo. Oppure dal Vaticano, che sarebbe stato sottoposto a un ricatto politico d'alto livello tanto da Sion quanto dagli Asburgo. In ogni caso la questione del denaro, o di un tesoro che poteva averlo fatto affluire, diventò per noi sempre più inci­dentale, in confronto alle nostre scoperte successive. In retrospet­tiva, la sua funzione principale era stata attirare la nostra attenzio­ne sul mistero. Poi era diventato relativamente insignificante.

■ Abbiamo formulato l'ipotesi di una stirpe discesa da Gesù, che continua a esistere ancora oggi. Naturalmente, non possiamo avere la certezza che l'ipotesi sia esatta in ogni particolare. Ma anche se qualche dettaglio, qua e là, è soggetto a modifiche, siamo convinti che le linee generali della nostra ipotesi siano esatte. Forse abbiamo interpretato in modo errato il significato delle attività di un Gran maestro, poniamo, o di un'alleanza nelle lotte

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per il potere e nelle macchinazioni politiche del secolo XVIII. Ma le nostre ricerche ci hanno convinti che il mistero di Rennes-le-Chàteau riguardi un tentativo molto serio, da parte di persone influenti, di riportare una dinastia merovingia sul trono di Francia, se non addirittura di tutta l'Europa, e che le pretese di questa monarchia siano fondate sulla discendenza da Gesù.

In questa prospettiva, molti enigmi, anomalie e interrogativi senza risposta sollevati dalle nostre ricerche divengono spiegabili. E diventano spiegabili molti dei tanti frammenti apparentemente banali: il titolo del libro associato a Nicolas Flamel, ad esempio, // sacro libro di Abraham il Giudeo, principe, sacerdote, levita, astro­logo e filosofo della tribù di Ebrei che dalla collera di Dio fu dispersa tra i Galli; o la coppa simbolica di Renato d'Angiò che prometteva, a chi la vuotasse d'un fiato, la visione di Dio e della Maddalena; o Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz, di Andrea, che parlano di una misteriosa fanciulla di sangue reale, gettata a terra a bordo di una barca, e la cui eredità è caduta in mani islamiche ; o il segreto che Poussin conosceva; e il « Segreto » che si diceva « fosse il cuore » della Compagnia del Santo Sacra­mento.

Nel corso delle nostre ricerche avevamo incontrato anche un gran numero di altri frammenti. Al momento ci erano sembrati insignificanti o non pertinenti. Ma adesso avevano senso. Adesso sembrerebbe chiaro perché Luigi IX considerava la Maddalena come capostipite della stirpe reale francese: una convinzione che a prima vista appariva assurda, anche nel contesto del XV secolo.1 Adesso sembrerebbe chiaro, inoltre, perché la corona di Carloma-gno - una copia della quale oggi fa parte del tesoro imperiale degli Asburgo - portavaTiscrizione « Rex Salomon ».2 E sembrerebbe chiaro il perché i Protocolli degli anziani di Sion parlano di un nuovo re « del sacro seme di Davide ».3

Durante la Seconda guerra mondiale, per ragioni che non sono mai state spiegate in modo convincente, la Croce di Lorena diven­ne il simbolo delle forze della Francia Libera, al comando di Charles de Gaulle. In se stesso è un fatto piuttosto curioso. Perché mai la Croce di Lorena, lo stemma di Renato d'Angiò, doveva essere l'emblema della Francia? La Lorena non era mai stata il cuore della Francia. Anzi, per gran parte della sua storia la Lorena

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era stata un ducato indipendente, uno Stato germanico che faceva parte del vecchio Sacro romano impero.

In parte, la Croce di Lorena potrebbe esser stata adottata a causa del ruolo importante che il Priorato di Sion sembra aver avuto nella Resistenza francese. In parte può essere stata adottata a causa dei rapporti tra Charles de Gaulle e vari membri del Priorato di Sion, come Pierre Plantard. Ma è interessante notare che, quasi trent'anni prima, la Croce di Lorena figurava in modo provocatorio in una poesia di Charles Péguy. Poco tempo prima di morire nella battaglia della Marna, nel 1914, Péguy, intimo amico di Maurice Barrès, l'autore della Colline inspirée, compose questi versi:

Les armes de Jésus c'est la croix de Lorraine, Et le sang dans l'artère et le sang dans la veine, Et la source de gràce et la claire fontaine;

Les armes de Satan c'est la croix de Lorraine, Et c'est la mème artère et c'est la mème veine Et c'est le méme sang et la trouble fountaine...

(Lo stemma di Gesù è la Croce di Lorena, E il sangue nell'arteria e il sangue nella vena, Sorgente della grazia e limpida fontana;

Lo stemma di Satana è la Croce di Lorena,

Ed è la stessa arteria ed è la stessa vena,

Ed è lo stesso sangue e la torbida fontana...)14

Verso la fine dei secolo XVII'il reverendo padre Vincent, stu­dioso di storia antica di Nancy, scrisse una storia di Sion in Lorena. Scrisse anche un'altra opera, intitolata La vera storia di san Sigi-sberto, che contiene anche un racconto della vita di Dagoberto II.5 Sul frontespizio di quest'ultima opera c'è un'epigrafe, una citazio­ne tratta dal Quarto Vangelo: « Egli è tra voi e voi non lo conosce­te ».

Prima ancora di incominciare le nostre ricerche, eravamo agno­stici, né filocristiani né anticristiani. In virtù della nostra educazio­ne e dello studio delle religioni comparate, apprezzavamo il nu­cleo di validità presente in quasi tutte le più importanti fedi del mondo, ed eravamo indifferenti al dogma, alla teologia, alle so-

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vrastrutture. E mentre rispettavamo ogni credp, non potevamo riconoscere a nessuno il monopolio della verità.

Perciò, quando le nostre ricerche ci portarono a Gesù, potem­mo affrontarlo con quello che speravamo fosse un senso di equili­brio e di prospettiva. Non avevamo pregiudizi o preconcetti in un senso o nell'altro, né interessi di sorta, nulla da guadagnare pro­vando o confutando qualche cosa. Nella misura in cui l'« obiettivi­tà » è possibile, potemmo avvicinarci a Gesù « obiettivamente », come uno storico dovrebbe accostarsi ad Alessandro o a Cesare, per esempio. E le conclusioni che ci si imposero, per quanto sbalorditive, non furono sconvolgenti. Non richiedevano un riesa­me nelle nostre convinzioni personali e non sconvolgevano le nostre personali gerarchie dei valori.

Ma, e gli altri? E i milioni di persone in tutto il mondo per le quali Gesù è il Figlio di Dio, il Salvatore, il Redentore? In quale misura il Gesù storico, il re-sacerdote che emergeva dalle nostre ricerche, minaccia la loro fede? Fino a che punto abbiamo violato ciò che per tanti costituisce la più amata interpretazione del sacro?

Ci rendiamo conto, naturalmente, che le nostre ricerche ci hanno portato a conclusioni sotto molti aspetti ostili a certe dottri­ne fondamentali del cristianesimo moderno: conclusioni eretiche, forse addirittura blasfeme. Dal punto di vista di un certo dogma consolidato siamo senza dubbio doppiamente colpevoli di queste trasgressioni. Ma non crediamo di aver profanato o sminuito Gesù agli occhi di coloro che lo venerano con sincerità. E sebbene noi non accettiamo la divinità di Gesù, le nostre conclusioni non impediscono agli altri di farlo. Molto semplicemente, non c'è motivo perché Gesù non potesse essere sposato e non potesse avere figli pur conservando la sua divinità. Non c'è ragione perché la sua divinità debba dipendere dalla castità sessuale. Anche se era il Figlio di Dio, non c'è ragione perché non dovesse sposarsi e avere una famiglia.

Alla base di gran parte della teologia cristiana sta l'assunto che Gesù è Dio incarnato. In altre parole Dio, per pietà verso le sue creature, si incarnò assumendo forma umana. Così facendo avreb­be potuto conoscere di prima mano, per così dire, la condizione umana. Avrebbe fatto l'esperienza diretta delle vicissitudini del­l'esistenza degli uomini. Avrebbe compreso, nel senso più profon-

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do, cosa significa essere uomo: affrontare da un punto di vista umano la solitudine, l'angoscia, l'abbandono, la tragica mortalità che è la sorte dell'umanità. Diventando uomo, Dio avrebbe cono­sciuto gli uomini in un modo che l'Antico Testamento non ammet­te. Rinunciando al suo distacco olimpico, sarebbe stato diretta­mente partecipe del destino degli uomini. E così facendo, avrebbe redento il destino degli uomini, l'avrebbe convalidato e giustifica­to facendosene partecipe, soffrendo per esso e venendo ad esso sacrificato.

Il significato simbolico di Gesù è che egli è Dio esposto alla gamma dell'esperienza umana, esposto alla conoscenza diretta di ciò che significa essere un uomo. Ma Dio, incarnato in Gesù, poteva veramente affermare d'essere un uomo, abbracciare la gamma dell'esperienza umana, senza conoscere due degli aspetti più fondamentali ed elementari della condizione umana? Dio poteva affermare di conoscere totalmente l'esistenza umana senza affrontare due aspetti essenziali dell'umanità come la sessualità e la paternità?

■ Noi non lo pensiamo. Anzi, non pensiamo che l'Incarnazione simboleggi veramente ciò che vorrebbe simboleggiare, se Gesù non era sposato e padre. Il Gesù dei Vangeli e del cristianesimo è in ultima analisi incompleto, un Dio la cui incarnazione umana è soltanto parziale. Il Gesù che emergeva dalle nostre ricerche, secondo noi, è molto più vicino a ciò che il cristianesimo vede in lui.

Nel complesso, quindi, non crediamo di aver compromesso o sminuito Gesù. Non crediamo che abbia sofferto a causa delle conclusioni alle quali ci hanno condotto le nostre ricerche. Dalla nostra indagine emerge un Gesù vivo e plausibile, un Gesù la cui vita è più significativa e comprensibile per l'uomo moderno.

Non siamo in grado di additare un uomo e di asserire che è un discendente diretto di Gesù. Gli alberi genealogici si biforcano, si suddividono e, nel corso dei secoli, formano vere e proprie fore­ste. Oggi esiste almeno una dozzina di famiglie, in Gran Bretagna e in Europa, con numerosi rami collaterali, che sono di discenden­za merovingia. Tra le altre, vi sono quelle degli Asburgo-Lorena (duchi titolari di Lorena e re di Gerusalemme), i Plantard, i

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Lussemburgo, i Montpézat, i Montesquieu e vari altri. Secondo i « documenti del Priorato » anche la famiglia Sinclair, in Gran Bretagna, è imparentata con la stirpe, come lo sono i vari rami degli Stuart. E la famiglia del Devonshire, tra l'altro, sembra fosse a conoscenza del segreto. Molte di queste casate potrebbero pre­sumibilmente affermare di discendere da Gesù; e se in futuro un uomo verrà presentato come un nuovo re-sacerdote, noi non sappiamo chi sarà.

Ma sono chiare, almeno, parecchie cose. Per quanto ci riguarda personalmente, un discendente diretto di Gesù non sarebbe più divino, più intrinsecamente miracoloso di chiunque altro. E senza dubbio, questa posizione verrebbe condivisa oggi da molta gente. Sospettiamo che sia condivisa dallo stesso Priorato di Sion. Inoltre la rivelazione dell'esistenza di un individuo o di un gruppo d'indi­vidui discesi da Gesù non sconvolgerebbe il mondo come l'avreb­be sconvolto ancora un secolo fa. Anche se vi fosse la « prova incontrovertibile » di questa discendenza, molti si limiterebbero a scrollare le spalle e a dire: « E con ciò? ». Di conseguenza, sem­brerebbe che i complessi disegni del Priorato di Sion non abbiano molto senso; a meno che siano legati in qualche modo cruciale alla politica. Quali che siano le ripercussioni teologiche delle nostre conclusioni, sembra chiaro che ve ne sono altre: ripercussioni politiche d'effetto potenzialmente enorme, tali da influire sul pen­siero, i valori, le istituzioni del mondo in cui viviamo.

Certamente, in passato, le varie famiglie di discendenza mero­vingia erano immerse nella politica e i loro obiettivi includevano il potere politico. E si potrebbe dire altrettanto del Priorato di Sion e di molti suoi Gran maestri. Non c'è ragione di presumere che la politica, oggi, non debba essere ugualmente importante per Sion e per la stirpe. Anzi, tutto indica che Sion pensi a un'unità tra Chiesa e Stato, un'unità tra secolare e spirituale, sacro e profano, politica e religione. In molti suoi documenti, Sion asserisce che il nuovo re, secondo la tradizione merovingia, dovrebbe « regnare ma non governare ». In altre parole, sarebbe un re-sacerdote, con funzio­ni principalmente rituali e simboliche; e il compito concreto di governare verrebbe espletato da altri, forse dal Priorato di Sion.

Nel XIX secolo il Priorato di Sion, operando tramite la masso­neria e FHiéron du Val d'Or, cercò di creare un Sacro romano

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impero rinnovato e « aggiornato », una sorta di Stati uniti d'Euro­pa a carattere teocratico, governato simultaneamente dagli Asburgo e da una Chiesa riformata in modo radicale. L'iniziativa venne frustrata dalla Prima guerra mondiale e dal crollo di tante dinastie regnanti. Ma non è irrazionale supporre che gli attuali obiettivi di Sion siano in sostanza molto simili, almeno nelle linee generali, a quelli dell'Hiéron du Val d'Or.

È superfluo aggiungere che possiamo formulare soltanto ipotesi circa tali obiettivi. Ma a quanto pare includerebbero una forma teocratica di Stati uniti d'Europa, una confederazione paneuropea unita in un impero moderno sotto una dinastia discesa da Gesù. Questa dinastia non occuperebbe soltanto un trono del potere politico e secolare, ma molto probabilmente anche il trono di san Pietro. Sotto questa autorità suprema potrebbe sorgere allora una rete intercollegata di regni o principati, legati da matrimoni dina­stici: una specie di « sistema feudale » del XX secolo, ma senza gli abusi che i moderni associano a questo termine. E il compito di governare sarebbe1 presumibilmente affidato al Priorato di Sion, che potrebbe assumere, diciamo, la forma di un Parlamento euro­peo dotato di poteri esecutivi e/o legislativi. ■

Questa Europa costituirebbe una nuova forza politica unificata in campo internazionale, un'entità la cui posizione sarebbe para­gonabile a quella degli Stati Uniti d'America o dell'Unione Sovie­tica. Anzi, potrebbe essere ancora più forte, poiché sarebbe fon­data su profonde basi spirituali ed emotive anziché su basi astratte, teoriche o ideologiche. Parlerebbe non soltanto all'intelletto del­l'uomo, ma anche al suo cuore. Trarrebbe la propria forza dalla psiche collettiva dell'Europa occidentale, ridestando il fondamen­tale impulso religioso.

Un programma simile può apparire donchisciottesco. Ma la storia ci ha insegnato a non sottovalutare la forza della psiche collettiva e il potere che si può conseguire sfruttandola. Pochi anni fa sarebbe parso inconcepibile che un fanatico religioso, senza un esercito, senza un partito politico alle spalle; senza altri mezzi se non il carisma e la sete religiosa di un popolo, riuscisse da solo a rovesciare l'edificio moderno e superbamente attrezzato del regi­me dello scià.in Iran. Eppure è ciò che è riuscito a fare l'ayatollah Komeini.

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Naturalmente, non intendiamo lanciare un monito. Non para­goniamo affatto il Priorato di Sion all'ayatollah, né esplicitamente né implicitamente. Non abbiamo nessun motivo di vedere Sion alonato da una luce sinistra come il demagogo iraniano. Ma il demagogo iraniano dimostra in modo eloquente la profondità, l'energia, la forza potenziale dell'impulso religioso negli uomini, e i modi in cui questo impulso può essere sfruttato ai fini politici. Non è affatto detto che tali fini debbano comportare un abuso d'autorità. Possono essere lodevoli, come lo erano quelli di Chur-chill e de Gaulle durante la Seconda guerra mondiale. L'impulso religioso può venire incanalato in innumerevoli direzioni. È fonte di un potenziale enorme. E troppo spesso viene ignorato o sotto­valutato dai governi attuali che hanno nella ragione la loro base ma anche il loro limite. L'impulso religioso rispecchia una profon­da esigenza psicologica ed emotiva. E le esigenze psicologiche ed emotive sono autentiche e sentite quanto il bisogno di cibo, di una casa, di sicurezza materiale.

Sappiamo che il Priorato di Sion non è un'organizzazione eccen­trica. Sappiamo che dispone di cospicue fonti finanziarie e ha l'adesione o almeno la simpatia di uomini importanti e influenti nel campo della politica, dell'economia, dei mass-media e delle arti. Sappiamo che, a partire dal 1956, ha più che quadruplicato il numero dei suoi membri, come se stesse mobilitandosi o prepa­randosi a qualcosa; e Pierre Plantard ci ha detto che lui e il suo Ordine stavano lavorando secondo un programma più o meno preciso. Sappiamo inoltre che a partire dal 1956 Sion sta rendendo disponibili certe informazioni, con discrezione, poco a poco, in quantità misurate appena sufficienti per fornire accenni affasci­nanti. Sono stati tali accenni a far nascere questo libro.

Se il Priorato di Sion intende « scoprire le sue carte », ora i tempi sono maturi. I sistemi politici e le ideologie che nei primi anni del nostro secolo sembravano promettere tanto si sono rivela­ti più o meno fallimentari. Il comunismo, il socialismo, il fascismo, il capitalismo, la democrazia occidentale hanno tutti, in un modo o nell'altro, tradito le promesse, deluso i loro seguaci, mancato di realizzare i sogni che avevano ispirato. I politici, con la loro mentalità limitata, la mancanza di una prospettiva, e gli abusi di potere, non ispirarlo più fiducia, ma soltanto diffidenza. Oggi in

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Occidente predominano il cinismo, l'insoddisfazione e la disillu­sione. Crescono la tensione psichica, l'ansia e la disperazione. Ma c'è anche un'intensa ricerca di significati, di esaudimento emotivo, di una dimensione spirituale, di qualcosa in cui credere sincera­mente. C'è l'aspirazione a un rinnovato senso del sacro che in pratica equivale a una vera e propria rinascita religiosa, esemplifi­cata dalla proliferazione di sette e culti, e dall'ondata di fonda­mentalismo che pervade gli Stati Uniti. Inoltre, c'è il desiderio sempre più intenso di trovare un vero « leader » - non un Fuhrer-ma una figura spirituale, saggia e benigna, un « re-sacerdote » nel quale l'umanità possa riporre ogni fiducia. La nostra civiltà si è saziata di materialismo ed è divenuta consapevole di una sete più profonda. Ora incomincia a guardare altrove, a cercare l'esaudi­mento delle sue esigenze emotive, psicologiche e spirituali.

Questa atmosfera sembra eminentemente favorevole agli obiet­tivi del Priorato di Sion. Pone Sion nella condizione di poter offrire un'alternativa ai sistemi politici e sociali esistenti. Tale alternativa non costituisce l'Utopia o la Nuova Gerusalemme. Ma poiché soddisfa esigenze che i sistemi esistenti neppure riconosco­no, potrebbe esercitare un'attrazione immensa.

Vi sono molti cristiani devoti che non esitano a interpretare l'Apocalisse come un olocausto nucleare. Come potrebbe essere interpretato l'avvento di un discendente diretto di Gesù? Per un pubblico ricettivo, potrebbe essere una specie di Seconda venuta.

Note

1  Lacordaire, St Mary Magdalen, p. 185.

2  Encyclopaedia Britannica, XIV ediz. (1972), Crown and Regalia, fig. 2.

3  Nilus, Protocols, n. 24.

4  Péguy, Charles, « La Tapisserie de Saint Geneviève » in Oeuvres poétiques compìètes (Paris 1957), p. 849.

5  San Sigisberto fu il padre di Dagoberto II.

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Appendice

I presunti Gran maestri del Priorato di Sion

JEAN DE GISORS. Secondo i « documenti del Priorato », Jean de Gisors fu il primo Gran maestro indipendente di Sion, e assunse la carica dopo il « taglio dell'olmo » e la separazione dai Cavalieri Templari, nel 1188. Nacque nel 1133 e morì nel 1220. Almeno nominalmente, era signore della fortezza di Gisors in Normandia, dove si svolgevano per tradizione gli incontri tra i re di Francia e d'Inghilterra e dove, nel 1188, ebbe luogo una strana contesa che comportò l'abbattimento di un olmo. Fino al 1193 Jean fu vassallo del re d'Inghilterra; prima di Enrico II, poi di Riccardo I. Aveva proprietà in Inghilterra, nel Sussex, e il maniero di Titchfield nell'Hampshire. Secondo i « documenti del Priorato » s'incontrò con Tommao Beckett nel 1169. Non rimangono documentazioni indipendenti dell'incontro, ma Beckett si recò a Gisors nel 1169 e dovette avere qualche contatto con il signore della fortezza.

MARIE DE SAINT-clair. Le notizie su Marie de Saint-Clair erano ancora più scarse di quelle su Jean de Gisors. Nata intorno al 1192, discendeva da Henry de Saint-Clair, barone di Rosslyn in Scozia, che accompagnò Goffredo di Buglione alla Prima Crociata. Rosslyn era situato non lontano dal principale presidio dei Templari in Scozia, e la cappella di Rosslyn, costruita nel XV secolo, venne circondata di leggende rosacrociane e massoniche. La nonna di Marie de Saint-Clair aveva sposato un uomo della famiglia francese degli Chaumont; come Jean de Gisors sposò una donna della stessa famiglia. Le genealogie delle famiglie Chaumont, Gi­sors e Saint-Clair sono quindi strettamente legate. Secondo certi indizi, Marie de Saint-Clair sarebbe stata anzi la seconda moglie di Jean de Gisors; ma non riuscimmo a trovare conferme definitive. Secondo le genealogie contenute nei « documenti del Priorato », la madre di Marie si chiamava Isabel Letois. Questo cognome, che sembrerebbe di origine ebraica, è frequente in Linguadoca, dove c'erano colonie di Ebrei insedia­te ancor prima dell'era cristiana.

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TIBAU DE PAYEN

■11 Moro di GHrdilla»

1012 64

CATHER1NE = HUQUES DE PAYEN 1070 1131

OM Ordino de) Tempio

Casa di Chaumont

HUGUES                                 ROBERT    =

DE CHAUMONT                      DE CHAUMONT

1011 67                                   1017 75

I                            I

ADELAIDE= HUQUES DE CHAUMONT

1032 75 1° Signore di Gisors

OSMON DE CHAUMONT

1060 1116 Signora di Guiliy

QUILLAUMC DE CHAUMONT

RICHILDE  =

erode di Sainl Clair

TI0AUDI = "la Payen» 1055 1130 Signore di Girare

ROBERT DE CHAUMONT

Signora di Guitry

GUILLAUME

DE CHAUMONT

1155 1224

ROBERT

DE SAINT CLAIH

1160 1232

Stirpo

merovingia                           ,-------

1                            1156           I

JEAN VI        :       "'"   1DOINE

DESPLANTARD                1135 91 1130?

HUGUCS II

1000 1142

Signore di Gisors

JEAN

1133 1320

Signore di Glaors

Fondatore della

Rosacroce nelUBB

QM Priorato di Slon

? DECHAUMONT

GIRARD

AGNESDASSALY

GU1LLAUME 1219 1307 Signore di Gisara G M Priorato di Slon 1288

= IOLANDEDEBAR

La [Inoa continua ai

Tavola 5 Le famiglie di Gisors, Payen e Saint-Clair.

[Dall'opera di H LobineautfH de Lénoncourt) ]

 

GUILLAUME de gisors. Guillaume de Gisors, nipote di Jean de Gisors, nacque nel 1219. Avevamo già incontrato il suo nome in connessione con la testa misteriosa trovata nel presidio parigino dei Templari dopo gli arresti del 1307. A parte questo, però, trovammo una sola menzione esterna del suo nome, in un atto datato 1244 dove si dice che è un cavaliere. Secondo le genealogie dei « documenti del Priorato », sua sorella sposò Jean de Plantard. I « documenti del Priorato », inoltre, affermano che Guillaume, nel 1269, entrò a far parte dell'Ordine della Nave e della Doppia Mezzaluna. L'ordine fu creato da Luigi IX (san Luigi) per i nobili che lo accompagnarono nella fallimentare Sesta Crocia­ta. Se Guillaume de Gisors ne faceva parte, doveva aver partecipato alla campagna in Egitto insieme a san Luigi.

EDOUARD DE bar. Nato nel 1302, Edouard, conte de Bar, poteva vantare come nonno Edoardo I d'Inghilterra, ed Edoardo II come zio. Discendeva da una famiglia che era stata influente nelle Ardenne fin dai tempi dei Merovingi, e quasi sicuramente era imparentata con quella dinastia. La figlia di Edouard sposò un nobile della casa di Lorena, e le genealogie dei Bar e dei Lorena diventano in seguito strettamente intrecciate.

Nel 1308, all'età di sei anni (!), Edouard accompagnò il duca di Lorena in battaglia, fu catturato e venne riscattato soltanto nel 1314. Divenuto maggiorenne, acquistò la signoria di Stenay da uno dei suoi zii, Jean de Bar. Nel 1324 fu alleato in operazioni militari con Ferry di Lorena e Giovanni di Lussemburgo: e la casa di Lussemburgo, come quella di Lorena, sembra di origine merovingia. Nel 1336 Edouard morì in un naufragio al largo di Cipro.

Nessuna fonte indipendente ci fornisce qualche legame tra Edouard de Bar e Guillaume de Gisors. Secondo le genealogie dei « documenti del Priorato », tuttavia, Edouard era pronipote della moglie di Guillaume, Iolande de Bar. Anche se non potemmo confermare questa parentela, non trovammo nulla.che la smentisse.

Se, come affermano i « documenti del Priorato », Edouard divenne Gran maestro di Sion nel 1307, lo divenne a cinque anni. Questo non è necessariamente improbabile, se fu catturato sul campo di battaglia quan­do ne aveva sei. Fino a quando Edouard raggiunse la maggior età, la contea di Bar fu governata da suo zio, Jean de Bar, in qualità di reggente. È possibile che Jean fosse anche Gran maestro reggente. Ma la scelta di un bambino di cinque anni come Gran maestro non avrebbe senso, a meno che il titolo fosse in un certo senso ereditario, legato alla stirpe.

JEANNE DE BAR. Nacque nel 1295; era sorella maggiore di Edouard. Quindi Edoardo I d'Inghilterra era suo nonno, ed Edoardo II era suo zio.

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Nel 1310, a quindici anni, sposò il conte di Warren, Surrey, Sussex e Strathern; divorziò circa cinque anni più tardi, dopo che il conte venne scomunicato per adulterio. Jeanne continuò tuttavia a vivere in Inghilter­ra; e sebbene non riuscissimo a trovare notizie dettagliate sulle sue attivi­tà, sembra che avesse rapporti di estrema cordialità con il trono inglese. Pare che fossero ottimi anche quelli con il re di Francia, che nel 1345 la invitò a ritornare in continente, dove Jeanne divenne reggente della contea di Bar. Nel 1353, nonostante la Guerra dei cent'anni e le ostilità tra Inghilterra e Francia, Jeanne tornò in Inghilterra. Quando il sovrano francese fu catturato nel 1356 alla battaglia di Poitiers e tenuto prigioniero a Londra, Jeanne fu autorizzata a « confortarlo » e a prendersi cura di lui. Durante la lunga prigionia del re, si dice che Jeanne fosse divenuta la sua amante, sebbene a quel tempo fossero entrambi avanti negli anni. Jeanne morì a Londra nel 1361.

Secondo i « documenti del Priorato », Jeanne de Bar presiedette il Priorato di Sion fino al 1351, dieci anni prima della morte. Quindi sembra essere stata l'unica, tra i Gran maestri, che abdicò o fu deposta.

JEAN de saint-Clair. Le nostre ricerche non ci permisero di scoprire nulla, virtualmente, su Jean de Saint-Clair, che sembra essere stato un personaggio minore. Nacque intorno al 1329; discendeva dalle case fran­cesi di Chaumont, Gisors e Saint-Clair-sur-Epte. Secondo le genealogie dei « documenti del Priorato », suo nonno aveva sposato la zia di Jeanne de Bar. La relazione è indubbiamente tenue. Tuttavia, sembra indicare che il titolo di Gran maestro di Sion era ancora appannaggio esclusivo di certe famiglie imparentate tra loro.

BLANCHE D'EVREUX. Bianche d'Evreux era in realtà Bianca di Navarra, figlia del re di Navarra. Nacque nel 1332. Ereditò dal padre le contee di Longueville ed Evreux, entrambe vicine a Gisors; e nel 1359 divenne anche contessa di Gisors. Dieci anni prima aveva sposato Filippo VI, re di Francia, e per suo tramite conobbe quasi sicuramente Jeanne de Bar. Trascorse gran parte della sua vita nel castello di Neuphle, presso Gisors, dove morì nel 1398.

Secondo molte leggende, Bianca si occupava di studi ed esperimenti alchemici; e la tradizione afferma che in alcuni dei suoi castelli c'erano Iaboratori. Si dice che possedesse un'opera alchemica di valore inestima­bile, redatta in Linguadoca nel XIV secolo, ma basata su un manoscritto risalente agli ultimi tempi della dinastia merovingia, sette secoli prima. Sembra inoltre che fosse protettrice di Nicolas Flamel.

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NICOLAS flamel. Quello di Flamel è il primo nome, nell'elenco dei Gran maestri, che non abbia legami di sangue con le genealogie dei « documenti del Priorato »; e con lui, la carica di Gran maestro di Sion cessa di essere un appannaggio di famiglia. Flamel nacque intorno al 1330 e per qualche tempo lavorò a Parigi come scrivano o copista. Grazie al suo lavoro, gli passavano tra le mani molti libri rari; e divenne esperto di pittura, poesia, matematica e architettura. Inoltre s'interessò all'alchimia e al pensiero cabalistico ed ermetico.

Intorno al 1361 Flamel, secondo ciò che narra egli stesso, s'imbattè per caso in un libro che avrebbe cambiato la sua vita. Il titolo completo è sconcertante e interessante: // libro sacro di Abraham il Giudeo, principe, sacerdote, levita, astrologo e filosofo della tabù di Ebrei che dalla collera di Dio fu dispersa tra i Galli. L'opera divenne in seguito una delle più famose della tradizione esoterica occidentale. Si dice che l'originale fosse deposi­tato presso la Biblioteca dell'Arsenale a Parigi. Le riproduzioni sono state studiate assiduamente, religiosamente e, sembra, del tutto invano da molte generazioni di aspiranti adepti.

Secondo il suo racconto, Flamel sudò sul volume per ventun anni, senza ottenere risultati migliori. Finalmente, durante un viaggio in Spagna nel 1382, incontrò a Leon un Ebreo convertito che gli spiegò il testo. Tornato a Parigi, mise in pratica quanto aveva imparato; e si dice che compisse la sua prima trasmutazione alchemica riuscita a mezzogiorno del 17 gennaio: la data che ricorre con tanta insistenza nella vicenda di Saunière e di Rennes-le-Chàteau.

Indipendentemente dal fatto che il racconto di Flamel sia esatto o no, è certo che egli divenne ricchissimo. Verso fine della sua vita, nella sola Parigi possedeva più di trenta case e appezzamenti di terreno. Nel contem­po, però, sembra fosse modesto; non amava il potere e spendeva gran parte del suo denaro in opere di bene. Prima del 1413 aveva fondato e dotato quattordici ospedali, sette chiese e tre cappelle a Parigi, e altri a Boulogne (la vecchia contea del padre di Goffredo di Buglione). Più ancora della sua straordinaria fortuna, questo altruismo lo rese caro ai posteri. Ancora nel XVII secolo era tenuto nella più alta considerazione da uomini come Isaac Newton, che lesse meticolosamente le sue opere, le annotò e addirittura ne copiò una a mano.

RENATO D'ANGIÒ. Non scoprimmo nessun contatto documentato tra Fla­mel e Renato d'Angiò. Nel contempo, però, Renato ci offriva molti motivi di riflessione. Sebbene oggi sia poco noto, fu uno dei personaggi più importanti degli anni che precedettero il Rinascimento. Nato nel 1408, nel corso della sua vita finì per accumulare un'impressionante serie di titoli. Tra i più importanti figuravano: conte di Bar, di Provenza, di Piemonte, di

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Guisa, duca di Calabria, d'Angiò, di Lorena, re d'Ungheria, di Napoli e Sicilia, d'Aragona, Valenza, Maiorca e Sardegna. Ma forse il più altiso­nante di tutti era il titolo di re di Gerusalemme, anche se ovviamente era soltanto nominale. Tuttavia indicava una continuità che risaliva a Goffre-do di Buglione, ed era riconosciuto dagli altri potentati europei. Una delle figlie di Renato sposò nel 1445 Enrico VI d'Inghilterra e divenne uno dei personaggi di maggior rilievo della Guerra delle due rose.

Secondo i« documenti del Priorato », Renato divenne Gran maestro di Sion a dieci anni; e suo zio Luigi, cardinale di Bar, esercitò la reggenza di questa carica fino al 1428. Le nostre ricerche rivelarono che Renato era entrato nel 1418 in un certo Ordine del Levriero Bianco, sul cui conto non riuscimmo a scoprire altre notizie importanti. Senza dubbio poteva essere Sion, sotto un altro nome.

Tra il 1420 e il 1422 il cardinale di Lorena fondò un altro ordine, L'Ordre de la Fidélité, e Renato fu uno dei primi ammessi. Nel 1448, Renato creò a sua volta un ordine, l'Ordine della Mezzaluna; egli stesso affermava che era una nuova versione del vecchio Ordine della Nave e della Doppia Mezzaluna (di cui aveva fatto parte Guillaume de Gisors un secolo e mezzo prima). Tra i primi Cavalieri della Mezzaluna figuravano anche Francesco Sforza, duca di Milano e padre del futuro mecenate di Leonar­do da Vinci; il conte di Lénoncourt, il cui discendente, secondo i « docu­menti del Priorato », compilò le genealogie dei Dossiers segreti; e Ferri, signore di un importante feudo in Lorena che risaliva ai tempi merovingi ed era chiamato Sion-Vaudémont. Secondo le intenzioni di Renato, que­sti personaggi costituivano per così dire la sua risposta all'Ordine della Giarrettiera inglese e all'Ordine del Toson d'Oro borgognone. Ma per ragioni che permangono oscure, l'Ordine della Mezzaluna incorse nell'ira della Chiesa e fu soppresso dal papa.

t da Renato d'Angiò che deriva la moderna Croce di Lorena, simbolo della Resistenza francese durante la Seconda guerra mondiale. Quando divenne duca di Lorena, la doppia croce fu il suo stemma personale.

IOLANDE DE BAR. Nata intorno al 1428, era figlia di Renato d'Angiò. Nel 1445 sposò Ferri, signore di Sion-Vaudémont, uno dei primi cavalieri dell'Ordine della Mezzaluna fondato da Renato. Dopo la morte di Ferri, Iolande trascorse gran parte della sua vita a Sion-Vaudémont, che sotto i suoi auspici divenne, da centro locale di pellegrinaggi, un luogo sacro per tutta la Lorena. In passato, ai tempi dei pagani, era già stato un luogo sacro; in seguito vi venne ritrovata una statua di Rosemerthe, un'antica Dea Madre gallo-teutonica. Anche nei primi tempi dell'era cristiana la località aveva carattere sacro, sebbene si chiamasse allora Monte Semita, un nome più giudaico che cristiano. In epoca merovingia vi era stata eretta

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una statua della Vergine, e nel 1070 il conte di Vaudémont si era autopro­clamato « vassallo della Regina del Cielo ». La Vergine di Sion fu dichia­rata ufficialmente « Sovrana della contea di Vaudémont » ; in maggio si celebravano feste in suo onore, ed era riconosciuta come protettrice della Lorena. Le nostre ricerche ci permisero di ritrovare un documento datato 1396 che riguarda una confraternita cavalieresca con sede sulla montagna, la Confraternita dei Cavalieri di Sion, che faceva risalire le proprie origini alla vecchia abbazia di Monte Sion nei pressi di Gerusalemme. Nel secolo XV, tuttavia, sembra che Sion-Vaudémont avesse perso in parte la sua importanza, e Iolande de Bar si adoperò per rendergli la gloria di un tempo.

Il figlio di Iolande, Renato, divenne in seguito duca di Lorena. Per ordine dei genitori studiò a Firenze, dove imparò a conoscere bene la tradizione esoterica e l'orientamento delle accademie. Il suo insegnante fu Giorgio Antonio Vespucci, uno dei principali mecenati del Botticelli.

SANDRO BOTTICELLI. Sandro Filipepi, più noto come Botticelli, nacque nel 1444. Escludendo Nicolas Flamel, è il primo dei presunti Gran maestri di Sion non imparentato con le famiglie le cui genealogie figurano nei « documenti del Priorato ». Sembra però che avesse rapporti molto stretti con alcune di queste famiglie. Tra i suoi protettori vi furono i Medici, gli Estensi, i Gonzaga e i Vespucci: e un Vespucci fu maestro del figlio di Iolande de Bar, futuro duca di Lorena. Il Botticelli studiò presso Filippo Lippi e il Mantegna, che erano stati entrambi protetti di Renato d'Angiò. Studiò anche presso il Verrocchio, alchimista ed esponente del pensiero ermetico che fu maestro anche di Leonardo da Vinci.

Come tanti altri, non vedevamo il Botticelli come un personaggio legato all'« occulto » e all'esoterismo. Ma recentemente diversi studiosi del Rinascimento - ad esempio Edgar Wind e Frances Yates - hanno sostenu­to che aveva tendenze esoteriche, e noi abbiamo ceduto alle loro conclu­sioni convincenti. Sembra che Botticelli fosse un'« esoterista » e molte delle sue opere rispecchiano princìpi esoterici. Uno dei più antichi mazzi di Tarocchi che si conoscono viene attribuito al Botticelli o al suo maestro, il Mantegna. E il famoso quadro della Primavera è, tra le altre cose, una elaborazione del tema dell'Arcadia e dell'esoterico « fiume sotterraneo ».

LEONARDO DA VINCI. Nato nel 1452, Leonardo conosceva molto bene il Botticelli, soprattutto perché furono entrambi apprendisti presso il Ver­rocchio. Come il Botticelli, fu protetto dai Medici, gli Estensi e i Gonzaga. Inoltre ebbe come mecenate Ludovico Sforza, figlio di Francesco Sforza, uno dei migliori amici di Renato d'Angiò e membro dell'Ordine della Mezzaluna.

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Gli interessi e gli orientamenti esoterici di Leonardo, come quelli del Botticelli, sono ormai accertati. Frances Yates, in una conversazione con uno dei nostri ricercatori, disse che era stato un « rosacrociano ». Ma nel caso di Leonardo l'interesse per l'esoterismo era ancora più grande di quello del Botticelli. Persino il Vasari, suo biografo e contemporaneo, dice che aveva « una mente eretica ». Non è chiaro che cosa potesse costituire di preciso tale eresia. Tuttavia, durante gli ultimi anni della sua vita certi autori gli hanno attribuito l'antica credenza eretica che Gesù avesse un fratello gemello. Vi sono senza dubbio alcuni indizi a sostegno di questa asserzione, in un cartone intitolato La Vergine con san Giovanni Battista e sant'Anna, e nel famoso Cenacolo, dove vi sono in effetti due Cristi virtualmente identici. Ma nulla indica se la dottrina relativa al gemello di Gesù debba essere interpretata letteralmente o simbolicamen­te.

Tra il 1515 e il 1517 Leonardo, nelle qualità di ingegnere militare, seguì l'esercito di Carlo di Montpensier e di Borbone, connestabile di Francia, viceré di Linguadoca e di Milano. Nel 1518 si stabilì nel castello di Cloux, non lontano dal connestabile che viveva ad Amboise.

CONNESTABILE DI BORBONE. Carlo di Montpensier e di Borbone, duca di Chàtellerault, connestabile di Francia, fu probabilmente il più potente nobile francese all'inizio del XVI secolo. Nato nel 1490, era figlio di Clara Gonzaga; e sua sorella sposò il duca di Lorena, nipote di Iolande de Bar e pronipote di Renato d'Angiò. Dell'entourage personale di Carlo faceva parte anche Jean de Joyeuse, il quale era divenuto, grazie a un matrimonio, signore di Couiza, Rennes-le-Chàteau e Arques, nei cui pressi si trova la tomba identica a quella dipinta da Poussin.

Come viceré di Milano, Carlo ebbe contatti con Leonardo da Vinci; e sembra che questi contatti continuassero più tardi, ad Amboise. Nel 1521 Carlo cadde in disgrazia presso Francesco I di Francia; fu costretto ad abbandonare le sue terre e a fuggire dal paese. Trovò rifugio presso Carlo V, Sacro romano imperatore, e divenne uno dei comandanti dell'esercito imperiale. Sconfisse e fece prigioniero il re di Francia nella battaglia di Pavia, nel 1525. Due anni dopo fu ucciso mentre assediava Roma, durante il sacco della città.

FERRANTE I gonzaga. Ferrante Gonzaga nacque nel 1507. Era figlio di Francesco, marchese di Mantova e di Isabella d'Este, protettrice di Leo­nardo da Vinci. Il suo titolo principale era conte di Guastalla. Nel 1527 collaborò con il cugino Carlo di Borbone in varie operazioni militari. Qualche anno dopo, sembra, si alleò segretamente con Francesco di Lorena duca di Guisa, che per poco non riuscì a impadronirsi del trono

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francese. Come tutti o quasi tutti i Gonzaga di Mantova, Ferrante era appassionato del pensiero esoterico.

Nel contempo, Ferrante Gonzaga ci metteva di fronte all'unica notizia palesemente errata che avemmo modo di incontrare in tutti i « documenti del Priorato ». Secondo l'elenco dei Gran maestri di Sion incluso nei Dossiers segreti, Ferrante presiedette l'Ordine fino alla sua morte, nel 1575. Ma secondo fonti indipendenti sarebbe morto nei pressi di Bruxelles nel 1557. Le circostanze della sua morte sono estremamente vaghe, e certo è possibile che nel 1557 non morisse, ma si desse alla clandestinità. D'altra parte, la data dei Dossiers segreti potrebbe essere un errore. Inoltre, Ferrante ebbe un figlio, Cesare, che morì nel 1557, e che forse venne confuso con il padre, volutamente o no. Il fatto è che non trovammo altre inesattezze clamorose nei « documenti del Priorato », neppure quando si trattava di notizie relative a personaggi e fatti molto più oscuri, che potevano venire contraddette da fonti indipendenti. Ci sembrava quasi inconcepibile che in questo particolare caso fosse stato commeso un errore per imprecisione o noncuranza. Al contrario, sembrava quasi che l'errore confutando in modo clamoroso le notizie storiche accettate, fosse stato inserito per indicare qualcosa.

LUIGI DI NEVERS. Luigi, duca di Nevers, era un Gonzaga. Nato nel 1539, era nipote di Ferrante Gonzaga, suo predecessore nell'elenco dei Gran maestri di Sion. Suo fratello sposò un'Asburgo e sua figlia sposò il duca di Longueville, un titolo detenuto in passato da Bianche d'Evreux; una sua pronipote sposò il duca di Lorena e dedicò un notevole interesse per la vecchia località sacra di Sion-Vaudémont. Nel 1622 vi fece installare una croce, e nel 1627 fondò una casa e una scuola di religiosi.

Durante le Guerre di religione, Luigi di Nevers fu stretto alleato della casa di Lorena e del ramo cadetto, la casa di Guisa, che sterminarono la dinastia dei Valois e per poco non riuscirono a impadronirsi del trono. Nel 1584, ad esempio, Luigi di Nevers, il duca di Guisa e il cardinale di Lorena firmarono un trattato impegnandosi a osteggiare Enrico HI di Francia. Come i suoi alleati, tuttavia, Luigi di Nevers si riconciliò con Enrico IV, e divenne sovrintendente delle finanze sotto il nuovo sovrano. In questa carica, avrebbe avuto modo di trattare con il padre di Robert Fludd. Sir Thomas Fludd era infatti tesoriere del contingente militare inviato da Elisabetta I d'Inghilterra in appoggio al re di Francia.

Come tutti i Gonzaga, Luigi di Nevers era profondamente versato nella tradizione esoterica; si crede che avesse contatti con Giordano Bruno, il quale, secondo Frances Yates, faceva parte di certe società segrete ermeti-che, antesignane dei rosacrociani. Nel 1582, ad esempio, Luigi si trovava in Inghilterra e frequentava Sir Philip Sidney (autore di Arcadia) e John

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Dee, il più famoso esoterista inglese di quel tempo. Un anno dopo Bruno si recò a Oxford e frequentò gli stessi personaggi; secondo Frances Yates, collaborò alle attività della loro organizzazione clandestina.

ROBERTFLUDD. Nato nel 1574, Robert Fludd divenne, dopo John Dee, il principale esponente inglese del pensiero esoterico. Scrisse e pubblicò molte opere su una vasta gamma di argomenti esoterici, e sviluppò una delle formulazioni più ampie della filosofia ermetica che siano mai state scritte. Frances Yates ritiene che alcune sue opere possano essere « il Sigillo o il codice segreto di una setta o società ermetica ». Sebbene Fludd non affermasse mai di far parte dei rosacrociani che a quel tempo suscita­vano tanto scalpore sul continente, li appoggiò con calore, dichiarando che il « sommo bene » era rappresentato dalla « magia, cabala e alchimia dei Fratelli della Rosacroce ».

Nel contempo, Fludd raggiunse una posizione onorata nel Collegio dei medici di Londra; e tra i suoi amici c'era anche William Harwey, lo scopritore della circolazione del sangue. Fludd godette della stima di Giacomo I e di Carlo I, che gli concessero le rendite di terreni situati nel Suffolk. E fece parte della commissione di studiosi che diresse la traduzio­ne della famosa Bibbia di re Giacomo, la più nota versione inglese della Bibbia.

Il padre di Fludd aveva avuto contatti di lavoro con Luigi di Nevers. Lo stesso Fludd studiò a Oxford, dove John Dee e Sir Philip Sidney avevano creato pochi anni prima una cerchia esoterica. Tra il 1596 e il 1602 Fludd fece lunghi viaggi in Europa, e frequentò molti personaggi che in seguito parteciparono al movimento rosacrociano. Tra questi c'era Janus Gruter, amico intimo di Johann Valentin Andrea.

Nel 1602 a Fludd fu affidato un incarico interessante e, per noi, significa­tivo. Fu chiamato a Marsiglia come istitutore personale dei figli del duca di Guisa, in particolare di Carlo, il giovane duca. I suoi rapporti con Carlo , continuarono fino al 1620.

Nel 1610 Carlo, duca di Guisa, sposò Enrichetta Caterina de Joyeuse. I possedimenti di quest'ultima includevano Couiza, ai piedi della montagna su cui sorge Rennes-le-Chàteau. E includevano anche Arques, il sito della tomba identica a quella dipinta da Poussin. Una ventina d'anni più tardi, nel 1631, il duca di Guisa, dopo aver cospirato contro il trono francese, andò volontariamente esule in Italia, dove presto lo raggiunse la moglie. Morì nel 1641. Ma a sua moglie non fu permesso di ritornare in Francia fino a quando non acconsentì a vendere alla corona Couiza e Arques.2

JOHANN VALENTIN ANDREA. Andrea, figlio di un pastore e teologo lutera­no, nacque nel 1586 nel Wurttemberg, che confinava con la Lorena e il

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Palatinato. Già nel 1610 stava viaggiando per l'Europa, e si diceva che facesse parte di una società segreta ermetica o esoterica. Nel 1614 fu ordinato diacono di una cittadina nei pressi di Stoccarda, dove rimase indisturbato anche durante il caos della successiva Guerra dei trent'anni (1618-48).

ROBERTBOYLE. Robert Boyle nacque nel 1627. Era il figlio minore del conte di Cork. Più tardi venne offerta anche a lui una parìa, ma la rifiutò. Studiò a Eton, dove il rettore, Sir Henry Wotton, aveva stretti legami con l'entourage rosacrociano di Federico del Palatinato.

Nel 1639 Boyle partì per compiere un lungo viaggio in Europa. Trascor­se diverso tempo a Firenze dove i Medici, nonostante le pressioni del papato, continuavano a proteggere esoteristi e scienziati, Galileo incluso. E si fermò per ventun mesi a Ginevra, dove s'interessò a molti argomenti esoterici, compresa la demonologia. Durante il soggiorno ginevrino si procurò un'opera, II Diavolo di Mascon, tradotta da un certo Pierre du Moulin che divenne suo amico per tutta la vita. Il padre di du Moulin era cappellano di Caterina di Bar, moglie di Enrico di Lorena, duca di Bar. In seguito, il vecchio du Moulin fu protetto da Enrico de la Tour d'Auvergne, visconte di Turenne e duca di Buglione.

Rientrato in Inghilterra nel 1645, Boyle si mise subito in contatto con la cerchia di Samuel Hartlib, amico intimo e corrispondente di Andrea. In varie lettere datate 1646 e 1647, parla ripetutamente del « Collegio Invisi­bile ». Dichiara, ad esempio, che « le pietre angolari del Collegio Invisibi­le (o come dicono loro stessi, Filosofico) mi onorano di tanto in tanto della loro compagnia ».

Nel 1654 Boyle era a Oxford, dove fece amicizia con John Wilkin, già cappellano di Federico del Palatinato. Nel 1660 Boyle fu tra i primi personaggi pubblici che giurarono fedeltà agli Stuart dopo la loro restaura­zione, e Carlo II divenne patrono della Royal Society. Nel 1668 Boyle si stabilì a Londra con la sorella, imparentata per matrimonio con John Dury, un altro amico e corrispondente di Andrea. Nella sua casa londine­se Boyle ricevette visitatori illustri, incluso Cosimo III de' Medici, grandu­ca di Toscana.

In quegli anni gli amici più intimi di Boyle erano Isaac Newton e John Locke. Si dice che insegnasse a Newton i segreti dell'alchimia. Comunque, è certo che si incontravano regolarmente per discutere e studiare opere alchemiche. Nel frattempo Locke, poco dopo aver conosciuto Boyle, partì per un lungo soggiorno nella Francia meridionale. Si sa che si aggirò piuttosto a lungo nei dintorni di Tolosa, Carcassonne e Narbona, e proba­bilmente anche nei dintorni di Rennes-le-ChSteau. Si sa che frequentò la duchessa di Guisa. Si sa che studiò i documenti dell'Inquisizione relativi ai

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Catari, e la storia delle leggende secondo cui la Maddalena aveva portato il Santo Graal a Marsiglia. Nel 1676 visitò la presunta casa della Maddalena a Saint Baume.

Mentre Locke esplorava la Linguadoca, Boyle continuava una volumi­nosa corrispondenza con il continente. Tra le sue carte vi sono lettere che comprendono la metà di un prolungato rapporto epistolare con un perso­naggio francese elusivo e altrimenti sconosciuto, un certo Georges Pierre: un nome che molto probabilmente è uno pseudonimo. Le lettere parlano molto di alchimia e di esperimenti alchemici. Ma, cosa più importante, parlano anche dell'appartenenza di Boyle a una società segreta ermetica, della quale facevano parte anche il duca di Savoia e du Molin.

Tra il 1675 e il 1677 Boyle pubblicò due ambiziosi trattati alchemici, Incalescenza del mercurio con l'oro e Resoconto storico di una degradazio­ne dell'oro. Nel 1689 annunciò ufficialmente che non poteva ricevere visite in certi giorni, riservati agli esperimenti alchemici. Gli esperimenti, scrive­va, dovevano

realizzare la mia persistente intenzione di lasciare una sorta di eredità ermetica agli studiosi discepoli di quell'arte e di affidare con sincerità in uno scritto allegato alcuni processi, chimici e medici, meno semplici e chiari di quelli a malapena illuminati che usavo compiere, e d'una sorta più difficile ed elaborata di quelli da me pubblicati sinora, e più affini ai nobilissimi segreti ermetici o, come li chiama Helmont, « arcana majo-ra ».3

Boyle soggiunge che è suo intendimento parlare nel modo più chiaro possibile « sebbene gli usi pieni e completi non siano menzionati, in parte perché, nonostante la mia filantropia, sono vincolatola! segreto ».4

Lo « scritto allegato » cui accenna Boyle non venne mai trovato. Forse passò nelle mani di Locke, o più probabilmente di Newton. Quando morì nel 1691 Boyle affidò tutte le altre sue carte a questi due confidenti, insieme a campioni di una misteriosa « polvere rossa » che viene menzio­nata spesso nella corrispondenza di Boyle e nei suoi esperimenti alchemici.

ISAAC NEWTON. Isaac Newton nacque nel Lincolnshire nel 1642; discende­va dall'« antica nobiltà scozzese », come affermava lui stesso, anche se a quanto pare nessuno prendeva molto sul serio questa asserzione. Studiò a Cambridge; nel 1672 entrò a far parte della Royal Society e l'anno seguen­te conobbe Boyle. Nel 1689-90 fece amicizia con John Locke e un perso­naggio enigmatico, chiamato Nicholas Fatio de Duillier. Discendente dell'aristocrazia ginevrina, Fatio de Duillier si aggirò con arrogante non­curanza per tutta l'Europa. Sembra che in certe occasioni svolgesse attivi-

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tà spionistiche, di solito contro Luigi XIV di Francia. A quanto pare, aveva stretti rapporti d'amicizia con tutti gli scienziati importanti del suo tempo. E dal momento in cui comparve in Inghilterra divenne il miglior amico di Newton. Per almeno un decennio, i loro nomi appaiono legati inestricabilmente.

Nel 1696 Newton divenne direttore della Zecca reale e contribuì a stabilire il titolo dell'oro. Nel 1703 fu eletto presidente della Royal Socie­ty. In quel periodo, inoltre, fece amicizia con un giovane protestante, profugo dalla Francia, che si chiamava Jean Desaguliers e che era uno dei due curatori degli esperimenti della Royal Society. Negli anni che seguiro­no, Desaguliers divenne una delle figure principali della sorprendente diffusione della massoneria in Europa. Aveva legami con illustri perso­naggi massonici come James Anderson, il cavalier Ramsay e Charles Radclyffe. E nel 1731, quale Maestro della Loggia massonica dell'Aia, presiedette all'iniziazione del primo principe europeo che divenne mem­bro dell'« arte ». Il principe era Francesco, duca di Lorena, che in seguito al matrimonio con Maria Teresa d'Austria, divenne Sacro romano impe­ratore.

Dai documenti non risulta che Newton fosse massone. Tuttavia, face­va parte di un'istituzione semi-massonica, il « Gentleman's Club di Spal-ding », al quale appartenevano personalità come Alexander Pope. Inol­tre, certe sue prese di posizione e certe sue opere rispecchiano interessi condivisi da illustri massoni di quel tempo. Come molti autori massonici, considerava Noè, più che Mosé, come fonte suprema della sapienza esoterica. Già nel 1689 aveva iniziato quella che, riteneva una delle sue opere più importanti, uno studio delle antiche monarchie. L'opera, La cronologia riveduta e corretta dei regni antichi, cercava di accertare le origini dell'istituo monarchico, nonché il primato di Israele su tutte le culture dell'antichità. Secondo Newton, l'antico giudaismo era stato un patrimonio di sapienza divina, che in seguito si era inquinato e corrotto ed era andato in gran parte perduto. Tuttavia, egli riteneva che in parte fosse pervenuto a Pitagora, la cui « musica delle sfere » rappresentava ai suoi occhi una metafora della legge di gravita. Nel tentativo di formulare una precisa metodologia per la datazione degli eventi delle Scritture e del mito classico, usò come perno la cerca del Vello d'Oro da parte di Giasone; e come altri autori massoni ed esoterici, interpretò la cerca come un'allego­ria alchemica. Inoltre, si sforzò di discernere « corrispondenze » o corre­lazioni ermetiche tra la musica e l'architettura. E come molti massoni, attribuiva grande importanza alla configurazione e alle dimensioni del Tempio di Salomone; riteneva che nascondessero formule alchemiche, e che le antiche cerimonie celebrate nel Tempio riguardassero processi alchemici.

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Questi interessi di Newton furono per noi una specie di rivelazione. Di certo, non concordano con l'idea che si ha di lui nel' nostro secolo, l'immagine dello scienziato che stabilisce definitivamente la separazione tra la filosofia naturale e la teologia. In realtà, invece, più di ogni altro scienziato del suo tempo, Newton conosceva molto bene i testi ermetici e rispecchiava la tradizione dell'ermetismo. Profondamente religioso, cer­cava con ansia ossessiva un'unità divina e una rete di corrispondenze insite nella natura. La sua ricerca Io spinse a esplorare la geometria sacra e la numerologia: uno studio delle proprietà intrinseche delle forme e dei numeri. A causa della sua amicizia con Boyle era anche un alchimista praticante, e anzi attribuiva la massima importanza alla propria opera alchemica.5 Oltre a copie annotate personalmente dei « manifesti rosacro-ciani », la sua biblioteca comprendeva più di cento testi alchemici. Uno di essi, un'opera di Nicolas Flamel, l'aveva ricopiato laboriosamente di sua mano. Newton non abbandonò mai l'interesse per l'alchimia. Ebbe una voluminosa ed enigmatica corrispondenza sull'argomento con Boyle, Locke, Fatio de Duillier e altri. In una lettera, certe parole chiave sono addirittura espunte.

Se gli interessi scientifici di Newton erano meno ortodossi di quanto avessimo immaginato all'inizio, Io erano anche le sue concezioni religiose. Era fermamente ostile all'idea della Trinità. Inoltre, ripudiava il deismo di gran moda ai suoi tempi, che riduceva il cosmo a un'immensa macchina costruita da un Ingegnere Celeste. Contestava la divinità di Gesù e colle­zionava avidamente manoscritti che trattavano l'argomento. Dubitava dell'autenticità assoluta del Nuovo Testamento, e riteneva che certi passi fossero interpolazioni del V secolo. Era profondamente affascinato da alcune delle più antiche eresie gnostiche e scrisse uno studio su una di esse.6

Ispirato da Fatio de Duillier, Newton dimostrò anche una sorprenden­te simpatia per i Camisards, o profeti delle Cévennes che, poco dopo il 1705, cominciarono a comparire a Londra. Così chiamati per le loro tuniche bianche, i Camisards, come un tempo i Catari, erano spuntati nella Francia meridionale. Come i Catari, si opponevano vigorosamente a Roma ed esaltavano la supremazia della gnosi, o conoscenza diretta, sulla fede. Come i Catari, contestavano la divintà di Gesù. E come i Catari erano stati brutalmente repressi manu militari: una specie di Crociata contro gli Albigesi del XVIII secolo. Scacciati dalla Linguadoca, gli eretici si erano rifugiati a Ginevra e a Londra.

Qualche settimana prima di morire, Newton, con l'aiuto di pochi amici intimi, bruciò sistematicamente numerose cassette di manoscritti e di carte personali. Con grande stupore, i suoi contemporanei notarono che, sul letto di morte, non chiese i conforti della religione.

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CHARLES RADCLYFFE. A partire dal XVI secolo i Radclyffe furono un'in­fluente famiglia del Northumberland. Nel 1688, poco prima di venire detronizzato, Giacomo II li aveva fatti conti di Derwentwater. Charles Radclyffe nacque nel 1693. Sua madre era figlia illegittima di Carlo II e di Moli Davis. Quindi Radclyffe, per parte di madre, era di sangue reale, nipote di Carlo II. Era cugino del « Bonnie Prince Charlie », il Giovane pretendente, e di George Lee, conte di Lichfield, un altro nipote illegitti­mo del re Stuart. Non è quindi sorprendente che Radclyffe dedicasse la vita alla casa degli Stuart.

CARLO DI LORENA. Nato nel 1744, Carlo di Lorena era fratello minore di Francesco. È probabile che entrambi i fratelli, durante l'infanzia, risentis­sero dell'influenza giacobita, perché il loro padre aveva offerto rifugio e protezione a Bar-le-Duc, agli Stuart esiliati. Nel 1735, quando Francesco sposò Maria Teresa, Carlo divenne cognato della futura imperatrice d'Au­stria. Undici anni più tardi, nel 1744, sposò la sorella di Maria Teresa, Maria Anna. Nello stesso anno fu nominato governatore generale dei Paesi Bassi austriaci (l'attuale Belgio) e comandante in capo dell'esercito austriaco.

All'atto del matrimonio, Francesco aveva rinunciato a tutti i diritti e le pretese sulla Lorena, che passò praticamente in mani francesi. In cambio ebbe il granducato di Toscana. Carlo, invece, rifiutò incrollabilmente di riconoscere l'accordo, rifiutò di rinunciare alle sue pretese sulla Lorena. Dopo l'abdicazione di Francesco, quindi, era duca titolare di Lorena. E nel 1742, alla testa di 70.000 uomini, partì per riconquistare la sua terra natale. Molto probabilmente ci sarebbe riuscito se non fosse stato costret­to a dirottare sulla Boemia per arrestare l'invasione francese.

Nelle operazioni militari che seguirono, Carlo si dimostrò un abile comandante. Oggi sarebbe considerato senza dubbio uno dei migliori generali del suo tempo, se non avesse avuto la sfortuna di trovarsi ripetuta-mente di fronte a Federico il Grande. Fu appunto contro Carlo che Federico di Prussia ottenne una delle sue vittorie più sonanti e decisive nella battaglia di Leuthen, nel 1757. Tuttavia, Federico considerava Carlo un degno e « temibile » avversario, e parlava di lui con grande stima.

Dopo la sconfitta di Leuthen, Carlo fu esonerato dal comando e si ritirò nella sua capitale, Bruxelles. Si atteggiò a patrono delle arti e raccolse intorno a sé una corte brillante, elegante e colta che divenne un centro di letteratura, pittura, musica e teatro. Sotto molti aspetti, la corte di Carlo ricordava quella del suo avo Renato d'Angiò; e forse la rassomiglianza era voluta.

Nel 1761 Carlo divenne Gran maestro dell'Ordine Teutonico, epigono dei vecchi Cavalieri Teutonici, i « protetti » tedeschi dei Templari che fino

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al secolo XVI furono una grande potenza militare. Più tardi, nel 1770, venne nominato un nuovo coadiutore dell'Ordine Teutonico: il nipote prediletto di Carlo, Massimiliano. Negli anni che seguirono, i legami tra zio e nipote divennero molto stretti; e nel 1775, quando a Bruxelles venne inaugurato un monumento equestre a Carlo, Massimiliano era presente. L'inaugurazione ufficiale della statua avvenne il 17 gennaio: la data del­la prima trasmutazione alchemica di Nicolas Flamel, della pietra tomba­le di Marie de Blanchefort, dell'attacco cardiaco che portò alla morte Saunière.

MASSIMILIANO DI LORENA. Nato nel 1756, Massimiliano di Lorena - o Massimiliano d'Asburgo - era il nipote prediletto di Carlo di Lorena e il figlio minore di Maria Teresa. In gioventù sembrava destinato alla carriera militare, ma una caduta da cavallo lo lasciò con una gamba menomata. Perciò preferì dedicare le sue energie alla Chiesa, diventando nel 1784 vescovo di Miinster, nonché arcivescovo ed elettore di Colonia. Nel 1780, alla morte dello zio, divenne anche Gran maestro dell'Ordine Teutonico.

Anche sotto altri aspetti Massimiliano seguì le orme dello zio. Come Carlo, divenne assiduo patrono delle arti. Tra i suoi .protetti vi furono Haydn, Mozart e il giovane Beethoven. Quest'ultimo intendeva dedicargli la Prima Sinfonia. Ma prima che l'opera venisse ultimata e pubblicata, Massimiliano morì.

Massimiliano fu un uomo intelligente, tollerante e bonario, amato dai sudditi e stimato dai suoi pari. Sembra che incarnasse l'ideale del potenta­to illuminista del secolo XVIII; e probabilmente fu uno degli uomini più colti del suo tempo. In politica era particolarmente lucido, e cercò più volte di mettere in guardia sua sorella Maria Antonietta contro la tempe­sta che incominciava ad addensarsi in Francia. Quando la tempesta scop­piò, Massimiliano non si lasciò prendere dal panico. Anzi, sembra che simpatizzasse per gli obiettivi originari della Rivoluzione, ma nel contem­po offriva un rifugio agli aristocratici fuggiaschi.

Sebbene Massimiliano affermasse di non essere massone, questa asser­zione è stata spesso posta in dubbio. Di certo, si sospetta che appartenesse a qualche società segreta, nonostante la sua posizione di ecclesiastico e il vigore con cui Roma vietava ogni attività del genere. Si sa comunque che frequentava apertamente membri dell'« arte », incluso ovviamente Mo­zart.

Come Radclyffe e Carlo di Lorena, Massimiliano-rimase relativamente nell'ombra, lavorando in silenzio dietro le quinte e agendo - se un Gran maestro di Sion agisce - per mezzo di intermediari e di portavoce .Radclyf­fe, ad esempio, sembra agisse dapprima tramite il cavalier Ramsay, quindi tramite Hund. Carlo di Lorena, a quanto pare, agì tramite suo fratello

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Francesco. E Massimiliano agiva tramite personaggi della cultura e alcuni tra i suoi numerosi fratelli e sorelle: ad esempio Maria Carolina, che come regina di Napoli e di Sicilia, ebbe una parte importante nella diffusione della massoneria in quei tenitori.

CHARLES NODIER. Nato nel 1780, Charles Nodier sembra inaugurare un modello che caratterizza tutti i presunti Gran maestri di Sion dopo la Rivoluzione francese. Diversamente dai due predecessori, non soltanto non era nobile ma a quanto pare non era neppure in contatto diretto con nessuna delle famiglie le cui geneaologie figurano nei « documenti del Priorato ». Dopo la Rivoluzione francese, il Priorato di Sion, o almeno i suoi presunti Gran maestri, sembrerebbe distaccarsi tanto dalla vecchia aristocrazia quanto dagli ambienti politici; o almeno così ci indusse a concludere, al momento, la nostra ricerca.

La madre di Nodier era una certa Suzanne Paris che, a quanto si dice, non conosceva i propri genitori. Il padre era avvocato aBesangon e, prima della Rivoluzione, aveva fatto parte del locale circolo giacobino. Dopo lo scoppio della Rivoluzione, il padre di Nodier divenne sindaco di Besan§on e presidente del tribunale rivoluzionario di quella città. Era anche Mae­stro massone molto stimato, in prima linea nelle attività massoniche e politiche. ,

Charles Nodier dimostrò una precocità straordinaria, e tra le altre cose avrebbe partecipato ad attività culturali e politiche all'età di dieci anni! A diciotto, si era già creato una fama letteraria e per tutto il resto della vita fu uno scrittore prolifico e produsse in media un librò all'anno. Le sue opere abbracciano una gamma molto diversificata: diari di viaggio, saggi sulla letteratura e la pittura, studi di prosodia e versificazione, uno studio sulle antenne degli insetti, un'indagine sul suicidio, memorie autobiografiche, escursioni nell'archeologia,'la linguistica, le questioni legali e l'esoteri­smo, per non parlare poi di una copiosa produzione di narrativa. Oggi Nodier viene considerato nulla più di una curiosità letteraria.

Benché all'inizio simpatizzasse per la Rivoluzione, ben presto Nodier cambiò idea. Fece un altro voltafaccia nei confronti di Napoleone; e nel 1802 esprimeva già apertamente la sua opposizione all'imperatore. Quel­l'anno pubblicò a Londra un poema satirico, il Napoleone. Poi, dopo aver scritto quest'opera sediziosa, abbastanza stranamente incominciò ad atti­rare l'attenzione su di essa. All'iniziò le autorità non gli badarono, e sembra che Nodier si agitasse molto per farsi arrestare. Finalmente, dopo aver scritto a Napoleone una lettera personale in cui si riconosceva colpe­vole, fu incarcerato per un mese; quindi fu rimandato a Besancpn e sottoposto a una svogliata sorveglianza. In seguito, Nodier affermò di aver continuato a opporsi al regime e di aver partecipato a due complotti

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antinapoleonici nel 1804 e nel 1812. Benché avesse l'abitudine alle vante­rie, può darsi che questa affermazione non fosse infondata. Di certo si sa che era in rapporti amichevoli con gli istigatori dei due complotti, che aveva conosciuto a Besancon in gioventù.

VICTOR HUGO. La famiglia di Hugo era originaria della Lorena - e di discendenza nobile, come sostenne più tardi lo scrittore - ma Victor Hugo nacque a Besancon, centro di attività sovversive clandestine, nel 1802. Suo padre era un generale di Napoleone, ma aveva rapporti molto cordiali con i cospiratori coinvolti nella congiura contro l'imperatore. Uno dei cospira­tori, anzi era l'amante di Madame Hugo, che abitava nella stessa casa ed ebbe un ruolo importante nella formazione di Victor, poiché era il suo padrino e il suo mentore. Quindi Hugo, fin dall'età di sette anni, si trovò circondato da un mondo di intrighi, di cospirazioni e di società segrete.

A diciassette anni era già un fervente discepolo di Charles Nodier; e da Nodier acquisì la sua conoscenza erudita dell'architettura gotica, che ha una parte di tanto rilievo in Notre Dame, Nel 1819 Hugo e suo fratello fondarono insieme a Nodier una casa editrice, che pubblicava una rivista diretta dallo stesso Nodier. Nel 1822 Hugo si sposò con una speciale cerimonia celebrata in Saint Sulpice. Tre anni dopo lui e Nodier, con le rispettive mogli, partirono per un lungo viaggio in Svizzera. Nello stesso anno, 1825, i due amici si recarono insieme ad assistere all'incoronazione di Carlo X. Negli anni successivi Hugo creò un suo salotto, modellato su quello di Nodier e frequentato più o meno dalle stesse celebrità. E quando Nodier morì nel 1845, Hugo fu tra coloro che tenevano i cordoni della bara, al funerale.

Come Newton, Hugo era un uomo profondamente religioso, ma le sue concezioni religiose erano tutt'altro che ortodosse. Come Newton, era un antitrinitarista militante e ripudiava l'attività di Gesù. Sotto l'influenza di Nodier, per tutta la vita si occupò di esoterismo e del pensiero gnosti­co, cabalistico ed ermetico: un interesse che predomina nella sua poesia e nella sua prosa. Si sa, inoltre, che aveva legami con un ordine rosacro-ciano del quale facevano parte anche Éliphas Levi e il giovane Maurice Barrès.

Le idee politiche di Hugo sono sempre state motivo di perplessità per critici e storici, e sono troppo complesse, troppo incoerenti e troppo dipendenti da altri fattori per discuterne in questa sede. Trovammo tutta­via significativo che, nonostante la sua ammirazione personale per Napo­leone, Hugo fosse convinto realista e salutasse con gioia la restaurazione della vecchia dinastia borbonica. Nel contempo, sembra che considerasse i Borbone accettabili soltanto in via provvisoria: come una soluzione tappabuchi. Nel complesso li disprezzava, ed era particolarmente feroce

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nel giudicare Luigi XIV. Il sovrano che Hugo approvava con grande entusiasmo - i due, anzi, erano amici - era Luigi Filippo, il « re cittadino », chiamato a presiedere una monarchia popolare. E Luigi Filip­po era legato per matrimonio alla casa Asburgo-Lorena: sua moglie era la nipote di Massimiliano di Lorena.

CLAUDE DEBUSSY. Debussy nacque nel 1862; e sebbene la sua famiglia fosse povera, allacciò molto presto contatti con persone ricche e influenti. Ancor prima dei vent'anni, si esibiva come pianista nel castello dell'aman­te del presidente francese, e a quanto sembra conosceva anche il capo dello Stato. Nel 1880 fu adottato dalla nobildonna russa che era stata la mecenate di Ciakovski, e viaggiò con lei in Svizzera, Italia e Russia. Nel 1884, dopo aver vinto un ambito premio musicale, studiò per diverso tempo a Roma. Tra il 1887 e il 1906 visse soprattutto a Parigi, ma gli anni precedenti e successivi a questo periodo li dedicò ai viaggi. Si sa che durante questi viaggi entrò in contatto con molti personaggi eminenti. Noi cercammo di accertare se alcuni di costoro avevano legami con le famiglie le cui genealogie figurano nei « documenti del Priorato », ma i nostri sforzi risultarono completamente inutili. Scoprimmo che Debussy era stranamente riservato per quanto riguardava le sue amicizie aristocratiche e politiche. Molte delle sue lettere sono scomparse; e in quelle che sono state pubblicate, i nomi importanti e spesso intere frasi sono stati metico­losamente espunti.

Sembra che Debussy facesse la conoscenza di Hugo tramite il poeta simbolista Paul Verlaine. In seguito, musicò numerose opere di Hugo. Durante i suoi soggiorni a Parigi entrò negli ambienti simbolisti, che dominavano la vita culturale della capitale francese. Erano ambienti che includevano personaggi illustri e personaggi bizzarri. C'erano il giovane ecclesiastico Émile Hoffet, per il cui tramite Debussy conobbe Bérenger Saunière; Emma Calve, la diva appassionata di esoterismo; l'enigmatico mago della poesia simbolista francese, Stéphane Mallarmé, del quale Debussy musicò uno dei capolavori, L'Après-Midi d'un Faun; il dramma­turgo simbolista Maurice Maeterlinck, il cui dramma Pelléas et Mélisande fu trasformato da Debussy in un'opera famosa ; e il bizzarro conte Philippe Auguste Villiers de PIsle-Adam, autore del dramma rosacrociano Axel. Sebbene la morte, nel 1918, gli impedisse di completarlo, Debussy inco­minciò a comporre il libretto per il dramma occultista di Villiers, con l'intenzione di ricavarne un'opera. Tra i suoi conoscenti c'erano le celebri­tà che frequentavano le famose soirées del martedì in casa di Mallarmé: Oscar Wilde, W.B. Yeats, Paul Valéry, Andre Gide, Marcel Proust.

Nei circoli di Debussy e di Mallarmé si respirava un'atmosfera esoterica; e nel contempo, si intrecciavano con altri circoli ancora più esoterici.

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Quindi Debussy frequentava virtualmente tutti i principali esponenti del cosiddetto* revival occultista francese ».

JEAN COCTEAU. Cocteau, nato nel 1889, ci sembrava un candidato estre­mamente improbabile al ruolo di Gran maestro di un'influente società segreta. Ma ci avevano fatto la stessa impressione anche alcuni degli altri nomi, quando ce li eravamo trovati davanti per la prima volta. E per quasi tutti gli altri erano affiorate poco a poco certe connessioni significative. Nel caso di Cocteau, ne affiorarono poche.

Vale comunque la pena di notare che Cocteau crebbe in un ambiente vicino ai « corridoi del potere »: la sua famiglia era politicamente impor­tante e suo zio era un illustre diplomatico. Nonostante la sua successiva esistenza di bohémien, Cocteau non si staccò mai del tutto da quegli ambienti. Anche se il suo comportamento era talvolta scandaloso, mante­neva stretti contatti con individui altolocati dei circoli aristocratici e politi­ci. Come molti dei presunti Gran maestri di Sion - ad esempio Boyle, Newton e Debussy - dimostrava in apparenza un sublime distacco nei confronti della politica. Durante l'occupazione tedesca non prese parte attiva alla Resistenza, ma non nascose la sua ostilità per il regime di Pétain. E dopo la guerra sembra fosse tenuto in grande considerazione da de Gaulle, il cui fratello lo incaricò di tenere un'importante conferenza sulla situazione francese. Per noi, la testimonianza più convincente dell'af­filiazione di Cocteau al Priorato di Sion sta nella sua opera, ad esempio nel film Orfeo, in drammi come L'aquila a due teste (ispirato all'imperatri­ce Elisabetta d'Austria) e nella decorazione di certe chiese come Notre Dame de France a Londra. La prova più convincente di tutte, comunque, è la sua firma in calce allo statuto del Priorato di Sion.

Note

1  Cfr. Digot, P., Notre-Dame-de-Sion, p. 8. Ci procurammo una copia dell'atto istitutivo dell'Ordine, custodito nella Bibliothèque Municipale di Nancy.

2  Fédié, Le cortile de Razès, p. 119

3  Birch, Life ofRobert Boyle, p. 274.

4  Ibid.

5  Cfr. Manuel, Portraitof Isaac Newton, eDobbs, Foundation of Newton'sAlche-my.

6  Newton, inoltre, fu sostenitore dei sociniani, un gruppo religioso il quale credeva che Gesù fosse divino per la sua missione, anziché per natura. Erano di orienta­mento ariano. Lo stesso Newton veniva considerato un ariano.

7  Perey, Charles de Lorraine, p. 287.

 

 

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della memoria, Torino, 1972. Yates, F. A., Giordano Bruno and thè Hermetic Tradition, London 1978.

Trad. it. Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1981. Yates, F. A., The Rosicrucìan Enlightenment, St Albans 1975. Trad. it.

L'illuminismo dei Rosa croce, Torino 1976. Yates, F. A., The Occult Philosophy in thè Elizabethan Age, London

1979. Zuckerman, A. J., A Jewish Princedown in Feudal France, New York

1972.

 

 

Ringraziamenti

Desideriamo esprimere la nostra gratitudine soprattutto ad Ann Evans, perché senza la sua collaborazione sarebbe stato impossibile scrivere questo libro. Vogliamo ringraziare inoltre Jehan l'Ascuiz, Robert Beer, Ean Begg, Dave Bennett, Colin Bloy, Juliet Burke, Henry Buthion, Jean-Lue ChaumeiI, Philippe de Chérisey, Jonathan Clowes, Shirley Col-lins, Chris Cornford, Painton Cowan, Roy Davies, Liz Flower, Janice Glaholm, John Glover, Liz Greene, Margareth Hill, Renee Hinchley, Judy Holland, Paul Johnstone, Patrick Lichfield, Douglas Lockhart, Guy Lovel, Jane McGillivray, Andrew Maxvell-Hylshop, Para Morris, Les Olbinson, Pierre Plantard de Saint-Clair, Bob Roberts, David Rolfe, John Saul, Gerard de Sède, Rosalie Siegel, John Sinclair, Jeanne Thoma-son, Louis Vazart, Colin Waldeck, Anthony Wall, Andy Whitaker, il personale della Sala di lettura del British Museum e gli abitanti di Rennes-Ie-Chàteau.

Le fotografie sono state cortesemente fornite da: AGRACI, Parigi, 36; Archives Nationales, Parigi, 16a; Michael Baigent, Londra, 1, 2, 5, 6, 7, 14, 15, 18, 24, 25, 31, 32, 34; Bibliotèque Nationale, Parigi, 28, 29, 30; Michel Bouffard, Carcassonne, 4; W. Braun, Gerusalemme, 11, 13; Bri­tish Library, Londra, 9, 166, 35; British Museum, Londra (per cortese concessione dei Curatori del British Museum), 33; Courtauld Institute of Art, Londra, 10; Roy Davies, Londra, 26, 27; Collezione Devonshire, Chatsworth (per cortese concessione degli amministratori dell'eredità Chatsworth), 21; Jean Deiuzaide/YAN photo, Tolosa, 8; Galleria Nazio­nale d'Arte Antica, Roma, 20; Patrick Lichfield, Londra, 23; Henry Lincoln, Londra, 3; Museo del Louvre, Parigi, 22; Ost. Nationalbibliot-hek, Vienna, 19; H. Roger Viollet, Parigi, 12,17.

Le autorizzazioni a citare brani coperti da copyright sono state concesse da: Le Charivari, Parigi, per il materiale pubblicato sul n. 18, « Les

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Archives du Prieuré de Sion »; Victor Gollancz, Londra, e Harper & Row, Publishers, Inc., New York, per il materiale tratto dalle pp. 14-17 di The Secret Gospet, di Morton Smith, copyright 1973 by Morton Smith; Random House, Inc., New York, per il materiale tratto da Parzival di Wolfram von Eschenbach, traduzione di Helen Mustard e Charles E. Passage, copyright 1961 by Elen Mustard e Charles Passage.

 

Indice generale

7         Introduzione

Parte prima IL MISTERO

15       i II villaggio del mistero

Rennes-le-Chàteau e Bérenger Saunière, 15 -1 possibili tesori, 25 - L'intrigo, 29 - Note, 32.

34      a I Catari e la grande eresia

La crociata contro gli Albigesi, 35 - L'assedio di Montségur, 42 -II tesoro dei Catari, 44-11 mistero dei Catari, 49 - Note, 51.

53     ni I monaci guerrieri

I  Cavalieri Templari: la versione ortodossa, 54 - I Cavalieri Templari: i misteri, 70-1 Cavalieri Templari: l'aspetto nasco­sto, 77 - Note, 87.

91     iv Documenti segreti

Note, 104.

Parte seconda

LA SOCIETÀ SEGRETA

109      v L'ordine nell'ombra

II mistero che circonda la fondazione dei Templari, 114 - Luigi VII e il Priorato di Sion, 117-11 « taglio dell'olmo » a Giosors. 118 - Ormus, 121 - II Priorato a Orleans, 125 - La « testa » dei Templari, 126 -1 Gran maestri dei Templari, 127 - Note, 130.

132     vi I Gran maestri e il fiume sotterraneo

Renato d'Angiò, 140 - Renato e il tema dell'Arcadia, 142 - I

 

manifesti dei Rosacroce, 145 - La dinastia Stuart, 149 - Charles Nodier e il suo circolo, 155 - Debussy e la Rosacroce, 159 - Jean Cocteau, 162 -1 due Giovanni XXIII, 164 - Note, 167.

170    Vii Una cospirazione attraverso i secoli

II Priorato di Sion in Francia, 172 -1 duchi di Guisa e Lorena, 174 - II tentativo di impadronirsi del trono di Francia, 178 - La Compagnia del Santo Sacramento, 180 - ChSteau Barberie, 185

- Nicolas Fouquet, 187 - Nicolas Poussin, 188 - La cappella di Rosslyn e Shugborough Hall, 192 - La lettera segreta del papa, 193 - La Pietra di Sion, 194 - II movimento modernista cattolico, 196-1 protocolli di Sion, 199 - L'Hiéron du Val d'Or, 204 - Note, 209.

214   vili La società segreta oggi

Alain Poher, 217 - II Re Perduto, 218 - Strani testi conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi, 220 - II tradizionalismo cattolico, 223 - II Convento del 1981 e lo Statuto di Cocteau, 227

- Pierre Plantard de Saint-Clair, 233 - La politica del Priorato di Sion, 240 - Note, 246.

250     ix I sovrani lungichiomati

La leggenda e i Merovingi, 251 - L'orso venuta dall'Arcadia, 254 -1 Sicambri entrano in Gallia, 255 - Meroveo e i suoi discenden­ti, 256 - Sangue reale, 257 - Clodoveo e il patto con la Chiesa, 259, Dagoberto II, 262 - Gli usurpatoli Carolingi, 269 - L'eslu-sione di Dagoberto II dalla storia, 274 - II principe Guillem de Gellone, conte di Razès, 275 - II principe Ursus, 280 - La famiglia del Graal, 281 - II mistero che ci sfuggiva, 285 - Note, 285.

289      X La tribù esule

Note, 297.

Parte terza LA STIRPE

301     xi II Santo Graal

La leggenda del Santo Graal, 303 - La storia di Wolfram von Eschenbach, 311-11 Graal e il cabalismo, 322 - II gioco di parole, 323 -1 « re perduti » e il Graal, 325 - Necessità di una sintesi, 328

- La nostra ipotesi, 332 - Note, 335.

337    XII II re-sacerdote che non regnò

La Palestina al tempo di Gesù, 344 - La storia dei Vangeli, 348 -

 

Lo stato civile di Gesù, 351 - La moglie di Gesù, 355 - II discepolo prediletto, 360 - La dinastia di Gesù, 366 - La Crocifis­sione, 370 - Chi era Barabba?, 372 -1 particolari della Crocifis­sione, 375 - Lo « scenario », 381 - Note, 383.

385   xin II segreto proibito dalla Chiesa

Gli zeloti, 395 - Gli scritti gnostici, 405 - Note, 410.

412   xiv La dinastia del Graal

II giudaismo e i Merovingi, 416 - II principato di Settimania, 419 - Il seme di Davide, 424 - Note, 428.

429    xv Conclusione e presagi per il futuro

Note, 445.

446          Appendice:

I presunti Gran maestri del Priorato di Sion. Note, 465.

467            Bibliografia

479           Ringraziamenti

 

 

Indice delle illustrazioni

entro testo

Carte

12      1 Le principali località dell'indagine in Francia.

23      2 Rennes-le-Chàteau e i suoi dintorni.

36     3 La Linguadoca dei Catari.

59     4 Castelli e città principali della Terrasanta intorno alla metà del

XII secolo. 79     5 Gerusalemme: il Tempio e l'area del Monte Sion alla metà del

XII secolo.

175      6 II ducato di Lorena alla metà del XVI secolo. 263      7 Iregni merovingi. 293      8 La Giudea mostra l'unica possibile via di fuga per la tribù di

Beniamino.

345      9 La Palestina al tempo di Gesù. 425    10 II principato ebraico.

Tavole genealogiche

111      1 I duchi di Guisa e Lorena.

265     2 La dinastia merovingia: i re.

279     3 La dinastia merovingia: i conti di Razès.

283     4 La dinastia merovingia: i« re perduti ».

447     5 Le famiglie di Gisors, Payen e Saint-Clair.

Figure

191      1 Lo stemma della famiglia Plantard.

241      2 La copertina del romanzo Circuit.

427     3 Lo stemma di Rennes-le-Chàteau.

427     4 L'emblema ufficiale del Priorato di Sion.

 

Sconcertante, misterioso, imprevedibile, II Santo Graal è soprattutto tvn vero e proprio giallo storico, che prende avvio da alcuni incredibili indizi ritrovati a Carcassonne, cenlro della Francia meridionale. Il quadro che ne emerge è quanto mai sconvolgente: Gesù non morì stilla croce, sposò Maria Maddalena da cui ebbe alcuni figli e, con la famiglia, si rifugiò in Francia presso una comunità ebrai­ca; i suoi discendenti regnarono con il nome di Merovin­gi, creando successivamente il Sacro Romano Impero, maestoso disegno di un'Europa riunita. Fallito sul piano politico, questo progetto si sarebbe invece alimentato gra­zie a sette religioso-esoteriche come i Templari, gli Albi-gesi, i Cavalieri Teutonici, e a società segrete facenti capo a un'organizzazione ancor più misteriosa, il «Priorato di Sion», di cui sono stati collegati, nel corso dei secoli, alcu­ni fra i nomi più prestigiosi dell'arte, della scienza e del cattolicesimo. Insolito reportage su duemila anni di sto­ria, II Santo Graal trascina il lettore in mi gioco affascinan­te di fatti, ipotesi, analisi, interpretazioni e strabilianti coincidenze, facendo rivivere il mistero della grande leg­genda del Graal.

In copertina:

elaborazione al computer di Amilcaie Martinazzi

Ari Diiector: Federico Luci Graphic Designer: Giacomo Callo

Lire 16.000

ISBN 88-04-38609-6

9   788804 386094